TUTTOSCIENZE 19 novembre 97


SCIENZE A SCUOLA. ADRIA In mostra messaggi dall'aldilà
Autore: AMBESI ALBERTO CESARE

ARGOMENTI: MOSTRE
ORGANIZZAZIONI: MUSEO ARCHEOLOGICO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, ADRIA (RO)

IL Museo Archeologico Nazionale di Adria (via Baldini 69) ha allestito al primo piano della propria sede una grande sala dedicata al tema, affascinante e solenne, del Banchet to nell'Aldilà. E' una mostra che si sofferma sui locali corredi funerari tra il VI e il IV secolo a.C., con lo scopo di dimostrare che Adria, città del Polesine orientale, conquistò più volte un rilievo di primaria importanza. Perciò non stupisce che la città abbia potuto dare il proprio nome a un mare - l'Adriatico - e che il suo territorio abbia offerto una serie di ritrovamenti che ampliano le nostre conoscenze intorno alla protostoria e alla storia delle genti venete ed etrusche che qui avevano vissuto dal VI al IV secolo a.C., sottoponendosi poi alla colonizzazione romana, iniziata nel II secolo a.C. e sfociata nella splendida fioritura culturale e commerciale di età augustea e dei secoli successivi. Questa la cornice storica, cui si può aggiungere che l'esposizione Il Banchetto nell'Aldilà indica, per prima cosa, che la multietnicità di Adria si concretizzò nell'ambito religioso e, almeno all'inizio, in una dissomiglianza di culti, come si può capire dalla varietà dei corredi funerari che si sono ritrovati nelle tombe coeve, a incinerazione o a inumazione. Queste ultime, di solito più numerose e caratterizzate da cassoni di legno, nel caso dovessero custodire collezioni di oggetti particolarmente ricche. All'esterno, comunque, questo tipo di sepolcro risulta sempre ricoperto da tumuli di terra, coronati da un cerchio di pietre o di pali. Le sepolture a incinerazione, invece, sono risultate tutte di fattura molto semplice, in quanto realizzate entro dogli (o "doli", recipienti di forma globulare o troncoconica) di terracotta, semplicemente seppelliti entro fosse di varia grandezza e profondità e contornati da minuscole anfore. Se è vero che, per gli antichi, ogni forma di cultura materiale si collegava alla sfera del sacro si potrà ipotizzare quanto segue: 1o) le tombe a inumazione sembrerebbero collegarsi a credenze che non escludevano la presenza di un'ombra o " doppio" entro il luogo di sepoltura, secondo quanto lasciano pensare i corredi, sempre tangibilmente legati alla vita quotidiana; 2o) le sepolture a incinerazione, per contro, potrebbero essere state espressione di una fede di popoli o strati sociali che riguardava la morte come il preludio a un "lungo viaggio", senza alcuna possibilità di ritorno o di residuo contatto con il mondo dei viventi. Ne sono prova indiretta le minuscole anfore di corredo, le cui dimensioni fanno per l'appunto pensare a simboliche libagioni di ultimo saluto al viaggiatore che era appena entrato nell'oltretomba. L'esposizione resterà aperta fino al 10 dicembre, orario continuato dalle 10 alle 19, tutti i giorni; ingresso L. 4000. Informazioni e visite guidate di studenti: tel./fax (0426) 21.612. Alberto C. Ambesi


ANTROPOLOGIA Si cammina per non cadere E l'Homo divenne "erectus". Ma che fatica]
Autore: SALZA ALBERTO

ARGOMENTI: ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA
NOMI: LEAKEY RICHARD
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. (Fase taligrada, fase plantigrada, fase digitigrada)

L'ENIGMA della Sfinge a Edipo: "Quale animale nell'infanzia si muove a quattro zampe, alla maturità su due e con tre nella vecchiaia?". Ormai conosciamo tutti la risposta: l'uomo. Sofocle non poteva avere alcuna conoscenza della teoria dell'evoluzione, ma l'indovinello pare una sorta di mitizzazione della sequenza evolutiva per la cui comprensione i paleoantropologi si aggirano oggi nelle forre desolate di mezza Africa. I fossili che ne derivano sembrano affermare che i nostri antenati ominidi derivarono i loro caratteri anatomici e comportamentali da primati che si muovevano su due zampe. Quindi, oltre 4 milioni di anni fa, svilupparono una perfetta andatura bipede con stazione eretta, per poi integrare il tutto con la tecnologia (evoluzione esosomatica, al di fuori del corpo): il bastone della nostra maturità, se non vecchiaia, evolutiva. Tassonomicamente, cioè dal punto di vista della classificazione biologica, l'uomo moderno è un ominide. Come mi diceva Richard Leakey, "Un ominide non è niente altro che una scimmia che cammina su due zampe. Quelle posteriori, ovviamente". Ah, lo humour britannico] A parte forse il canguro (che però non è propriamente un bipede), nessun altro mammifero utilizza questa forma di deambulazione per la quasi totalità del tempo. Molti altri animali, soprattutto i primati e i nostri diretti cugini, le scimmie antropomorfe (scimpanzè, bonobo, gorilla e orango), si possono spostare su due zampe, ma solo occasionalmente e per tratti molto brevi. La nostra andatura eretta è stata messa spesso in relazione evolutiva con l'espandersi della savana in Africa. Oggi, il ritrovamento di molte specie di australopiteci (nostri antenati bipedi di 4 milioni di anni fa) in ambiente forestale offre un quadro diverso. Tutti abbiamo l'impressione che le scimmie siano animali particolarmente adattati per la vita sugli alberi e che, a terra, si muovano con imbarazzo rispetto all'uomo. Se però osserviamo le specie di primati che oggi popolano la Terra, notiamo come la vita arboricola (e la conseguente anatomia di locomozione) sia ben lungi dall'essere adottata da tutti. Includendo anche gli uomini, su 101 specie di primati moderni, il 23,8 per cento (quasi un quarto) conduce vita a terra, pur mantenendo una notevole capacità di utilizzare gli alberi, sia come luogo di foraggiamento, sia come rifugio. Le specie terricole, però, non sono equamente distribuite attraverso i vari subordini e famiglie di primati. Solo due proscimmie e nessuna platirrina (scimmia del Nuovo Mondo) vivono a terra, mentre questo tipo di utilizzo dello spazio è proprio del 42,9 per cento delle catarrine (scimmie evolutesi in Europa, Asia e, soprattutto, Africa). Le catarrine sono un po' il punto di arrivo dell'evoluzione dei primati. In questo senso, la nostra unicità di bipedi terricoli perde un po' di immagine e appare semplicemente come un punto estremo di una tendenza evolutiva presente in metà dei Catarrhini. Camminando nelle savane africane ho notato come gli uomini tendano a percorrere distanze anche lunghe e non necessarie per fare il campo serale alla base di un albero. Non c'è bisogno di ombra, a quell'ora. Tra le radici e i cespugli (oltre che sui rami) si possono celare serpenti e insidie varie, ma non c'è niente da fare: nessuno ama mettere il giaciglio al centro di una piana desolata, il mio scenario favorito. Tutto ha a che fare con il nostro retaggio scimmiesco d'Africa: negli anni in cui si evolveva la nostra andatura bipede a terra (impossibile muoversi su due gambe sui rami, provare per credere: al massimo ci si può appendere per le braccia come fanno i brachiatori gibboni, dimostrando a Leakey che esiste una deambulazione bipede per mezzo degli arti superiori), la foresta cedeva il passo alla savana, con tutta la sua caratteristica pletora di predatori carnivori di ogni sorta. Risulta ragionevole che ci sia rimasto, nel comportamento se non nell'anatomia, un certo livello di affinità con gli alberi, a scopo di rifugio. La nostra insicurezza, in savana come altrove, trova le ragioni stesse nel semplice camminare su due zampe. A noi pare assolutamente normale, ma non ci rendiamo conto che, quando facciamo quattro passi, siamo sempre sull'orlo di una catastrofe, proprio come la foresta dei nostri antenati quadrumani sugli alberi, cinque o sei milioni di anni fa. In effetti, il nostro modo di muoverci è solo un goffo metodo per non cadere. Provate a stare ritti in piedi: basta una piccola spinta per mettervi in crisi, se tenete i piedi uniti. Per superare la crisi, mettete un piede avanti. Nel momento in cui questo tocca il suolo, l'inerzia ci porta a compensare la spinta con un movimento a pendolo dell'altra gamba, che si contrappone alla risultante della forza di gravità e delle componenti la quantità di moto. Per stare in piedi, lo slancio deve, come nel pendolo, raggiungere una situazione potenziale che sia analoga a quella di partenza. A quel punto ci troviamo daccapo con un piede sollevato in aria e, davanti, l'eventualità di una caduta. Di conseguenza dobbiamo iterare la sequenza, un passo dopo l'altro, giusto per rimanere diritti e non cascare a faccia in avanti. Per fermarci, dobbiamo fare un considerevole sforzo con i muscoli delle gambe, che si trovano a controbilanciare lo slancio dell'andatura (momento di inerzia) e l'equilibrio instabile dovuto al fatto che il nostro baricentro è posto al di sopra (e di molto) del poligono di appoggio costituito dai piedi, unico elemento stabile della nostra anatomia deambulatoria. Gli antropologi, con una battuta, amano dire che, se l'evoluzione fosse gradualisticamente progressiva da situazioni meno specializzate a strutture più specializzate, allora tra i quadrupedi e i bipedi occorrerebbe incontrare i tripedi. In effetti il nostro piede è un treppiede, con l'appoggio sul calcagno e sui punti di attacco di alluce e mignolo. Dato che tre punti individuano sempre un solo piano, la catastrofe deambulatoria, da fermi, sembrerebbe sventata, ma tutti sappiamo bene come ci si stanchi a stare immobili sull'attenti, una postura resa ancor più scomoda del cosiddetto "piano di Francoforte", un rapporto orecchi- occhi individuato in un convegno antropologico (uno dei primi) di fine Ottocento. Per evitare di cadere, non basta continuare a camminare, come potrebbe fare una trottola-giroscopio che si mantiene ritta grazie al momento di rotazione: il consumo energetico sarebbe eccessivo (anche se alcune analisi metaboliche affermano che si consumano meno calorie a camminare che a dormire). Nell'uomo, l'evoluzione ha dovuto pertanto mettere a punto sofisticati meccanismi di equilibrio, attraverso un monitoraggio costante dell'ambiente e della postura del nostro corpo (in particolare la posizione del baricentro) in rapporto a ciò che ci circonda e a quel che stiamo facendo (in movimento o fermi). Le cavità sinoidi del cranio e le strutture dell'orecchio interno sono alcuni tra i sensori dell'equilibrio. Essi sono indipendenti e autofunzionali, hanno cioè proprietà propriocettive. Molti credono che i denti e i piani di mascella e mandibola si siano evoluti al mero scopo di masticare, ma la sovrapposizione dei molari (più vicini al basicranio e, quindi, al punto di equilibrio della testa) ha analoghe funzioni propriocettive. La malformazione del retro della bocca, o la mancanza di alcuni molari, può alterare la percezione che si ha di sè nello spazio, con conseguenti difetti nella postura e forti mal di schiena per la tensione muscolare scorretta. Non a caso, in presenza di un compito difficile, si dice "stringere i denti": la pressione può essere variata a destra o a sinistra, a compensare oscillazioni del corpo anche di 20o. Ecco perché la nostra bocca può ruotare la mandibola nei confronti della mascella: per poter meglio comprendere la posizione del cranio nello spazio. Alberto Salza


SCIENZE A SCUOLA. MINICORSO DI INFORMATICA Un consiglio: non leggere i manuali] L'esperto suggerisce di farsi aiutare da un amico o fare da soli
Autore: MEO ANGELO RAFFAELE

ARGOMENTI: INFORMATICA
ORGANIZZAZIONI: MICROSOFT
LUOGHI: ITALIA

IL corpo di un calcolatore - lo hardware - è rivestito da una grande anima - il software di base o sistema operativo. A sua volta il sistema operativo è rivestito da tante animelle, che sono i vari programmi applicativi sviluppati per la soluzione dei singoli, specifici problemi dell'utente, dalla contabilità della sua azienda alla guida di un'astronave verso Marte. L'uomo alla tastiera può impartire comandi direttamente al sistema operativo, come l'ordine di trasferire un documento da una cartella a un'altra, oppure può dare comandi a un'animella, ossia a uno specifico programma applicativo, che a sua volta invierà ordini al sottostante sistema operativo. Abbiamo visto in una puntata precedente che un tempo i produttori di hardware sviluppavano ciascuno il proprio sistema operativo, ma che un certo giorno, inseguendo come Faust una felicità di breve periodo, affidarono la propria anima a pochissimi trafficanti di anime, rinunciando ai valori aggiunti relativi e alla propria indipendenza strategica. Pochi anni dopo, i trafficanti di anime, tutti americani, entravano con successo anche nel mercato delle animelle applicative. Prima di quel giorno, il software applicativo era prodotto direttamente dal padrone del calcolatore o da una piccola "software house" che aveva sede a lui vicina. Solo i grandi signori del software potevano disporre degli enormi investimenti finanziari e del prezioso capitale umano, presente solo negli U.S.A., necessari per attuare prodotti applicativi potenti ed eleganti come quelli che proponevano al mercato. Solo gli stessi signori potevano contare su un mercato così ampio da giustificare i loro investimenti con ampi margini di profitto. Così, mentre Bill diveniva l'uomo più ricco della Terra, migliaia di piccole " software house", in tutto il mondo e in particolare nel nostro Paese, chiudevano i battenti. Temo che i responsabili della politica economica comunitaria e gli stessi imprenditori industriali del settore non abbiano ancora compreso che le leggi del mercato delle anime sono molto diverse da quelle tradizionali del mercato dei corpi, con implicazioni importanti per la sopravvivenza di un'industria informatica europea. Apostoli delle altre fedi - buddisti del grosso e antico calcolatore Ibm, mormoni di Apple, protestanti di Unix e Linx - mi mandano lettere di fuoco, bollandomi come agente prezzolato di Bill. Oggi rafforzerò questa loro convinzione, perché farò riferimento alla linea di prodotti Microsoft per la videoscrittura: Works, Word Pad e Word, ma, come ho spiegato in un'altra circostanza, devo cercare di fare cosa utile ed evitare che la mia mamma sia l'unica lettrice di questi pezzi. Comunque, la logica di funzionamento di un programma di videoscrittura è sempre la stessa, indipendentemente dal produttore che lo ha realizzato. Vi sono tre momenti fondamentali nella produzione di un documento. Il primo è il momento dell'"apertura" del documento, intesa come l'analogo elettronico della predisposizione del foglio su cui lavorare. Si può aprire un documento "nuovo", l'analogo del foglio bianco. Ciò si ottiene cliccando su File, in alto a sinistra nella linea orizzontale dei comandi di base, e poi selezionando Nuo vo nel menù a tendina che si è aperto dopo aver selezionato File. In alternativa, si può aprire un documento già archiviato, per correggerlo, modificarlo, ampliarlo, consultarlo o stamparlo. In questo caso, si clicca su File e si seleziona nel menù a tendina la voce Apri. Il sistema apre una finestra, nella quale andare a ricercare, di cartella in cartella, il documento da aprire. Il secondo momento della preparazione del documento è quello della scrittura vera e propria. Poche cose debbono essere ricordate per iniziare a lavorare. In primo luogo, il sistema introduce i caratteri nel punto esatto in cui lampeggia il cosiddetto cursore, che ha l'aspetto di un trattino o rettangolino luminoso. Per spostare il cursore da un punto all'altro del foglio virtuale è sufficiente muovere il mouse nella posizione corretta e premere il pulsante sinistro. Il carattere introdotto da tastiera potrà spostare i caratteri a destra del punto di inserimento oppure cancellare il carattere allocato in quella posizione. Dallo stato di inserimento senza cancellazione del carattere preesistente a quello di inserimento con cancellazione si può passare semplicemente premendo il tasto In sert o Inserisci. In secondo luogo, il tipo di carattere introdotto può essere variato selezionando For mato sulla barra dei menù allocata in alto e poi Carattere sul menù a tendina che si apre a quel punto. La dimensione del carattere può essere variata invece lavorando sull'apposita finestrella allocata sotto la barra degli strumenti. In terzo luogo, il tipo di for mattazione del documento, e in particolare la centratura della riga o il suo allineamento a destra, possono essere ottenuti facilmente premendo gli opportuni pulsanti sulla barra dei comandi. Il terzo momento della produzione di un documento è quello dell'archiviazione o della stampa. Per l'archiviazione si selezioni File e poi Salva con nome, se al documento non è ancora stato attribuito un nome, oppure semplicemente Salva se quel documento ha già un nome. Per la stampa si selezioni ancora File e quindi Stampa. Si aprirà una finestra che ci guiderà nell'operazione. Un ultimo consiglio. Non leggete i manuali, perché sono generalmente troppo voluminosi e intrisi del misterioso gergo degli informatici per essere compresi in un tempo ragionevole. Cercate di comprendere da soli, giocando con la tastiera, o con l'aiuto di un amico un po' esperto, cosa può fare e come si comporta un programma. La complessità dei nuovi programmi applicativi e la poca attenzione che i mercanti di anime dedicano a quegli strumenti di crescita delle anime che sono i manuali hanno riportato l'umanità all'era di Omero, quando la conoscenza si trasmetteva solo oralmente. Angelo Raffaele Meo Politecnico di Torino


SCIENZE FISICHE. PREMIO GAMBRINUS Alla riscoperta di un esploratore
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, PREMIO, CULTURA, VINCITORE
PERSONE: TENDERINI MIRELLA, SHANDRICK MICHAEL, CARACCIOLO ALBERTO, MORELLI ROBERTA, MAESTRI CESARE, MARINI MARCO, POVOLO CLAUDIO, GASPARI PAOLO
NOMI: LUIGI AMEDEO DI SAVOIA DUCA DEGLI ABRUZZI, TENDERINI MIRELLA, SHANDRICK MICHAEL, CARACCIOLO ALBERTO, MORELLI ROBERTA, MAESTRI CESARE, MARINI MARCO, POVOLO CLAUDIO, GASPARI PAOLO
ORGANIZZAZIONI: PREMIO GAMBRINUS «GIUSEPPE MAZZOTTI»
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, SAN POLO DI PIAVE (TV)

CI voleva un libro che riscoprisse Luigi Amedeo di Savoia, più noto come il Duca degli Abruzzi, grande alpinista ed esploratore di terre estreme. E ci voleva, poi, un premio che scoprisse questo libro per suggerirlo ai lettori. Il libro, edito da De Agostini, lo hanno scritto Mirella Tenderini e Michael Shandrick. Il premio che lo propone a chi è interessato alle imprese epico-scientifiche è il Gambrinus "Giuseppe Mazzotti": la consegna è avvenuta sabato a San Polo di Piave (tra i giudici, Danilo Mainardi, Dino Coltro, Sandro Meccoli, Lionello Puppi, Paul Guichonnet, Paolo Schmidt e Italo Zandonella). Luigi Amedeo nasce a Madrid nel 1873, destinato a ereditare il trono di Spagna, essendo il primo figlio maschio del re Amedeo di Savoia-Aosta. Ma la Storia aveva disposto altrimenti. Suo padre abdica, lui ancora in fasce viene trasferito a Torino, a sei anni è arruolato in Marina come mozzo. Le vacanze, però le trascorreva in montagna, e l'incontro, a Moncalieri, con il padre barnabita Francesco Denza, alpinista, astronomo e fondatore della meteorologia italiana, lo porta ad appassionarsi alla scienza. Erano gli anni delle ultime grandi esplorazioni. Il Duca degli Abruzzi si dedicò a queste imprese romantico-scientifiche. Cominciò nel 1897 con la prima scalata del Sant'Elia, in Alaska, 5489 metri. Proseguì sfiorando la conquista del Polo Nord, nel 1901. Poi fu la volta del Ruwenzori in Africa, dell'attacco al K2 (ma i tempi non erano maturi) e di altre vette del Karakoram. Infine, dopo un amore contrastato e infelice e una parentesi militare (1909- 1917), l'ultima spedizione, che portò alla scoperta della sorgente dell'Uebi-Scebeli. Morirà nella "sua" Africa nel marzo 1933. Nessun Savoia, nessun rappresentante del governo italiano fu presente al funerale. Oltre a quella dei libri di esplorazione, il Premio Gambrinus "Mazzotti" ha altre sezioni. Per l'Ecologia il riconoscimento è andato a "La cattura dell'energia", di Alberto Caracciolo e Roberta Morelli (Nuova Italia Scientifica), testo che fornisce una nuova visione, globale, dei rapporti tra ambiente, uomo e risorse energetiche; per la sezione Montagna, a Cesare Maestri con "...e se la vita continua" (Baldini & Castoldi); per la sezione Artigianato, a Marco Marini con "Arte popolare in Italia" (ed. Punto di Fuga); ex aequo a Claudio Povolo e a Paolo Gaspari per la sezione Finestra sulle Venezie, rispettivamente con "L'intrigo dell'onore" e "Le lotte agrarie". Segnalato il volume "Insediamenti alpini", edito dalla Regione Veneto e dal Centro studi sulla montagna. La premiazione è stata preceduta da due convegni, uno sul tema "La politica delle aree protette in Italia: il parco del Sile e le acque di risorgiva", e uno su importanti interventi di recupero della foresta amazzonica: l'"Operazione Otonga", in Ecuador, e l'" Operazione Xavante", in Brasile, entrambe sponsorizzate (mezzo miliardo in 10 anni) da una azienda di Pordenone che produce cucine e sostenute da missionari. Sono regioni dove la biodiversità è ricchissima ma molto minacciata dalla deforestazione. A Otonga, per esempio, si conoscono più di 50 specie di mammiferi, 13 delle quali di pipistrelli, e si ritiene che possano esistere circa duemila piante legnose e un numero ben maggiore di piante potenzialmente medicinali e ornamentali. Il progetto pilota "Xavante" riguarda un'area del Mato Grosso desertificata dalla deforestazione selvaggia, dove non solo stanno scomparendo migliaia di specie animali e vegetali, ma anche le popolazioni locali di indios, decimate dalla fame e dalle malattie. Il recupero avviene tramite l'acquisto di aree da rimboschire. Si è incominciato con qualche centinaio di ettari. L'obiettivo è di allargare progressivamente la regione protetta, a vantaggio della natura e dei popoli autoctoni. Piero Bianucci


CLIMA Rio: il Nino ha divorato la spiaggia
Autore: TIBALDI ALESSANDRO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA, GEOGRAFIA E GEOFISICA
NOMI: ANGULO CARMELO
ORGANIZZAZIONI: ONU
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, BRASILE, RIO DE JANEIRO

NUMEROSE anomalie climatiche che hanno caratterizzato negli ultimi mesi l'Europa sono state collegate alla variazione di posizione di una corrente dell'oceano Pacifico meridionale chiamata "El Ni~no". Se questo fenomeno causa variazioni climatiche in Europa, è logico pensare che gli effetti lungo la costa pacifica del Sudamerica siano di maggiore intensità. Purtroppo, le previsioni più pessimistiche vengono superate in questi mesi da drammatiche notizie riguardanti tutta l'America Latina. Dal Centroamerica al Cile, profonde alterazioni climatiche stanno rovinando la vita di milioni di persone. La notizia sulla fioritura delle zone desertiche delle Ande cilene non può certo mitigare quanto sta accadendo per esempio in Nicaragua, dove quasi 300.000 persone sono state ridotte sul lastrico da un periodo di siccità che perdura da molti mesi. Secondo il rappresentante dell'Onu in Nicaragua, Carmelo Angulo, più di 10.000 famiglie (60.000 persone) delle zone rurali del Paese hanno perso ogni fonte di sostentamento e sono al limite della sopravvivenza, mentre altre 240.000 persone hanno perso il 50 per cento delle entrate economiche annuali. Inoltre, l'87% della produzione del grano è perduta, mentre il 24% della raccolta di caffè, principale voce di esportazione, è danneggiata. Nelle zone montuose del Venezuela e della Colombia, un periodo di siccità si è sostituito alla normale stagione autunnale delle piogge, arrecando danni gravissimi all'agricoltura. Avvicinandosi al Perù, lungo le cui coste emerge la corrente del Ni~no, i fenomeni diventano parossistici. In Ecuador, per esempio, la siccità nella regione andina è arrivata ad un punto tale da pregiudicare il livello di acqua nei bacini idrici utilizzati per la produzione di energia elettrica, obbligando a sospendere l'erogazione dell'elettricità per otto ore al giorno. In contrasto a questi fenomeni di siccità nelle Ande, accompagnati inoltre da alte temperature, le coste pacifiche del Sudamerica stanno vivendo una stagione di piogge tropicali estremamente intense. Fortissimi acquazzoni hanno sommerso decine di paesi con esondazioni dei fiumi e alluvioni che hanno distrutto case e vie di comunicazione. Queste alluvioni costiere hanno anche rovinato i raccolti ed inquinato le fonti di acqua potabile. Un effetto del Ni~no mai registrato con tale intensità ed imprevisto consiste nell'innalzamento del livello medio del mare e della frequenza e altezza delle onde lungo le coste dal Venezuela al Perù. Questo fenomeno ha prodotto la distruzione di interi paesi costieri e soprattutto dei villaggi costruiti sulle palafitte; migliaia di persone hanno perso tutte le povere cose che possedevano. Dove le case costiere sono state risparmiate, le alte onde comunque impediscono ai pescatori di uscire in mare, togliendo l'unica fonte di reddito a intere comunità. Questi fenomeni sono stati spiegati assumendo che la corrente oceanica del Ni~no, che si muove da Ovest verso Est, si sommi alla forza del vento sospingendo masse d'acqua particolarmente ingenti contro la costa pacifica del Sudamerica. Una stranezza di questo fenomeno, già di per sè anomalo, consiste però nel fatto che alte e frequenti onde stanno flagellando anche l'opposta costa atlantica. La famosa spiaggia di Capocabana a Rio de Janeiro, per esempio, è stata inghiottita dalle onde. Al posto della sabbia bianca si trovano grandi pietre: il mare è avanzato di 30-50 metri fino a lambire alcune costruzioni. In Perù i fenomeni climatici sono così gravi che il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, informando inoltre la popolazione attraverso spot televisivi sul comportamento da osservare. Molti Stati dell'America Latina hanno istituito apposite commissioni scientifiche per analizzare quanto sta accadendo e per cercare di definire gli scenari futuri di sviluppo dei fenomeni climatici connessi con El Ni~no. In ottobre è stata inoltre istituita una commissione intergovernativa per definire programmi comuni di intervento. L'Onu sta creando un fondo speciale di aiuto per l'assistenza umanitaria alle popolazioni colpite, gestito dall'organismo internazionale Pma (Programma mondiale per l'alimentazione). Alessandro Tibaldi Università di Milano


SCIENZE FISICHE. ASTRONAVI DEL FUTURO Star Trek? E' realtà I progetti di viaggi interstellari
Autore: BONANNI AMERICO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: MILLIS MARC
ORGANIZZAZIONI: NASA, LOCKHEED, IBM
LUOGHI: ITALIA

UN giorno qualcuno, guardando i pianeti del sistema solare allontanarsi a gran velocità dietro la sua astronave, potrebbe anche ricordarsi di un recente "Workshop sulle innovazioni nella fisica della propulsione": una ottantina di scienziati e di ingegneri appartenenti alla Nasa e a diverse università statunitensi, oltre a rappresentanti di grandi aziende attive nel campo aerospaziale e informatico, come la Lockheed e la Ibm, si sono riuniti a Cleveland, ospiti del Centro di ricerche Lewis della Nasa, per discutere la possibilità di volare verso le stelle, se necessario anche sfidando la teoria della relatività. Il titolo piuttosto asettico del convegno nasconde una svolta importante che la Nasa sta compiendo: i viaggi interstellari non sono più un tabù per l'ente spaziale americano. Di solito venivano liquidati come fantascienza, e anche di quella cattiva; invece adesso c'è un minuscolo programma di ricerca (finanziato con il contagocce) per le propulsioni spaziali avveniristiche. Guidato da Marc Millis, un ingegnere aerospaziale, è stato questo ufficio il promotore del convegno svoltosi al Centro Lewis. Naturalmente le ragioni per continuare ad essere scettici non mancano: il più veloce veicolo spaziale costruito dall'uomo, il Voyager, con i suoi sessantamila chilometri all'ora, impiegherebbe decine di migliaia di anni per raggiungere la stella più vicina al Sole. Se questo non bastasse a frenare gli entusiasmi, c'è sempre il limite imposto dalla relatività ristretta di Einstein. Anche sapendo come accelerare una astronave a velocità enormemente superiori a quelle attuali, cosa per niente facile (ad esempio usando la fusione nucleare, peraltro non ancora realizzata, il nostro razzo dovrebbe portare con sè un quantitativo di propellente pari a mille superpetroliere), alla fine ci si troverebbe comunque di fronte ad una barriera: nulla può raggiungere o superare la velocità della luce, poco meno di trecentomila chilometri al secondo. Magari si potrebbe arrivare sulla "porta di casa", la stella Proxima centauri o qualcun'altra molto vicina, ma il resto della galassia sarebbe fuori tiro perché i viaggi durerebbero comunque centinaia o migliaia di anni (l'equipaggio se la caverebbe con meno a causa della dilatazione del tempo prevista dallo stesso Einstein). E' chiaro che il salto verso le stelle, se pure si farà, avrà bisogno di sistemi completamente nuovi, basati su principi fisici inediti, come quelli discussi a Cleveland. Un problema fondamentale di qualsiasi viaggio spaziale è quello dell'energia. Assodato che un'astronave non può portare con sè il carburante necessario per un volo interstellare, una buona idea è di estrarre energia dallo spazio stesso. E' una possibilità ipotizzata dalla teoria quantistica, secondo la quale anche nel vuoto più totale (niente materia, niente radiazioni di alcun tipo) ci sono oscillazioni elettromagnetiche che nascono casualmente dal nulla e che rappresentano una forma di energia. Queste "fluttuazioni quantistiche", come vengono definite, non sono affatto piccole: si calcola che, sapendo come fare, uno spazio vuoto corrispondente a una tazzina di caffè potrebbe fornire abbastanza energia da far bollire tutti gli oceani della Terra. Ma i progetti più fantascientifici sono quelli che non prevedono un sistema di propulsione: semplicemente l'astronave si muove perché vengono alterate le caratteristiche dell'universo stesso. Una delle proposte più recenti in questo campo è quella della "Warp drive", avanzata da Miguel Alcubierre nel 1994. Il concetto su cui si basa è decisamente azzardato, oltre ad essere quasi lo stesso di Star Trek: poiché la teoria della relatività impedisce ad un oggetto di muoversi più veloce della luce rispetto allo spazio-tempo (composto dalle quattro dimensioni in cui è immerso l'universo secondo Einstein), perché non far muovere lo spazio-tempo stesso? L'astronave di Alcubierre avrebbe la capacità di contrarre lo spazio- tempo davanti ad essa e di espanderlo all'indietro: una fisarmonica cosmica. Trattando l'universo come se fosse di gomma, la velocità della luce sparirebbe come limite e l'intera galassia sarebbe a portata di mano. C'è da dire che naturalmente nessuno ancora sa come contrarre o "stirare" le dimensioni spazio-temporali. Sempre parlando di viaggi più veloci della luce, un'altra idea molto futuribile discussa dagli scienziati americani è quella dei " buchi" nello spazio-tempo. Se ne parla da molto: una matita può muoversi solo ad una certa velocità da un punto all'altro su un foglio di carta, ma si può sempre avvolgere la carta in modo da avvicinare i due punti. Facendo la stessa cosa con lo spazio- tempo le distanze finirebbero per annullarsi. Teoricamente l'idea è più vecchia e consolidata di quella di Alcubierre, ma tradurla in pratica è sicuramente un'impresa ancora più pazzesca: per "piegare" in questo modo l'universo ci vogliono energie e masse di dimensioni veramente cosmiche, probabilmente a livello dei buchi neri. Gli ottanta scienziati di Cleveland hanno navigato tra queste e molte altre ipotesi piuttosto improbabili, ad esempio la possibilità di annullare la forza gravitazionale. Ma non hanno avuto paura di essere bollati come sognatori. L'idea del volo interstellare, che sia più lento o più veloce della luce, sta contagiando molti scienziati. Un simposio sull'argomento si è tenuto anche nel Congresso astronautico internazionale che si svolto a Torino dal 6 al 10 ottobre: è un altro segno che la fantascienza potrebbe un giorno, ancora una volta, tradursi in realtà. Americo Bonanni


SCIENZE FISICHE. NUOVE TECNOLOGIE Nella chirurgia virtuale ora si simula anche il tatto
Autore: ACCORNERO PAOLO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA, INFORMATICA
LUOGHI: ITALIA

CONOSCETE la realtà virtuale? Ne avrete sicuramente sentito parlare, in televisione o sui quotidiani. E forse ne avete già sperimentato le potenzialità, in un videogioco o utilizzando un simulatore di volo. L'applicazione della realtà virtuale a usi professionali è invece ancora agli inizi ma sta aprendo sbocchi molto interessanti, in particolare nella progettazione, nella simulazione avanzata e in medicina. In quest'ultimo campo sono allo studio modelli umani virtuali che, sostituendo quelli reali, potrebbero servire alla formazione dei futuri chirurghi. Con i modelli virtuali gli studenti potrebbero eseguire di persona operazioni chirurgiche e imparare tecniche che, per gli alti costi e la carenza di materiale biologico, solo pochi possono avvicinare. Oggi i mondi rappresentati attraverso la realtà virtuale sono esplorabili soltanto con la vista e l'udito. La nostra percezione del mondo è invece molto più complessa e fa grande uso di interazioni tattili, olfattive e termiche. Senza contare che la rappresentazione su monitor dei mondi virtuali li rende piatti, bidimensionali, con conseguenti notevoli difficoltà di movimento al loro interno. Per agevolare l'interazione, alcuni centri di ricerca stanno sviluppando metodi di visualizzazio ne tridimensionale e di perce zione tattile dei mondi virtuali. Per capire il funzionamento dei primi dobbiamo pensare al modo in cui vediamo le cose intorno a noi. Quando osserviamo oggetti reali i nostri occhi, distanziati di circa sei centimetri l'uno dall'altro, forniscono al cervello due immagini diverse; è poi il cervello che pensa ad unirle creando il senso della profondità. Per simulare oggetti reali su uno schermo piatto bisogna quindi giocare d'astuzia e ingannare il cervello: il computer crea due immagini leggermente diverse dell'oggetto, come le vedrebbero l'occhio destro e quello sinistro, e le visualizza rapidamente sullo schermo una dopo l'altra. Contemporaneamente la vista dell'osservatore viene bloccata da occhiali speciali, in modo che l'occhio destro veda solo l'immagine "destra" e l'occhio sinistro solo la "sinistra". Se questo trucco viene ripetuto abbastanza rapidamente (almeno trenta volte al secondo) il cervello dell'osservatore fa il resto del lavoro, permettendo la percezione della profondità. Per interagire meglio coi mondi virtuali sarebbe anche fondamentale poterli toccare. Raccogliere un oggetto solo vedendolo può essere molto complicato se contemporaneamente non si riesce a toccarlo, a sentirne la forza, sotto forma di peso, che esercita sulle nostre dita. Per questo la Cybernet Systems e la Immer sion Corporation, due società all'avanguardia nella simulazione, hanno sviluppato interfacce, dette "a forza retroattiva", che simulano l'interazione tattile con gli oggetti visualizzati. In pratica sono joystick molto complessi capaci di analizzare mille volte al secondo la pressione esercitata dall'utilizzatore su un modello tridimensionale e di rispondere con una forza che assomiglia a quella che eserciterebbe il modello stesso se fosse un oggetto reale. Sfruttando queste due tecnologie la MusculoGraphics e Mis sion Research Corp, stanno costruendo un Simulatore di ferita da arma da fuoco mentre il Laboratorio Elettronico di Ri cerca della Mitsubishi sta lavorando ad una simulazione chirurgica del ginocchio con utilizzo di laparoscopi e artroscopi virtuali. Con i dati forniti dal Visible Human Project (la mappatura "digitale" compiuta su un cadavere) i gruppi citati stanno ricreando un corpo umano artificiale unendo alla dimensione visiva una dimensione "tattile" che permette di percepire in maniera diversa un muscolo oppure un polmone o un rene. Questo organismo virtuale potrebbe essere utilizzato per insegnare le tecniche di incisione dei tessuti. Gli studenti imparerebbero ad applicare la giusta pressione e ad evitare il danneggiamento degli organi circostanti sentendo la tensione e la risposta dei vari tessuti su cui stanno operando virtualmente. Le interfacce aptiche progettate dalla Boston Dinamics, per esempio, riescono a simulare ferite agli arti di cui il medico può valutare la gravità, controllando l'emorragia e il danno muscolare, e da cui può addirittura rimuovere brandelli di tessuto necrotizzato, medicando la ferita prima del trasporto del paziente. Queste simulazioni aprono grandi possibilità per il futuro: preparare un medico ad ogni eventuale emergenza chirurgica, riprodurre un caso clinico che non ha mai visto prima e portare a termine un intervento in tutta sicurezza, senza rischi per il paziente. Almeno per quello "reale". Paolo Accornero Università di Parma


SCIENZE FISICHE. INFORMATICA Eloquens legge il giornale ai ciechi Internet, software Cselt, computer e "La Stampa" in aiuto dei disabili
Autore: BONZO MARIALUISA

ARGOMENTI: INFORMATICA, TECNOLOGIA, EDITORIA, HANDICAP
ORGANIZZAZIONI: CSELT, CNR, STET, INTERNET, LA STAMPA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

SFOGLIARE un quotidiano, dare un'occhiata ai titoli e poi dedicarsi, con tutta tranquillità, a ciò che interessa, è un lusso che non tutti possono permettersi. Per chi non vede, leggere il giornale significa farselo leggere. Quindi cercare qualcuno disponibile, aspettare i suoi tempi, sottostare ai piccoli compromessi che la lettura associata implica. Lo Cselt (Centro studi e laboratori telecomunicazioni) di Torino, polo di ricerca del gruppo Stet, in collaborazione con il Cnr di Firenze lavora sul progetto di un giornale elettronico via Internet facilmente leggibile dai ciechi con un computer attrezzato. "La Stampa" ha messo a disposizione i testi integrali del giornale, inclusi i comandi grafici. Il Cnr si è occupato del programma automatico per costruire da questo materiale il quotidiano elettronico. Lo Cselt ha tradotto e adattato il programma americano di navigazione in Internet e ha predisposto la sintesi vocale (che permette ai ciechi di usare un normale computer mandando in voce ciò che è scritto sul video). Si tratta di Eloquens, il sintetizzatore usato in molti servizi Telecom di risposta automatica. Il poter lavorare direttamente sul materiale predisposto per l'impaginazione permette di fornire anche su La Stam pa elettronica tutte le informazioni non scritte che però si colgono all'impostazione grafica. E' interessante sapere se quello che si sta per leggere è l'articolo di spalla, o è posto in taglio basso. La posizione di un pezzo nel giornale, e in ogni pagina, è parte della notizia. La consultazione è semplice e rapida. Il cieco non è costretto ad arrancare nel dedalo grafico dei siti Internet comuni (per altro visitabili con il programma e la sintesi dello Cselt). In totale autonomia può scegliere per argomenti (prima pagina, interni, cronaca, esteri, sport), decidere da titolo, catenaccio, occhiello e firma dell'autore se il pezzo gli interessa. La lettura può essere interrotta in qualunque momento. Il quotidiano elettronico si inserisce in un più ampio programma del ministero della Ricerca per l'abbattimento delle barriere comunicative dei disabili. Domani nell'auditorium Telecom Italia a Roma verranno presentati i risultati dei primi due anni di lavoro. E' parte del programma anche una sperimentazione di videotelefonia a basso costo per sordo-muti. Oltre alla possibilità di comunicare via video questo speciale telefono dà tutti quei segnali normalmente sonori (squillo, tono di occupato o di libero...) con modalità visiva. Sempre per i minorati nell'udito verrà presentato un servizio di intermediazione di messaggi scritti in voce. I non udenti usano una particolare tastiera telefonica. Il problema sorge se il sordo vuole comunicare con chi non è attrezzato. Il disabile scrive ed Eloquens legge. Per la risposta si sta provando un servizio di riconoscimento vocale. Il sordo può così leggere a display ciò che la persona dall'altra parte del filo gli dice. Questo passaggio è per ora molto difficile e il riconoscimento si riduce a un vocabolario ancora limitato. Gli ultimi due prototipi sono per disabili motori gravi. Si tratta di un computer e di un telefono interamente comandabile con la voce. Lo Cselt è impegnato su tutti i progetti. I principali collaboratori sono il Cnr e la Telecom. Hanno supervisionato e sperimentato il lavoro l'Unione Italiana dei Ciechi, l'Ente Nazionale Sordo-Muti e l'Enea. Marialuisa Bonzo


Siamo bipedi imperfetti Equilibrio precario, occhi a terra
Autore: A_SAL

ARGOMENTI: ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA
NOMI: TOBIAS PHILLIP
LUOGHI: ITALIA

PER l'uomo (come per i primati), sono gli occhi, dotati di visione cromatica e binoculare, la più attiva interfaccia tra l'ambiente e chi cammina. Il rapporto tra posizione del cranio e piano di visione, nell'uomo, non è all'orizzonte e non è ortogonale alla verticale rispetto al suolo, come ci si attenderebbe da un perfetto bipede. E' questo il "piano di Francoforte", un orizzonte artificiale che allinea faccia, orecchi e occhi in una sensazione di buon equilibrio che tende verso il basso di quasi 20o (ancora). E' questo a darci la spiacevole sensazione di fatica e l'impressione di "guardare verso l'alto" che si prova stando sull'attenti. La cosa è fisicamente irragionevole: in tale postura il capo è allineato con la spina dorsale, proprio sul baricentro, e gli occhi sono dritti all'orizzonte. E' possibile che questa tendenza di sentirsi a proprio agio guardando verso il basso derivi dal nostro passato evolutivo di quadrupedi. Di certo è funzionale alla nostra imperfetta camminata catastrofica: dovendo necessariamente spostare il baricentro in avanti in caduta controllata per camminare, è bene tener d'occhio il terreno dove si potrebbe camminare. Il nostro precario equilibrio, inoltre, ci obbliga a non inciampare, per evitare i danni di una caduta dall'alto: provate a fare lo sgambetto a un cane, se ci riuscite, mentre basta un tocco lieve al piede d'appoggio per far franare un atleta allenato come un calciatore. Gli antropologi, tendenzialmente funzionalisti (ci si prova a spiegare tutto), indicano il piano di Francoforte come un meccanismo adattivo di sopravvivenza: l'angolazione dello sguardo verso il basso servirebbe a delineare al suolo un raggio di cinque metri, al cui interno individuare eventuali pericoli, come i serpenti (la stazione eretta, fino a prova contraria, si è evoluta in Africa), e non solo semplici ostacoli. L'andatura su due zampe coinvolge pertanto tutta l'anatomia dell'uomo e dei suoi antenati ominidi: la posizione di attacco del cranio, il rapporto di lunghezza e sezione tra gli arti superiori e inferiori, la forma del piede, le stesse pelvi (più arrotondate e ad arco rispetto alle scimmie antropomorfe). Per non parlare della spina dorsale, che ha dovuto farsi molto più robusta e, soprattutto, assumere una peculiare forma a S, ingrossata nella parte inferiore. Questa forma è quella di una sorta di molla, che consente di ammortizzare il peso del tronco e del grosso cranio (necessario a ospitare il cervello ipertrofico dell'uomo, scimmia "intelligente") durante la deambulazione. Anche il modo di mettere i piedi nella camminata, è fisicamente peculiare: si dovrebbe, per la massima efficienza, mettere i piedi uno avanti all'altro, come nel "passo da modella". In pratica, per l'uomo, meno ampio è il poligono d'appoggio dei piedi e maggiore è la capacità di spostarsi. La spina dorsale sinuosa consente di compensare le varie forze che agiscono sul corpo umano in movimento, senza troppo badare al semplice sostegno dello scheletro. Tutti questi caratteri sono indice di una specializzazione estrema. La stessa relativa rapidità con cui si sarebbe evoluta la bipedia degli ominidi (un paio di milioni di anni al più) implica che essi hanno subito pressioni selettive estreme. Abbiamo imparato a muoverci in modo catastrofico in mezzo a profonde catastrofi ambientali ed estinzioni. Tale velocità ha fatto sì che siamo imperfetti: il mal di schiena è diffusissimo e noi siamo l'unico primate che non sia in grado di sedersi comodamente. Provare per credere: se vi accucciate non riuscite ad appoggiarvi al suolo; se posate il sedere a terra dovete tenere le gambe distese in avanti in modo assai scomodo. Non a caso i pastori nomadi Samburu, in Kenya, hanno un proverbio: "Le chiappe son lontane dalla terra". D'altro canto, commentando la nostra anatomia deambulatoria da Homo sedens, il grande Phillip Tobias (che battezzò Homo habilis) ebbe a dire: "Non siamo altro che un povero bipede barcollante".(a. sal.)


SCIENZE A SCUOLA. FESTEGGIATO CHRISTIAN BARNARD Trent'anni di trapianti di cuore I progressi dal primo intervento a Città del Capo nel 1967
AUTORE: BODINI ERNESTO
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, STORIA DELLA SCIENZA
NOMI: BARNARD CHRISTIAN, WASHKANSKY LOUIS, DARVALL DENISE, CARREL ALEXIS, BARNARD MARIUS, YACOUB MAGDI
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Struttura del cuore; D. Circolazione del sangue

Quello del trapianto cardiaco è uno dei capitoli più affascinanti della chirurgia. Sono passati trent'anni da quando, il 3 dicembre 1967, al Groote Schuur Hospital di Città del Capo (Sud Africa), Christian N. Barnard, un cardiochirurgo di 43 anni di cui nessuno aveva mai sentito parlare, effettuò per la prima volta un intervento del genere, sostituendo il cuore di Louis Washkansky, un uomo di 52 anni affetto da una grave forma di cardiomiopatia, con quello di Denise Darvall, 24 anni, morta per emorragia cerebrale. Ma la grande battaglia del trapianto cardiaco non sarebbe consistita tanto nel mettere un cuore nuovo in un essere umano, quanto nel riuscire a mantenercelo. Prima di questo sensazionale evento, in realtà c'era stato molto lavoro sperimentale soprattutto per quanto riguarda gli aspetti immunologici e tecnici della procedura chirurgica ed è grazie all'acquisizione di questi risultati (come il trattamento dell'ipotermia e la circolazione extracorporea), che il giovane chirurgo sudafricano poté effettuare il suo primo trapianto in un essere umano. Il primo rapporto su questo tipo di interventi fu nel 1905 ad opera del francese Alexis Carrel (autore, tra l'altro, della tecnica operatoria delle anastomosi vascolari, e Nobel per la Medicina nel 1912) che, con Guthrye, eseguì il primo trapianto cardiaco su cani. Nel 1933, nel corso di esperimenti sempre su cani condotti alla Mayo Clinic (Usa), per la prima volta fu identificato il fenomeno del rigetto come causa di morte; e nel 1964, James Hardy, all'Università del Mississippi, trasferì il cuore di uno scimpanzè nel torace di un uomo in coma, che sopravvisse soltanto poche ore. A Città del Capo i fratelli Christian e Marius Barnard avviarono una serie di ricerche sul trapianto di cuore nei cani, partendo dalla tecnica ideata da Shumway e Lower, che prevedeva di lasciare in sito parti del vecchio cuore per facilitare poi la saldatura con il nuovo cuore trapiantato. "Negli esperimenti con i cani - ha spiegato Christian Barnard, recentemente ospite dell'Aido di Novara in occasione del 30o anniversario del suo primo trapianto - avevamo effettuato 48 trapianti cardiaci: in oltre il 90 per cento dei casi il cuore nuovo aveva preso a battere con regolarità. Unendo le loro scoperte con le nostre, non aveva più senso continuare su altri animali". Ormai, verso la fine del 1967, in diversi Paesi almeno una ventina di equipes erano all'erta, pronte a trapiantare il cuore di una persona all'altra. Fu così che, superati i problemi etici e valutati alcuni elementi fisiopatologici, alle 2,15 del 3 dicembre 1967 a Città del Capo, Barnard (coadiuvato dal fratello Marius e dai chirurghi O'Donovan e Hewitson) eseguì il suo primo trapianto con donatore umano, su un paziente affetto da una grave insufficienza cardiaca (dovuta a deterioramento del muscolo cardiaco), molto estesa e non più rispondente ad alcun trattamento medico: prelevò il cuore di Denise Darvall (era dicenuta la paziente n. 226.070) per trasferirlo nel petto di Louis Washkansky. "L'unico momento in cui mi sono reso conto di fare qualcosa di diverso - ricorda oggi Barnard - è quando tolsi il cuore del paziente. Il muscolo cardiaco non era più nella sua sede naturale, e questo mi pose di fronte a una situazione del tutto diversa, eccezionale, perché avevo tolto il cuore a una persona ancora viva..." Barnard non ha mai considerato questo evento un successo ma soltanto una nuova tecnica per trattare l'insufficienza cardiaca. L'esperienza fu per lui incoraggiante perché vide migliorare le condizioni cardiache e generali del paziente, tanto da convincersi che il trapianto sarebbe servito a migliorare la qualità della vita delle persone affette da gravi cardiopatie. Ma se la nuova tecnica del trapianto di cuore era stata superata, restava ancora insoluto il problema del possibile rigetto, complicanza che aveva sino ad allora frenato gli entusiasmi circa la realizzazione dei trapianti. Tre giorni dopo un chirurgo di Brooklyn trapiantò il cuore a una ragazzo di 17 anni, che però morì alcune ore dopo. Del resto anche lo stesso Washkansky morì diciotto giorni dopo il trapianto, seguito da Philip Baiberg, il secondo paziente operato sempre da Barnard il 2 gennaio, che sopravvisse solo otto giorni. Nei quindici mesi successivi furono eseguiti 118 trapianti in 18 Paesi, e la maggior parte dei pazienti morì nel giro di alcune settimane o di qualche mese. Nonostante questi episodi Barnard continuò a fare trapianti perché convinto che l'obiettivo della medicina non è prolungare la vita ma migliorarne la qualità. Dal 1968 al 1993, su nove pazienti (età media 50 anni) trapiantati, quattro sono sopravvissuti oltre un anno; due oltre 12 anni, un altro ben 23 anni dopo il trapianto è deceduto lo scorso anno per complicanze relative al diabete e non per il trapianto. Attualmente, al mondo, sono circa 20 mila le persone viventi che hanno subito un trapianto di cuore. Nel '95 in Italia sono stati eseguiti 402 trapianti, mentre la richiesta era dieci volte maggiore. In Usa, sempre nel '95, sono stati duemila, contro una domanda di 30 mila. A causa di queste fasi di rigetto acuto, e non sapendo come affrontarle, Barnard e la equipe decisero di effettuare il trapianto eterotopico, una tecnica che consiste nel lasciare in sito il cuore originale, la sua parete posteriore degli atrii viene anastomizzata (ricongiungimento bocca a bocca, in questo di vene e arterie), agli atrii del secondo cuore in modo da consentire una assistenza o una vera e propria sostituzione funzionale al cuore malato. Solo dopo gli Anni 80 vi fu un vero e proprio revival dei trapianti di cuore, con percentuali di successo intorno al 45-50 per cento, grazie anche all'avvento di farmaci anti rigetto, come l'azatioprina e, più recentemente la ciclosporina. Ma se Barnard è stato il primo ad avere l'audacia di eseguire quell'intervento capace letteralmente di "ridare" la vita a pazienti altrimenti destinati a una rapida fine, sir Magdi Yacoub (professore di chirurgia cardiotoracica al Royal Bromilton Hospital and Harefield Hospital di Londra) contribuì al perfezionamento della tecnica dei trapianti di cuore (soprattutto in pazienti pediatrici) con risultati strepitosi: ne ha esguiti oltre 2400. Ernesto Bodini




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