TUTTOSCIENZE 27 marzo 96


COME FUNZIONA LA SVILUPPATRICE Il laboratorio della luce Le fotografie a colori dal negativo alla stampa
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Come funziona la sviluppatrice

Solo pochi anni fa la stampa delle fotografie a colori richiedeva una serie di lunghe e delicate operazioni manuali. Oggi si fa con un mini-laboratorio automatico, non più grande di una fotocopiatrice, contente tutti gli elementi necessari, chimici e fisici, comandati da un computer. Dapprima viene sviluppato il negativo; poi la pellicola viene inserita in un apposito contenitore della macchina situato davanti al proiettore. La luce della lampada del proiettore viene divisa mediante un prisma in modo da inviare un'immagine del negativo da un lato alla lente mobile dello zoom e alla carta da stampare e dall'altro lato a uno scanner collegato a un computer per il controllo del colore. La lente mobile, grazie all'effetto zoom, ingrandisce l'immagine secondo le dimensioni della carta. Contemporaneamente lo scanner misura la quantità di luce e di colore nel negativo: verifica se l'immagine nel complesso è troppo chiara o troppo scura, misura il colore in 50.000 differenti punti della pellicola per stabilire quali sono i colori dominanti e accertare come influenzano gli altri. In base a queste misurazioni lo scanner stabilisce quali dei filtri con i tre colori fondamentali devono essere posti davanti al proiettore per ottenere un'immagine cromaticamente bilanciata. Infatti il filtro ha l'effetto di modificare il colore della luce che verrà proiettata sulla carta sensibile: un filtro sottrae luce rossa, un altro luce blu, un terzo luce gialla. La quantità di luce (rosso, blu o gialla) che deve essere sottratta determina il tempo in cui il filtro (o una coppia di filtri) resterà davanti al proiettore. Lo scanner decide anche il tempo di esposizione, cioè il tempo in cui il proiettore deve restare acceso. A questo punto l'operatore può controllare la fotografia su un piccolo schermo grazie a un prisma posto alla base della lente mobile che divide un'altra volta la fascio di luce inviando l'immagine allo scanner e un'altra allo schermo. Se non è soddisfatto delle correzioni eseguite dallo scanner può modificare manualmente i filtri o il tempo di esposizione. Infine preme il pulsante per la stampa; questo fa aprire l'otturatore davanti alla lente mobile in modo che l'immagine vengana proiettata sulla carta sensibile. La carta viene poi fatta passare nel «bagno» costituito da adatte sostanze chimiche che fissano l'immagine (che sembra «emergere» dalla carta), risciacquata, asciugata e infine tagliata. La fotografia è pronta.


STRIZZACERVELLO Un quadrato, due quadrati
LUOGHI: ITALIA

Suddividere il quadrato della figura, formato da 25 quadretti, in modo che possa essere ricomposto in due quadrati rispettivamente di 16 e 19 quadretti.


PICCOLI GRANDI ESPERIMENTI Quando l'elettricità spezza le molecole Gli studiosi che hanno scoperto ed esplorato il fenomeno dell'elettrolisi
Autore: BO GIAN CARLO

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, FISICA, CHIMICA
NOMI: VOLTA ALESSANDRO, DAVY HUMPHRY
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Elettrolisi

ARRHENIUS, Bartoli, Carlisle, Davy, Faraday, Hittorf, Jacobi, Kohl-rausch, Nicholson, Planté, Van't Hoff, Wheatstone: potrebbe essere la squadra internazionale di elettrolisi. Vincente. Appena confezionata la pila di Volta venne constatato un altro spettacolare effetto della corrente elettrica. Al suo passaggio l'acqua acidulata viene scomposta e precisamente si liberano ai due elettrodi, immersi nell'acqua, l'idrogeno e l'ossigeno, ciascuno a un elettrodo. Fu Davy, scienziato di gran fama, a entrare in area di rigore riuscendo a isolare il sodio e il potassio partendo dagli alcali, nel 1807. Anche se, con la nuova magia elettrica, Carlisle e Nicholson avevano già scomposto, nel 1800, l'acqua nei suoi due costituenti: idrogeno e ossigeno. Davy, sir Humphry Davy (ex apprendista di farmacia, quello che scoprì il gas esilarante, la lampada di sicurezza per i minatori, una lampada alimentata a corrente elettrica) aveva a suo tempo assunto Faraday, bravo artigiano, ex fattorino, ex legatore di libri con la quinta elementare, come segretario assistente cameriere. A lui dovette cedere una fetta di gloria perché fu Faraday a fissare in leggi i fenomeni di elettrolisi, stabilendo la relazione precisa tra la corrente che agisce e la quantità di materia scomposta. Faraday introdusse i termini catodo, anodo, elettrolisi, elet trolita, che sicuramente non inventò ma si fece suggerire da un amico che, avendo fatto le scuole alte, evidentemente sapeva il greco. Ed ecco qualche nota più tecnica, con riferimento alla figura. L'elettrolita è la sostanza che viene decomposta. Le particelle invisibili, vaganti nella sostanza, portatrici delle cariche consegnate agli elettrodi, si dicono ioni. La vaschetta è riempita d'acqua acidulata con acido solforico (H2SO4). Quando si collegano i due elettrodi ai poli di una pila, attorno a loro si liberano numerose bollicine gassose che vengono raccolte nei tubi chiusi capovolti. Quelle che vanno all'elettrodo negativo (catodo) sono idrogeno; al positivo (anodo) va l'ossigeno. Il rapporto dei volumi è 2 a 1 cioè l'idrogeno ha volume doppio dell'ossigeno. Per ogni molecola (p. es. come in questo caso, di acido solforico) decomposta, compare al catodo una molecola H2 di idrogeno. Il gruppo SO4 va all'anodo, reagisce con l'acqua, ricostituisce la molecola di H2SO4 e libera un atomo di ossigeno. Dunque: - H2SO4 = H2 più SO4; SO4 più H2O = H2SO4 più O2. L'acqua è decomposta spendendo una certa energia e come corrispettivo si ha una certa energia potenziale atomica disponibile, equivalente al calore che si svolgerebbe ricombinando l'ossigeno e l'idrogeno combinati. Si scompongono le sostanze conduttrici di corrente, come le soluzioni acquose degli acidi, delle basi, dei sali. L'elettrolisi obbedisce a due leggi enunciate da Faraday. Eccole: 1) La massa di elettrolita decomposta dalla corrente è proporzionale alla quantità di elettricità che vi passa. 2) Le masse dei diversi elementi deposte nell'elettrolisi a ogni elettrodo (e quindi anche le masse che si decompongono o si combinano) per il passaggio di una stessa quantità di elettricità, sono proporzionali ai loro equivalenti chimici. Gian Carlo Bo


UN'ISOLA SULLE MACERIE Singolare progetto per realizzare una quarta pista all'aeroporto di Fiumicino Occorrerebbero 53 milioni di metri cubi di detriti che oggi finiscono in discarica
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA
NOMI: GIOTTO GIANCARLO, TOCCACELI FRANCESCO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, ROMA
TABELLE: T. TAB. C. Percentuli di incenerimento dei rifiuti urbani in alcuni paesi europei ==================================================== DANIMARCA 65 % SVEZIA 50 % GERMANIA 40 % FRANCIA 35 % OLANDA 32 % ==================================================== T. TAB. I RIFIUTI IN ITALIA ==================================================== 27 tonnellate di rifiuti solidi urbani (470 chili pro capite) La metà costituita da imballaggi ---» - Rifiuti finiti in discarica ---» 90 % - Rifiuti inceneriti ---» 7 % - Sottoposti a raccolta differenziata, riciclato, (vetro, carta, plastica, compost) ---» 3% - Più un 25 % di rifiuti «clandestini» finiti in discariche abusivi ====================================================

UN aeroporto costruito su un'isola di spazzatura? E' un'idea per ricavare dal mare la nuova pista (la quarta) dello scalo di Roma Fiumicino e nello stesso tempo per trovare una collocazione, almeno per un bel po' di anni, ai rifiuti solidi della Città Eterna e di una vasta area vicina. C'è già una bozza di progetto elaborata da due tecnici di Civilavia, l'organismo tecnico del ministero dei Trasporti che governa l'aviazione civile in Italia, con precisi calcoli sulla quantità di materiale necessario, sui tempi per la costruzione e sui costi. Vediamola. Le tre piste attuali di Fiumicino si avviano rapidamente alla saturazione; per qualche anno sarà possibile far fronte all'aumento del traffico (dai 22 milioni attuali ai 30 previsti per il 2000) sfruttandole meglio, ma per i 60 milioni di persone previste per il 2030 bisognerà pensare per tempo a qualcosa di nuovo. La soluzione classica sarebbe quella di espropriare una parte della grande tenuta Maccarese, appartenente all'Iri, situata a Nord delle attuali piste. Ma il costo del terreno sarebbe molto elevato (è una zona di agricoltura specializzata), e inoltre il rumore degli aerei in movimento sulla nuova pista e in aria andrebbe inevitabilmente a colpire alcuni centri abitati nelle vicinanze e a interferire con alcune zone boschive protette. La pista ricavata in mezzo al mare (come quelle in costruzione a Macao, a Hong Kong, a Kansai in Giappone) non avrebbe nessuno di questi inconvenienti. L'isola dovrebbe essere costruita, dopo averne attentamente valutato gli effetti sul litorale, a poco meno di quattro chilometri al largo della costa, poco a Nord della foce del Tevere; su di essa dovrebbe essere costruita la pista, parallela a due delle piste già in funzione sulla terraferma, insieme con un terminal capace di 15-20 milioni di passeggeri l'anno; dovrebbe essere collegata all'attuale scalo con un viadotto o con una galleria sottomarina. La pista dovrebbe essere lunga cinquemila metri, adatta cioè ai maxi aerei da 500-800 posti o più che si stanno già progettando. E qui entra in gioco la spazzatura. In Italia, ragionano i due autori del progetto, Giancarlo Giotto e Francesco Toccaceli, si producono ogni anno da 27 a 30 milioni di tonnellate di rifiuti solidi. Solamente una piccola parte viene riciclata, un'altra minima parte viene incenerita, ma la gran massa finisce nelle discariche a cielo aperto pubbliche o abusive. Come tutti sanno le discariche non le vuole più nessuno vicino a sè, è sempre più difficile trovare i siti dove costruirle, intorno ad alcune di esse si sono coagulati potenti interessi malavitosi, e i costi, data la crescente lontananza dai luoghi di raccolta, tendono a lievitare. L'isola per costruire la quarta pista di Fiumicino potrebbe assorbire, secondo il progetto, 53 milioni di metri cubi di rifiuti (opportunamente trattati) di cui 18 milioni costituiti da materiale di buona resistenza (proveniente da demolizioni o da scavi, che oggi finisce in gran parte in discariche abusive) da collocare sotto la pista, sotto i raccordi e le piazzole di parcheggio. La zona di raccolta del materiale dovrebbe comprendere Lazio, Toscana e Campania e dovrebbe fornire cinque milioni di tonnellate l'anno; quindi la costruzione dell'isola richiederebbe sette anni. Secondo i due progettisti l'idea dovrebbe funzionare anche sotto l'aspetto finanziario; oggi, dicono, il Comune di Roma paga per lo smaltimento dei suoi rifiuti solidi rispettivamente per le due discariche di cui dispone 35 e 55 lire il chilogrammo, ma a Milano il costo varia da 100 a 300 lire con un costo medio nelle regioni del centro-nord di 70-80 lire, mentre la Toscana porta gran parte della sua spazzatura fino in Puglia; calcolando di incassare 60 lire il chilogrammo, si dovrebbero ricavare dai soli rifiuti solidi urbani nei sette anni necessari a completare il lavoro circa 2 mila miliardi; 500 miliardi sarebbero assorbiti dai costi di trattamento e sistemazione; resterebbero netti 1500 miliardi, ai quali andrebbero aggiunti 200 miliardi risparmiati nell'acquisto del terreno della tenuta Maccarese. In totale 1700 miliardi, sufficienti a pagare la pista e il terminal. Utopia? Realtà possibile? In ogni caso meriterebbe una verifica. Vittorio Ravizza


VACCHE PAZZE Pericoli per l'uomo? Quasi zero
Autore: GUARDA FRANCO, COSTA RINO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

L'ALLARME «vacche pazze» in Inghilterra è scattato in seguito alla morte di 10 giovani per il morbo di Creutzfeldt-Jakob (Cjd). Di questi, 4 erano allevatori di bovini e nelle loro stalle era stata diagnosticata la Bse, cioè l'encefalopatia bovina spongiforme. Poiché la sindrome umana (Creutzfeldt- Jakob) è simile alla Bse, si ipotizzava la trasmissione della malattia dal bovino all'uomo per contatto o per via alimentare. A dire il vero, però, nessuna di queste due ipotesi è stata confermata scientificamente, anche se preoccupa l'aumento dei casi di Cjd a 10 anni esatti dallo scoppio dell'epidemia di Bse (periodo minimo di incubazione della malattia umana) e la giovane età delle vittime (sinora si credeva che la Cjd colpisse persone di almeno 40-50 anni). L'epidemia di Bse in Inghilterra, con più di 180.000 bovini abbattuti, è un evento eccezionale, difficilmente ripetibile in altri Paesi, in quanto non esistono, in Europa e in America, fattori di rischio come quelli verificatisi nel Regno Unito. In Inghilterra l'epidemia bovina iniziò nel 1985, in seguito a nuove tecniche di produzione delle farine di carne per l'alimentazione degli animali: è ormai dimostrato che la Bse si diffuse per via alimentare da ceppi di Scrapie dell'ovino. Si arrivò poi all'epidemia con il riciclaggio di bovini infetti, usati per produrre mangimi: oggi la Bse è considerata una malattia diversa dalla Scrapie degli ovini e l'eziologia prionica è fortemente discussa. Alcuni ricercatori, infatti, hanno posto in evidenza nel cervello di pecore, bovini e uomini con encefalopatia spongiforme particelle similvirali con le stesse caratteristiche nelle tre specie. In ogni caso, l'Unione Europea ha proibito l'uso di farine per ruminanti contenenti carne di ruminanti. In Italia esiste un reale pericolo per l'uomo e i bovini? Analizzata la situazione, dobbiamo rispondere che non ci sono gli elementi che hanno permesso l'espandersi dell'epidemia inglese. E' vero che in Sicilia sono stati segnalati due casi di Bse da bovini importati dall'Inghilterra, ma, abbattuti tutti gli animali dell'allevamento, l'episodio si è concluso. I fattori che permettono di escludere un'epidemia di tipo inglese sono: 1) il numero degli ovini allevato in Italia è nettamente inferiore; 2) le ditte che producono farine di carne hanno modificato le tecnologie di produzione fornendo maggiori garanzie di salubrità; 3) la legge proibisce la somministrazione di farine di carni di ruminanti a ruminanti; 4) in Italia non sono stati segnalati casi di Bse in bovini autoctoni; 5) la muscolatura bovina presenta un grado di infettività non misurabile. Dal punto di vista teorico, l'uomo è potenzialmente ricettivo alla trasmissione della Bse, come lo sono 30 specie di mammiferi alle quali è stata trasmessa la malattia dall'ovino al bovino. Ma in natura non esistono i fattori necessari per una infezione all'uomo, e cioè l'alto grado di infettività, la via e il tempo di somministrazione. I dati epidemiologici noti confermano questa tesi. Infatti la percentuale di persone colpite da Creutzfeldt- Jakob in due ceppi di ebrei, gli uni in Africa che si alimentano con cervelli di pecore e gli altri in Israele, che non mangiano carne di ovino, è identica. Scendendo nei particolari della patologia molecolare, va detto che c'è una barriera di specie, cioè la sequenza aminoacidica nel Prp (agente patogeno) del bovino e dell'ovino è notevolmente diversa da quella dell'uomo. In altre parole la differenza della sequenza aminoacidica tra ovino e bovino è di 7 posizioni, mentre quella tra il bovino e l'uomo è di 30 posizioni, in virtù della lontananza filogenetica delle due specie. Quindi la possibilità della trasmissione della malattia all'uomo, almeno per ciò che riguarda l'Italia, è bassa. Tuttavia bisogna essere molto prudenti; è necessario tenere sotto controllo la situazione epidemiologica dei bovini e degli ovini, attività attualmente svolta dal Centro di riferimento nazionale delle malattie neurologiche degli animali e di neuropatologia comparata di Torino, sotto l'egida dell'Istituto zooprofilattico sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta e del Dipartimento di patologia animale della Facoltà di Veterinaria di Torino. Franco Guarda Rino Costa


EMERGENZA RIFIUTI Spazzatura nel forno Energia dalla termodistruzione
Autore: SCAGLIOLA RENATO

ARGOMENTI: ENERGIA, TECNOLOGIA
NOMI: FILIPPINI ROSA, NOTO LA DIEGA CARLO
ORGANIZZAZIONI: AMICI DELLA TERRA, ASSOCIAZIONE TECNICI AMBIENTALI, ENEA, ENEL
LUOGHI: ITALIA

NINBY» è una sigla inglese che sta per «not in my backyard», non nel mio cortile. Parola d'ordine che vale soprattutto per discariche e inceneritori: nessun cittadino li vuole nei dintorni di casa. Anche se lo stesso cittadino produce regolarmente i suoi rifiuti (pari in un anno a sei volte il proprio peso). Li produce, ma poi non vuole più vederli. Il problema è ormai scoppiato (discariche sature, riciclaggio minimo, inceneritori pochi), la situazione è obiettivamente grave e tale rimarrà per anni. Sull'argomento gli Amici della Terra, l'organizzazione ambientalista più diffusa nel mondo (Friends of Earth International, sede italiana: Roma, via di Torre Argentina 18), per la prima volta si sono schierati a favore dell'incenerimento (con recupero energetico, detto termovalorizzazione) dei rifiuti solidi urbani. «Incenerimento un tabù da cancellare», è stato il tema di un convegno tenuto a Milano nel dicembre scorso con la partecipazione di Anpa ed Enea. «L'incenerimento è l'unica alternativa in tempi brevi - ha detto il presidente nazionale Rosa Filippini - alle discariche sature e a quelle abusive. Ma è necessario abbattere il tabù della termodistruzione, che ha portato finora al proliferare delle discariche... Ed è anche un problema d'informazione, perché gli inceneritori oggi non producono fiori, ma neanche diossina, e non sono più dannosi di un qualunque impianto industriale». I numeri del problema rifiuti in Italia sono impressionanti. La produzione nazionale di rsu, rifiuti solidi urbani, aumenta del 3 per cento l'anno. Nel '94 l'Italia ha prodotto 27 milioni di tonnellate di rsu (470 chili pro capite); la metà costituita da imballaggi. I numeri sono imprecisi, ma le stime parlano di circa il 90 per cento in discarica, 7/8% incenerito, 2/3% raccolta differenziata e riciclaggio (vetro, carta, plastica, compost). Ma a queste cifre bisogna aggiungere un 25 per cento in più di rifiuti «clandestini», che finiscono in discariche abusive. Carlo Noto La Diega, presidente dell'Associazione tecnici ambientali, ha spiegato che l'Italia non potrà fare a meno delle discariche a cielo aperto. «Anche ammettendo di triplicare la raccolta differenziata, e investendo mille miliardi ogni anno per costruire impianti di trattamento a tecnologia complessa della capacità di un milione di tonnellate, resteranno da portare in discarica ogni anno 17 milioni 220 mila tonnellate di rifiuti». Sul tema si terrà a Padova, tra l'altro, dal 31 marzo al 4 aprile '96, «Sep Pollution», rassegna di tecnologie per l'igiene urbana e anti inquinamento. Ma qual è la situazione attuale degli inceneritori in Italia? In totale, funzionanti, sono 40, con recupero di energia 26 (fonti Enea). Nel 1994 gli impianti hanno smaltito 1,9 milioni di tonnellate, pari all'8 per cento di rsu prodotti annualmente nel nostro Paese. «Le tecnologie oggi disponibili - dicono ancora gli Amici della Terra - e utilizzate in tutta Europa consentono di localizzare gli impianti di smaltimento con un rischio ridotto rispetto ad altri stabilimenti industriali, generalmente accettati. E la produzione di energia consente una loro gestione economicamente attiva». La Svezia incenerisce il 50 per cento dei propri rifiuti urbani, la Danimarca il 65, Germania 40, Francia 35, Olanda 32. A Parigi viene bruciato il 75 per cento del pattume metropolitano (tremila tonnellate al giorno), riscaldando l'Hotel de Ville (il Municipio), e cinquemila grandi edifici compreso il Louvre. Un moderno impianto di termodistruzione funziona in diverse fasi successive: stoccaggio rifiuti in fossa di accumulo chiusa per evitare dispersione di polveri e cattivi odori; da questa una tramoggia trasferisce i materiali alla sezione combustione, (temperatura intorno ai 1100 gradi), in una camera divisa in tre zone: essiccamento del prodotto e precombustione, combustione delle sostanze volatili e infine dei residui solidi e trasformazione in scorie dei residui. Le scorie, che costituiscono il 20/30 per cento del peso iniziale del rifiuto, e il 10/20 per cento in volume, vengono estratte e raffreddate con acqua. La camera di postcombustione garantisce la completezza del processo e l'assenza di composti organici nei fumi. Il calore dei fumi viene utilizzato per produrre vapore, utilizzato così com'è o convertito in energia elettrica. Infine c'è il trattamento delle emissioni finali, per abbattere macro e microinquinanti e polveri. I tipi di inceneritori oggi possono essere vari: gasificazione, pirolisi, distillazione frazionata, mineralizzazione. Anche se attualmente, avvertono gli Amici della Terra, «non esiste una tecnologia che possa essere assunta a priori come superiore rispetto alle altre... La pubblica amministrazione esita ancora molto a proporre nuovi impianti, e, salvo casi recenti (Bolzano, Vercelli, Brescia), non esiste un orientamento definito, mentre la possibilità di individuare nuove discariche è sempre più esigua». La questione nel suo insieme è una colossale matassa di problemi gli uni legati agli altri. Intanto l'argomento inceneritori ha provocato polemiche tra gli ambientalisti. Wwf, Greenpeace e Legambiente in polemica con gli Amici della Terra propongono una moratoria di cinque anni «durante i quali si dovrebbe ridurre del 40 per cento i rifiuti da avviare in discarica, tra raccolta differenziata e riciclo». L'industria sembra sorda al richiamo sul contenimento degli imballaggi, sempre pretenziosi e ingombranti, che formano (in Italia) un Himalaya di dieci milioni di tonnellate annue; e la raccolta differenziata è decollata solo nel Nord del Paese ed è quasi assente al Sud. Nell'attesa di decidere, si corre però il rischio del famoso asino di Buridano, che non sapendo scegliere fra due secchi di biada, morì di fame. Sul tema la rivista «Energia e materie prime» di gennaio annuncia che l'Enel è scesa in campo, creando una nuova società, «Elettroambiente», per la costruzione di impianti di termodistruzione con recupero di energia. E sempre l'Enel ha annunciato il progetto di costruire un inceneritore a Genova, vicino alla Lanterna, con un investimento di 170 miliardi. La rivista - che riporta un servizio del quotidiano Secolo XIX - spiega che il risparmio sarà di 30 miliardi annui, riscaldando case e uffici, avviando in contemporanea il risanamento della discarica di Scarpino e la bonifica dell'area portuale sotto la Lanterna. Il conferimento dei rifiuti potrebbe avvenire tra l'altro, oltre che tramite i vicini raccordi autostradali, dal mare, mediante corvee di bettoline, riducendo il traffico di mezzi pesanti a terra. Renato Scagliola


ARCHEOASTRONOMIA Le spirali del Sole nel cielo Spiegato un simbolo neolitico molto diffuso
Autore: COSSARD GUIDO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, ARCHEOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

I successi ottenuti dall'archeoastronomia - la scienza che studia le conoscenze astronomiche dei popoli antichi e i legami di queste conoscenze con la vita sociale e religiosa dell'epoca - offrono nuovi strumenti per affrontare alcuni importanti temi archeologici, come quello dell'interpretazione delle incisioni. In particolare, consentono di gettare nuova luce su di un simbolo culturalmente molto importante: la spirale. Questa figura, di solito considerata un semplice simbolo solare, deve invece essere interpretata come rappresentazione del moto del Sole nel cielo, che noi sappiamo essere apparente, ma che gli antichi invece ritenevano reale. Ricordando come gli antichi osservassero attentamente il cielo e fossero perfettamente a conoscenza dei moti apparenti del Sole e della Luna, possiamo ragionevolmente supporre che un osservatore neolitico partisse da due presupposti, entrambi errati. Primo: la Terra è piatta e immobile e il Sole le gira intorno. Secondo: se il Sole sorge a levante, tramonta a ponente e il giorno successivo sorge nuovamente a levante, significa che, durante la notte, è passato «sotto» la Terra. Se i punti della levata e del tramonto del Sole fossero fissi, l'uomo neolitico concluderebbe che il Sole descrive un'orbita circolare attorno alla Terra. Noi sappiamo però che i punti di levata e tramonto del Sole non sono fissi e che il Sole sorge esattamente a Est solo nel giorno degli equinozi. Il punto della levata varia, nel corso dell'anno, tra un estremo verso Nord-Est (al solstizio estivo) e uno verso Sud-Est (al solstizio invernale). Analogamente, il punto in cui tramonta il Sole varia tra un estremo, a Nord- Ovest, estivo, e uno, a Sud- Ovest, invernale. Cerchiamo allora di immaginare che cosa deve vedere un ipotetico osservatore neolitico. Il giorno del solstizio invernale, l'osservatore neolitico vede sorgere il Sole alla sua sinistra (verso Sud-Est), descrivere un arco molto basso nel cielo, e, alla sera, tramontare alla sua destra (verso Sud-Ovest). Ma il giorno successivo l'«astronomo» neolitico vede il Sole che si leva non più nello stesso punto nel quale era sorto il giorno precedente, bensì in un punto spostato leggermente più ad Est. Alla sera noterà che anche il punto del tramonto non sarà più lo stesso ma si troverà più a Ovest. Il nostro osservatore avrà l'impressione che i due punti gli si siano avvicinati. Inoltre l'arco descritto dal Sole nel cielo sarà più alto. Di conseguenza interpreterà il moto secondo il disegno in figura 1. Di giorno in giorno il punto di levata si sposta verso Est e quello del tramonto verso Ovest. Quindi il moto del Sole è, per l'uomo del neolitico, veramente una spirale. Una spirale che gira da sinistra a destra, aprendosi, svolgendosi, che noi chiamiamo quindi destrogira. Il moto descritto continua fino a quando il Sole sorge in corrispondenza del limite estremo verso Nord-Est e tramonta verso Nord-Ovest, cioè fino al giorno del solstizio estivo. Successivamente, il Sole inverte il moto (figura 2); il nostro neolitico osserva allora gli archi che decrescono; i punti di levata e del tramonto ora si allontanano dall'osservatore e si avvicinano tra loro. Di conseguenza, la spirale adesso si chiude, si avvolge. Allora, dal solstizio estivo al solstizio invernale, la spirale è sempre percorsa da sinistra verso destra, ma in questo caso essa si chiude, si arrotola, in modo da dare origine a una spirale sinistrogira. Di conseguenza, per l'astronomo neolitico, il percorso del Sole era, nell'insieme, una doppia spirale (visto che non si potevano incidere sovrapposte) e i punti di inversione si trovavano al solstizio estivo e al solstizio invernale. Conferme di questa idea si trovano in varie località. I tumuli di Newgrange, Dowth e Knowth, in Irlanda, per esempio, presentano numerose spirali, connesse con un significato astronomico. Analoga doppia spirale si trova all'interno del tumulo astronomicamente orientato di Gavrinis, in Bretagna. Un sorprendente calendario degli antichi indiani Anasazi, rinvenuto nel Nuovo Messico, a Chaco Canyon, utilizza una serie di lastre verticali, che proiettano una lama di luce in diverse posizioni su di una doppia spirale incisa su una roccia. In Valle d'Aosta il simbolo è presente tra l'altro in un sito astronomicamente orientato come l'area di Saint Martin de Corleans, ad Aosta. Alcune incisioni svedesi, siti minori irlandesi e siti inglesi sembrerebbero confermare la teoria. Per concludere, si possono forse ipotizzare, anche se con difficoltà, contatti diretti tra l'Irlanda Nord Orientale e la Bretagna del Sud; ma è molto difficile pensare a scambi culturali tra Newgrange, la Bretagna, la Valle d'Aosta e il Chaco Canyon, non soltanto in virtù della distanza geografica, ma anche per la distanza temporale, più di quattromila anni, che separa gli edificatori di Newgrange dagli Anasazi. Allora, o si suppone che tutte le analogie siano casuali, oppure si deve ipotizzare che popoli diversi, lontani nel tempo e nello spazio, ma di livello culturale paragonabile, abbiano osservato, interpretato e rappresentato lo stesso fenomeno naturale con lo stesso simbolo, simbolo che riproduceva semplicemente quanto un osservatore poteva scorgere nel cielo: una doppia spirale. Guido Cossard


«LETARGO» Quel giallo dei batteri resuscitati
Autore: ROLLO FRANCO

ARGOMENTI: GENETICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: CANO RAUL, LINDAHL THOMAS
LUOGHI: ITALIA

L'ANNO scorso, verso la fine di maggio, i giornali diedero risalto a una notizia che sembrava tratta di peso dal copione di un film di fantascienza: in un laboratorio americano era stata «risvegliata» una spora dopo un «letargo» di oltre 25 milioni di anni. La spora, appartenente a un batterio del genere Bacillus, proveniva dall'addome di un'ape, ermeticamente sigillata in un nucleo di ambra fossile. A dieci mesi di distanza, sopiti i clamori che accompagnarono il primo annuncio, il capo del team cui si deve la scoperta, Raul Cano, del Politecnico della California, ha tenuto un ciclo di conferenze presso le università di Camerino e Firenze, dove ha avuto modo di esporre ai colleghi italiani i particolari e gli aggiornamenti delle ricerche che hanno prodotto un risultato così straordinario. Occorre premettere che quello del bacillo di 25 milioni di anni non è l'unico esempio di «ritorno alla vita» di un microrganismo preistorico. Presso l'Istituto neozelandese per la ricerca di Lower Hutt è attiva una banca dati che conserva informazioni su ben 5000 casi, descritti nella letteratura scientifica, che vanno dall'isolamento di un attinomicete dal muco nasale di un mammuth siberiano, al rinvenimento di clostridi (metabolicamente attivi, naturalmente) nell'impasto dei mattoni del tempio di Amon a Karnak. I primi studi sull'anabiosi (dal greco ana = ripetizione e bios = vita) risalgono al secolo scorso. Sebbene la disciplina abbia annoverato, nel tempo, cultori illustri come Louis Pasteur, la singolarità dei temi trattati, l'uso di materiali fuori del comune e la possibilità, sempre presente, che microbi moderni penetrino di soppiatto nelle provette e nelle capsule dei laboratori, hanno fatto sì che, spesso, i risultati in questo campo siano stati accolti con più o meno dichiarato scetticismo. Non c'è dunque nessun motivo per stupirsi se la comunità scientifica si è divisa anche sulle spore nell'ambra. In questo caso, le più forti obiezioni sono venute da Thomas Lindahl, un biochimico svedese considerato la maggiore autorità in tema di stabilità del Dna. Secondo Lindahl, la molecola a doppia elica a cui è affidato il patrimonio genetico di tutti gli esseri viventi non è in grado di resistere per un tempo così lungo. Nel corso della sua prima conferenza, Cano ha mostrato una serie di diapositive che mostrano come, nella Repubblica Dominicana, i nuclei di ambra, contenenti le api preistoriche, vengono estratti dal fondo di profondi cunicoli scavati nella roccia friabile. «Un lavoro duro e pericoloso», ha commentato il microbiologo californiano. Una volta portato in laboratorio, il blocco di ambra viene sterilizzato e poi aperto con ogni precauzione, per raggiungere l'insetto nel cui addome sono racchiuse le spore. Queste vengono poi poste in un brodo di coltura dove possono germinare. E' stato a questo punto che gli ascoltatori hanno avuto la prima sorpresa: nel corso degli esperimenti condotti presso il Politecnico della California, sono state isolate non una, ma numerose specie di batteri e perfino alcune muffe. Un risultato, questo, sufficiente ad escludere che ci si trovi di fronte ad un banale caso di contaminazione ambientale. Cano, però, non si ferma qui. Dati alla mano, dimostra come i microrganismi estratti dall'ambra siano geneticamente diversi da qualsiasi altro microrganismo conosciuto. Alla fine della conferenza, come previsto, le domande fioccano. «I batteri dell'ambra possono rappresentare una minaccia per la biosfera attuale?». Raul Cano risponde: «Anche se dovessero fuggire dal laboratorio nel quale vengono custoditi, non riuscirebbero a vincere la competizione dei microbi già presenti nell'ambiente naturale». «Possiamo parlare di "effetto Lazzaro"?». La risposta non si fa attendere: «Lazzaro era morto, quando fu riportato in vita; questi batteri dormono solo un sonno molto profondo». Franco Rollo


Stretto di Messina, rischio massimo Sarà sorvegliato con satelliti e nuovi radar
Autore: PAPULI GINO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: VTS (Vessel Traffic Service)

POCO tempo fa il tribunale statunitense dell'isola di Guam, nell'arcipelago delle Marianne, per combattere la pesca di frodo, ha imposto a una numerosa flotta di imbarcazioni l'installazione a bordo di apparati di collegamento con la rete Immarsat (sistema satellitare dedicato all'attività marittima) per poter controllare in ogni momento la posizione delle imbarcazioni e, quindi, gli eventuali sconfinamenti in acque protette. Questo episodio è una ulteriore dimostrazione delle grandi possibilità offerte dai sistemi telematici di rilevamento. Sistemi che sono già largamente usati per la navigazione (posizione e rotta) ma che tendono principalmente a migliorare la sicurezza dei movimenti e la tempestività dei soccorsi in mare. Facendo tesoro delle esperienze acquisite nella regolazione del traffico aereo, si sta ora sviluppando una tecnologia mirata al controllo di zone di mare critiche, nelle quali vi siano elevate probabilità di collisioni tra natanti, presenza di passaggi difficoltosi per fondali bassi o canali stretti, rischi di inquinamento per emissioni sistematiche (fiumi, scarichi costieri civili e industriali) e accidentali (perdite di grezzo e altre sostanze nocive). Per quanto riguarda il nostro Paese, le zone a rischio maggiore sono: lo Stretto di Messina, la Livorno-Portoferraio-Civitavecchia, la Ravenna-Venezia, le aree terminali dei porti di Genova, Napoli, Otranto, Cagliari, Bocche di Bonifacio. Lo stretto di Messina è uno dei tratti di mare a più alta densità di traffico del mondo: ogni giorno vi circolano, mediamente, 42 navi in transito e 450 tra le coste siciliana e calabrese. Si tratta, quindi, di movimenti che seguono rotte diverse e interferenti tra loro. Il sistema di controllo che è stato progettato per questa zona - e che sarà operativo già dal prossimo anno - fa parte di un disegno più vasto denominato VTS («Vessel Traffic Service», servizio per il traffico navale) previsto e finanziato dal ministero dei Trasporti e della navigazione. Nello Stretto, il VTS si avvale di tre sensori radar di altissima precisione - due installati in Sicilia, uno in Calabria - le cui prestazioni sono immuni dalle avversità atmosferiche. La tecnica adottata è quella del «multi radar tracking» che garantisce un'alta affidabilità in quanto tutti i punti della zona sono sorvegliati simultaneamente da almeno due sensori. L'obiettivo primario del sistema è quello della prevenzione degli incidenti. I dati forniti dai radar, unitamente a quelli del rilevamento satellitare GPS («Global Positioning System»), dei collegamenti radio, dei sensori meteorologici e dei piani di navigazione contenuti nell'archivio del sistema difesa-mare «Sidimar», saranno raccolti ed elaborati da un computer centrale e tradotti in una «immagine del traffico» che mostrerà ai controllori identità, posizione, rotta, velocità e piano di navigazione di tutte le navi presenti nello Stretto. Il costo del complesso è preventivato in 18 miliardi di lire: una spesa modesta - dice la società «Alenia» che ha progettato e costruito l'impianto - se, per esempio, la si raffronta ai 25 miliardi che sono stati necessari per ripulire il mare dopo l'incidente della petroliera «Patmos». L'Alenia ha già installato un sistema analogo nel porto di S. Pietroburgo (Russia) ed ha in corso di realizzazione due VTS in Olanda, per le foci del Reno e per il canale tra Amsterdam ed il Mare del Nord. Un altro sistema è in progetto per il Golfo di Finlandia. In Italia il piano nazionale VTS prevede, in totale, 43 centri di controllo, che saranno gestiti dalle Capitanerie di Porto. Gino Papuli


AL BANDO 12 SOSTANZE Un patto per il Mediterraneo Firmato un protocollo contro l'inquinamento chimico
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, MARE, INQUINAMENTO, CHIMICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. Mappa degli impianti che producono cloro nell'area del Mediterraneo

IL Mediterraneo non sarà più un bacino pattumiera per scarichi dell'entroterra e della costa. Le acque che vi sfoceranno non dovranno più essere inquinate. Così è stato deciso nel protocollo sottoscritto a Siracusa il 7 marzo nella conferenza della Unep-Map promossa dall'Onu, alla quale hanno partecipato 17 paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Secondo l'Onu il 20 per cento dell'inquinamento viene dagli insediamenti industriali e civili della costa mentre l'80 per cento proviene dall'entroterra (insediamenti urbani, agricoltura e industria). L'adozione di questo protocollo è un fatto rivoluzionario e avrà conseguenze rilevanti non soltanto per l'industria chimica (che in Italia è una realtà di 190 mila posti di lavoro) ma anche per la casalinga che rompe il termometro contenente mercurio oppure per il contadino abituato ad usare pesticidi e diserbanti. Tutto ciò che arriva sul suolo, infatti, raggiunge le acque di falda e poi quelle fluviali e infine, inevitabilmente, dopo un certo tempo, si riversa in mare. Nel protocollo di Siracusa, che entrerà in vigore probabilmente nel 2005, vengono definite le caratteristiche delle sostanze che non potranno più essere immesse nell'ambiente. Saranno pertanto bandite le sostanze persistenti, tossiche (cancerogene e mutagene), bioaccomulative, radioattive, rischiose per la salute, che inducono cambiamenti indesiderati nell'ambiente marino, con effetti irreversibili o durevoli; pure vietate sostanze che possono interferire con le risorse marine, per esempio la pesca, alterando il gusto o l'odore dei prodotti marini per il consumo alimentare, o il colore e la trasparenza o altre caratteristiche dell'acqua di mare. Insomma, si vuole arrivare a un radicale rispetto della natura. Le acque del Mediterraneo sono particolarmente a rischio perché hanno un ricambio lento: ogni ottant'anni. Due milioni di tonnellate all'anno di scarichi civili e industriali finirebbero per trasformare in breve tempo le acque del bacino in un brodo letale. Giovanni Guerrieri del Servizio acqua rifiuti e suolo del ministero dell'Ambiente saluta come una straordinaria e positiva novità il fatto che sia prevalsa la linea radicale di «eliminazione» dell'inquinamento anziché quella morbida di «prevenzione e riduzione». Ciò significa che si dovranno istituire dei sistemi nazionali di ispezione per controllare l'applicazione del protocollo. Laddove ridurre l'inquinamento a rischio zero fosse troppo costoso, le industrie dovranno riconvertire la tecnologia stessa dei sistemi produttivi. Allo scopo sono già disponibili a livello internazionale, nazionale e regionale fondi per 11 mila miliardi che dovrebbero servire anche per aiutare i Paesi in via di sviluppo, così che l'operazione «scarichi puliti» proceda in modo omogeneo. Il protocollo prevede programmi per affrontare l'inquinamento di 12 pericolose sostanze tossiche persistenti e bioaccumulabili: aldrina e dieldrina (pesticidi), clordano ed eptacloro (insetticidi), Ddt (insetticida), diossina e furanti (idrocarburi aromatici), endrina (insetticida), Pcb pocloro bifenile (lubrificante e refrigerante), toxafene (insetticida), esacloro benzene (fungicida, insetticida), Mirex (insetticida). Secondo le organizzazioni ambientaliste Greenpeace e Wwf, queste sostanze sono pericolose in quanto possono favorire l'insorgenza di tumori, turbe intellettive, infertilità, depressione dei sistemi immunitario e nervoso centrale. Molti di questi inquinanti sono già stati vietati totalmente o parzialmente in molti Paesi. Il Ddt, che in Occidente è stato abbandonato da anni, è ancora utilizzato su richiesta della Fao e dell'Organizzazione mondiale della sanità in alcuni Paesi sottosviluppati colpiti da malaria (perché qui i benefici prevalgono ancora sul danno). Purtroppo trovare validi sostituti (efficaci ed economici) a tutte le sostanze messe al bando non è cosa facile e non resta che attendere dalla ricerca scientifica la soluzione del problema. I rappresentanti dell'industria chimica europea hanno comunque dichiarato che negli ultimi dieci anni sono stati fatti grandi sforzi per abbassare le emissioni inquinanti e che in ottobre verrà annunciato nella conferenza che si terrà a Marsiglia un altro significativo progresso in tal senso. E si dichiarano pronti ad accettare la sfida del pieno rispetto dell'ambiente.Pia Bassi


Settimana della scienza (clandestina)
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: DIDATTICA
NOMI: SALVINI GIORGIO
ORGANIZZAZIONI: MINISTERO DELL'UNIVERSITA' E DELLA RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA

FORSE non ve ne siete accorti, ma questa è la «Settimana della cultura scientifica». Per la precisione, la sesta. Il ministro dell'Università e della ricerca Giorgio Salvini l'ha presentata solennemente venerdì scorso a Palazzo Chigi. Quest'anno la «Settimana» (25-29 marzo) prevede ben 1030 iniziative distribuite in 292 Comuni: laboratori pubblici e privati, Università, biblioteche e musei di ogni tipo si aprono al pubblico offrendo visite guidate gratuite, incontri con i ricercatori, programmi didattici per le scuole e quant'altro. Naturalmente bisogna sapere dove queste cose avvengono e prendere i necessari appuntamenti. Il tutto con un adeguato anticipo. A fornire indirizzi e orari provvede un apposito «Catalogo»: fatto molto bene, ricco di illustrazioni, stampato su carta di qualità. E quindi, presumibilmente, anche costoso. Peccato che questo Catalogo non si sia ancora visto. Arriverà, intendiamoci. Lo riceveranno scuole, giornali, enti culturali. Ma quando la «Settimana della scienza» sarà finita, e tutti quegli indirizzi non serviranno più a nulla. Spiace dirlo, ma in sei edizioni, dal 1991, è sempre andata così. Denunciarlo, ormai, è una noia. A che serve che il ministro Salvini presenti con la giusta enfasi la «Settimana» ? Lo sa, il ministro, che i suoi burocrati rendono un pessimo servizio a quella cultura scientifica che invece ha tanto bisogno di essere promossa se vogliamo un Paese più razionale, più civile e che sappia far quadrare il proprio bilancio? O forse è proprio questo ciò che i burocrati temono, che un po' più di cultura scientifica, con la sua razionalità, metta in crisi la loro stessa parassitaria esistenza? Chi ha così paura della «Settimana della scienza» da fargli fare il possibile per relegarla nella clandestinità? Come non sposare le tesi che Tullio Regge sostiene nell'articolo qui accanto? Certo, qualche ente - per esempio l'Istituto «Galileo Ferraris» di Torino - provvede da solo a far conoscere le sue iniziative. Tanto ormai si sa che il Catalogo arriva a giochi chiusi. Ma allora, almeno, risparmiamo quei soldi. Piero Bianucci


CULTURA CLASSICA & CULTURA SCIENTIFICA «Dico no a quei boriosi umanisti dimezzati» Le tesi di Capanna e di Canfora sulla scuola del Duemila
Autore: REGGE TULLIO

ARGOMENTI: DIDATTICA
NOMI: HACK MARGHERITA, CAPANNA MARIO, CANFORA LUCIANO
LUOGHI: ITALIA

HO fatto il liceo scientifico e non sono stato uno studente brillante, anzi andavo regolarmente a ottobre nelle materie umanistiche. Lo dichiaro apertamente: alla maturità sono andato a ottobre anche di scienze naturali. Non ho mai amato il liceo scientifico ma neppure ho vagheggiato il classico; a questo concedo l'attenuante di essere stato meno ipocrita e di avere portato avanti fino alle estreme conseguenze una concezione della vita e della cultura unitaria e coerente, anche se per me mutilata e inaccettabile. Il liceo scientifico l'ho vissuto come una trappola per giovani con interessi scientifici che venivano così sottoposti al lavaggio del cervello in modo da estirpare ogni velleità culturale non ortodossa per le direttive neoidealiste di Croce-Gentile. Secondo la Hack di preparazione scientifica, nel liceo scientifico, non ne esisteva «poi così tanta»; la Hack è generosa: io che l'ho subita direi piuttosto che era «quasi inesistente». Decenni dopo, giunti alle soglie del 2000, si scoprono le crepe del sistema, si apre il processo alla scuola e si scopre che neppure il classico è oro che riluce. All'Università, fino a pochi anni fa, il «si vede che ha fatto il classico» era ancora un dogma indiscusso ma è stato ora abbandonato dai nuovi colleghi, molti dei quali, tra i più brillanti, sono ragionieri e geometri, e quindi squalificati. Pesa il sospetto, ben espresso da Don Milani, che a monte del predominio del classico ci sia il fatto che «i cromosomi del dottore sono potenti». Veniamo ora alla difesa d'ufficio della cultura classica. Ho perso il discorso in latino di Capanna a Strasburgo e non lo avrei comunque capito: i colleghi del parlamento europeo che lo hanno sentito mi dissero che fu steso in stile ciceroniano impeccabile. Lo stesso Capanna mette insieme ora con estrema disinvoltura la distruzione della memoria storica, la proibizione di riflettere, il privilegio accordato al non pensare, la società pragmatica dominata da scienza e tecnica e infine il non creare. Che altro potevamo attenderci? Nelle sue parole «oggi si esegue, non si inventa» Capanna ha perso la memoria storica della cicuta, della censura imposta a suo tempo su Lucrezio e della Santa Inquisizione. Ci troviamo di fronte all'ennesimo attacco oscurantista contro la cultura scientifica, capro espiatorio della società ed all'ennesimo tentativo di esorcizzarla con invettive e luoghi comuni ormai logori. Non riesco assolutamente a considerare creativo un discorso redatto nello stanco latino ciceroniano; fu invece sommamente creativa e disubbidiente la teoria della relatività. Capanna poteva almeno utilizzare il latino di Galileo o di Newton, altrettanto degni di figurare accanto a Cicerone come memoria storica ma ferocemente censurati nei licei dai latinisti, gli stessi che si ostinano a riproporre ad alta voce e con scarsa coerenza, il latino come lingua scientifica universale. L'ostracismo contro il latino scientifico è ben comprensibile: Capanna non sa cosa sia la vera creatività e non potrebbe tradurre Galileo o Newton e forse non si rende neppure conto che la scienza moderna è nata parlando latino. Che io sappia nessuno ha mai proposto alla maturità scientifica come versione dal latino qualche pagina di Galileo, giudicato non abbastanza creativo. Canfora esprime la sua ammirazione per la cultura umanistica con spirito certo più aperto e innovatore di quello di Capanna. Per Canfora «l'umanesimo è l'insieme di tutti i saperi» e propone il sapere storico-filosofico come «architrave comune» verso percorsi differenziati, classici o scientifici che siano. L'umanesimo di Canfora non è quello dimezzato di Capanna, dove umanesimo significa esclusione assoluta della cultura scientifica, ma piuttosto quello universale e aperto di Platone, anche se, vedi caso, ho sentito citare il Timeo per la prima volta da colleghi scienziati anni dopo la maturità. Purtroppo la sua proposta di un architrave comune storico- filosofico mi delude e non mi convince. Ho un caro ricordo dei miei insegnanti di storia e filosofia ma a posteriori ho la netta impressione che l'insegnamento della storia e della filosofia fosse la vera proibizione di riflettere e lo strumento repressivo del regime Croce-Gentile per tenere sotto controllo la scienza. Non è possibile cancellare questo triste passato con una mano di bianco. L'attribuire a una disciplina particolare, sia pure degna, pieni poteri sulla educazione e formazione dei giovani è decisione quanto mai pericolosa che rischia di perpetuare le stesse gerarchie fasulle che hanno rovinato la scuola italiana. I confini e i limiti della cultura storico- filosofica sono quanto mai labili e mal definiti e accomodano personalità di altissimo livello accanto a chiacchieroni e politicanti dell'ultima ora. Infine i filosofi, a giudicare dalle polemiche che agitano il loro mondo, sono gente quanto mai rissosa e non saprei a chi rivolgermi rimanendo «super partes». Detesto le piramidi culturali, non intendo imporre il monopolio della cultura scientifica ma voglio colleghi con cui dialogare cordialmente alla pari e non dei supervisori boriosi e conformisti, che nulla sanno del sistema periodico. Non sono un professore di seconda categoria solo perché insegno in un Politecnico. Sono stufo di essere un sorvegliato speciale, di sentirmi dire che, in quanto scienziato, sono un cittadino lobotomizzato e amorale, e questo da personaggi totalmente digiuni di scienza che pretendono di avere sempre l'ultima parola. Se la società ha dei gravi problemi la colpa non è tutta e solamente degli scienziati ma anche dei politici inetti e corrotti, del mondo dell'informazione, di chi pur di far soldo vende mercanzia che crea gravi problemi sociali. E infine vorrei che gli studenti potessero scegliere con la massima libertà tra percorsi differenziati. In questo penso che la proposta di Canfora, tolto di mezzo l'architrave o reso almeno più democratico, sia costruttiva e degna di attenzione. Tullio Regge


UNA TESI CHE FA DISCUTERE Credetemi, i cani pensano L'etologo Griffin: gli animali usano «concetti»
Autore: CARRADA GIOVANNI

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA
NOMI: GRIFFIN DONALD
ORGANIZZAZIONI: UNIVERSITA' DI HARVARD
LUOGHI: ITALIA

UNO spettro si aggira tra gli etologi. E' quello dell'animale pensante, che oltre a un cervello ha una mente capace di prestare attenzione a immagini e rappresentazioni interne. Ad agitare - praticamente da solo - questo spettro è Donald Griffin, lo zoologo dell'università di Harvard che a suo tempo divenne famoso per avere scoperto, con Robert Galambos, che i pipistrelli usano gli ultrasuoni per «vedere» al buio. Per Griffin, che nel suo ultimo libro («Animal Minds», University of Chicago Press) ha reinterpretato molte delle più importanti osservazioni dell'etologia di questo secolo, gli animali prestano attenzione a «immagini interne», cioè pensano a chi sono e a cosa potrebbero fare, e decidono. Chiunque abbia un cane è assolutamente sicuro che esso sa cosa vuole e agisce di conseguenza, ma per la scienza ortodossa l'argomento «coscienza negli animali» è un vero e proprio tabù. L'idea che etologi e psicologi hanno dell'animale è quella di una specie di sonnambulo che si limita a reagire - in modo più o meno flessibile e complesso - al mondo esterno facendo ricorso a un repertorio di comportamenti programmati nei suoi geni. Questo tabù nacque per ottime ragioni. Gli studiosi del comportamento animale dell'inizio del secolo amavano speculare sui pensieri che agitavano le menti degli animali che stavano osservando, col risultato di attribuire loro senza alcun criterio pensieri e motivazioni sin troppo umani. Così, intorno agli Anni 30, gli scienziati si chiusero nei loro laboratori per indagare sperimentalmente sul comportamento degli animali, in condizioni certo semplificate, ma per questo più rigorose e controllate. Nello sforzo di essere il più obiettivo possibile tutto quello che non poteva essere osservato, misurato o contato venne scartato e considerato indegno di indagine scientifica. Semplicemente non esisteva. Come si fa, infatti, a vedere cosa pensa un animale? Qualcosa invece, secondo Griffin, si vede. Le capacità e gli adattamenti sempre più sorprendenti rivelati dalle ricerche svolte sia in natura che in laboratorio lo hanno convinto che lo studio del comportamento animale non debba più fare a meno dell'«ipotesi coscienza». L'idea di Griffin è che il cane di casa non pensa certo come noi, però vuole chiaramente certe cose, ne teme delle altre, e si aspetta che le sue azioni portino a certi risultati. Non fosse altro perché è un nostro parente abbastanza stretto. Se la coscienza umana viene prodotta dal nostro sistema nervoso centrale - ragiona Griffin - non è anche vero che questo sistema è l'erede di una lunghissima evoluzione sul cui cammino ci sono tutti gli altri animali con i quali dividiamo il pianeta? Gli studi più recenti sul cervello fanno pensare che la coscienza non sia il prodotto dell'attività di singoli centri nervosi, che potrebbero essere esclusivi dell'uomo), ma dell'attività coordinata di diverse ed estese zone del cervello. Il tabù sulla coscienza animale non sarà forse l'ultima resistenza alla rivoluzione darwiniana che ha reso tutti - uomo compreso - per lo meno cugini? Ma Griffin fa anche un altro ragionamento. La selezione naturale non può aver previsto tutto ciò che a un animale può capitare nel corso della vita. E' molto più semplice pensare che abbia inventato una cosa che si chiama «coscienza» che almeno in una certa misura permetta all'animale di rendersi conto e decidere volta per volta. Gli esempi che propone nel suo libro sono tantissimi. Catturare una preda, o sfuggire a un predatore, è forse il tipo di situazione in cui il pensiero cosciente potrebbe essere più utile. Nella savana, ad esempio, le gazzelle di Thomson non fuggono automaticamente alla vista di un predatore, ma lo studiano attentamente per scoprire che intenzioni abbia, e si danno alla fuga solo se quest'ultimo si avvicina troppo o mostra di voler attaccare. Allo stesso modo la leonessa o il ghepardo cercano di cogliere quale tra le gazzelle del branco può essere la più debole o la meno decisa, spesso in base a differenze quasi impercettibili. E' possibile che nei geni ci siano scritte tutte queste cose? Cosa dire poi di un branco di scimpanzè a caccia di colobi o di lontre giganti a caccia di anaconda, in cui ogni membro si aiuta con gli altri districandosi in situazioni complesse e imprevedibili? La costruzione di tane e nidi può invece richiedere un lungo apprendimento dagli altri. Gli uccelli giardinieri dell'Australia e della Nuova Guinea ad esempio impiegano anni per imparare ad arredare con piccoli oggetti colorati che trovano nella foresta i finti nidi necessari ad attirare le femmine, perché devono osservare a lungo come lo fanno i maschi più anziani. Questi uccelli devono in qualche modo sapere cosa vogliono fare. Quel vero e proprio ingegnere del mondo animale che è il castoro si dimostra capace di risolvere rapidamente le più ardue sfide ingegneristiche poste loro dalla curiosità dei ricercatori, tra le più improbabili che potrebbero capitare loro in condizioni naturali. Altri animali possono invece trovare utile potersi formare dei concetti. Un animale in grado di fare delle generalizzazioni si può adattare più rapidamente a una situazione nuova, e alcuni risultati positivi in questo senso sono stati ottenuti proprio nei laboratori. Piccioni ai quali vengono mostrate grandi quantità di fotografie imparano a distinguere la figura umana, anche se a un certo punto si mostrano loro solo dei particolari come dei visi o delle mani, oppure a riconoscere se in un paesaggio c'è dell'acqua oppure no, e così via. Una grande finestra aperta sulla mente animale è la comunicazione, il momento in cui un animale comunica a un altro cosa «pensa». L'idea ortodossa è che un segnale non sia altro che l'espressione diretta di uno stato d'animo interno dell'animale, senza alcuna intenzionalità. Cosa pensare allora dei numerosi tipi di inganno perpetrati da animali tanto diversi come la cinciallegra - che scaccia altri uccelli imitandone i segnali d'allarme - e il giovane scimpanzè che si accoppia di nascosto dal maschio dominante? O degli indicatori del miele, gli uccelli che guidano i cacciatori etiopi per chilometri fino ai nidi delle api selvatiche? Non c'è naturalmente bisogno di pensare che nella mente degli animali ci sia quello che c'è nella nostra, sia pure in piccolo. Magari - dice Griffin - i pensieri che si agitano nella loro mente sono più simili alle fantasie, o agli incubi. Giovanni Carrada


UN LIBRO PER ALLENARSI Le Olimpiadi della fisica
NOMI: CAVAGGIONI GIULIANA, GAIOTTO DAVIDE
ORGANIZZAZIONI: ZANICHELLI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Le Olimpiadi della Fisica - Problemi dalle gare italiane e internazionali»

RISOLVERE un problema è un po' come guadare un torrente. Si cerca con attenzione, lungo la riva, il punto più conveniente per l'attraversamento, quello più sicuro e che sembra offrire i punti d'appoggio più solidi, si studiano i percorsi possibili per decidere se convenga attraversare con un salto solo oppure con una serie di salti più corti e meno pericolosi e infine, nella massima concentrazione, si tenta il guado. L'esperienza ci insegna che è meglio non attraversare finché non si ha ben chiara in mente la sequenza dei passi necessari, per non rischiare di trovarsi bloccati, senza via d'uscita, in mezzo alla corrente. Il paragone, che descrive bene il modo di procedere nella risoluzione di un problema e lo stato d'animo con cui lo si deve affrontare, introduce l'ampia serie di problemi proposti alle Olimpiadi di Fisica, raccolti dai responsabili italiani della manifestazione e pubblicati da Zanichelli. Le Olimpiadi Internazionali della Fisica, giunte alla ventisettesima edizione, con la partecipazione di una sessantina di nazioni, sono una grande opportunità per i giovani di misurare la propria abilità nel risolvere problemi, in competizione con altri giovani della stessa età e con gli stessi interessi. L'Italia ha aderito alla manifestazione dal 1987 con buoni riconoscimenti e con l'adesione di un numero sempre maggiore di scuole, nonostante «l'handicap di programmi curriculari - osseva Giuliana Cavaggioni - in cui le esigenze di innovazione di contenuti e metodologie di insegnamento della fisica non sono ancora assestate». In questo periodo sono già iniziate le gare di selezione, con la partecipazione, per l'Italia, di 17 mila studenti del triennio e 14 mila del biennio. Sono previste gare a diversi livelli. Alle prime, le Gare Juniores, sono ammessi gli studenti del secondo anno delle superiori. Per quelli del triennio sono invece previste altre gare attraverso le quali ne vengono selezionati una settantina, invitati poi a Senigallia per la gara nazionale. I dieci studenti migliori frequenteranno un seminario residenziale, organizzato dalla Scuola Internazionale di Studi Superiori Avanzati e dal Dipartimento di Fisica dell'Università di Trieste. E tra i magnifici dieci verranno selezionati i cinque campioni che faranno parte della squadra olimpica italiana. L'anno scorso a Canberra il nostro Paese ha vinto la prima medaglia d'oro grazie a uno studente del Liceo Classico Cavour di Torino, Davide Gaiotto. Quest'anno le finale si terranno a Oslo mentre, nel 1999, sarà l'Italia ad ospitare la trentesima edizione della manifestazione. Le scuole che intendono iscriversi alle Olimpiadi della Fisica debbono inviare una lettera di adesione, firmata dal capo di Istituto e indirizzata alla Segreteria del Progetto Olimpiadi, presso il Liceo Scientifico G. Bruno di Venezia. I problemi pubblicati dalla Zanichelli, ognuno accompagnato da un accurato commento e una dettagliata soluzione, possono tornare utili all'insegnante che vuole portare in classe un modo diverso di fare fisica, per problemi, andando oltre il libro di testo. Tra i problemi delle Olimpiadi ne abbiamo scelti due, proponendoli ai giovani studenti, lettori di Tuttocienze, come verifica della loro preparazione. a) Una cassa cubica con il lato di 80 centimetri, gettata in acqua, galleggia come si vede nella figura. Quanto pesa la cassa? (Olimpiadi italiane, selezione regionale, 1993). b) Si determini il passo fra i solchi di un compact usando una lampadina a stilo, un foglio di carta millimetrata e una tabella che riporta la lunghezza d'onda dello spettro visibile della luce (Helsinki, 1992). La soluzione sul prossimo numero di «Tuttoscienze». «Le Olimpiadi della Fisica - Problemi dalle gare italiane e internazionali», Zanichelli, 236 pagine, 18.000 lire Federico Peiretti




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