TUTTOSCIENZE 13 marzo 96


TUTTE LE LEVE QUOTIDIANE Amplificatori di potenza Semplici macchine per piccoli sforzi
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. I tre generi di leve

Schiaccianoci e apriscatole, forbici e pinzette, cacciavite e martello...se non ci fossero le leve la nostra vita di tutti i giorni sarebbe assai più scomoda e costellata da tante piccole difficoltà. Veri e propri amplificatori di potenza le leve sono macchine semplici che ci permettono di compiere con una modesta dose di energia gesti altrimenti più faticosi. A mani nude è infatti, quasi impossibile scalzare il tappo metallico di una bottiglia, rompere una noce, stringere per bene un dado. Per descrivere una leva occorrono tre parole chiave: potenza, carico e fulcro. Il punto di potenza è il luogo dove viene applicata la forza che serve a compiere un dato gesto (in tutti i disegni verrà sempre indicata con una freccia nera). Generalmente nelle leve di uso domestico il punto di potenza è l'impugnatura. Il carico (indicato da una freccia bianca) è la resistenza da vincere: la robustezza del guscio di una noce, il peso della sabbia in una carriola, la durezza del legno in cui si deve conficcare il chiodo. Il fulcro (un triangolo), detto anche perno, è il punto attorno al quale si muove tutto il meccanismo. La sua posizione è strategica perché permette che si crei quel «vantaggio meccanico» positivo che permette la moltiplicazione di una forza contenuta. Affinché una leva funzioni occorre che il punto in cui si applica la forza che «lavora» percorra sempre un tratto di strada maggiore rispetto a quello in cui agisce il carico. Vale a dire: via via che, ipoteticamente, aumenta la durezza delle noci da rompere lo schiaccianoci dovrà avere manici sempre più lunghi. E' questo il concetto che Archimede voleva esprimere con la celebre frase: «Datemi un punto d'appoggio e solleverò il mondo». A seconda di dove viene sistemato il fulcro, le leve possono essere di tre tipi: leve di primo, secondo e terzo genere. Quando una di queste leve è doppia (i due bracci gemelli di una forbice, di una pinza...) si dice allora che è una leva composta. ====== LEVE DI PRIMO GENERE: bilancia, forbici, stadera, cacciachiodi. Il fulcro è in mezzo tra carico e potenza. Le leve di primo genere sono forse quelle più diffuse nelle nostre case: le forbici, le pinze, la chieve inglese, la bilancia a piatti, la stadera, il piede di porco (cacciachiodi). In tutti i casi il fulcro è il centro (il perno della bilancia, quello delle forbici e delle binze, la base d'appoggio dei cacciachiodi) e poco più in là c'è il punto di carico (l'oggetto da pesare, il dado da stringere, la carta da tagliare, il chiodo da scalzare). A debita distanza, appositi manici ci permettono di pallicare una forza non troppo onerosa per raggiungere il nostro scopo. In quanto simmetrici, pinze e forbici sono leve di primo genere composte. ===== LEVE DI SECONDO GENERE: schiaccianoci, carriola, apribottiglia, cacciavite. Il fulcro è a una estremità della leva e in mezzo c'è il carico. Una leva di secondo genere è molto diffusa è l'apribottiglie: il carico è offerto dal tappo be avvinghiato sul collo della bottiglia, il fulcro è nel punto in cui l'attrezzo si appoggia sul tappo (infatti il metallo si piega proprio lì) e per far forza la mano agisce sul manico dell'apribottiglie. Il gesto sarà tanto più agevole quanto maggiore sarà la lunghezza del manico (il punto di potenza si allontana dal fulcro). Analogamente i cacciavite più maneggevoli sono quelli dove maggiore è la differenza tra diametro della punta (dove è il fulcro) e del manico (punto di potenza). Anche la carriola è una leva di secondo genere; il peso della sabbia (carico) è vinto con facilità grazie alla ruota (fulcro) e ai lunghi manici (punto di potenza). Una leva di secondo genere composta è lo schiaccianoci. ===== LEVE DI TERZO GENERE: canna da pesca, pinzette, martello. Il fulcro è ancora a una estremità della leva, ma in mezzo c'è ora la potenza. Nel martello è il nostro polso che agisce da fulcro, mentre la testa di ferro colpendo il chiodo, vince la compattezza del legno (il carico). Il martello è infatti meno faticoso da usare se impugnato all'estremità inferiore del manico, mentre è quasi impossibile piantere un chiodo afferrandolo appena sotto la testa. Nella canna da pesca la mano che impugna il manico più in basso agisce da fulcro, mentre l'altra, più in alto, fornisce l'energia necessaria per vincere il peso del pesce (il carico). Una leva di terzo genere composta sono le pinzette dove, per bloccare con precisione una carico debolissimo (la «resistenza» di un pelo), la forza viene applicata la centro.


POLEMICHE STORICHE Ma Marco Polo è andato davvero in Cina? L'interrogativo in un libro dell'inglese Frances Wood
AUTORE: BONOTTO SILVANO
ARGOMENTI: ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA, LIBRI
NOMI: WOOD FRANCES
ORGANIZZAZIONI: SECKER & WARBURG
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Did Marco Polo go to China?» (Marco Polo è andato in Cina?)

CHI, partendo dall'Estremo Oriente, compie a ritroso il viaggio degli antichi mercanti di seta e spezie e arriva in aereo a Venezia, nota subito che è stato dedicato a Marco Polo il nuovo aeroporto, nato in terraferma ma al limite delle barene della Laguna. Il figlio prediletto della Repubblica del Leone è, infatti, mondialmente conosciuto per averci lasciato nel suo famoso libro «Il Milione» una ricca fonte di notizie sull'antica Cina, che egli dice di aver visitato in lungo e in largo al servizio di Kublai Khan, (nipote di Gengis Khan), che regnò dal 1260 al 1294, e che elesse a capitale del suo impero Cambalic, situata nell'area dell'attuale Pechino. La Cina veniva allora chiamata a Venezia «El Catai», nome che qualche vecchio negoziante della città lagunare usa ancor oggi, lagnandosi, peraltro, dell'invasione di prodotti a buon mercato e perfino di vetri provenienti da quel lontano Paese, in concorrenza quindi coi prodotti di Murano. A nessuno, perciò, verrebbe in mente a Venezia di mettere in dubbio la veridicità del viaggio di Marco Polo in Cina, benché questi non l'abbia descritto di sua mano, ma l'abbia raccontato al suo amanuense, Rustichello da Pisa, nel 1298, durante la cattività nelle prigioni di Genova, e nonostante il fatto che numerosi errori e aggiunte al manoscritto originale siano stati successivamente introdotti. Sorprende, quindi, il recentissimo libro di Frances Wood dal titolo: «Did Marco Polo go to China?» (Marco Polo è andato in Cina?), pubblicato a Londra dalla casa editrice Secker & Warburg. Frances Wood ipotizza che Marco Polo non si sia mai spinto nei suoi viaggi al di là dei fondaci commerciali di famiglia che i Polo possedevano a Costantinopoli e sul Mar Nero (Crimea), mentre invece il padre e lo zio sarebbero arrivati fino a Karakorum. La Wood afferma, inoltre, che a creare il mito del favoloso viaggio di Marco Polo in Cina contribuì in modo determinante l'edizione del suo libro pubblicata dal Ramusio nel 1559. Per chi ha letto «Il Milione», e ha visto il film su Marco Polo, la conclusione di Frances Wood sembra quasi incredibile. E' come se un bel mattino i mass media annunciassero che Cristoforo Colombo in America non ci è mai andato, ma si è fermato alle Canarie o alle Azzorre. Eppure, sembra che la studiosa inglese, durante il suo soggiorno in Cina, abbia esaminato attentamente numerosi documenti antichi contenuti negli archivi cinesi alla ricerca dei Polo senza, tuttavia, trovarvi alcuna traccia. Inoltre, secondo lei, alcuni fatti, vicende e date riportati nel «Milione» non corrispondono alla realtà storica del periodo durante il quale Marco Polo avrebbe fatto il suo viaggio in Cina. Marco avrebbe avuto solo 17 anni, essendo nato nel 1254 da nobile famiglia (lo stemma è stato dipinto in un manoscritto del 1424), quando nel 1271 partì da Venezia con il padre Niccolò e lo zio Matteo, per ritornarvi nel 1295, cioè dopo ben 24 anni. Un giovane di quell'età possedeva certamente una curiosità desta e un vivo spirito di osservazione, per cui la Wood si stupisce che Marco Polo non abbia parlato nel «Milione» di usanze tipicamente cinesi, e affatto sconosciute in Europa, come quella di bere il té o di legare strettamente i piedi alle bambine per farli rimanere piccoli e deformi per sempre. Inoltre, la stessa non perdona a Marco Polo di aver ignorato l'esistenza della Grande Muraglia, opera ciclopica che ancora oggi suscita l'ammirazione dei turisti del XX secolo. Secondo lei, Marco Polo non ne parla perché in Cina non ha mai messo piede. La tesi della Wood per aver credito richiede certamente ulteriori verifiche e lunghe ricerche di archivio sia in Europa che in Cina, sperando che il tempo e l'incuria umana non abbiano distrutto importanti fonti di informazione sui Polo e sull'impero Yuan. Per quanto riguarda il silenzio di Marco Polo sul té, è anche possibile che i Mongoli, conquistatori della Cina di allora, non l'usassero affatto e che bevessero invece latte come quando praticavano la pastorizia nelle sterminate steppe asiatiche. E' qui opportuno ricordare, per soddisfare la curiosità del lettore, che, secondo una leggenda cinese, il té sarebbe stato introdotto durante il regno del mitico imperatore Shen Nung verso il 2737 a.C., ma se ne fa menzione per la prima volta soltanto nel 350 a.C. nel dizionario cinese Erh Ya. Inoltre, è probabile che le donne mongole conservassero i loro piedi così come madre natura li fa, poiché è noto che esse sapevano cavalcare ed erano abituate a fare anche i lavori più pesanti. L'usanza dei piedi piccoli poteva, quindi, essere praticata in un ambiente sociale cinese più raffinato di quello mongolo, difficilmente accessibile a uno straniero come Marco Polo. Da notare che quest'usanza si protrasse in Cina, benché in modo assai limitato, fino alla prima metà di questo secolo. Quanto alla Grande Muraglia, della quale almeno una parte rimonterebbe al periodo della dinastia Han (202 a.C.- 221 d.C.), Marco Polo potrebbe anche non averla mai vista. Tutto dipende dal percorso che fece per arrivare a Cambalic. D'altra parte, al tempo di Marco Polo, questa linea di difesa era una specie di vallo romano con un alto argine di terra rinforzato con rami e tronchi d'albero incrociati e sovrapposti in vari strati. Il manufatto in pietra, che gli operatori turistici cinesi ci portano a vedere attualmente a Badaling, è di epoca più tarda ed è stato restaurato più volte in tempi recenti. Che Marco Polo non abbia parlato del té, dei piedi piccoli delle donne cinesi e della Grande Muraglia non sembra sufficiente per demolire la veridicità del suo racconto. Le osservazioni della Wood sollevano, tuttavia, alcuni problemi e perplessità che dovranno essere chiariti in futuro. E' auspicabile che anche ricercatori cinesi affrontino la mole di documenti ancora da esaminare, in quanto hanno ovviamente una conoscenza della lingua più approfondita di quelli stranieri. Dalla Cina potrebbe così venire una risposta ai numerosi quesiti sollevati dalla Wood. Sarebbe anche molto utile una nuova ricerca approfondita nell'archivio di Stato di Venezia, e forse in quello bizantino di Istanbul. Silvano Bonotto Università di Torino


BIOETICA Una legge soffoca la scienza?
Autore: DAPOR MAURIZIO

ARGOMENTI: BIOETICA
NOMI: LAZAR PHILIPPE
ORGANIZZAZIONI: EDITORE LIANA LEVI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «L'etique biomedicale en question»

UNA voce controcorrente: è quella di Philippe Lazar, espressa nel suo libro «L'ethique biomedicale en question» (ed. Liana Levi, Parigi, 1996) e ripresa da «Nature» nelle scorse settimane. Secondo Lazar, direttore generale dell'agenzia biomedica francese, il comitato francese di bioetica avrebbe, di fatto, soffocato il dibattito sulle importanti questioni etiche sollevate dai rapidi progressi delle scienze, in particolare della genetica e della biologia, pretendendo di fornire un insieme di soluzioni preconfezionate, «pronte per l'uso» e non sufficientemente rispettose delle diversità d'opinione: queste soluzioni minaccerebbero il progredire della scienza. Secondo Lazar la scarsità di consenso sulle grandi questioni etiche costituirebbe invece l'essenza stessa di un dibattito sincero e approfondito: la pura ricerca di un facile consenso, tipica a suo dire di molti comitati di bioetica, rappresenterebbe il modo più semplice e rapido di «requisire» la discussione senza che le grandi questioni siano state seriamente esaminate. L'anno scorso, in Francia, un'ampia legislazione bioetica è stata approvata: Lazar si chiede se questa legislazione rispecchi sufficientemente le diversità delle opinioni emerse nei dibattiti sulla bioetica. Va oltre, Lazar, esprimendo il parere che una sorta di consenso forzato possa condurre l'opinione pubblica a ritenere che i problemi bioetici siano stati definitivamente risolti. Niente di più falso, sempre secondo Lazar, il quale non crede nell'efficacia di una legislazione che pretenda di regolamentare tematiche così complesse e delicate: la domanda stessa di una tale legislazione, secondo lo scienziato francese, tradirebbe una certa paura del nuovo. Egli si dice, invece, fiducioso nella capacità dell'«apparato ideologico» della società di evitare i possibili abusi delle nuove tecnologie biologiche. Un punto di vista interessante, questo, ma anche pericoloso: la fiducia cieca in una presunta (ma mai dimostrata) capacità del mondo scientifico di regolarsi autonomamente su questioni etiche è stata troppo spesso smentita dalla storia. Le motivazioni che spingono uno scienziato, infatti, non sono sempre e solamente l'amore incondizionato per la scienza e per la ricerca della verità. L'ambizione, il desiderio di potere, l'ansia di ar rivare per primi o molti altri cattivi consiglieri possono agire, talvolta, sulle scelte e sul comportamento di alcuni scienziati: quanto basta per considerare le tesi espresse nel libro di Lazar con attenzione e spirito critico. Maurizio Dapor


SPORT & SALUTE Sciatori attenti alle alte quote Sconsigliabili ai broncopneumopatici cronici
Autore: TRIPODINA ANTONIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SPORT, SCI
LUOGHI: ITALIA

TEMPO di neve, di week- end in montagna. E di incertezza per molti che, affetti da qualche problema cardio-circolatorio o polmonare, si trovano dibattuti tra il seguire le raccomandazioni di non esporsi alle alte quote e al freddo, e il desiderio di non rinunciare allo sport preferito e a panorami di grande suggestione. Sono pochi gli studi approfonditi sulle conseguenze fisiologiche che si hanno nel passare in breve tempo da basse quote (quasi a livello del mare) ad altitudini tra i 1500 e i 3000 metri, che sono quelle abituali per gli sciatori. Molto più numerosi sono gli studi condotti sulla fisiologia dell'acclimatazione in alte e altissime quote (Himalaya, Ande) oppure in condizioni artificiali, simulando diverse altitudini con camere ipobariche o respirando miscele ipossiche (cioè con percentuali d'ossigeno inferiori a quella abituale). Da questi studi possono tuttavia discendere considerazioni applicabili a condizioni più turistiche. Tutte le variazioni fisiologiche che avvengono in un organismo che «ascende» hanno la finalità di compensare la progressiva diminuzione dell'ossigeno nell'aria. La percentuale di ossigeno nell'atmosfera è strettamente correlata con la pressione barometrica (la forza che l'atmosfera esercita, per effetto della gravità, su ogni centimetro quadrato di superficie terrestre). A livello del mare tale pressione è uguale a quella esercitata da una colonna di mercurio alta 760 mm ed è convenzionalmente uguale a 1 atmosfera. Al livello del mare la percentuale di ossigeno nell'aria è del 20,9%. Salendo, la pressione barometrica diminuisce e con essa la percentuale di ossigeno nell'aria inspirata (ipossia) con la fisiologica conseguenza di una progressiva minore «ossigenazione» del sangue e di una minore quantità di ossigeno portato ai tessuti (ipossiemia). A 1500 metri la pressione barometrica è di 632 mm, con una percentuale di ossigeno del 17%; a 3000 metri i valori sono rispettivamente di 523 mm e del 14%. E così via salendo. Essendo l'ossigeno un elemento fondamentale per la sopravvivenza, l'organismo risponde ad una sua carenza attivando meccanismi «di emergenza» che provocano modificazioni respiratorie e circolatorie con finalità di compenso: aumenta la frequenza degli atti respiratori per introdurre più aria; aumenta la frequenza cardiaca per pompare più sangue; aumenta la pressione arteriosa sia nel circolo polmonare, sia in quello generale in risposta al rapido aumento delle catecolamine vasopressorie (adrenalina e noradrenalina) e all'aumentata «portata cardiaca» (la quantità di sangue pompata in un minuto). L'efficacia di tale rapido processo di adattamento presuppone una perfetta funzionalità dei due sistemi implicati, un buon allenamento e una certa gradualità delle variazioni ambientali da compensare. Se le variazioni sono improvvise oppure gravate da determinate condizioni (sforzo fisico, freddo), da una particolare reattività vascolare dei soggetti esposti o, anche, da patologie latenti, può capitare che il cuore non ce la faccia a sostenere un tale improvviso sovraccarico e si scompensi, mettendo le basi per l'instaurarsi di una forma acuta di edema polmonare (conosciuta appunto come «edema polmonare da alta quota»), con dispnea improvvisa, tosse, espettorato striato di sangue. Altra evenienza molto seria, seppure molto rara, anch'essa provocata da una incongruenza di adattamento, è «l'edema cerebrale acuto», con cefalea ingravescente, vomito, turbe visive. La patologia da adattamento di gran lunga più comune, colpendo un'alta percentuale (fino al 50%) dei soggetti che ascendono rapidamente a quote superiori ai 3000 metri è il cosiddetto «mal di montagna acuto», caratterizzato da cefalea, anoressia, astenia, nausea, vomito, vertigini, insonnia, facile irritabilità. Il ritorno a quote inferiori risolve rapidamente il quadro morboso. Tutte e tre queste manifestazioni sono provocate da ritenzione idrica e dall'accumulo di acqua extravascolare (appunto «edema») a livello di vari organi. A quote inferiori ai 2500 metri, che sono quelle che interessano la maggior parte degli appassionati di cui parlavamo, sono presenti «in nuce» tutte le variazioni fisiologiche già viste, ma è rarissimo che sfocino nelle manifestazioni patologiche suddescritte. Il monitoraggio di 24 ore della pressione arteriosa e la registrazione dinamica dell'elettrocardiogramma secondo Holter hanno evidenziato un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. Sotto sforzo è stato evidenziato un incremento della frequenza cardiaca significativamente più accentuato rispetto a quello che si ha a livello del mare, e un incremento della pressione arteriosa sistolica, maggiore nei soggetti normali che nei cardiopazienti, per un deficit di contrattilità miocardica. Il complesso di queste osservazioni fa concludere che la montagna non è per tutti e fa ritenere sconsigliabile la frequentazione di quote al di sopra dei 1500 metri ai broncopneumopatici cronici con insufficienza respiratoria latente o manifesta; ai cardiopatici non perfettamente compensati o affetti da coronaropatia sintomatica; agli ipertesi non compensati. Particolarmente da sconsigliare sono le rapide ascese (anche con mezzi meccanici) oltre i 2500 metri. Antonio Tripodina


EOLICO Energia pulita dal maestrale
Autore: BONZO MARIALUISA

ARGOMENTI: ENERGIA, VENTO
ORGANIZZAZIONI: ENEL
LUOGHI: ITALIA

AD Acqua Spruzza, non lontano da Frosolone in provincia di Isernia, è in funzione la più alta centrale eolica per la produzione di energia elettrica. Su una cresta appenninica a 1360 metri di quota, otto aerogeneratori di media potenza trasformano la forza cinetica del vento in elettricità. Si produrranno circa 5 milioni di kilowattora l'anno, sufficienti a soddisfare i bisogni energetici di 2300 famiglie. L'economia mondiale si nutre di energia prodotta in gran parte dai combustibili fossili (carbone, ma soprattutto metano e derivati del petrolio). Questi sono proprio i principali imputati del degrado ambientale e delle alterazioni del clima. Eppure le forze della natura (vento, acqua, Sole, biomasse) sono forme di energia pura, pulita ed inesauribile. Già oggi esistono le tecnologie che permettono di usufruirne. Il problema rimane nella competitività e nella convenienza economica. Nell'Unione Europea solo il 4% dell'energia (pari a 43 milioni di tonnellate di petrolio) viene prodotto in modo alternativo, per ora soprattutto dalle collaudate centrali idroelettriche. La parola d'ordine però è diversificare, puntando a più di una nuova fonte di energia pulita. Fra queste l'eolica è la più promettente. Negli ultimi 15 anni il costo della produzione di elettricità con centrali eoliche è sceso a 1/4. Germania e Danimarca sono leader in Europa dell'energia del vento, anche se pionieri sono stati gli Usa. Già all'inizio degli Anni 80 sono nate le prime wind-farms (fattorie del vento) e oggi la sola California conta 16 mila turbine, praticamente sufficienti a soddisfare il fabbisogno di una città come San Francisco. E in Italia? L'Enel partecipa agli studi sulla produzione di energia eolica sin dal '79, ma è ancora a livello di campi-prova. Il luogo dove insediare una centrale del vento deve essere studiato molto attentamente. Un sito eolico, così viene definito, deve avere caratteristiche ben precise. Il vento deve essere costante, nè troppo debole, nè troppo forte (tra i 20 e i 90 km/ora). L'Italia non è ricca di siti eolici. E' posta nel bel centro della culla del Mediterraneo. Le alte catene montuose e le rilevanti masse d'acqua causano una differente distribuzione della pressione atmosferica secondo le stagioni, quindi un andamento variabile dei venti. Solo il maestrale, il libeccio, lo scirocco sono piuttosto costanti. Le isole, alcune zone costiere, le aree appenniniche al di sopra dei mille metri hanno caratteristiche assimilabili a quelle di un sito eolico. Proprio in questo senso sono mirate le sperimentazioni dell'Enel. Le aeroturbine in ambiente marino (per l'inquinamento salino) o in alta quota (per il clima) lavorano in condizioni limite. I primi campi prova sono stati costruiti in zone costiere, come in Alta Nurra, provincia di Sassari, dove hanno dato risultati confortanti. Le aree rivierasche sono però densamente popolate e altamente sfruttate con il turismo. Le centrali eoliche necessitano di grandi spazi anche se gli aerogeneratori occupano poi solo l'1% del territorio. L'Enel ha perciò deciso di fare un altro passo in avanti costruendo un campo prova ad Acqua Spruzza. Si intende così tastare ad alta quota gli aerogeneratori, sottoporli alle intemperie, alle forti escursioni termiche, alle abbondanti nevicate e al ghiaccio delle creste appenniniche. Se i risultati saranno buoni l'Enel inizierà a costruire impianti di maggiori dimensioni in zone con caratteristiche simili ad Acqua Spruzza. L'impatto sull'ambiente montano delle centrali eoliche è minimo. Gli aerogeneratori più moderni sono silenziosi, producono solo un lieve sibilo che non disturba la fauna selvatica. Una centrale eolica è compatibile sia con un ambiente protetto, sia con l'agricoltura e l'allevamento. Marialuisa Bonzo


BRILLERA' COME UNA STELLA DI PRIMA GRANDEZZA Occhio alla cometa Hyakutake il 26 marzo sfiorerà la Terra
Autore: FERRERI WALTER

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: YUJI HYAKUTAKE, MARSDEN BRIAN
LUOGHI: ITALIA

GLI appassionati di astronomia erano convinti che sarebbe stata necessaria l'attesa di un anno per contemplare una grande cometa (la Hale-Bopp, che vedremo nell'aprile 1997) quando, il 31 gennaio, dopo avere scoperto la 1995 Y1, il giapponese Yuji Hyakutake, di professione fotoincisore, ha scoperto un'altra cometa, a Sud- Est, tra le costellazioni dell'Idra e della Bilancia. Subito dopo l'annuncio della scoperta, uno stuolo di osservatori iniziò a determinare l'aspetto e il percorso della nuova cometa. In base a queste osservazioni, Brian G. Marsden, dell'Ufficio Centrale per i telegrammi astronomici, che ha sede a Cam bridge (Massachusetts), è stato ben presto in grado di calcolare un'orbita approssimata. L'orbita e le attuali stime di luminosità indicano che la cometa Hyakutake potrebbe raggiungere la magnitudine 1 alla fine di marzo. Dopo si dovrebbe registrare un leggero indebolimento seguito da un aumento fino alla magnitudine 0 alla fine di aprile, quando la cometa sarà prossima al perielio, che si trova all'interno dell'orbita di Mercurio. Dalle effemeridi si vede che la cometa Hyakutake, dapprima debole e sita nel cielo australe (nella Bilancia), passa rapidamente nel cielo boreale, all'altezza della costellazione della Vergine, ad una velocità impressionante. Attraversa la costellazione di Boote, quando dovrebbe essere già più luminosa della Halley nel 1986, e quindi raggiunge, il 26 marzo, la minima distanza dalla Terra. A questo punto la cometa Hyakutake diviene un oggetto circumpolare per gli osservatori in Italia, che possono contemplarla per tutta la notte. Ma le ore migliori sono quelle più comode: dopo il crepuscolo. La minima distanza dalla Terra è stata calcolata in 16,5 milioni di chilometri. Dal 26 al 31 marzo la cometa dovrebbe brillare come una stella di prima grandezza. Il condizionale è d'obbligo perché, come rileva Marsden, le magnitudini previste sono «highly un certain» (molto incerte). In aprile la cometa Hyakutake si dirigerà verso il Sole, diminuendo la sua elongazione, ma continuando ad essere un astro serotino. Allora la si vedrà attraversare la costellazione di Perseo per tuffarsi poi in quella dell'Ariete. Grazie alla vicinanza al Sole, la sua magnitudine dovrebbe raggiungere addirittura grandezza 0, ma purtroppo questa brillantezza verrà in gran parte «smorzata» dalla vicinanza al Sole. In ogni caso la Hyakutake 1996 B2, sia per il passaggio ravvicinato alla Terra sia per la sua brillantezza, costituirà uno dei più notevoli e inaspettati spettacoli astronomici di questi anni. Walter Ferreri


RICERCA ITALIANA La pulsar Geminga svela la sua distanza: 500 anni luce
Autore: MIGNANI ROBERTO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: BIGNAMI GIOVANNI, CARAVEO PATRIZIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. La parallasse di Geminga

LA storia di Geminga copre un arco di 25 anni ed è una delle più interessanti dell'astronomia moderna. Scoperta nei primi Anni 70 dal satellite Sas-2 della Nasa, Geminga è una delle sorgenti di raggi gamma più brillanti del cielo e una discreta sorgente di raggi X. La sua posizione nella costellazione dei Gemelli le guadagnò il pittoresco nome (Gemin/Gam ma Source) al posto del più anonimo 2GC 195più04. In realtà, il nome nasconde il gioco di parole G'hè minga (vale a dire «non c'è» in dialetto milanese), attribuitole dall'astronomo milanese Giovanni Bignami per l'impossibilità di trovare una controparte ottica sulle lastre dell'Osservatorio Palomar. Le prime osservazioni ottiche individuarono la possibile controparte ottica di Geminga nella più debole di un terzetto di stelle, battezzata G", coincidenti con la posizione della sorgente. Il debole flusso ottico di G" (magnitudine apparente 25,5), paragonato all'elevato flusso gamma e X, era spiegabile ipotizzando che non fosse una stella normale, ma un oggetto intrinsecamente debole come una stella di neutroni. L'enigma sulla vera natura di Geminga rimase insoluto fino all'inizio degli Anni 90 quando vennero scoperte pulsazioni nelle bande X e gamma con lo stesso periodo (237 millesimi di secondo). La scoperta di una periodicità comune lasciava pochi dubbi sulla natura della sorgente Geminga. Si trattava, infatti, di una pulsar, vale a dire una stella di neutroni la cui emissione appare pulsata per effetto della sua rapida rotazione. Nel 1992, Giovanni Bignami e Patrizia Caraveo del Cnr di Milano, confrontando la posizione relativa di G" in immagini d'archivio, misurarono uno spostamento angolare (moto proprio) di 1, 5 arcosecondi che, per una distanza di 100 parsec, corrisponderebbe a una velocità trasversa di 100 chilometri al secondo. Questo è esattamente quello che ci si aspetterebbe di osservare se G" fosse una stella di neutroni, nata nel corso di una esplosione di supernova. Nonostante la natura di Geminga fosse ormai accertata, rimaneva il problema di determinarne bene la distanza. Come fare? Purtroppo, a differenza delle altre pulsar, Geminga non era visibile nella banda radio, pertanto non era possibile utilizzare le tecniche proprie della radioastronomia. L'unico metodo praticabile era il più antico applicato in astronomia per calcolare la distanza dei corpi celesti: la misura della parallasse (la misura dello spostamento apparente di una stella sulla volta celeste indotto dal moto di rivoluzione terrestre permette di dedurre la sua distanza tramite un semplice teorema di trigonometria). L'impresa non era delle più semplici. Si trattava di misurare uno spostamento angolare dell'ordine di qualche millesimo di secondo d'arco e, quindi, misurare la posizione di G" con precisione quasi assoluta. Misura tanto più complicata qualora si consideri che si tratta di una stella estremamente debole. L'unico telescopio esistente in grado di osservare un oggetto così debole e di raggiungere, contemporaneamente, l'elevata risoluzione angolare richiesta era la Planetary Camera dello Hubble Space Telescope. La misura della parallasse di Geminga fu quindi lo scopo di un programma di osservazione proposto da Giovanni Bignami, Patrizia Caraveo e dal sottoscritto nel 1992. Le prime immagini di Geminga vennero prese nel marzo del 1994 e l'oggetto risultava chiaramente visibile nel centro della Planetary Camera. Come da programma, queste furono seguite da altre immagini prese a distanza di sei mesi, nel settembre del 1994 e nel marzo 1995. Mentre la posizione delle stelle di campo non rivelava alcuna variazione significativa, lo spostamento di G" nella sequenza temporale delle tre immagini appariva evidente, come era normale aspettarsi a causa del suo moto proprio. Tuttavia, si notava una chiara differenza tra lo spostamento misurato da marzo a settembre 1994 e quello corrispondente da settembre 1994 a marzo 1995. Questa asimmetria non poteva essere compatibile con il solo moto proprio di G" a meno che esso accelerasse e rallentasse ogni sei mesi, cosa estremamente improbabile. In particolare, il fatto che lo spostamento complessivo marzo- settembre risultasse maggiore di quello settembre-marzo era compatibile con l'esistenza di un moto che, con periodo di sei mesi, si verificasse alternativamente in due direzioni opposte. Questa è proprio la caratteristica principale del moto di parallasse. Dall'ampiezza della sinusoide si può risalire allo spostamento parallattico (pari a 7 milliarcosecondi) e, quindi, al valore della distanza che risulta di 157 parsec, cioè circa 500 anni luce, con un margine di errore del 20 per cento. La misura della parallasse di Geminga è un risultato eccezionale dal punto di vista osservativo per la grande difficoltà di una misura così precisa. Per rendere meglio l'idea, misurare un angolo di soli 7 milliarcosecondi equivarrebbe a misurare da Milano il diametro angolare di una moneta da 100 lire posta a Roma: una misura ai limiti delle possibilità anche per un telescopio come «Hubble». Dal punto di vista scientifico, per la prima volta in assoluto si è riusciti a misurare la distanza di una pulsar utilizzando esclusivamente misure non-radio. Roberto Mignani Cnr, Istituto di fisica cosmica, Milano


SCAFFALE Lachaux Bernard e Lemoine Patrick: «Placebo», Fratelli Palombi
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Si chiama «placebo» (dal latino, «piacerò») una sostanza priva di qualsiasi funzione farmaceutica ma somministrata al paziente come se fosse dotata di qualità terapeutiche. Il risultato è che spesso queste qualità (immaginarie) si riscontrano davvero. E' l'«effetto placebo», legato alle aspettative psicologiche del paziente. Per questo, le prove dei farmaci vengono fatte in «doppio cieco», cioè in modo che nè sperimentatore nè paziente sappiano qual è il vero farmaco. Uso ed etica del «placebo» sono il tema di questo utile saggio di uno psichiatra e di un medico ospedaliero. Piero Bianucci


SCAFFALE Pinna Giovanni: «La natura paleontologica dell'evoluzione», Einaudi; Coppens Yves: «La scimmia, l'Africa e l'uomo», Jaca Book
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Paleontologia e paleoantropologia, nonostante l'affermazione del paradigma evoluzionistico introdotto da Darwin e successivamente adeguato alle nuove conoscenze teoriche e sperimentali, rimangono scienze ricche di controversie. E' possibile farsene un quadro aggiornato con il bel saggio di Giovanni Pinna, direttore del Museo di Storia naturale di Milano, e di formazione paleontologo, mentre per quanto riguarda l'evoluzione umana è di grande interesse il volume di Yves Coppens sul problema della discendenza dell'uomo dai primati africani.


SCAFFALE Serravezza Antonio: «Musica e scienza nell'età del positivismo», Il Mulino; Santucci Antonio: «Eredi del positivismo», Il Mulino
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: MATEMATICA, MUSICA
LUOGHI: ITALIA

Il legame tra musica e scienza, particolarmente tra musica e matematica, è antichissimo: basti pensare a Pitagora. Ma il pensiero positivista è andato oltre, supponendo che la musica possa essere indagata con gli strumenti della fisica, della biologia, della fisiologia. Questo filone non si è ancora esaurito: tecnologie come la Pet, Positron Emission Tomography, hanno messo in evidenza quali aree cerebrali si attivino durante un'esperienza di tipo musicale; vale quindi la pena di riscoprire su questo tema quanto scrissero autori come Darwin, Spencer e Lombroso. Sempre in tema di positivismo segnaliamo un saggio di Antonio Santucci, dell'Università di Bologna.


SCAFFALE Davies Paul: «I misteri del tempo», Mondadori
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA

CHE cosa sia il tempo è un problema che ha sempre tormentato i filosofi e che oggi continua a intrigare i fisici. Molti fenomeni sono indifferenti alla direzione del tempo. Si può proiettare il moto dei pianeti a ritroso, e la legge di gravità è ugualmente rispettata. La stessa cosa vale per il comportamento della materia a livello atomico o subatomico. La freccia del tempo compare invece nei fenomeni complessi (come ben sappiamo in quanto esseri viventi) e nella cosmologia. Paul Davies, professore di fisica all'Università di Adelaide e affermato divulgatore, tratta in questo suo ultimo saggio ogni sfaccettatura del problema, da quando il tempo nasce, col Big Bang, al tempo relativistico, fino all'ipotetica «macchina del tempo» che le più ardite teorie fisiche sono giunte a concepire, benché la cosa, ovviamente, sia al di là di ogni possibilità di realizzazione pratica. Ma che una «macchina del tempo» sia concettualmente pensabile è già sufficiente per colpire la nostra fantasia.


NEUROSCIENZE Il difficile viaggio dall'idea alla parola Proposta ai politici: adottate il linguaggio scientifico
Autore: MAFFEI LAMBERTO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, PSICOLOGIA, LIBRI
NOMI: PINKER STEVEN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «The language instinct»

IL linguaggio e la comunicazione del pensiero sono temi di ricerca in campi che spaziano dalla linguistica alla psicologia, all'informatica, alla neurofisiologia. In proposito ho letto il recente saggio di Steven Pinker (un neuroscienziato del Mit) The language instinct, che ritorna sulla teoria di Chomsky e sull'origine innata del linguaggio. Pinker sostiene che l'uomo ha un istinto a parlare, impresso nel suo cervello dall'evoluzione, proprio come il ragno ha l'istinto a tessere la tela; Pinker ricorda che già Darwin si era espresso in questo senso nella sua opera The descent of man: in essa, con sorprendente modernità, si suggerisce che, sebbene il linguaggio non sia un vero istinto in quanto lo si deve imparare, esiste tuttavia una tendenza istintiva a parlare. Riguardo alla relazione tra linguaggio e pensiero, Pinker sostiene che quest'ultimo viene comunicato sì verbalmente, ma non è fatto di parole: esso è scritto in un linguaggio di macchina proprio del cervello, che chiama «mentalese». Per un neurofisiologo come me, le argomentazioni di Pinker risultano facilmente condivisibili, e, a parer mio, la distinzione tra la funzione del linguaggio e quella del pensiero è ben segnalata anche dalle difficoltà che spesso il pensiero incontra nel farsi parola o dalla confusione o distorsione che il pensiero può subire nel processo espressivo. Tutti sanno quanto sia difficile esprimere chiaramente un pensiero; io stesso mi imbatto in questo problema quando mi trovo a valutare tesi sperimentali di laurea e di dottorato (alla Scuola Normale Superiore di Pisa chiamato perfezionamento) nella mia materia, che concerne lo studio del sistema nervoso. Per convinzione personale, ora rafforzata dalla lettura del libro di Pinker, pongo particolare attenzione al linguaggio, pretendendo chiarezza ed essenzialità di esposizione. Sono solito ripetere, fino alla noia, una serie di suggerimenti. Una prima raccomandazione è questa: un'esposizione scientifica deve seguire una logica rigorosa. Come modello indico la logica delle dimostrazioni della geometria euclidea: qui si assume una certa quantità di informazione espressa ad esempio nei postulati, si passa poi ad enunciare la tesi, cioè quello che si vuole dimostrare; segue la dimostrazione che si conclude con il famoso Quod erat demonstrandum. Nel lavoro biologico sperimentale i postulati corrispondono alle conoscenze che si hanno in partenza e la tesi all'ipotesi di lavoro. La dimostrazione, dico ai miei studenti, equivale ai vostri dati sperimentali, o meglio, ai risultati che avete ottenuto dalla loro analisi quantitativa. Infine suggerisco di concludere con quello che possono dire a favore o contro l'ipotesi di lavoro assunta inizialmente. Consiglio anche che l'iter espositivo corrisponda al lavorio del pensiero seguito dallo studioso nella sua ricerca. Questo procedimento è ben esemplificato nel diagramma a blocchi che viene usato per scrivere un programma, in cui ogni comando al calcolatore è collegato al precedente a formare una catena di istruzioni logiche. Raccomando inoltre un uso prudente dell'aggettivo che, se usato in modo improprio, può diventare valutazione soggettiva e arbitraria dei risultati e delle argomentazioni. Credo sia dovere del docente insegnare ad esprimersi con rigore: ciò è importante per formare dei buoni studenti e ricercatori, ma anche, a mio avviso, per formare dei buoni cittadini. In proposito vale la pena ricordare che esistono vari tipi di linguaggio, usati in contesti diversi, e che per questo assumono, come direbbe Wittgenstein, valore comunicazionale diverso. Abbiamo ad esempio i linguaggi della poesia, della favola, o quelli usati nelle relazioni affettive, in cui i messaggi hanno un forte contenuto emozionale, e altri il cui scopo è quello di portare più informazione che emozione o addirittura solo informazione, come il linguaggio scientifico, intendendo quest'ultimo in un senso ampio che include, quello economico, burocratico, politico... Mi soffermerò un istante sul linguaggio politico: di fatto se ascoltiamo i discorsi degli onorevoli, dei senatori e dei politici in genere, durante il loro lavoro parlamentare, o nel corso di dibattiti o tribune televisive, ci sentiamo aggrediti, non di rado annoiati, da un profluvio di parole, in cui dominano gli aggettivi, e spesso, molto spesso, mancano quel rigore e quella impostazione logica a cui sopra accennavo. L'esposizione delle tesi da dimostrare è per lo più tutt'altro che chiara e la presentazione dei dati e delle argomentazioni a favore o contro tali tesi, inconcludente e priva di consequenzialità logica. Un linguaggio forse da classificare tra quelli più emotivi che informativi senza però mostrare dei primi il respiro estetico. Al riguardo Pinker esprime un giudizio molto severo: «Questo tipo di linguaggio è condannabile non perché sia una forma di controllo della mente, ma perché è un insieme di menzogne». Nella trasmissione di un messaggio, come diceva Shannon, fondatore della teoria delle comunicazioni, bisogna considerare, oltre alla sorgente e al ricevitore del messaggio, anche il rumore della linea. Ora un rappresentante del popolo eletto dai cittadini ha il dovere di non inserire, o quanto meno ridurre al minimo, il rumore che di fatto confonde o rende difficile la ricezione del messaggio stesso. La democrazia si basa sulla capacità di convinzione razionale di certi argomenti e sul consenso: non ci può essere democrazia se il linguaggio tra i membri che ne fanno parte è ingannevole, privo di vera informazione, o semplicemente passibile di interpretazioni diverse. Il cittadino ha diritto che quanto lo interessa gli venga detto in modo semplice e cristallino, affinché egli sia messo in grado di valutare i pro e i contro, e quindi di decidere. In un'esposizione i concetti essenziali da comunicare sono di solito pochi, non occorre decorarli di frasi inutili o nasconderli tra noiosi e fuorvianti dettagli. La concisione e la sintesi, del linguaggio scientifico, nonché la sua abitudine alla selezione mirata delle parole, sono necessarie anche per evitare la noia dell'interlocutore che non è certo funzionale ad una comunicazione efficace, giacché, come dice Voltaire «le secret d'ennuyer est celui de tout dire». Il linguaggio della scienza, cui le doti di rigore e di sintesi conferiscono indubbiamente anche valenze estetiche, dovrebbe essere preso a modello, laddove sono in gioco problemi di pubblico interesse, la cui comprensione è fondamentale per un dibattito veramente democratico. In un tempo dominato dalla scienza e dalle tecniche di comunicazione, un linguaggio fumoso e ridondante appare anacronistico e frutto della povertà culturale del periodo in cui viviamo. Lamberto Maffei Scuola Normale Superiore, Pisa


L'arte è figlia della depressione In bilico fra intelligenza e follia
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: LUDVIG A. M., POE EDGAR ALLAN, SCHUMANN ROBERT, HEMINGWAY ERNEST, POUND EZRA, TWAIN MARK, WOOLF VIRGINIA, VAN GOGH VINCENT
LUOGHI: ITALIA

ESISTE una relazione tra genio artistico e malattia mentale? Possono la depressione o lo stato maniacale influenzare la produzione di un artista? O la psicosi maniaco- depressiva contribuire al successo? Da vent'anni psichiatri e psicologi cercano di rispondere a queste domande esaminando centinaia di casi di artisti famosi, documentati dalle loro cartelle cliniche. Riesaminando i principali studi pubblicati sulle riviste di psichiatria, si può giungere alla conclusione che un reale rapporto tra genio artistico e malattia mentale sia un'ipotesi sostenibile. Ciò sembra esser vero in particolare per le forme maniaco-depressive, usando però criteri epidemiologici non si può affermare che un disturbo grave di tipo affettivo porti necessariamente al genio artistico. Sappiamo che circa l'uno per cento della popolazione soffre di quella forma particolare di psicosi maniaco-depressiva detta bipolare per l'alternarsi di alti e bassi. Essa si contrappone alla forma chiamata unipolare ad andamento esclusivamente depressivo, che corrisponde al 5 per cento della popolazione. Il 60-70 per cento degli individui che commettono suicidio sono affetti da una di queste due forme. Durante la fase maniacale l'individuo si sente su di giri, dorme di meno, ma è più attivo, molto produttivo anche se talvolta più irritabile o addirittura paranoide. Munito di una incrollabile fede di esser nel giusto, può intraprendere qualsiasi avventura e correre qualsiasi rischio. Grandiosità, impulsività e scarso giudizio sono le tre caratteristiche principali di questo stato d'animo, che si è tentato appunto di associare a una maggiore creatività artistica. Uno degli studi più importanti è quello dell'americano A. M. Ludvig, che esamina la vita di ben 1005 artisti del XX secolo, molti dei quali sono dovuti ricorrere a terapie psichiatriche. I dati rivelano una incidenza maggiore di malattie mentali (psicosi in genere e forme depressive o maniaco-depressive) tra scrittori, musicisti e pittori rispetto alla popolazione generale. La differenza è di 2 o 3 volte. Maggiore è anche la percentuale di suicidi e tentativi di suicidio, alcolismo e uso di droga. I poeti sembrano maggiormente affetti da forme maniaco-depressive e psicosi in genere, con una frequenza di suicidi 18 volte maggiore. Un secondo recente studio è quello di Jamison su 47 artisti (scrittori e pittori) inglesi, che riporta una frequenza di quasi il 40 per cento di trattamenti psichiatrici di vario tipo. Tra questi troviamo molti nomi famosi, come, ad esempio, Lord Byron, Tennyson ed Edgar Allan Poe, che di se stesso dice: «La gente sostiene che sono pazzo, in effetti non si sa se la pazzia non sia invece una suprema forma di intelligenza». Tra i pittori e i compositori ricordiamo Van Gogh, Gauguin, Robert Schumann, Ravel e Mahler. Tra gli scrittori si possono citare come casi psichiatrici Ernest Hemingway, Tennessee Williams, Ezra Pound, Mark Twain e Virginia Woolf. Il caso di Van Gogh è certo tra i più studiati, con l'attribuzione postuma di diagnosi quali schizofrenia, intossicazione da assenzio, porfiria intermittente, psicosi maniaco-depressiva e morbo di Meniere. Poiché la forma maniaco-depressiva è caratterizzata da cicli di umore basso e alto, come si riflette il tono mentale sulla produzione artistica? Il caso più esemplare è certamente quello di Schumann e della sua produzione musicale. A un periodo discreto, con un anno (1832) che lo vedeva produrre quattro lavori musicali, segue un tentato suicidio a una fase di bassa creatività. Dopo vari periodi di alti e bassi, troviano un picco di alta produzione (1840, 26 lavori) durante una fase ipomaniacale durata circa un anno. Altri bassi e alti e poi un nuovo periodo maniacale (1849) che coincide con il massimo livello di produzione dell'artista (28 opere in un solo anno). Infine, nel 1854, si arriva a un crollo con un secondo tentativo di suicidio seguito da ricovero in ospedale psichiatrico; un periodo artisticamente sterile, che finisce con la morte del musicista. Mettendo su un grafico i vari periodi, si manifesta una corrispondenza quasi perfetta tra lo stato mentale e la produzione. Rimane da considerare il problema dell'ereditarietà del genio e della malattia mentale. Il figlio di Schumann fu lui stesso ricoverato per un periodo di trent'anni per disturbi analoghi a quelli del padre. La psichiatria moderna tende a suggerire che psicosi maniaco- depressiva e genio artistico abbiano una tendenza a ricorrere in certe famiglie. Vari studi compiuti sui gemelli tenderebbero a confermarlo, tuttavia un gene collegato a tale malattia non è stato ancora scoperto. Un buon esempio di ereditarietà è quello della famiglia di Lord Tennyson, probabilmente affetto da malattia mentale: il padre, il nonno, due bisnonni e ben cinque dei sette fratelli soffrivano di grave melancolia, depressioni e fasi incontrollabili di iperattività. Una relazione tra forma maniaco-depressiva e produttività non dovrebbe stupirci. Caratteristiche comuni sono la possibilità di creare molte opere originali, poche ore di sonno, la capacità di mantenere la concentrazione fissa su un determinato progetto senza alterarne il livello e soprattutto l'abilità di sentire profondamente una varietà straordinaria di emozioni e stati d'animo, gli ingredienti più utili all'artista per finalizzare l'opera. Il tono maniaco-depressivo non sarebbe in fondo altro che un'esaltazione della sensibilità e della reattività comune prodotta da un sistema nervoso operante al massimo livello e in grado perciò di registrare cambiamenti minimi e rispondere al mondo esterno con uno spettro di reazioni emotive e intellettuali di alta tonalità e colore. Qual è il compito dello psichiatra di fronte al genio artistico? Ovviamente duplice: alleviare la sofferenza specie nella fase depressiva senza estinguere la creatività nella fase maniacale. Ezio Giacobini


COME LIMITARE GLI INCIDENTI Le petroliere salvamare Dal 2010 in Usa obbligatorio il doppio scafo
Autore: PAVAN DAVIDE

ARGOMENTI: TRASPORTI, ECOLOGIA, INQUINAMENTO, MARE, LEGGI, SICUREZZA, AMBIENTE
LUOGHI: ITALIA

PIU' della metà del petrolio prodotto nel mondo viaggia per mare: le navi cisterna sono il mezzo più economico, più flessibile e strategicamente migliore. Oggi operano circa 3000 navi per 270 milioni di tonnellate lorde di portata, di diverse dimensioni e caratteristiche: da veri gioielli della tecnica a unità malconce (le «carrette del mare»). A questa flotta appartengono le 250-300 petroliere che giornalmente circolano per il Mediterraneo, trasportando ogni anno 350 milioni di tonnellate di greggio, il 70 per cento del traffico europeo complessivo di petrolio. Affollato e sporco, il Mediterraneo: in questo bacino finiscono ogni anno 635-650 mila tonnellate di petrolio, un quinto dell'inquinamento da greggio che si verifica in tutti i mari del mondo. Da indagini condotte di recente da enti internazionali come l'Imo (International Maritime Organization, agenzia dell'Onu) e l'Itopf (International Tanker Owners Pollution Federation) è emerso che gli incidenti causano il 12 per cento dell'inquinamento marino, mentre il 37 per cento è dovuto agli scarichi urbani e industriali, il 7 per cento alle sorgenti naturali, il 2 alle attività esplorative e di produzione, il 9 a cause atmosferiche e il 33 alle navi mercantili, come il famigerato lavaggio delle cisterne al largo dei porti, operazione proibita dalla legge, ma purtroppo ancora in voga. Per affrontare i problemi della sicurezza e dell'inquinamento ambientale si sono succedute nel tempo tre conferenze internazionali (nel 1954, 1973, 1978) da cui sono state emanate le normative conosciute come Oilpol 54, Marpol 73 e Protocollo 78 alla Marpol, le ultime due poi fuse nell'unica convenzione Marpol 73/78. Dalla normativa Marpol, che prevedeva l'applicazione di nuove soluzioni costruttive, come la segregazione dell'acqua di zavorra in apposite cisterne, e introduceva il concetto di «aree speciali» con norme più rigorose (Mediterraneo, Mar Nero, Mar Baltico, Mar Rosso, Golfo Arabico, Golfo di Aden e Antartide), è derivata una riduzione dell'inquinamento marino dovuto alle navi cisterna del 60% negli ultimi dieci anni. Ma è solo nell'agosto 1990, sull'onda emotiva dell'incidente della Exxon Valdez in Alaska, che, con l'approvazione da parte del governo degli Stati Uniti dell'Oil Pollution Act, viene per la prima volta introdotto un sistema legislativo severo basato sul principio «chi inquina paga»: obbligo di risarcimento dei danni causati da un disastro ambientale, responsabilità di recupero delle risorse naturali, eliminazione dei massimali e responsabilità economica illimitata per tutti gli incidenti entro le 200 miglia dalla costa Usa. Dal punto di vista tecnico, questa legge impone la sostituzione progressiva delle petroliere tradizionali, con l'obbligo del doppio scafo a partire dal 1o gennaio 2010 per tutte le navi che entrano nelle acque territoriali Usa. Con il termine petroliere a doppio scafo si fa riferimento a navi dotate di un'intercapedine di circa 2 metri (che riveste l'intera nave ed in cui è contenuta l'acqua di zavorra), volta a evitare la fuoriuscita in mare del carico in caso di collisione o di una falla. Nonostante i costi (il 20 per cento in più) lo standard costruttivo, adottato di recente anche dall'Imo, è già stato recepito in tutto il mondo dai cantieri di costruzione navale: in Italia sono oggi in costruzione 14 petroliere a doppio scafo. Un'altra soluzione tecnica per le navi di nuova costruzione è il sistema «rescue tank», caratterizzato da paratie che sembrano serbatoi della nave e sono in grado di trasferire, in caso di incidente, il petrolio dai serbatoi danneggiati a quelli intatti. Per le navi già esistenti, la nuova regolamentazione si applica a quelle superiori alle 20 mila tonnellate e prevede che le navi costruite prima del 1982 siano dotate del doppio scafo entro il venticinquesimo anno di età, mentre per le navi costruite dopo questa data l'adeguamento è richiesto entro i trent'anni. La nuova normativa inciderà nel profondo sulla situazione attuale e contribuirà a una sensibile riduzione dell'impatto ambientale del trasporto petrolifero via mare. Bisogna però ricordare che gran parte dei disastri ecologici provocati dalle petroliere è causata da imperizia dell'equipaggio; anche il disastro della Exxon Valdez fu imputato a un errore del personale di bordo, molto ben addestrato, ma stanco per l'eccessivo numero di ore lavorate. E' per questo che l'Imo sta definendo un codice con i criteri e le norme che dovranno essere seguiti dalle società di navigazione per ottenere il rilascio di un certificato (Safety Management System) che attesti una corretta politica di reclutamento e addestramento del personale. In Italia già da tempo gli equipaggi di vari armatori, dopo aver seguito corsi (simulazioni di manovra, radar, antincendio, salvataggio da mare), sono sottoposti ad un esame da parte di un'apposita Commissione, presieduta da un rappresentate del ministero della Marina Mercantile, per ottenere un «patentino» d'imbarco con validità internazionale. Davide Pavan


SCAFFALE Autori vari: «Capire l'ambiente», Ed. Il Sole/24 ore
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

La legislazione in tema di ambiente è ormai ampia e complicata: valutazione dell'impatto ambientale, limiti posti alla qualità dell'aria, dell'acqua e del suolo, trattamento di sostanze pericolose e destinazione dei rifiuti sono soltanto alcuni degli ambiti regolamentati. Questa guida tecnico-normativa curata da Cristina Rapisarda Sassoon è un prezioso strumento per chi si trovi a fare scelte in tema di ecologia.


L'EGITTO SCONOSCIUTO Siwa, nel Deserto Bianco Oasi e necropoli del Gran Mare di Sabbia
Autore: SCAGLIOLA RENATO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, ARCHEOLOGIA
NOMI: AHMED FAKHRY, AHMED EL MESTEKAWI
LUOGHI: ESTERO, AFRICA, EGITTO

L'EGITTO non è solo le piramidi, Luxor e la valle del Nilo. C'è anche il Deserto Occidentale, noto nei secoli come Deserto Libico, ribattezzato Great Sand Sea (Gran Mare di Sabbia) o Western Desert, dopo la seconda guerra mondiale, aperto agli stranieri solo nel 1989, dopo la piccola guerra tra Libia ed Egitto. Ancora oggi è una delle aree - grande quasi il doppio dell'Italia - meno esplorate della Terra. E c'è l'oasi di Siwa, nota per il tempio di Ammone, costruito durante la XXVI dinastia, uno dei più celebri oracoli dell'antichità, insieme a quello di Delfo. L'oasi è a circa 200 chilometri a Sud di Marsa Matruh, sulla costa mediterranea, 400 chilometri a Ovest dal Cairo, 130 dalla storica Giarabub, in Libia. Il confine è a una cinquantina di chilometri, e corre rettilineo per 1200 chilometri dal mare fino in Sudan, coincidendo con il 25o meridiano a Est di Greenwich. Gli abitanti (diecimila, divisi in nove tribù) sono di ceppo berbero, come la lingua, e si sentono più libici che egiziani. Siwa è un immenso palmeto, con orti, olivi e zanzare, affascinante e remoto, pieno di reperti archeologici, che Edda Bresciani, egittologa dell'Università di Pisa (lunghe ricerche e scoperte a El Fayum e Saqqara), si augura venga conservato nella sua integrità storica e ambientale. L'energia elettrica e la strada asfaltata sono arrivate solo dodici anni fa. L'antico abitato di pietre e fango, mezzo diroccato - il villaggio fortezza di Shali - domina da una bassa collina la piazza del mercato, frequentata da mezzi a motore ma più da carretti trainati da somarelli. A quattro chilometri dal «centro», sul colle di Aghurmi, tra rovine povere, ma epiche e spettacolose, sorgono i resti del tempio e dell'oracolo di Ammone che ebbe pellegrini illustri, oltre ad Alessandro Magno, come i greci Pindaro, Lisandro, Strabone. Nel palmeto appare poi la straordinaria Sorgente del Sole, o di Cleopatra (la leggenda vuole che la regina si sia bagnata nelle sue limpide acque), una grande vasca circolare, quasi una piscina, alimentata da una sorgente naturale. Oggi serve anche come bagno pubblico. Poco lontano il Gebel el Mawta, «La Montagna dei Morti», con decine di sepolcri scavati nella collina, alcuni decorati. Luogo epico e polveroso, sacrale. Gli scavi più importanti sono stati fatti tra il 1940 e il '45 ad opera dell'archeologo egiziano Ahmed Fakhry i cui testi, pubblicati dall'American University del Cairo, sono ancora oggi fondamentali. A trenta chilometri dall'oasi altre necropoli rupestri, copto- egizie, isolate e solitarie, i loculi in pareti di tufo, alcuni con resti umani. Ovviamente saccheggiate da secoli di arredi e suppellettili. A El Arag le tombe, a decine, occhieggiano dalle pareti di gesso ai lati di una sella ventosa, in una zona di bizzarri monumenti naturali, frutto dell'erosione eolica, in cui ognuno può riconoscere forme antropomorfe, animali, edifici, statue. Intorno ci sono, ma non si vedono, gazzelle, lupi, sciacalli, corvi. Alcuni tratti desertici sembrano un mare di onde terrose e frangenti bianchi di sale e gessi. Unico centro tra Siwa e il Cairo, l'oasi di Baharia, seimila abitanti (produce datteri, cipolle, olive). Tra i vicoli mucchi di blocchi candidi di gesso, usati come materiale da costruzione. All'entrata e all'uscita di ogni oasi, check point dell'esercito, con soldatini in ciabatte e kalashnikov. Dieci chilometri oltre Siwa, la strada con tracce d'asfalto cessa e diventa pista. Poi anche questa sparisce e si procede sulle dune, catene allineate e parallele che arrivano fino oltre il confine con il Sudan, 800 chilometri più a Sud. Un territorio vuoto, privo di pozzi; scomparsi gli ultimi rari beduini, e dove cinque secoli prima di Cristo si perse il favoloso esercito di Cambise: 50 mila uomini spariti nel nulla con armi, salmerie e carriaggi, probabilmente sepolti da una titanica tempesta di sabbia scatenata dal Khamsin (che in arabo vuol dire 50), il vento del Sud che si dice duri appunto 50 giorni, con differente intensità, tra marzo e aprile. Ma c'è anche un altro mistero tra le sabbie gialle e ocra: la mitica oasi di Zerzura, che dovrebbe trovarsi da qualche parte a Ovest dell'oasi di Dakhla. Citata già nel Medioevo, l'hanno cercata in tanti ma non l'ha trovata nessuno; a Londra al principio del secolo sorse perfino uno Zerzura Club. La maggior parte del basamento roccioso del Deserto Occidentale è costituito di Arenaria Nubiana, che risale al Cretaceo, quando la regione era coperta dal mare. Ritiratesi le acque rimasero alcuni grandi laghi salati, vaste depressioni (in cui sorgono le oasi), e resti fossili tra la sabbia o nei conglomerati rocciosi: coralli, echinodermi, cefalopodi, nummoliti, foraminiferi. Non solo, ma quasi ovunque il paleosuolo è pieno di frammenti di selci sonore, pietre metamorfiche lucenti, scaglie calcaree. Le piogge sono scarsissime (ogni tre, cinque anni), ma le falde sotterranee (fossili, quindi non rinnovabili), sono abbondanti, anche se profonde. Alcuni pozzi, recenti, scendono a 1700 metri di profondità. Nell'angolo sud-occidentale al confine con la Libia e Sudan, oltre a insediamenti neolitici, fu scoperta negli Anni Venti la Silica Glass, una misterosa pietra verde, trasparente, simile al vetro, costituita al 98 per cento da biossido di silicio. Poiché si trova solo in una piccola area di questa lontana parte del mondo, si è ipotizzato che l'origine sia da attribuire alla fusione della sabbia in seguito all'impatto con un meteorite. Nella regione si trovano anche frammenti di folgorite, altro raro minerale vetroso, in forma di tubicini, che si forma quando il fulmine colpisce e fonde la sabbia. Incredibile il Deserto Bianco, che circonda la depressione dell'oasi di Farafra: centinaia di tavolati e pinnacoli bianchi di gesso, modellati dal vento in mille forme, che spiccano sulla sabbia gialla come enormi meringhe. E intorno milioni di «oggetti» neri, piccoli minerali di ferro, dalle fogge più improbabili, che sembrano sculturine, coproliti, schegge di granata, residui estrusi di fonderia. A Nord di Farafra, fra pietraie piatte scottate dal sole, si perde all'orizzonte una ridda di montagnole perfettamente coniche, quasi vulcanelli spenti, alti al massimo cento metri. La miglior guida egiziana al Gran Mare di Sabbia è oggi Ahmed El Mestekawi, ex colonnello dell'esercito, base al Cairo, che da vent'anni batte il deserto: prima in divisa - in guerra o a caccia di contrabbandieri - ora al volante di Toyota civili, accompagnando viaggiatori europei, tra cui gli italiani africanisti che viaggiano con la Kel 12 Dune di Mestre. Uomo carismatico, grande organizzatore ed esperto di fuoristrada, poeta delle sabbie, conosce l'intera zona, la storia, la geologia, le piante, le bestie e buona parte degli abitanti delle oasi. Sa orientarsi con i «segni» del deserto (la prua delle dune sempre diretta a Nord-Ovest secondo i venti dominanti, il Sole, le stelle, i cespugli di bel-bel che segnalano la vicinanza dell'acqua), anche se fa il punto satellitare con il Gps. Renato Scagliola




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