TUTTOSCIENZE 10 aprile 96


AL CERN INSEGUONO LA PARTICELLA DI DIO
AUTORE: VITE' DAVIDE
ARGOMENTI: FISICA, TECNOLOGIA, ENERGIA
ORGANIZZAZIONI: CERN
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, SVIZZERA, GINEVRA
NOTE: ACCELERATORE DI PARTICELLE NUCLEARI LHC «LARGE HADRON COLLIDER» TEMA: ACCELERATORE DI PARTICELLE NUCLEARI LHC «LARGE HADRON COLLIDER»

IL Cern, il laboratorio europeo di fisica delle particelle di Ginevra, sta pensando alla costruzione del suo prossimo gioiello, un nuovo acceleratore di particelle. Si chiama Large Hadron Collider (Lhc), un grande collisore di protoni ad altissima energia, il cui programma sperimentale, in cantiere dal 1985, è stato approvato nel dicembre 1994. Un collisore è un acceleratore, in genere circolare, in cui si scontrano le particelle di due fasci diversi, provenienti da direzioni opposte. Se i due fasci sono identici, come nel caso dell'Lhc, l'energia disponibile per creare nuove particelle sarà pari al doppio dell'energia del singolo fascio. Gli elementi dell'Lhc verranno collocati nello stesso tunnel del Lep, il collisore circolare sotterraneo di elettroni e positroni, lungo 27 chilometri e in funzione con i suoi quattro esperimenti dal 1989. I 5000 magneti del Lep, che fanno curvare le particelle mantenendole in un'orbita circolare e focalizzandole in pacchetti, e le 200 cavità acceleratrici che ne fanno aumentare l'energia, saranno smontati alla fine degli esperimenti, nel 1999, per lasciar posto ai 2700 magneti (contando solo quelli lunghi almeno un metro: ce ne saranno altri 5000 più piccoli) e alle cavità dell'Lhc. Il nuovo acceleratore fornirà due fasci di protoni dotati di un'energia mai raggiunta, pari a 14 TeV, cioè 14.000 miliardi di elettroni-volt (eV). L'eV è un'unità di misura usata in fisica delle particelle, ed è pari all'energia che una carica unitaria acquisisce quando viene accelerata dal potenziale elettrico di un volt. Due dei quattro esperimenti che utilizzeranno i protoni dell'Lhc sono di carattere generale, anche se progettati prima di tutto per lo studio del bosone di Higgs, una particella oggi non ancora scoperta che potrebbe spiegare l'origine della massa e dell'universo stesso. La caccia a particelle diverse da quelle viste fino ad oggi - chiamate supersimmetriche - riveste un ruolo fondamentale. La loro scoperta aprirebbe un nuovo importante capitolo di fisica. Atlas e Cms, questi i nomi dei due esperimenti, potranno anche svolgere una vasta indagine del comportamento delle particelle formate da quark pesanti, che verranno prodotte con l'Lhc in gran quantità. Già oggi l'attenzione di più di duemila scienziati di tutto il mondo, Stati Uniti e Giappone inclusi, è focalizzata su questi nuovi esperimenti, approvati lo scorso novembre. Llewellyn-Smith, successore di Carlo Rubbia alla carica di direttore generale del Cern dal 1994, ha dato il via libera finale. Ciascuno dei due esperimenti avrà un costo massimo attorno ai 650 miliardi di lire. Atlas sarà lungo più di 45 metri, con un diametro di 25, e un immenso magnete di 25 metri di lunghezza e 20 di diametro. Cms sarà più compatto e più pesante, lungo 20 metri con un diametro di 14, un peso di 12.000 tonnellate e un potente magnete solenoidale. Un terzo rivelatore, Alice, sarà invece dedicato allo studio delle interazioni fra ioni pesanti. Lungo 20 metri e con un diametro di 11. Preventivo: 150 miliardi di lire. All'Lhc saranno infatti accelerati anche fasci di nuclei di piombo per analizzare uno stato particolare della materia, il plasma di quark e gluoni. Infine, un quarto apparato sperimentale sarà Lhc-B, che si interesserà alla fisica del quark b e al problema della violazione della simmetria, un comportamento anomalo delle particelle osservato per la prima volta nel 1964. Lhc-B dovrebbe costare 110 miliardi di lire, e risultare lungo 18 metri ed alto 12. I quattro nuovi esperimenti saranno giganteschi e pesantissimi, alti come palazzi, ad una profondità di molte decine di metri sotto il livello del suolo. Sensori sofisticati - in silicio, gas, ferro e cristallo - riveleranno come macchine fotografiche il passaggio delle particelle, misurandone massa, carica, posizione, energia. Milioni di fili porteranno i segnali a potenti calcolatori, che ricostruiranno l'immagine dello scontro fra i protoni e della miriade di particelle create: una specie di schermo televisivo, ma con decine di milioni di punti, registrati su nastro magnetico, da associare alle particelle per capire cosa sia successo durante l'interazione, quali nuove particelle siano state prodotte, a quali leggi abbiano obbedito. Ma quanto costa tutto questo ad ognuno di noi? Il costo previsto per la costruzione dell'acceleratore, considerando che molte infrastrutture potranno essere riutilizzate, è di circa 3000 miliardi di lire. Ciascuna delle 19 nazioni che appartengono al Cern contribuisce al finanzianento del laboratorio in modo proporzionale al prodotto interno lordo. L'Italia è al quarto posto, con un contributo del 13 per cento: ciascuno di noi contribuisce per l'equivalente del costo di un caffè, al bar, due volte l'anno. Gli apparati sperimentali saranno invece finanziati principalmente dagli enti di ricerca di 40 nazioni, come l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare in Italia. Laboratori, scienziati e industrie di tutto il mondo collaborano e danno vita a questo progetto dalle molteplici implicazioni. Un grande sforzo viene richiesto alla tecnologia, poiché tutti i componenti devono essere costruiti ad hoc. I rapporti con le industrie sono stretti. La rete informatica Internet è stata sviluppata per permettere la diffusione di testi, disegni e fotografie. Lhc sarà l'acceleratore più lungo e potente del mondo, un'enorme lente di ingrandimento sul microcosmo che permetterà di rispondere a domande fondamentali. Costituirà l'inizio di un programma scientifico che durerà dieci anni e che aprirà nuove porte alla fisica delle particelle elementari e delle interazioni fondamentali. Ci farà capire un po' di più perché il mondo sia oggi come noi lo vediamo. Appuntamento per tutti al 2004. Davide Vité Cern, Ginevra


L'ultimo segreto della materia
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: FISICA, TECNOLOGIA, ENERGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: LADERMAN LEON, HIGGS PETER, RUBBIA CARLO
ORGANIZZAZIONI: CERN
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, SVIZZERA, GINEVRA
NOTE: ACCELERATORE DI PARTICELLE NUCLEARI LHC «LARGE HADRON COLLIDER» TEMA: ACCELERATORE DI PARTICELLE NUCLEARI LHC «LARGE HADRON COLLIDER»

LEON Lederman, premio Nobel per la fisica, l'ha definita «la particella di Dio» perché darebbe un senso a tutte le altre, spiegherebbe perché i mattoni fondamentali della materia hanno quella data massa e quel dato comportamento. Più tecnicamente, i fisici parlano del «campo di Higgs», dal nome del teorico inglese Peter Higgs che ne ha proposto l'idea. Connessa al campo di Higgs è una particella per ora latitante, indispensabile se si vuol dare coerenza al quadro oggi accettato delle particelle elementari e delle forze fondamentali della natura. Il quadro comprende 6 quark, particelle pesanti, e 6 leptoni, particelle leggere. E questi sono i mattoni della materia. Poi ci sono le forze, e le forze per trasmettersi hanno bisogno di messaggeri, chiamati bosoni: il fotone, per esempio, trasmette la forza elettromagnetica; il gluone la forza nucleare forte; W e Z sono i bosoni scoperti da Rubbia, portatori dell'interazione debole. Nel suo libro «La particella di Dio», appena pubblicato da Mondadori, Lederman scrive: «La nuova idea è che l'intero spazio contiene un campo, il campo di Higgs, che permea il vuoto ed è identico ovunque. Ciò significa che quando guardate le stelle in una notte chiara, voi state guardando il campo di Higgs. Le particelle, influenzate da questo campo, acquistano massa». Un po' come una pietra, se entra in un campo gravitazionale, acquista un peso. Bene: gli Usa per scoprire la «particella di Dio» stavano costruendo l'acceleratore Ssc, ma poi il governo ha tolto i fondi. L'Europa, invece, farà Lhc. Questa macchina, che costerà a tutti noi il prezzo di due caffè all'anno fino al 2004, ci darà forse l'ultima risposta su com'è fatto l'universo. Se sarà così, ne vale la spesa. Piero Bianucci


PAROLE-CHIAVE
AUTORE: P_BIA
ARGOMENTI: FISICA, TECNOLOGIA, ENERGIA, RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: CERN
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, SVIZZERA, GINEVRA
NOTE: ACCELERATORE DI PARTICELLE NUCLEARI LHC «LARGE HADRON COLLIDER» TEMA: ACCELERATORE DI PARTICELLE NUCLEARI LHC «LARGE HADRON COLLIDER»

Acceleratore. Da non confondere con il pedale della vostra auto. E' una macchina nella quale i fisici fanno scontrare particelle subatomiche. Nell'urto queste si spezzano in particelle ancora più elementari e dall'energia degli urti si formano nuove particelle. Gli acceleratori possono essere considerati microscopi per vedere la materia sulla scala dei milionesimi di miliardesimo di millimetro. Queste macchine sono le più grandi che mai l'uomo abbia costruito. Attualmente la più potente è al Fermilab, negli Stati Uniti, vicino a Chicago. All'inizio del Duemila il primato passerà all'Europa con Lhc, in progetto al Cern, vicino a Ginevra. In alcuni acceleratori, detti collisori, si scontrano particelle di materia e di antimateria: protoni e antiprotoni, elettroni e positroni. Atomo. Dal greco, letteralmente, significa indivisibile. In realtà oggi sappiamo che gli atomi non sono oggetti semplici ma sono fatti di vari ingredienti, e quindi risultano scomponibili in oggetti più piccoli. In particolare, un atomo è costituito da un nucleo e da elettroni che vi girano intorno. Il nucleo, a sua volta, è fatto di protoni (particelle con carica elettrica positiva) e neutroni (particelle prive di carica elettrica). Mentre l'elettrone è elementare, e quindi indivisibile, protoni e neutroni sono scomponibili in quark. Finora i quark, nonostante qualche falso allarme, appaiono elementari. Ma può darsi che un giorno la storia delle scatole cinesi si ripeta. Fotone. Come i gluoni, le particelle W e Z, il gravitone (ancora da scoprire), il fotone è una particella deputata alla trasmissione di forze, in questo caso la forza elettromagnetica. La luce è fatta di fotoni, e così pure le onde radio, il calore, i raggi ultravioletti, i raggi X e gamma. Queste radiazioni differiscono soltanto per l'energia di cui sono dotati i loro fotoni. I fotoni si comportano sia come particelle sia come onde. Più alta è la loro energia, più piccola è la loro lunghezza d'onda. Rivelatore. Insieme di strumenti in grado di mettere in evidenza le nuove particelle che si creano negli scontri prodotti con acceleratori. Elettrone. Scoperto nel 1898, è un leptone, cioè una particella leggera. Porta la carica elettrica unitaria di segno negativo. Quark. Particella elementare pesante. Se ne conoscono sei tipi. I due più comuni costituiscono la materia ordinaria, quella di cui siamo fatti noi e ciò che vediamo dell'universo: sono il quark «su» e il quark «giù». Il sesto quark, chiamato «Top», è stato scoperto poco più di un anno fa al Fermilab. (p. bia.)


COME UN VIDEOGIOCO Fisica virtuale aspettando il 2004 Una simulazione della macchina spacca-atomi
AUTORE: VALERIO GIOVANNI
ARGOMENTI: FISICA, TECNOLOGIA, ENERGIA, RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: CERN
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, SVIZZERA, GINEVRA
TABELLE: C.
NOTE: ACCELERATORE DI PARTICELLE NUCLEARI LHC «LARGE HADRON COLLIDER» TEMA: ACCELERATORE DI PARTICELLE NUCLEARI LHC «LARGE HADRON COLLIDER»

IL super acceleratore di particelle nucleari Lhc (Large Hadron Collider) è l'ultimo oggetto del desiderio per i fisici delle alte energie che lavorano al Cern di Ginevra: dovrebbe sciogliere molti enigmi della struttura della materia, ricreando le condizioni dell'universo a un millesimo di miliardesimo di secondo dal Big Bang. Se non ci saranno ostacoli finanziari, Lhc sarà pronto nel 2004. Ma già oggi il supercollider si può visitare. Il merito è di «Venus», un sistema di realtà virtuale che riproduce la struttura dell'acceleratore. Avviato un anno fa, il progetto Venus (Virtual Environment Navigation in the Underground Sites) permette di visualizzare e di interagire con i modelli tridimensionali di Lhc. Gli ingegneri possono esplorare l'intera struttura, muovendosi nel tunnel e nelle profondità dei pozzi dove saranno sistemati i rivelatori. Con gli occhi elettronici di Venus possono progettare e definire i minimi dettagli dell'acceleratore. Una sola differenza rispetto al solito: invece del casco da miniera, indossano l'head mounted display, il casco di realtà virtuale usato nelle sale giochi ipertecnologiche. Allo stesso modo, gli scienziati usano i data glove, i guanti con i sensori che permettono di manipolare i pezzi del prototipo virtuale. Lhc sarà il più potente acceleratore di particelle del mondo. Anche i numeri del progetto danno un'idea dell'impegno tecnologico: tremila tonnellate di magneti e fili superconduttori, da collocare a cento metri di profondità, nel tunnel oggi occupato da Lep, l'altro acceleratore del Cern. Realizzare Lhc è un po' come costruire vascelli in bottiglia: un hobby che farebbe impazzire anche un monaco tibetano. I diversi elementi, modelli quasi unici e comunque costosissimi, vanno infatti sistemati in enormi pozzi, larghi 30 metri e profondi 80, dove verranno eseguiti gli esperimenti. E non si può sbagliare. Ecco perché il modello al computer di Venus, navigabile con guanti e casco di realtà virtuale, è essenziale per i progettisti dell'acceleratore. Ma anche per architetti, urbanisti e geologi. L'anello di Lhc ha 27 chilometri di circonferenza e copre un'area tra la Svizzera e la Francia, popolata da villaggi e aree residenziali, intorno a Ginevra. La simulazione del territorio in realtà virtuale permette di pianificare le nuove costruzioni in modo da ridurre l'impatto sulla natura. Questo nella fase di progetto. Nei prossimi anni Venus potrà riprodurre anche i movimenti delle gru e dei carrelli elevatori, seguendo la fisica «reale». Così, un oggetto, pur virtuale, cadrà secondo la naturale legge di gravità. Per il montaggio dei rivelatori, il computer determinerà, per ogni componente, le traiettorie di discesa nei pozzi. Gli spostamenti calcolati sul modello virtuale saranno memorizzati e utilizzati per controllare i ponti gru al momento dell'assemblaggio reale. Nell'attesa del vero Lhc, gli addetti alla sicurezza potranno simulare gli incidenti e allenarsi a intervenire nella stanzetta che ospita il computer (una work- station Silicon Graphics Onyx Reality Engine 2) di Venus. Quando l'acceleratore sarà in funzione, i prototipi virtuali serviranno per la manutenzione in telepresenza, come già accade nelle industrie o negli ospedali: un solo tecnico in casco e guanti può agire sul modello al computer, mentre un robot (vero) replica i suoi movimenti nell'ambiente reale. Senza rischi e magari «lavorando» a centinaia di chilometri di distanza. Grazie al software «i3D» (sviluppato al CRS4, Centro di Ricerca, Sviluppo e Studi Superiori in Sardegna), già ora il progetto Venus può essere «navigato» tridimensionalmente in rete. Una funzione davvero essenziale. I futuri rivelatori di Lhc sono infatti progettati e realizzati da centinaia di istituti di ricerca di tutto il mondo. «i3D» permette agli scienziati di condividere le ultime versioni dei progetti dei singoli elementi, caricate via rete dai laboratori dell'intero pianeta. Del resto, proprio al Cern è nato il World Wide Web, il sistema per la gestione delle informazioni che ha reso la navigazione nel mare dei bit di Internet semplice come usare il telecomando. E ora, con Venus e «i3D», sempre nei laboratori del laboratorio di Ginevra, la realtà virtuale incontra la rete. Sarà questa la grande convergenza delle tecnologie della comunicazione di fine millennio. Giovanni Valerio


SE NE PARLA OGGI A NIZZA L'Alzheimer in fumo La nicotina avrebbe effetti protettivi
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, CONFERENZA
ORGANIZZAZIONI: NATIONAL CANCER INSTITUTE, NATURE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. TAB. IDENTIKIT DI UNA MALATTIA ================================================================= MALATTIA DI ALZHEIMER: forma di demenza precoce descritta per la prima volta da una donna tedesca di 51 anni, Aloi Alzheimer, nel 1907. ------------ Colpisce gravemente il 5 per cento delle persone oltre i 65 anni ------------ Il 10 per cento della popolazione oltre i 65 anni soffre di una forma lieve ------------ Degli anziani che hanno bisogno di assistenza a domicilio uno su due è colpito da Alzheimer ------------ 4 milioni gli ammalati negli Stati Uniti ------------ 500 mila in Italia ------------ 30 mila in Piemonte ------------ Nel 2000 ci saranno 30 milioni di casi di Alzheimer nel mondo ------------ Vittime illustri: Rita Hayworth e Ronald Reagan =================================================================

FURONO le statistiche del Dipartimento della Salute pubblica e del National Cancer Institute degli Stati Uniti a dimostrare per la prima volta negli Anni 50-60 un minor numero di casi di morbo di Parkinson tra i fumatori. Le stesse statistiche dimostrarono anche l'inequivocabile legame tra fumo, danni polmonari e malattie cardiovascolari. Di fronte ai dati sui più rari casi di Parkinson tra i fumatori vi fu dapprima una reazione di scetticismo. Dagli Anni 70 ad oggi ben 46 studi epidemiologici svoltisi in tutto il mondo indicano un 50 per cento in meno di Parkinson tra i fumatori di sigarette. Una rassegna di questi lavori pubblicata nella rivista Neurology da Morens (1995) ipotizza che si tratti di un effetto di protezione sul sistema nervoso esercitato forse dalla nicotina. Altri lavori, tra i quali i più recenti studi epidemiologici europei sulla malattia d'Alzhei mer, la forma più comune della demenza senile che affligge circa quattro milioni di americani e altrettanti europei, indicano un simile effetto di tipo «protettivo» da parte del fumo anche su questa malattia. La differenza principale sarebbe non solo la minore frequenza tra i fumatori ma anche un ritardo di alcuni nella comparsa della malattia. Se questi dati sono reali e non il frutto di errori epidemiologici o di statistica, come spiegare un effetto benefico del fumo e della nicotina? Cominciamo dal Parkinson: sappiamo da anni che uno dei danni maggiori presenti nel cervello di questi pazienti è il numero ridotto delle cellule nervose specializzate nella produzione di un neurotrasmettitore cerebrale chiamato dopamina. La moria avviene subdolamente nel corso di molti anni fino ad arrivare al punto in cui il numero di queste cellule è così basso da non poter più adempiere ai compiti funzionali. Da questo momento in poi i sintomi (tremore, rigidità e lentezza dei movimenti principalmente) si fanno palesi e occorre intervenire con farmaci. La spiegazione di un possibile effetto benefico della nicotina può venire dalla farmacologia. Sappiamo infatti che la nicotina esercita almeno tre azioni importanti sul cervello: 1) può stimolare la liberazione (non la produzione) di dopamina dalle cellule nervose che la contengono e che sono decimate dal Parkinson; 2) può stimolare un tipo di ricettori detto appunto nicotinico, importanti per il mantenimento dell'attenzione, della velocità di reazione e per il funzionamento della memoria; 3) può rapidamente aumentare il numero di tali ricettori nicotinici. Quest'ultimo effetto è verificabile direttamente nel fumatore sveglio usando una tecnica di radioimmagine chiamata tomografia da emissione di positroni (Pet). Basta una sola sigaretta per notare come il cervello del fumatore si «accenda» improvvisamente sullo schermo Pet: i punti luminosi sono proprio i recettori nicotinici. La stimolazione di questi meccanismi da parte della nicotina potrebbe avere l'effetto di mascherare la malattia parkinsoniana sopprimendone apparentemente e temporaneamente i sintomi. Non sappiamo per quanto tempo possano durare gli effetti del fumo ma sarebbe difficile giustificare un'azione prolungata della nicotina senza invocare questi meccanismi. Se si trattasse di un vero e proprio effetto preventivo da parte della nicotina, come indicherebbero le statistiche sulla frequenza del Parkinson e dell'Alzheimer, allora è necessario cercare altrove la causa di un rallentato deterioramento delle condizioni del paziente. Un lavoro da poco pubblicato su Nature da un gruppo di ricercatori americani (Fowler, 1996) ci viene in aiuto nel proporre una spiegazione verificabile clinicamente. Gli autori riportano che nel cervello dei fumatori si nota una diminuzione del 40 per cento dell'attività di un enzima chiamato monoamunossidasi B (Mao-B) che è preposto appunto alla inattivazione della dopamina nel cervello. La diminuita funzione di questo enzima porterebbe come conseguenza a un aumento dell'attività della dopamina (diminuendone la normale distruzione chimica) e anche alla riduzione di prodotti secondari derivati da questo processo (tra gli altri il perossido di idrogeno) e che sono sospetti di essere particolarmente tossici per le cellule che contengono la dopamina. E' noto che la Mao-B è ridotta nelle piastrine del sangue dei fumatori e che torna ai valori iniziali appena si smette di fumare. L'enzima Mao esiste sotto due forme (A e B) ed è parte del processo di degradazione chimica di altri neurotrasmettitori cerebrali come la noradrenalina e la serotonina oltre la dopamina rappresentando così una funzione chiave di regolazione. Un inibitore della Mao-B chiamato 1-deprenyl (selegilina) viene usato da anni nella terapia del Parkinson. Un suo possibile effetto protettivo è attualmente oggetto di studi clinici in Europa e Usa. La dimostrazione dei ricercatori americani di un effetto specifico su un enzima cerebrale come la Mao-B è particolarmente elegante in quanto si basa su una nuova applicazione della tecnica Pet utilizzante un composto radioattivo del 1-deprenyl con un atomo di carbonio (C11) e uno di deuterio (D2) in modo da rendere non solo visibile ma anche misurabile questo enzima direttamente nel cervello di persone sveglie e perfettamente coscienti. Basandosi su questi nuovi dati, gli autori propongono che sia proprio la riduzione della Mao-B a rafforzare l'effetto della nicotina nel cervello dei fumatori contribuendo a produrre sia effetti protettivi a lunga scadenza che a mantenere la farmacodipendenza a breve scadenza. Sul versante preventivo c'è un grande interesse dell'industria farmaceutica mondiale nello sviluppare un farmaco che possegga gli stessi effetti neuroprotettivi della nicotina sul Parkinson e sull'Alzheimer ma che non ne mantenga gli effetti tossici sul sistema cardiovascolare. Al tempo stesso il nuovo farmaco non dovrebbe ovviamente produrre assuefazione e dipendenza. Al Congresso internazionale sulla terapia della malattia d'Alzheimer che si apre oggi a Nizza, sulla Costa Azzurra, si parlerà per la prima volta di un nuovo farmaco di tipo nicotinico già sperimentato su pazienti Alzheimer negli Stati Uniti, pare con un certo successo. Non sarebbe la prima volta che un agente tossico di origine naturale come la nicotina si trasforma in un fattore terapeutico. Ezio Giacobini


INTERNET Un suicidio sulla Grande Rete
Autore: MERCAI SILVIO

ARGOMENTI: ELETTRONICA, COMUNICAZIONI, INFORMATICA
ORGANIZZAZIONI: INTERNET
LUOGHI: ITALIA

LA rubrica di oggi è diversa dal solito. E' la cronaca fedele di un fatto vero: in cui virtuale e reale si intrecciano e diventano tragedia. Il luogo dell'azione è una lista postale, Netdynamics, creata allo scopo di discutere e studiare le relazioni interpersonali sulla rete. Il moderatore della lista è un giovane psichiatra americano (del Kansas), Matt M., che si presenta dicendo di sè solo che lavora da tre anni su Internet e che è molto interessato alle possibilità che la rete offre nel campo dello scambio interpersonale. Come «proprietario» della lista, interviene ripetutamente - con calma, precisione, affabilità e un buon senso dell'ironia - a moderarla nei momenti difficili. Quando intervengo per la prima volta (il 26 marzo), mi accoglie con un simpatico messaggio di benvenuto: al mio «ciao» (in italiano) risponde «Mi auguro voglia dire "Arrivederci a presto"». Il fatto avviene il 31 marzo, l'ora è quella italiana. Lascio la parola ai protagonisti. 1, 10. Arriva il messaggio di Bunny C. (una collega che lavora nel suo stesso grande ospedale): «Cara gente, mi dispiace dovervi informare che Matt M. si è suicidato: l'altra notte o questa mattina presto. Lo hanno trovato a casa sua... (No, non è uno scherzo o un esperimento per la nostra lista). Mi sento triste, arrabbiata... Mi sento triste al pensiero che lui doveva essere così triste e arrabbiato da mettersi in rapporto con la gente solo con il computer. Non ha permesso mai a nessuno di essergli vicino personalmente]». 1, 40. La prima reazione è di Dorothy: «Non ho parole per dire come mi sento ora. Sento solo un gran senso di tristezza. E un grosso senso di perdita personale. Piuttosto che restare a guardare nel monitor per cercare di esprimere quello che sento, è meglio chiudere tutto». 3,40. Interviene Harriet, una delle anziane della lista. «Cari iscritti alla Netdynamics, ho trovato poco fa il messaggio di Bunny sulla morte di Matt. Faccio fatica a trovare le parole. Sono triste e piena di domande. Più piena di domande e triste che arrabbiata... Mi aspetto che potremo mettere in comune i nostri sentimenti, qui, nei prossimi giorni. Per quanto mi riguarda, vorrei saperne di più, se Bunny sente sia il caso di raccontarci altre cose. Ma anche voi la pensate così? E sento il bisogno di essere in contatto con voi». 3,56. Shannah, una collega olandese: «Sono così triste. Sentirò la mancanza di Matt. Avrei voluto sapere della sua disperazione... e della sua rabbia. E' stato qui con noi a sentire molta rabbia e disperazione negli ultimi giorni. C'eravamo in mezzo. Perché non è riuscito a farcela? Oh, Matt. Riposa in pace». In meno di tre giorni sono arrivate sulla lista oltre 100 lettere: un coro di emozioni violente e dolorose fatto da molte voci individuali. Molti iscritti si sono messi in contatto telefonico fra di loro. Non lo avevano mai fatto prima, non ne avevano sentito il bisogno. Si è saputo che Matt era una persona isolatissima, senza amici; diceva che la lista era la sua vera unica famiglia. Alcuni membri della lista si sono occupati di rintracciare il padre e sono venuti a sapere che la madre di Matt si era suicidata quando lui era bambino. Hanno predisposto il funerale. Hanno regalato un alberello al padre, perché lo piantasse nel suo giardino. Si sono letti i documenti che Matt aveva scritto sulla sua pagina WWW: una triste storia di solitudine e rifiuti, in forma di favole. Le sue lettere sono state raccolte in volume (elettronico) e distribuite ai membri della lista. La lista ha osservato un giorno di silenzio. Io, dal mio canto, ti dedico questa colonna. Addio, Matt, sfortunato amico e triste eroe di una vicenda virtuale terribilmente reale... Silvio A. Merciai


IPOTESI DI ASTRONOMI USA Venere vestita in lamè Il pianeta ha una buccia metallica
Autore: DI MARTINO MARIO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D.

TRA i nove pianeti del sistema solare, Venere è quello che per dimensioni e geologia assomiglia di più alla Terra. Il suo diametro è di soli 650 chilometri inferiore a quello terrestre e la sua superficie è caratterizzata da estese regioni di altezza superiore a quella media, assimilabili ai continenti terrestri. Rispetto alla Terra c'è però una grossa differenza: Venere, che dopo il Sole e la Luna è l'oggetto celeste più luminoso, è avvolto da un'atmosfera molto densa (alla sua superficie la pressione è pari a quella che c'è in mare a mille metri di profondità) e del tutto opaca a causa di una perenne coltre di nubi composte da microscopiche goccioline di acido solforico. Nonostante questo ostacolo, grazie a quattro anni di osservazioni con la sonda americana «Magellano», Venere è l'unico pianeta di cui si abbia una mappa ad alta risoluzione, quasi paragonabile alle carte terrestri. Le immagini sono state ottenute con il radar. Questa tecnica, sviluppata dai militari per fotografare dall'aereo il territorio nemico di notte o in presenza di nubi, consiste nell'inviare un fascio continuo di onde radio (centimetriche) verso la regione di interesse e nel misurare il tempo impiegato dal segnale riflesso nel suo percorso di andata e ritorno. L'analisi della sequenza dei segnali riflessi e dei rispettivi tempi di percorso, fatta con potenti computer, permette di ricostruire l'immagine tridimensionale della zona osservata. Fin dai primi Anni 70, quando iniziarono le osservazioni di Venere mediante radar a terra, gli scienziati rimasero colpiti dalle strane e per allora inesplicabili caratteristiche dei segnali riflessi dalle montagne e dagli altipiani del pianeta. Oltre i 3500 metri di altezza sul «livello medio» la superficie di Venere riflette i segnali radar in maniera molto più intensa delle normali rocce, come se queste fossero ricoperte di ghiaccio. Ma il ghiaccio non può esistere sulla superficie di Venere, dove le temperature, a causa del fortissimo effetto serra provocato dall'anidride carbonica presente nell'atmosfera del pianeta, raggiungono valori prossimi ai 500 oC. Per spiegare questo strano comportamento delle alte terre venusiane nel riflettere i segnali radar, un gruppo di astronomi dell'Università di Washington ha suggerito l'ipotesi che queste regioni siano ricoperte da uno strato di composti ad alto contenuto metallico, come il solfuro di piombo, il cloruro di rame o composti di zinco, stagno, arsenico e antimonio. I vulcani terrestri rilasciano vapori in cui queste sostanze sono abbastanza comuni e anche su Venere sono stati osservati, proprio dalla sonda «Magellano» , numerosi vulcani che potrebbero emettere le stesse sostanze. I composti suggeriti dai ricercatori americani in un primo momento si depositerebbero nelle regioni prossime ai vulcani venusiani dai quali sono fuoriusciti. La temperatura media superficiale del pianeta è di circa 470 oC e decresce dell'8,5 per cento ogni 1000 metri, per cui essendo molti di questi composti abbastanza volatili, essi hanno la possibilità di evaporare lentamente e con il tempo migrare a quote più elevate dove, a temperature relativamente più basse, potrebbero ricondensarsi e depositarsi permanentemente sulla superficie. I composti più volatili avrebbero quindi la possibilità di risalire per diversi chilometri in poche centinaia di anni e in un periodo di tempo di alcuni milioni di anni formare sulle montagne e sugli altopiani più elevati degli strati metallici dello spessore di molti millimetri. Il modello proposto sembra dare una soluzione ragionevole alle anomale riflessioni radar delle alte terre venusiane, ma per avere una conferma definitiva di questa teoria sarebbe necessario far posare una sonda, in grado di effettuare l'analisi chimica del suolo, in una regione del pianeta di altezza superiore ai 6000 metri. Le possibilità tecnologiche esistono e sono già state sperimentate con successo negli Anni 70 dalle missioni Viking su Marte. Si tratta di trovare i fondi necessari, e con i tempi che corrono non è facile. Mario Di Martino Ossevatorio Astronomico di Torino


MECCANISMI RIPRODUTTIVI Cellule predestinate al suicidio Nell'apoptosi una nuova via per combattere il cancro
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, GENETICA
NOMI: MANCUSO SALVATORE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Una cellula con i suoi vari costituendi

SULLE prospettive cliniche e scientifiche dell'apoptosi, o morte cellulare programmata, si è svolto a Roma di recente un convegno presieduto da Salvatore Mancuso, dell'Università Cattolica. La conclusione è stata che le attuali conoscenze dimostrano connessioni sempre più strette fra la biologia molecolare e cellulare dell'apoptosi e la cancerologia. Come accade agli esseri viventi, le cellule possono morire in seguito a due eventualità. La prima, la morte conseguente a cause nocive esterne di vario genere, è la necrosi; la seconda, la morte quando scocca l'ora fatale naturale, è appunto l'apoptosi. L'apoptosi rappresenta il principale meccanismo di eliminazione naturale delle cellule nel corso di processi fisiologici quali lo sviluppo embrionale e il turn-over dei tessuti adulti: le cellule, si sa, muoiono e si rinnovano di continuo. In altri termini, l'apoptosi è una autodistruzione delle cellule che svolge una funzione omeostatica, ossia di autoregolazione, di mantenimento d'un equilibrio interno stabile nonostante il variare delle condizioni esterne. E' essenziale in numerosi processi fisiologici quali, per fare un esempio, lo sviluppo ed il funzionamento del sistema immunitario. La regolazione dell'apoptosi dipende dalla partecipazione di molti geni già identificati, corrispondenti a due classi opposte: i geni pro-apoptosici, che agiscono favorendo l'apoptosi, ed i geni anti-apoptosici o di sopravvivenza, che si oppongono. L'apoptosi è dunque un intreccio di vie antagoniste interagenti, alcune pro- e altre anti- apoptosiche. Ricordiamo ancora una volta che la trasformazione maligna d'una cellula e il conseguente sviluppo d'un tumore risultano da una successione di mutazioni di geni disregolanti il programma delle funzioni cellulari essenziali. Questi geni, capaci di generare tumori quando mutano, sono normalmente presenti in tutte le cellule. Orbene, il fatto importante è che taluni di essi sono stati identificati come geni pro-apoptosici (c-myc, p 53) o anti-apoptosici (bcl 2), e si è visto che sono presenti nella maggior parte dei tumori. Che significa ciò? Possono aversi situazioni per cui cellule sopravvivono anziché morire per apoptosi. Mentre l'apoptosi può costituire una difesa cellulare contro il tumore, la resistenza all'apoptosi può portare ad una popolazione cellulare con un potenziale di sopravvivenza anormalmente elevato, e tale sopravvivenza aberrante può contribuire allo sviluppo d'un tumore. La regolazione dell'apoptosi è dunque un aspetto importante della cancerogenesi. La massa d'un tumore può essere dovuta non soltanto alla moltiplicazione sfrenata delle cellule ma anche al fatto che le cellule non scompaiono quando dovrebbero. Insomma, l'apoptosi è un meccanismo fisiologico di protezione dell'organismo in quanto elimina cellule indesiderabili, specialmente quelle contenenti mutazioni genetiche dannose, e una sua alterazione può avere un ruolo fondamentale nello sviluppo dei tumori. E' quanto è stato detto al Convegno di Roma. Si è insistito soprattutto sull'interesse verso farmaci studiati specificamente perché attivi sull'apoptosi. Molti dei chemioterapici attualmente utilizzati in cancerologia agiscono inducendo apoptosi nelle cellule tumorali. Le ricerche sulle basi molecolari dell'apoptosi dovrebbero aiutare a meglio comprendere il meccanismo della formazione dei tumori e ad elaborare nuove strategie terapeutiche, attualmente già in fase sperimentale, con farmaci in grado di modulare l'apoptosi in senso positivo o negativo. Ulrico di Aichelburg


IN PIEMONTE IL MAGGIOR NUMERO DI AREE PROTETTE IN ITALIA I Parchi, aule senza muri Stanno ritornando molte specie già quasi estinte
AUTORE: ROSSI LUCA
ARGOMENTI: ECOLOGIA, ANIMALI, BOTANICA, PARCHI NATURALI, REGIONE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, PIEMONTE
TABELLE: T. TAB. C. LE AREE PROTETTE IN PIEMONTE ============================================================ PARCHI NATURALI --------------- Alpe Devero Alpe Veglia Alta Valsesia e Val Mastellone Lagoni di Mercurago Monte Fenera Valle del Ticino Lame di Sesia e Isolone di Oldenico Bosco delle Sorti della Partcipanza di Trino La Mandria Fascia fluviale del Po Sacro Monte di Crea Gran Bosco di Salbertrand Orsiera Rocciavrè Laghi di Avigliana Collina di Superga Stupinigi Val Troncea Rocchetta Tanaro Rocca di Cavour Capanne di Mercarolo Agrentera Alta Valle Pesio e Tanaro ------------------------------------------------------------ AREE ATTREZZATE --------------- Ponte del Diavolo Stura di Lanzo Collina di Rivoli Le Vallere ------------------------------------------------------------ PARCHI PROVINCIALI ------------------ Lago di Candia ------------------------------------------------------------ PARCHI NAZIONALI ---------------- Val Grande Gran Paradiso ------------------------------------------------------------ RISERVE NATURALI ---------------- Sacro Monte Calvario di Domodossola Sacro Monte della SS. Trinità di Ghiffa Fondo Toce Sacro Monte di Varallo Sacro Monte d'Orta Monte Mesma Colle Torre di Buccione Canneti di Dormelletto Baragge Parco Burcina La Bessa Garzaia di Villarboit Palude di Castelbeltrame Garzaia di Carisio Monti Pelati e Torre Cives Sacro Monte di Belmonte La Vauda Madonna della Neve sul Monte Lera Orrido e stazione di Leccio di Chianocco Bosco del Vaj Valleandona e Valle Botto Val Sarmassa Torrente Orba Augusta Bagiennorum Ciciu del Villar Oasi di Crava Morozzo Sorgenti del Belbo Juniperus Phoenicea di Rocca S.Giovanni-Saben Bosco e laghi di Palanfrè ============================================================
NOTE: I PARCHI NATURALI IN PIEMONTE TEMA: I PARCHI NATURALI IN PIEMONTE

IN vent'anni di attività, le aree protette piemontesi hanno contribuito, con la salvaguardia del territorio e con interventi specifici, al ritorno di specie animali rare o estinte. Oggi, emozioni come osservare il volo dell'aquila o intravedere nel bosco la sagoma di un capriolo, sono alla portata di chiunque si muova nell'ambiente con una minima capacità di osservazione. Ancora all'inizio degli Anni 60 persisteva la situazione di degrado faunistico creatasi a partire dal Settecento, quando porzioni sempre più ampie del territorio regionale furono piegate alle necessità di sostentamento di una popolazione in forte espansione. Ad esempio non vi era traccia di predatori terrestri e, fra gli erbivori di maggiore mole, solo il camoscio manteneva popolazioni numericamente significative. A partire dagli Anni 70, un sistema di aree protette con buona disponibilità di personale ha accelerato la ripresa spontanea di alcune specie e ha creato i presupposti per interventi più complessi di gestione attiva, come le reintroduzioni faunistiche. La più prestigiosa di tutte, anche perché maturata nel contesto di un progetto internazionale avente come partner l'insieme dei Paesi che si affacciano sull'arco alpino, è stata la reintroduzione del gipeto o avvoltoio degli agnelli. Questo grosso rapace, che nonostante il nome si nutre esclusivamente di carogne (e specialmente di ossa) si era estinto sulle Alpi all'inizio del secolo, a causa della contrazione della pastorizia, della scarsità di fonti alimentari alternative - ungulati selvatici - e della persecuzione da parte dell'uomo. Essendosi nel frattempo messe a punto tecniche idonee di allevamento e di riproduzione in cattività, e ritenendo che alcuni distretti alpini fossero ormai abbastanza ricchi in ungulati selvatici da garantire alla specie condizioni alimentari adeguate, un gruppo di esperti è passato all'azione con il rilascio di esemplari giovani nei siti giudicati migliori. Fra questi, unico in Italia, il Parco delle Alpi Marittime, che ospita, accanto ad altre specie, circa 5000 camosci e 450 stambecchi. Gli spostamenti degli uccelli rilasciati vengono seguiti grazie a un codice di marcature (piume decolorate) sulla faccia inferiore delle ali. Anche se è presto per trarre conclusioni sull'esito di questa delicata operazione, che nelle Marittime ha avuto inizio solo nel 1994, fanno bene sperare i buoni indici di sopravvivenza dei gipeti rilasciati e il numero elevato dei loro avvistamenti in più punti delle Alpi Occidentali. Altra specie di difficile reintroduzione è la lontra, ormai ridotta in Italia a una settantina di individui in piccoli nuclei isolati. Il Parco del Ticino ha avviato dal 1988 un progetto che prevede studi per la riproduzione in cattività di questo mustelide e per la sua reintroduzione nei punti più integri e tranquilli del parco. Il maggior numero di progetti di reintroduzione ha però riguardato gli ungulati (stambecchi, camosci e caprioli). A questo proposito merita di essere sottolineato come alcuni parchi piemontesi (Alpi Marittime e Gran Bosco di Salbertrand in particolare) si siano imposti, a livello nazionale e persino all'estero, quali fornitori di ungulati per immissioni in altre aree sottoposte a tutela. Un'elevata professionalità è stata acquisita nella cattura più classica, con anestetico iniettato a distanza, e anche in quella mediante reti verticali, più indicata per specie o popolazioni meno confidenti, legate ad ambienti boschivi o con abitudini crepuscolari e notturne. I vari «acquirenti» (fra cui la Foresta Demaniale di Tarvisio, il Parco Adamello-Brenta e il Parc National du Mercantour), hanno avuto modo di apprezzare la qualità dei capi catturati, il monitoraggio attento delle loro condizioni sanitarie e - quale miglior garanzia per il successo della reintroduzione - il poter disporre di un numero elevato di soggetti in tempi ragionevolmente brevi. Altri parchi piemontesi sono stati lo scenario di recenti immissioni di ungulati. Una buona riuscita ha accompagnato il rilascio di stambecchi in Val Troncea a partire dal 1987 e quello di caprioli in Alta Valle Pesio a partire dall'85. Nel primo caso gli stambecchi, messi a disposizione dal Parco Nazionale Gran Paradiso, hanno creato delle connessioni con il nucleo del Monviso, rinforzato nel 1993 con altre immissioni operate dalla Provincia di Torino. Grazie all'impegno degli agenti di vigilanza e di semplici appassionati, e grazie anche rispetto da parte del mondo venatorio, le Alpi Cozie, prive di stambecchi fino al 1978, vantano oggi una popolazione di oltre 120 individui. Gli specialisti hanno più volte sottolineato la loro importanza strategica quale «testa di ponte» fra i nuclei più meridionali, isolati da oltre 60 anni, e le fiorenti popolazioni presenti nel Parchi della Vanoise e del Gran Paradiso. Rocambolesca, non programmata ma non meno fortunata, è stata la reintroduzione di caprioli in Alta Val Pesio. In questo caso vennero rilasciati i superstiti di una partita danese con tutt'altra destinazione, bloccata per diversi giorni in frontiera a causa di irregolarità doganali. Nonostante la forte mortalità iniziale, il nucleo venne rinforzato negli anni con soggetti meglio adattati al clima alpino, catturati nel Gran Bosco di Salbertrand; oggi i caprioli sono almeno 250. Il sorprendente recupero delle popolazioni di ungulati selvatici giustifica, a sua volta, la ricomparsa del lupo sulle Alpi Marittime, dove si era estinto all'inizio di questo secolo, per ritirarsi fino agli angoli più remoti dell'Appennino tosco-emiliano. Inevitabile, il ritorno di un grande predatore come il lupo, caricato da secoli di valenze negative anche simboliche, è destinato a suscitare forti opposizioni tra gli allevatori e i cacciatori. Fare in modo che si inneschino i meccanismi in grado di far accogliere il lupo è una sfida affascinante, che nel prossimo futuro vedrà i parchi regionali impegnati in prima linea. Luca Rossi Università di Torino


MOSTRE Solo pietre? No, grandi opere d'arte
Autore: R_SC

ARGOMENTI: CHIMICA, GEOGRAFIA E GEOFISICA, MOSTRE
NOMI: GALLO LORENZO MARIANO, DELMASTRO ALESSANDRO, DAIMO LINA, COMPAGNONI ROBERTO, PEYRONEL GIORGIO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

SULLA copertina di uno dei due preziosi cataloghi della mostra, c'è un'immagine intitolata «Tramonto sul deserto»: in realtà si tratta di una sezione di Alabastro calcareo (Onice nuagè) proveniente da Costantina, in Algeria. Sull'altro catalogo tre asimmetriche torri trasparenti sono invece di «Vesuvianite», pietra raccolta al Pian della Mussa, val d'Ala, provincia di Torino. Esempi dell'eccezionalità della mostra «Collezioni invisibili», composta appunto da due settori, «Pietre figurate» e «Minerali in Piemonte», che si apre il 12 aprile (aperta fino al 14 ottobre), al Museo di Scienze Naturali di Torino, in via Giolitti 36, nel secentesco palazzo già sede dell'ospedale San Giovanni Vecchio. Le «Pietre figurate» sono calcari, agate, septarie, calcedonie, diaspri, ma anche e soprattutto pietre conosciute di solito solo come materiali da costruzione e rivestimento (Bargiolino, pietra di Luserna, graniti, marmi), e che invece rivelano, sezionate, un'anima di sorprendente valore estetico, dove la casualità naturale crea immagini armoniche, complesse. Come gli incredibili anelli concentrici della Pietra del Boscaiolo, un tufo riolitico della Corea del Sud, o i Capelli di Pele, fili di vetro vulcanico provenienti dall'eruzione del Vesuvio del 1917. O l'Arenaria, del deserto del Kalahari, Namibia, in cui le striature di ossidi di ferro su fondo ocra compongono un panorama appunto «desertico». I minerali piemontesi sono invece raccontati anche con fotografie, disegni, grafici, per spiegare la formazione e l'origine dei più comuni (dal quarzo alla calcite), fino ai più preziosi: oro, granati, smeraldi, acquemarine. L'infinita variabilità delle 3600 specie di minerali esistenti, fa sì che non si trovino due esemplari uguali, ognuno è un'opera d'arte irripetibile. Sono esposti pezzi rari e affascinanti, come cristalli prismatici di Onfacite verde e Glaucofane della bassa valle d'Aosta, cristalli prismatici pluricentimetrici di Piemontite (val d'Aosta), Lazulite della val Varaita, ciuffi di Balangeroite bruna associata a Crisotilo, proveniente dalla miniera di amianto di Balangero e un magnifico Opale di Baldissero Canavese, coperto da una sottile crosta chiara di magnesite. L'iniziativa è stata curata tra gli altri da Lorenzo Mariano Gallo, Alessandro Delmastro, Lina Daimo, Roberto Compagnoni e Giorgio Peyronel. Le mostre sono corredate di quaderni didattici, audiovisivi, e video su mineralogia e petrologia. Contemporaneamente tutti i mercoledì alle 17,30, nella vicina sede di Torino Incontra si terranno conferenze di carattere scientifico. Le Collezioni Invisibili sono aperte con orario continuato 9-19, tutti i giorni; il giovedì fino alle 23,30; chiuso il martedì. Ingresso 8 mila lire. Visite guidate per le scuole su prenotazione. Informazioni 011/432.4444. Fax: 432.3331. (r. sc.)


AIRONI E STAMBECCHI Il grande mondo della fauna selvatica
AUTORE: G_BO
ARGOMENTI: ECOLOGIA, ANIMALI, BOTANICA, PARCHI NATURALI, REGIONE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, PIEMONTE
NOTE: I PARCHI NATURALI IN PIEMONTE TEMA: I PARCHI NATURALI IN PIEMONTE

CERVI, caprioli, camosci, stambecchi, un'avifauna ricchissima, ambienti variegati: dalle vallate alpine e da dolci colline, al fascino della pianura passando per testimonianze storiche disseminate un po' ovunque. La ricchezza dei parchi piemontesi, (il Piemonte ha in assoluto il più alto numero di aree protette in Italia: 54, pari all'otto per cento del territorio), si traduce in una grande varietà di ambienti, di fauna e di flora. Sono due milioni e mezzo i visitatori annuali, e quasi cinquantamila gli studenti che svolgono attività educative e didattiche nelle aree protette. I parchi sono diventati, negli anni, «aule senza muri» o laboratori all'aperto, dove l'acquisizione di una cultura della natura diventa attività pratica. Gli insegnanti trovano nei parchi, e nei loro 23 centri visita, iniziative di durata variabile (da mezza giornata ad alcuni giorni), strumenti concreti di aiuto e supporto alla loro attività didattica. Si inizia quasi sempre con una proiezione di diapositive in classe che introduce alla specificità ambientale di ciascuna area protetta. Immagini suggestive realizzate sovente dagli stessi guardaparco che, proprio in forza della loro presenza costante sul territorio, riescono a fermare l'evolversi delle stagioni, l'epoca dei bramiti dei cervi, il mutare variopinto dei boschi. Si prosegue poi con la visita vera e propria. Qui le possibilità diventano molte. Nel parco della Mandria il laboratorio offre, ad esempio, apparecchi fotografici e miscoscopici per il «progetto acque» (quattro mezze giornate). Nel parco di Avigliana i percorsi giornalieri conducono i ragazzi nella storia dell'agricoltura montana oppure li introducono ai ritmi naturali della numerosa avifauna presente. Sempre in provincia di Torino il parco della Val Troncea offre, tra le altre opportunità, quella di riscoprire l'antico e faticoso lavoro nelle miniere. Tutto il territorio della regione è coperto da questo reticolo di opportunità, dai piedi dei ghiacciai, come in Valsesia e all'Alpe Devero, alla pianura. Ad esempio a Valenza, nel parco del Po Alessandrino, dove il fiume si distende creando isoloni sabbiosi in cui pescano aironi e garzette. Ci si può inoltrare nei boschi delle Alpi Marittime, dove si trovano i parchi Cuneesi. Qui la vicinanza del mare crea una flora ricca di originalità ed endemismi, cioè specie presenti soltanto in quella zona. La rivista «Piemonte Parchi» , inviata, dal 1983, a tutte le scuole della regione, fornisce gli indirizzi e i numeri telefonici per contattare i singoli parchi e concordare le varie attività, oltre a rendere conto della variegata e ricca «vita nei parchi». Altre informazioni si possono ricevere telefonando al Centro regionale di documentazione delle Vallere (telefono, 011-640.8035). (g. bo.)


STRIZZACERVELLO Il problema di Peano
ARGOMENTI: GIOCHI
NOMI: PEANO GIUSEPPE
LUOGHI: ITALIA

Giuseppe Peano, il grande matematico cuneese, pubblicò nel 1924 un divertente libretto di giochi matematici: «Giochi di Aritmetica e problemi interessanti», dedicato agli insegnanti, allora come oggi troppo legati a noiosi manuali scolastici, nella convinzione che il gioco potesse avvicinare uno studente alla scoperta del metodo matematico in modo piacevole e non traumatico. Ecco alcuni dei suoi problemi. 1) Quanti chilogrammi pesa un oggetto, pesante un kg più della metà del suo peso? 2) Qual è la metà dei due terzi, dei tre quarti, dei quattro quinti di un soldo? 3) Una persona fa il giro del mondo sempre in piedi. Di quanto il percorso della testa supera il percorso dei piedi?


IL VARANO DELLE STEPPE A digiuno per otto mesi Nei deserti sudafricani
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI
NOMI: BROWN ALFRED, PHILIPS JOHN
ORGANIZZAZIONI: PARCO NAZIONALE ETOSHA
LUOGHI: ESTERO, AFRICA, NAMIBIA

NOI che siamo abituati a mangiare tutti i giorni o tutt'al più riusciamo a digiunare per ventiquattr'ore, stentiamo a credere che possano esistere animali capaci di resistere al digiuno per otto mesi filati. E' vero che nei restanti quattro mesi si fanno grandi scorpacciate, ma resta il fatto che nella maggior parte dell'anno non toccano cibo. Questi digiunatori a oltranza sono i varani delle steppe a gola bianca (Varanus exanthematicus albigularis), bestioni di tutto rispetto lunghi un metro e sessantacinque centimetri che vivono nelle regioni desertiche del Sud Africa. Sembra incredibile, ma per quanto siano lucertoloni di cospicue dimensioni, questi varani sono stati ignorati dalla scienza fino ai giorni nostri. Ci fu, per la verità, un precursore che si occupo' di loro nel secolo scorso. Era Alfred Brown, un umile maestro di scuola inglese emigrato nel Sud Africa, che aveva l'hobby delle scienze naturali e, con i mezzi primitivi di cui poteva disporre a quell'epoca, raccolse una quantità di dati sulla loro biologia. Dati che furono completamente ignorati dalle autorità accademiche, quando Brown mandò loro i suoi manoscritti. Bisogna attendere fino al l990 perché il varano delle steppe a gola bianca venga ripreso in considerazione da uno studioso. E questa volta è il fisiologo comparato John A. Phillips della Società Zoologica di San Diego che intraprende un'accurata ricerca sul misterioso rettile. La ricerca si svolge nel Parco Nazionale Etosha, in Namibia, immenso fondo disseccato di un lago che esisteva in quella zona dodici milioni di anni fa. Qui le condizioni climatiche sono a dir poco proibitive. Per otto mesi all'anno siccità e carestia. Solo nei quattro mesi che vanno da dicembre a marzo clima caldo e piovoso che favorisce la crescita delle piante e il rigoglio della popolazione animale, dagli insetti agli elefanti. Il difficile è tirare avanti in quel lungo periodo delle vacche magre. Il varano delle steppe a gola bianca si è adattato meravigliosamente a queste non facili condizioni ambientali. Nella stagione delle piogge è un camminatore instancabile. Percorre fino a sei chilometri al giorno in cerca di prede, da quel carnivoro vorace che è. Tutto va bene per soddisfare il suo insaziabile appetito. Un giorno si mangia un centinaio di lumache, un altro divora duecento cavallette o magari un intero serpente della sabbia lungo più di un metro e inoltre tutto quel che gli capita: coleotteri, grilli, uova, uccelli e, una volta tanto, anche qualche piccolo mammifero. Nella stagione umida emergono i piccoli che hanno trascorso i quattro mesi d'incubazione in un nido sotterraneo. In quanto a ingordigia non sono certo da meno degli adulti. Hanno un gran testone e una bocca ben larga. Niente di più facile che si mangino prede grandi come loro, anche serpenti. Facendo guizzare la lingua bifida, sede di raffinati sensi chimici, fiutano l'ambiente e sono in grado di distinguere con l'olfatto i serpenti velenosi da quelli non velenosi. Naturalmente anche i piccoli varani pagano lo scotto che inevitabilmente ogni specie animale paga nello stadio infantile. Un buon numero finisce nelle fauci dei predatori. I superstiti, quelli che sono riusciti a scampare dalle grinfie dei predoni, a maggio, all'inizio del periodo asciutto, hanno raddoppiato il loro peso. Da questo momento cambia totalmente il regime di vita di giovani e adulti. Stop alle escursioni a largo raggio. Occorre risparmiare energie mantenendosi immobili. Ormai si vive a spese del materiale adiposo accumulato nella buona stagione. Fanno eccezione soltanto i fortunati che trovano una ricca fonte di cibo proprio verso il termine della stagione piovosa. E' quel che capita a un grosso maschio osservato da Phillips. Ha scoperto una coppia di barbagianni insediata in un vecchio nido abbandonato dai legittimi proprietari. Invogliati dall'abbondanza di prede, cioè di roditori, il barbagianni femmina depone in maggio una seconda covata di cinque uova. Il varano allora cosa fa? Non appena sgusciano i piccoli, se ne mangia uno. Se ne sta via un paio di giorni, poi torna alla carica e ne mangia un secondo. I barbagianni genitori sembrano non accorgersi di quel che sta succedendo e continuano ad occuparsi dei piccoli rimasti. Ma debbono accorgersene per forza il giorno in cui il varano si mangia il loro ultimo figlioletto. In luglio, come se scattasse un orologio biologico, i varani si rimettono in moto. Un moto addirittura frenetico. Percorrono di nuovo quattro, cinque, sei chilometri al giorno. E la cosa si giustifica. Incomincia il periodo di calore delle femmine, che dura in tutto una settimana o due. Non c'è tempo da perdere. Bisogna raggiungerle al più presto possibile. E per fortuna le femmine dal canto loro pubblicizzano la loro disponibilità al connubio, emanando un potente feromone che si fa sentire anche a un chilometro e mezzo di distanza. E i maschi si danno un gran da fare a correre da una femmina all'altra, per fecondarne quante più possono. Circa cinque settimane dopo le nozze la femmina depone una cinquantina di uova. E' un'impresa quasi eroica la sua. Significa sottrarre tutto quel materiale alle proprie riserve proteiche, adipose, minerali. E infatti dopo la deposizione il suo peso si riduce quasi alla metà. In quanto animali a sangue freddo, a cui bastano poche calorie per mantenere il loro stile di vita, i varani delle steppe a gola bianca sono più adatti ad un ambiente arido e povero come quello di Etosha che non i mammiferi a sangue caldo della stessa taglia. E infatti, a quanto risulta dalle ricerche di Phillips, la massa totale dei novemila varani adulti e subadulti censiti a Etosha sorpasserebbe il peso complessivo dei ghepardi, sciacalli, iene e leopardi dello stesso Parco. Tutti i varani sono oggi purtroppo in declino numerico, al di fuori delle aree protette. Non è tanto la scomparsa graduale del loro habitat che contribuisce al loro declino, quanto la caccia dell'uomo. Si è scoperto che la pelle dei varani delle steppe a gola bianca è molto adatta per l'industria delle calzature. E quando si fanno scoperte del genere, si sa che corrono tempi poco allegri per la specie interessata. Isabella Lattes Coifmann


PIANTE MANGIAMETALLI L'edera? Divora piombo e zinco Purificare l'aria con gerani, ortensie, azalee
Autore: QUAGLIA GIANFRANCO

ARGOMENTI: BOTANICA, ECOLOGIA, AMBIENTE, INQUINAMENTO
NOMI: PUGLISI PIER PAOLO
ORGANIZZAZIONI: GREEN GUARD
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. TAB. D. ALCUNI ESEMPI ================================================== Quantità di ione per ogni kg di pianta essiccata -------------------------------------------------- CAMELIA ------- 1500 mg di ione alluminio 200 mg di ione piombo -------------------------- AZALEA ------ 100-120 mg di ione nickel 200 mg di ione piombo -------------------------- RODODENDRO ---------- 300 mg di ione piombo 400 mg di ione zinco -------------------------- TASSO ----- 250 mg di ione piombo 400 mg di ione zinco -------------------------- GERANIO ------- 150-180 mg di ione piombo ==================================================

IN termini scientifici si chiamano «piante metalchelanti», ma più semplicemente sono note come «acchiappametalli». Vegetali, soprattutto fiori, con particolari proprietà di accumulo di metalli pesanti presenti nelle nostre città (piombo, zinco, cadmio, nickel, manganese, cromo) provenienti dai gas di scarico delle auto o da altre fonti. Racconta Pier Paolo Puglisi, direttore dell'istituto di genetica dell'Università di Parma, che tutto cominciò da un'osservazione alle Cave del Predil (Friuli), dette anche «Cave dei dannati». Ci si accorse che fiori e arbusti, a poca distanza dalla zona estrattiva di minerali (piombo, zinco, rame e ferro) avevano assorbito un'altissima concentrazione di ioni da metalli pesanti. Era la prova che alcune piante, dotate di una sostanza naturale (la cisteina) sono in grado di catalizzare gli elementi inquinanti come spugne, riducendo il tasso d'inquinamento dell'aria. Sulla scorta di queste osservazioni è stata costituita a Parma la società «Biotecnologie ambientali», esclusivista per l'Italia del sistema internazionale «Green Guard». L'obiettivo è quello di sviluppare in quelle piante già predisposte la capacità di assorbimento: il tutto con un fitostimolatore di origine naturale. I risultati sono stati impressionanti: alcune piante (in particolare camelie, rododendri, azalee), classe delle acidofile, hanno dimostrato una potenzialità incredibile nell'attrarre gli ioni dei metalli pesanti. Tanto che è stata intrapresa una campagna con una cooperativa del Lago Maggiore, la Florcoop, per lo sfruttamento di queste piante ornamentali. Così camelie e azalee, cresciute in terreni acidi, dimostrano una potenzialità di bio- accumulo notevole. Come dire che sui balconi delle città più esposte all'inquinamento del traffico dovremmo tutti quanti esporre acidofile in vaso. Ma non solo queste: anche l'edera, il geranio, la lavanda, hanno dimostrato capacità di assorbimento. I ricercatori calcolano che, se a Milano ogni famiglia mettesse sul davanzale una di queste piante, in quattro mesi si toglierebbero dall'aria circa mille chili di piombo. L'azienda della nettezza urbana di Parma ha già aderito al progetto. Ma si pensa di estendere l'iniziativa dopo un finanziamento di mezzo miliardo da parte del ministero dell'ambiente. Una delle aree ritenute maggiormente inquinate da metalli pesanti è solitamente quella lungo le autostrade. Ed ecco che è prevista una piantumazione di fiori acchiappametalli nelle piazzole degli autogrill, alle stazioni di servizio o ai caselli. L'esperienza italiana è stata preceduta, alcuni anni fa, da esperimenti condotti dalla Nasa e riguardanti la possibilità di utilizzare piante quali elementi di riciclaggio dell'aria su grandi navi spaziali da impiegarsi per lunghe permanenze nello spazio degli astronauti. Nelle città la funzione del bio-accumulo dei vegetali ha uno scopo molto più pratico e immediato. Così, mentre alcune piante soffrono da stress di inquinamento, altre sono molto più resistenti. Anzi, si nutrono di sostanze inquinanti sino a ripulire l'ambiente. Finora hanno superato l'esame oltre una ventina di specie, e non solo le acidofile. I ricercatori hanno completato anche una scheda delle capacità di accumulo della piante che rientrano sotto la strategia «Green Guard», cioè sottoposte al trattamento di stimolazione e moltiplicazione delle molecole di cisteina. Ai primi posti la camelia con una potenzialità accumulatrice di 1500 mg di ione alluminio e 200 mg di ione piombo per chilogrammo di pianta essiccata. L'azalea: 100-120 mg di ione nickel, 200 mg di ione piombo. Rododendro: 300 mg di ione piombo e 400 di ione zinco. Ortensia: fino a 200 mg di ioni cromo. Tiglio: 300 mg di ione piombo; Tasso: 250 mg di ione piombo e 280 di zinco. Ciliegio selvatico da fiore: da 150 a 250 mg di piombo per chilogrammo di foglie essiccate. Edera: 120-150 mg di piombo e 250 di zinco. Geranio: 150-180 mg di ione piombo. Gianfranco Quaglia


PSICOLOGIA Quello sbadiglio contagioso Un'azione comune anche a topi, lucertole, scimmie
Autore: VISALBERGHI ELISABETTA

ARGOMENTI: PSICOLOGIA
NOMI: PROVINE ROBERT
LUOGHI: ITALIA

E' stata una delle conferenze più divertenti che abbia ascoltato negli ultimi anni. E non ero la sola a pensarla così. Eppure tutti in sala sbadigliavano con gentile dissimulazione: c'era un gran andare avanti e indietro di mani davanti alla bocca, narici che si dilatavano per fare uscire l'aria in maniera discreta. L'unico forse a non sbadigliare era il conferenziere, Robert Provine, uno psicologo dell'Università del Maryland: quel minimo di tensione che avvolge chiunque voglia raccontare nel migliore dei modi agli altri ciò che sa lo immunizzava dal contagio. Il contagio di cui tutti erano preda era provocato dall'interessantissima esposizione dei suoi esperimenti sugli sbadigli. Già, come lo sperimentatore stesso aveva dimostrato, il solo pensarci aveva scatenato sbadigli a più non posso. Mi auguro che anche i lettori di questo articolo sbadiglino ma non per noia. Lo sbadiglio è un comportamento presente in moltissimi vertebrati, dai pesci ai topi, dalle lucertole alle scimmie; ma solo per noi uomini è stata dimostrata sperimentalmente la sua contagiosità, cioè che il vedere qualcuno che sbadiglia (o addirittura solo alcune parti della sua faccia mentre lo fa) in un numero significativo di casi induce un altro individuo, che non ha spesso nessun desiderio conscio di imitare, a fare altrettanto. Ontogeneticamente lo sbadiglio appare prestissimo. Ma sebbene nella nostra specie un feto sbadigli già durante l'undicesima settimana, è solo nel secondo anno di vita che questo comportamento diventa contagioso. Lo sbadiglio è un pattern di azione stereotipato, ovverosia tutti (maschi o femmine, bianchi o neri, grandi e piccoli) sbadigliano più o meno nello stesso modo. Lo sbadiglio consiste di una lunga inspirazione seguita da una breve espirazione durante la quale è molto difficile, quasi impossibile, non aprire e non far uscire un po' d'aria dalla bocca. Il tutto ha una durata di circa sei secondi. I risultati di una serie di studi hanno confermato il luogo comune secondo il quale si sbadiglia soprattutto nelle prime ore dopo il risveglio e prima di andare a letto, durante l'esecuzione di compiti ripetitivi e noiosi, e quando si osservano cose poco interessanti. (Non conosco invece nessuna analisi della relazione fra sbadigli e fame). Tanto per non andare sul personale... io la sera, dovunque mi trovi anche in macchina, e se anche sono sveglia come un grillo, non appena penso che fra poco vado a dormire comincio una serie infinita di sbadigli che solo il sonno riesce a placare. Da queste ricerche è emerso anche che mentre di mattina spesso lo sbadiglio è associato al piacevole stiracchiamento del corpo, la sera questo non accade. Stiracchiamenti e sbadigli sembrano avere una comune base neurofisiologica; ciò è dimostrato dal fatto che in certe patologie il primo non può esistere senza il secondo. Ad esempio individui emiplegici, che hanno metà del corpo paralizzato, quando sbadigliano si stirano e muovono una parte che normalmente non si riesce a muovere. Ma a cosa serve lo sbadiglio e ancor di più come e perché lo si contagia? Il significato funzionale di questo comportamento è sicuramente diverso nelle varie specie. Nell'uomo svolge più funzioni, non ancora ben comprese. E' però dimostrato che la spiegazione secondo la quale esso è stimolato da un aumento della concentrazione di anidride carbonica nel sangue e che serva ad ossigenarlo non è vera. Un'inutile conseguenza dello sbadiglio - di cui tutti noi ci serviamo in aereo quando fanno male le orecchie, prima di atterrare - è di aprire le tube di Eustachio per bilanciare la pressione nell'orecchio medio. Torniamo alla contagiosità. E' stato dimostrato che lo sbadiglio è un potente releaser: basta vedere un videotape con degli sbadigli per sbadigliare nel giro di 5 minuti, che il 25% delle persone sbadiglia se legge un testo che parla di sbadigli (a questo punto siete anche voi soggetti sperimentali e sapere se fate parte di questo 25 per cento o del restante 75 per cento). Ma a che serve che uno sbadiglio tiri l'altro, o meglio che uno sbadiglio tiri quello dell'altro? Robert Provine ritiene che lo sbadiglio possa essere un segnale paralinguistico che fornisce informazioni a proposito dello stato di noia o di sonnolenza in cui una persona si trova e che la sua contagiosità infine possa tornare utile per sincronizzare i ritmi di attività di differenti persone. Esiste un altro comportamento contagioso che riguarda anch'esso uno stato d'animo: il riso. Ma ne parleremo un'altra volta. Elisabetta Visalberghi Istituto di Psicologia, Cnr


ERRATA CORRIGE
ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Effetto Magnus»

Nell'ultimo numero di «Tuttoscienze» per un errore tipografico l'«effetto Magnus» è diventato Magnum




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