TUTTOSCIENZE 13 settembre 95


ARTRITE&CISTITE Dolore da infiammazione: rispunta l'Ngf Più chiaro il sistema che regola la percezione della sofferenza fisica
Autore: CERVINO ANNA RITA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA

FRA i sintomi più fastidiosi che di norma accompagnano le infiammazioni, il dolore è certo il più indesiderato e spesso altera la vita di relazione di molte persone. Ma uno studio condotto da McMahon e colleghi, pubblicato sul numero di agosto di Nature medicine, fa nascere buone aspettative nel campo della prevenzione e della terapia del dolore associato ad alcune malattie infiammatorie acute e croniche. Protagonista dello studio è la proteina sintetica chiamata trkA-IgG, che in esperimenti sui ratti si è dimostrata in grado di «catturare» il fattore di crescita nervoso (Ngf), una proteina coinvolta anche nella comparsa del dolore dovuto a infiammazioni come artriti, infezioni dentali e cistiti. Inoltre, osservando gli effetti della proteina sintetica come potenziale farmaco contro il dolore, gli studiosi sono riusciti a soddisfare due interrogativi: l'Ngf è coinvolto nel sistema che regola la percezione del dolore? L'Ngf è un mediatore di alcuni stati di dolore persistente, come avviene nelle infiammazioni? I risultati della ricerca suggeriscono che la produzione di Ngf normalmente modula la sensibilità dei recettori dello stimolo doloroso, chiamati nocicettori, e che in alcuni stati infiammatori un eccesso di Ngf è responsabile di una eccessiva risposta allo stimolo doloroso, chiamata iperalgesia. L'uso della proteina sintetica come farmaco si è rivelato efficace nel bloccare il dolore in alcune malattie infiammatorie riprodotte nei ratti e ha messo in evidenza che l'Ngf è un mediatore importante nel favorire la persistenza del dolore. Tale coinvolgimento era noto, ma è provabile che l'eccesso di Ngf agisca a monte della produzione di altri noti mediatori, come le prostaglandine, l'istamina e la serotonina. Processi infiammatori acuti e cronici sono molto diffusi nella popolazione. Negli Stati Uniti ci sono circa 38 milioni di persone che soffrono di artrite e circa 500 mila soffrono di cistite interstiziale, una malattia caratterizzata da forti dolori alla vescica in assenza di infezioni o altre cause responsabili. Attualmente i risultati terapeutici di queste malattie offrono dei benefici limitati, come conferma un recente studio sull'artrite reumatoide che ha rilevato che l'80 per cento dei pazienti avverte fortissimi dolori e molti di essi sono già in trattamento con farmaci antidolorifici. In Italia, da una ricerca realizzata dalla Federconsumatori, è risultato che il diclofenac e l'aspirina - antifiammatori e analgesici di provata efficacia - nel 1992 erano rispettivamente il secondo e terzo farmaco più venduti (13 milioni di confezioni per il diclofenac e 11 milioni di confezioni per l'aspirina). Se l'Ngf è un importante mediatore dell'infiammazione, questo nuovo approccio terapeutico potrebbe apportare nuove strategie per il trattamento dei molti stati infiammatori. Negli ultimi cento anni, con le continue acquisizioni scientifiche, abbiamo iniziato a familiarizzarci con il fatto che, ad esempio, gli ormoni hanno molteplici azioni su molti tipi di cellule, che l'adrenalina non è implicata solo nella pressione arteriosa, e così via. E questo vale anche per le nuove conoscenze sulle funzioni della proteina «Nobel», l'Ngf, studiata da Rita Levi Montalcini a partire dagli Anni 50 e ben conosciuta per il suo coinvolgimento nello sviluppo e nella sopravvivenza delle fibre nervose sensitive di piccolo calibro. Anna Rita Cervino Consorzio Mario Negri Sud


CAMPAGNA OMS PER IL 2000 Bevo troppo, aiutatemi a smettere Altissima la media europea: otto litri di alcol puro all'anno
Autore: ROTA ORNELLA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, DEMOGRAFIA E STATISTICA, ALIMENTAZIONE
ORGANIZZAZIONI: OMS
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: G. Consumi di alcol pro capite nel 1990

RIDURRE il consumo di alcol in Europa del 25 per cento entro il 2000: è quanto si prefigge l'Oms, con un'azione che inizierà il dicembre prossimo, coordinata a livello intergovernativo e appoggiata da associazioni professionali come quelle dei medici, dei farmacisti, degli infermieri. In prospettiva, c'è anche l'elaborazione di un codice comune di autoregolamentazione per il mercato degli alcolici. Di essi, il nostro continente registra il consumo più alto del mondo: nel 1990, oltre 8 litri di alcol puro a testa, in 15 Stati su 26. I complessivi danni sulla salute, sull'occupazione, sull'ordine pubblico sono, in alcuni Paesi, pari al 2-3 per cento del prodotto nazionale lordo. E specialmente al Centro e all'Est europeo la tendenza è a bere di più. In Ucraina ad esempio, fra il 1986 e il 1990 l'aumento è stato del 24 per cento; parallelamente, la mortalità per cause correlate è salita del 30 per cento. Il programma coinvolgerà i settori sanitario, legislativo, economico e culturale. Di fianco all'ipertensione, alle malattie cerebrovascolari, alla cirrosi epatica e ai guasti psicologici, la media europea dei decessi dovuti all'alcol è dell'8-10% fra i 16 e i 74 anni, quella dei ricoveri in ospedale per crisi acute va dal 6 al 20 per cento. L'azione di generale rafforzamento delle strutture sanitarie di base mirerà a formare personale specializzato nella cura e nella prevenzione, a incentivare un continuo scambio di dati fra centri europei (con un sicuro punto di riferimento nell'Anonima Alcolisti, per gli eccellenti risultati ovunque ottenuti), a porre le basi per la realizzazione di una specifica rete di nuovi servizi anti-alcol che per larga parte potrebbero essere finanziati con i proventi delle tasse sugli alcolici. I benefici di queste sostanze sul cuore e la circolazione riguardano solamente la mezz'età; in gioventù, le stesse dosi risultano non soltanto nocive ma, nelle donne, possono aumentare le possibilità di cancro al seno. Eppure i messaggi sui danni dell'alcol hanno un impatto minore rispetto a quelli sui benefici. La pubblicità e in genere i mass-media influiscono, secondo l'Oms, in modo determinante sull'atteggiamento della società verso gli alcolici. Ad esempio, il generale apprezzamento di un uso modico, tale da favorire l'atmosfera di festa, può da un lato accentuare la pressione negativa sui forti bevitori - sovente responsabili di violenze, rotture familiari, incidenti stradali e, sul lavoro, rapporti sessuali a rischio - e, dall'altro, sollecitare maggiori controlli legislativi sulla qualità, i prezzi, la distribuzione di queste bevande, nonché sull'età minima per consumarle nei locali pubblici. Indispensabile, specie in vista di un codice di autoregolamentazione del mercato, la partecipazione al programma Oms di aziende produttrici di alcolici e dell'industria alberghiera. Base per negoziare il loro accordo, l'interesse che anche queste ditte hanno al diffondersi massimo dell'abitudine di bere poco, e al progressivo contrarsi delle conseguenze sociali e sanitarie dovute all'abuso di alcolici da parte di una minoranza. Ornella Rota


LA MEMORIA Rivedere il mondo a occhi chiusi
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: WEIZMANN INSTITUTE
LUOGHI: ITALIA

IMMAGINIAMO di ricreare a occhi chiusi l'immagine di casa nostra e di contarne le finestre e le porte. E' ovvio che invece di usare gli occhi per vedere, utilizziamo gli «occhi» della nostra mente, che ci permettono di ricreare a memoria ciò che abbiamo visto molte volte. Un simile esperimento può esser fatto senza rinnovare un vecchio ricordo ma semplicemente guardando un oggetto e poi chiudendo gli occhi e cercando di immaginarlo come l'abbiamo visto un attimo prima. In entrambi i casi l'immagine che vediamo dentro di noi è frutto della nostra mente ed è prodotta senza stimoli nè informazioni di tipo visivo. Dobbiamo però chiederci però se si tratti soltanto di un'illusione di ciò che abbiamo visto o non piuttosto di una ricreazione di vere immagini già presenti nella nostra mente perché fotografate dal cervello in precedenza. In questo secondo caso dovremmo supporre che quella parte del cervello nella quale abbiamo accumulato «le fotografie» venga ristimolata per riprodurre un'immagine più o meno fedele. Questi problemi hanno occupato scienziati e filosofi per secoli. Pare ora di essere vicini a una spiegazione che, come sempre, porta a nuove domande. Utilizzando un nuovo metodo di indagine chiamato risonanza magnetica funzionale (Mri), che permette di scattare in pochi minuti migliaia di immagini del cervello in attività con una risoluzione spaziale molto più alta di quella della vecchia Pet (tomografia a emissione di positroni), è possibile osservare con grande accuratezza quali siano le parti del cervello attivate da un processo in atto (contare, vedere, immaginare). Si sa da tempo che il sistema visivo dei primati è molto complesso. La sola regione occipitale (posteriore) del cervello conta oltre trenta aree funzionali fondamentalmente diverse e organizzate secondo un ordine gerarchico. Lo stimolo visivo che proviene dalla retina, ad esempio l'immagine di una mela rossa, viene analizzato nelle varie componenti dalla corteccia delle aree visive primarie (striate e pre-striate). Gli elementi fondamentali dell'immagine della mela che si sono formati sulla retina vengono scorporati in dimensioni, forma, orientamento, colore, profondità. Le informazioni già analizzate dalla corteccia occipitale vengono integrate a loro volta in un'altra sede corticale, quella dei lobi parietali e temporali. Il risultato è quello di un'unica configurazione, ad uso interno, di una «pseudomela». Questa rappresentazione è l'immagine dell'oggetto vista non dagli occhi ma dal cervello, con tutte le sue proprietà nello spazio. Le varie aree visive del cervello comunicano tra di loro utilizzando diverse vie. Le percezioni visive normali viaggiano principalmente in senso antero-posteriore con immagine capovolta. Quelle dell'immaginazione percorrono un tragitto inverso e sono diritte. Questi nuovi dati ci giungono da un laboratorio israeliano del Weizmann Institute (e sono stati pubblicati recentemente in Science), che ha fatto uso della Mri, facilitando l'osservazione con appositi accorgimenti. Nella ricostruzione mentale di un oggetto (la nostra casa, con le sue finestre e le sue porte), i segnali tra le varie regioni del cervello procedono dalla zona di alta integrazione dell'immagine verso le aree organizzate in senso topografico (dette retinopiche, in quanto corrispondono punto per punto alle localizzazioni della retina). I risultati degli israeliani Ishai e Sagi suggeriscono l'esistenza di un nuovo tipo di memoria visiva di natura «iconica» cioè figurativa, che viene mantenuta per almeno cinque minuti. Questa memoria delle figure può essere riattivata a volontà usando la nostra immaginazione, anche qui per un periodo di diversi minuti. Non si conosce ancora il sub-strato anatomico di tale memoria, la sua capacità (quanto si può ritenere) e il suo rapporto con la memoria a breve termine. Le scoperte di nuovi territori della nostra memoria aprono affascinanti possibilità. La memoria iconica legata alle nostre immaginazioni rappresenta una fase intermedia posta tra le immagini delle cose formatesi nella nostra mente e la percezione visiva di esse. Ezio Giacobini


STERILITA' La matematica e gli spermatozoi
Autore: LEONCINI ANTONELLA

ARGOMENTI: MATEMATICA, GENETICA
NOMI: BACCETTI BACCIO
ORGANIZZAZIONI: FACOLTA' DI SCIENZE BIOLOGICHE DELL'UNIVERSITA' DI SIENA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Spermatozoi umani all'attacco della cellula-uovo

LO spermatozoo umano è soggetto a frequenti malformazioni: con una formula matematica, ponderando morfologia e caratteristiche di un soggetto, ora è possibile determinare la percentuale di spermatozoi sani e malati. Alla facoltà di Scienze biologiche dell'Università di Siena i ricercatori del Centro per lo studio delle cellule germinali, diretto da Baccio Baccetti, da anni studiano questa cellula, con risultati che hanno permesso di perfezionare le nostre conoscenze, correlando le differenti alterazioni a patologie anatomiche, genetiche, a infezioni o a situazioni flogistiche. Un indispensabile strumento di analisi del liquido seminale è il microscopio elettronico: la possibilità di ottenere ingrandimenti della cellula fino a centomila volte consente rilevanti vantaggi e maggiore sicurezza nella diagnosi e nella terapia. Alcune scoperte hanno permesso di confermare ipotesi non ancora verificate. Così, ad esempio, condizioni con caratteri di forte immaturità venivano attribuite a situazioni di varicocele, cioè alla dilatazione varicosa delle vene del plesso pampiniforme del funicolo spermatico, nonostante l'incertezza per la mancanza di una conferma scientifica. «Si tratta di una patologia - spiega il professor Baccetti - che tende a essere sottovalutata, nonostante la sua grande incidenza fra le cause di limitata fertilità dell'uomo». Il microscopio elettronico non consente, tuttavia, una precisa valutazione numerica dei differenti tipi di spermatozoi; così nel Centro senese i ricercatori sono stati stimolati a individuare alternative di valutazione. Con i procedimenti del calcolo combinatorio si è elaborata una formula matematica per la determinazione della percentuale, all'interno di un eiaculato, di spermatozoi colpiti da sei difetti indipendenti. Il passo successivo, con alcune elaborazioni primarie rese possibili dalle più recenti tecniche di laboratorio, è stato l'adattamento della formula per poter accertare il numero di spermatozoi sani presenti all'interno di un eiaculato di un paziente, considerando tutti i suoi possibili difetti morfologici e funzionali. E' un'importante novità: la formula è attualmente l'unico mezzo che, valutando struttura e caratteristiche morfologiche, consente di accertare la presenza e la frequenza di spermatozoi con difetti. Le sue applicazioni sono di primaria importanza per la patologia, la cura della sterilità maschile e, nei casi di infertilità di coppia, per le previsioni e le valutazioni necessarie per procedere a un'eventuale fecondazione assistita. I risultati non hanno mancato di sollevare sorprese. Così, è stato rilevato che fra i milioni di spermatozoi eiaculati in uomo fertile, la percentuale di quelli sani non supera il 20%. Varie le applicazioni della formula: è stato accertato, ad esempio, che sono necessari almeno due milioni di spermatozoi sani per poter sperare nel buon esito di una fecondazione naturale. Nell'impossibilità di raggiungere questi valori, la migliore alternativa sembra quella di rivolgersi a un centro di fecondazione assistita per procedere a una Fivet, la tecnica attualmente più diffusa, con probabilità di esito positivo che si attestano intorno al 20 per cento. Nei casi più difficili, quando gli spermatozoi sono in numero ancora inferiore, oppure qualora la formula rilevi una presenza di spermatozoi sani inferiore a centomila, si può procedere a una Icsi o a un'altra più sofisticata tecnica di fecondazione. La ricerca sta approfondendo anche altri settori. La responsabilità dei rapporti sessuali omo ed eterosessuali per la trasmissione del virus dell'immunodeficienza, ad esempio, chiama in causa le cellule germinali e in particolare quella maschile. E se l'ipotesi che possano essere gli spermatozoi a trasmettere il virus non ha ottenuto risultati convincenti nè è ancora stata dimostrata la presenza del virus all'interno del gamete maschile, la ricerca ha invece ottenuto importanti conferme della possibilità che gli spermatozoi vengano infettati dal virus Hiv veicolandolo all'interno dell'ovocita al momento della fecondazione. Lo spermatozoo può agevolare il trasferimento del virus «assopito» nelle cellule somatiche o negli ovociti. Sono stati fecondati in vitro ovociti umani donati da donne sieronegative sottoposte a superovulazione in previsione di una fecondazione assistita da uomini con spermatozoi infetti purificati. Gli spermatozoi mobili purificati di donatori sieropositivi sono stati aggiunti ai dischi in coltura contenenti gli ovociti maturi. Si è osservato che gli spermatozoi subiscono una normale reazione acrosomiale e possono penetrare la zona pellucida. La casistica della penetrazione diretta del virus nell'ovocita evidenzia la possibilità di infezione diretta con la presenza dei recettori identificati negli spermatozoi. Antonella Leoncini


CONFERENZA A BARCELLONA Mediterraneo sponde più verdi
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, BOTANICA
ORGANIZZAZIONI: ECOMED
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Conferenza Ministeriale Euromediterranea

SE non è un abbaglio è una buona notizia: sulle coste settentrionali del Mediterraneo, martirizzate dalle attività umane, le foreste sono in espansione. Una crescita vistosa, del 13 per cento negli ultimi vent'anni. Solo in Albania i boschi continuano ad essere tagliati per ricavarne legna da ardere (ma nonostante ciò, secondo i dati forniti, l'Albania continua ad essere il Paese più boscoso del bacino, con il 36,4 per cento della sua superficie coperta da alberi, seguita a ruota dalla ex Jugoslavia con il 36 per cento). Dunque le terre che si affacciano su questo piccolo mare, dove lo sfruttamento umano risale agli albori della civiltà, dove 10 mila anni fa ebbero origine l'agricoltura e l'allevamento, dove quasi nello stesso periodo sorse nella valle del Giordano quella che è considerata la prima città del mondo, Gerico, conservano tuttora una formidabile capacità di recupero. Purtroppo dalla sponda Sud, dove la deforestazione è stata avviata addirittura dai romani, continuata dagli arabi, perfezionata dai Paesi coloniali, vengono notizie meno buone. In Algeria, dove i boschi ricoprono appena il 2 per cento del territorio, è in atto ancora oggi una deforestazione massiccia, 40 mila ettari l'anno, per ottenere terreni da coltivare; purtroppo è un sacrificio inutile perché, in una corsa senza fine, nello stesso tempo l'erosione si divora 36 mila ettari di terreno agricolo. Solo in questo Paese 12 milioni di ettari sono minacciati dall'erosione e il trend è tale che entro il 2000 la terra arabile crollerà ad appena 0,14 ettari per abitante, uno dei valori più bassi del mondo. L'erosione minaccia il 90 per cento dei terreni della regione mediterranea della Turchia e un terzo di quelli greci. Questi dati, desunti da autorevoli fonti internazionali (Unep, Fao, Action Plan, World Conservation Monitoring Centre) sono contenuti in una recente pubblicazione di Ecomed, «agenzia per lo sviluppo sostenibile del Mediterraneo» promossa dalla città di Roma per essere il «punto di riferimento per la cooperazione tra le città del Mediterraneo», in vista di un appuntamento importante, la Conferenza Ministeriale Euromediterranea che si terrà in novembre a Barcellona. La Conferenza si svolge a vent'anni dalla prima Conferenza di Barcellona e dall'avvio del Mediterranean Action Plan ad opera dell'Unep, lo United Nation Environnement Program dell'Onu, al quale aderiscono tutti gli Stati rivieraschi, per un piano di salvaguardia del Mediterraneo. Nel '77 a Spalato gli obiettivi sono stati rilanciati dal cosidetto «Blu Plan», che ha ottenuto finanziamenti dalla Banca Mondiale e dalla Banca Europea degli Investimenti, con cui nell'88 è stato avviato un programma di monitoraggio ambientale. Da parte sua l'Unione Europea ha avviato programmi propri, anche a favore di Paesi extracomunitari, che peraltro sono stati finanziati solo in parte. Il rapporto di Ecomed afferma che «nonostante gli sforzi delle organizzazioni internazionali per coordinare le politiche ambientali dei Paesi che si affacciano sul bacino, le condizioni di degrado sono sostanzialmente stabili, se non peggiorate». La nuova conferenza di Barcellona ha quindi lo scopo di rilanciare la cooperazione, con priorità ai problemi ambientali. L'Unione Europea ha stanziato 11 mila miliardi, destinati soprattutto alla diffusione di programmi per sviluppare tecnologie e procedimenti produttivi «puliti» che consentano uno sviluppo compatibile con l'ambiente riducendo i consumi di energia e l'emissione di inquinanti, combattendo l'erosione di suoli, la salinizzazione dei terreni agricoli, la distruzione della biodiversità. L'area del Mediterraneo produce il 7 per cento di tutta l'anidride carbonica (gas a effetto serra) della Terra (di cui la metà prodotti in Italia e in Francia), il 15 per cento dei clorofluorocarburi (gas anti- ozono); nelle sue acque si disperdono ogni anno oltre 600 mila tonnellate di petrolio e almeno 30 diversi composti del cloro, agli scarichi di 10 città con più di due milioni di abitanti (compresa Il Cairo che di abitanti ne ha 8 milioni) e quelli di un'agricoltura che fa un largo uso di fertilizzanti, anticrittogamici e veleni di ogni tipo. Tra i Paesi che si affacciano su questo piccolo e fragile mare i rapporti sono spesso difficili o inesistenti, specie quelli tra sponta Nord e sponda Sud che si trovano a uno stadio di sviluppo diverso e quindi hanno preoccupazioni e obiettivi diversi, non di rado costrastanti. Divergenze politiche (Israele- mondo arabo, Grecia-Turchia, Libia-Paesi moderati) aggravano la situazione. Ciò che appare indispensabile prima di ogni progetto di intervento è quindi la cooperazione su un disegno unitario, che è appunto l'obiettivo della seconda conferenza di Barcellona. Vittorio Ravizza


CURIOSO CASO DI SIMBIOSI Gli inquilini dell'arlecchino Un insetto che convive con gli pseudoscorpioni
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

UNA delle più strane associazioni del mondo zoologico è quella che si è stabilita tra un grosso coleottero americano, l'arlecchino (Acrocinus longima nus) e gli pseudoscorpioni della specie Cordylochernes scorpioides. L'arlecchino è un insetto gigante che vive nell'America tropicale. E' lungo dai sette agli otto centimetri, ma le sue antenne superano la lunghezza del corpo e il primo paio di zampe non solo è più grosso delle altre due paia, ma raggiunge una lunghezza davvero eccezionale. In un esemplare di otto centimetri, ne misura quattordici. Insomma, per farla breve, quando se ne sta a zampe anteriori distese, l'arlecchino supera i venti centimetri. Una dimensione che lo fa apparire più simile a un uccello che non a un insetto. Quanto agli pseudoscorpioni, sono animaletti piccini privi del pungiglione velenifero posto in cima alla coda (o per meglio dire, al postaddome) tipico degli scorpioni veri, ma provvisti di una ghiandola produttrice di veleno situata nelle pinze. Insomma, sono velenosi anche loro. La cosa più straordinaria è il fatto che gli pseudoscorpioni scelgono per habitat il corpo del grande arlecchino. Sollevando le ali del coleottero, vi si trova immancabilmente uno pseudoscorpione. E non è detto che se ne trovi uno solo. Sull'addome di un arlecchino sono stati contati ben 54 pseudoscorpioni maschi. Un vero record. L'associazione fra il coleottero americano e gli pseudoscorpioni non è una scoperta recente. Era già nota ai tempi di Linneo. Ma non si era mai capito quale ne fosse la motivazione. Che cosa spinge gli pseudoscorpioni a imbarcarsi a bordo degli arlecchini? Lo fanno per mangiare gli acari che infestano i grossi coleotteri o se ne servono come jumbo jet per trasferirsi, loro incapaci di volare, da un habitat all'altro? A questi interrogativi hanno cercato di rispondere gli aracnologi David e Jeanne Zeh, trasferendosi in una foresta del Panama e precisamente nel Parco Nazionale Soberania, dove arlecchini e pseudoscorpioni sono di casa. Il compito non è facile. Bisogna scovare innanzitutto gli alberi di fico selvatico caduti e in via di decomposizione. Perché questi tronchi putrescenti sono il terreno prediletto dagli arlecchini. Il legno del fico selvatico è molto più morbido di quello degli altri alberi tropicali. Ed è molto più agevole scavarvi dei buchi. Cosa che le femmine fanno quando debbono deporre le uova. Gli arlecchini hanno costumi notturni. Quindi gli studiosi si equipaggiano di lampade a raggi rossi, invisibili agli occhi degli insetti e attendono le notti senza luna per effettuare le loro osservazioni. Hanno così la ventura di assistere al furioso duello tra due arlecchini maschi che si contendono un pezzetto di corteccia considerata da entrambi come il posto ideale dove nidificare. I due contendenti prendono lo slancio sollevandosi sulle zampe posteriori e usando il primo paio di lunghissime zampe cercano di capovolgere il rivale e di gettarlo giù dall'albero. Il combattimento dura una mezz'ora. Alla fine uno dei due si ritira, mutilato di un pezzo dell'antenna sinistra. Il vincitore rimane di guardia al futuro nido. Dopo un po' arriva una femmina e hanno inizio gli accoppiamenti, una faccenda piuttosto lunghetta. Terminato il primo, la femmina si mette a scavare un buco nel legno con le sue possenti mandibole. Ci impiega un'ora buona. E in quel foro depone il primo uovo. Poi si accoppia di nuovo. Altro buco. Altro uovo. E si va avanti così per tutta la notte. All'alba si vedono nella corteccia da cinque a nove fori che contengono altrettante uova. Da quattro a dodici mesi dopo che la femmina le ha deposte, dalle uova sgusciano fuori le larvette (lunghe una dozzina di centimetri) le quali per poter uscire all'aperto quando si preparano a diventare adulte, debbono incidere la corteccia che ricopre l'ingresso dei loro tunnel. Emergono attraverso questo varco quando hanno dato fondo a tutte le risorse alimentari disponibili in loco. L'albero è ormai sfruttato e le centinaia di pseudoscorpioni che ne hanno fatto scempio sono pronti a disperdersi in cerca di nuove fonti alimentari. Questo è il momento in cui serve un mezzo di trasporto, dato che gli interessati non hanno ali per volare. E quale mezzo più confortevole di un grosso arlecchino? Sicché, appena avvertono forse dalle vibrazioni del suolo o da stimoli olfattivi che si è posato a terra uno di questi coleotteri, si dirigono senza esitazione verso di lui. Uno alla volta sollevano le pinze e si aggrappano alla estremità del suo addome. Salgono così a bordo dell'aeromobile che riprende subito quota in cerca di un altro albero di fico selvatico putrescente che reputi più adatto a nidificare. Durante il volo, gli pseudoscorpioni si debbono tenere saldamente attaccati all'addome dell'ospite, per non cadere. E lo fanno con una vera e propria «cintura di sicurezza», una briglia di seta fabbricata da una speciale ghiandola. Proseguendo le loro osservazioni in laboratorio con un gran numero di pseudoscorpioni opportunamente marcati, i coniugi Zeh fanno una scoperta sensazionale. Quei jumbo jet viventi sono al tempo stesso teatro di lotte furibonde e garconnieres per incontri galanti. Infatti gli pseudoscorpioni maschi più grossi sono predatori aggressivi che non rifuggono dal cannibalismo. Si sbarazzano dei rivali più deboli in parte gettandoli giù, in parte semplicemente mangiandoseli. Sicché rimangono padroni del campo e non appena sale una femmina, senza por tempo in mezzo, si accoppiano con lei. Una volta fecondata, la pseudoscorpioncina scende al primo scalo. Deve pensare a sistemare le uova. Ma il maschio rimane a bordo in attesa di una nuova partner da fecondare. E così l'arlecchino se ne vola per i fatti suoi, ignaro galeotto delle imprese amorose che si consumano sul suo addome. Isabella Lattes Coifmann


MISSIONE ITALO-AMERICANA I segreti del cielo ultravioletto In orbita sullo Shuttle un telescopio italiano
Autore: COSMOVICI CRISTIANO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, ASTRONOMIA
NOMI: STALIO ROBERTO
ORGANIZZAZIONI: NASA, CARSO CENTRO RICERCA AVANZATA PER L'OTTICA SPAZIALE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Telescopio Uvstar

DOPO 10 anni di attesa, finalmente il 7 settembre è andato in orbita con lo Shuttle «Endeavour» un telescopio per l'estremo ultravioletto costruito in collaborazione dall'Università di Trieste e quella dell'Arizona. Si chiama Uvstar, e nell'ambito di questo programma la Nasa ha messo a disposizione 5 voli Shuttle. Uvstar è stato ideato e realizzato quasi completamente in Italia sotto la direzione del Centro ricerca avanzata per l'ottica spaziale (Carso), un consorzio università-industria (Università di Trieste e Officine Galileo di Firenze). Ne è responsabile Roberto Stalio, che ha dedicato dieci anni di lavoro a questo ambizioso progetto di alta tecnologia spaziale, facendo sviluppare la parte opto-meccanica (esclusi gli spettrografi, fatti negli Usa), i sistemi hardware e software per il puntamento tramite due piccoli telescopi e la parte elettronica dello strumento. La meccanica è stata realizzata con la Oerlikon-Contraves di Roma. Uvstar è montato nella cargo- bay dello Shuttle sulla sommità di un ponte chiamato Hitcher (autostoppista), in quanto può essere montato in qualsiasi momento senza lunghi preparativi. Lo strumento è un doppio telescopio formato da due specchi parabolici fuori asse di 30 centimetri di diametro e 140 di lunghezza focale e da due spettrografi con rivelatori del tipo Ccd intensificato. La regione spettrale coperta va da 55 a 125 nanometri ed è una regione non accessibile da Terra in quanto l'atmosfera terrestre ne assorbe completamente la radiazione. Alle frequenze dell'ultravioletto estremo non esistono lenti che permettano la trasmissione e la focalizzazione. Uvstar adotta quindi soluzioni tecnologiche innovative, come inediti tipi di rivestimento per le superfici ottiche riflettenti e rivelatori estremamente sensibili. L'altro aspetto caratterizzante è la capacità di acquisire immagini spettrali bidimensionali di sorgenti estese come pianeti, comete, nebulose planetarie, nubi interstellari e galassie esterne (fra cui le Nubi di Magellano) determinando la chimica, la temperatura e la dinamica delle sorgenti in esame. Si eseguiranno studi di spettroscopia stellare ed extragalattica, ai quali una vasta comunità astronomica italiana è interessata, ma si studieranno anche oggetti del sistema solare estremamente attuali e inesplorati in questa regione dello spettro elettromagnetico: Giove e il suo satellite Io, e due nuove comete. Uno spettrografo ultravioletto montato a bordo del «Voyager» e di cui era responsabile Lyle Broadfoot (il nostro partner dell'Arizona nella realizzazione di Uvstar) aveva scoperto un toro (anello tridimensionale) di gas ionizzato a 100.000 gradi intorno al satellite di Giove, Io. La fisica del «toro» è estremamente complessa in quanto coinvolge il campo magnetico di Giove e le particelle cariche intrappolate fra Giove e Io, ma la cosa interessante è che in seguito all'impatto della cometa Shoemaker- Levy con Giove nel luglio dell'anno scorso vi sono stati grossi sconvolgimenti nella magnetosfera di Giove, per cui le misure di Uvstar, paragonate a quelle del «Voyager», ci forniranno preziose informazioni sugli effetti catastrofici delle comete. Uvstar avrebbe dovuto osservare la Cometa di Halley nel 1986 e il sottoscritto avrebbe dovuto accompagnare il telescopio a bordo dello Shuttle se non vi fosse stato l'incidente del «Challenger» il 28 gennaio 1986. Il caso vuole che, proprio durante il volo di Uvstar, siano osservabili due comete: la Bradfield e la Hale-Bopp (vedi articolo sulla prima pagina di questo numero di «Tuttoscienze»). Si potrà così osservare per la prima volta una cometa nell'estremo ultravioletto alla ricerca dell'elio, il gas nobile più abbondante nell'universo, che dovrebbe essere rimasto intrappolato nel nucleo cometario 4,5 miliardi di anni fa, quando si formò il sistema solare. Cristiano B. Cosmovici Cnr, Istituto di fisica dello spazio


AERONAUTICA Dirigibili 2, la vendetta Tornano di attualità in molti campi
Autore: FILTRI TULLIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA

IL vecchio dirigibile torna di moda: lo ha confermato un convegno internazionale tenuto a Trento presso il Museo aeronautico Caproni. Erano presenti delegati di Germania, Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Russia, Australia, Perù. Sono vari i dirigibili «moderni»: il dirigibile alta quota con sostentazione aerodinamica, il dirigibile semirigido di nuova concezione, il dirigibile lenticolare, il dirigibile ibrido, quello a energia solare e quello ad aria calda. Da rilevare un sorprendente ritorno al semirigido di scuola italiana e l'affermazione del sistema omnidirezionale a reazione, ideato negli Anni 30 da Enrico Forlanini (questo sistema è ora applicato a un elicottero d'avanguardia, il Notar, al posto dell'elichetta di coda: le idee geniali non muoiono mai). Grande novità è il dirigibile d'alta quota di Domenico Fodaro. Fodaro ha beneficiato di una borsa di studio Alenia per una tesi di laurea sul dirigibile, discussa nel 1991 al Dipartimento di ingegneria aerospaziale di Roma. La borsa era stata concessa su proposta della Commissione del dirigibile, ente sorto nel '78. La commissione ha formulato le specifiche per un dirigibile moderno, di alta quota. Il dirigibile di Fodaro ha l'involucro di forma semiellittica; la superficie ventrale genera una portanza dinamica in alta quota, che sopporta il 20 per cento del peso totale. E' munito del sistema omnidirezionale Forlanini, consente l'attacco diretto della cabina all'involucro e può operare fino a 10.000 metri di quota. Un dirigibile semirigido, originale e di elevate qualità, è lo «Zeppelin NT». Significativo il fatto che la ditta costruttrice dei famosi Zeppelin di tipo rigido, di cui la Germania è caposcuola, sia passata ora al semirigido, di cui caposcuola è l'Italia. La struttura interna in lega leggera è costituita da tre longheroni che vanno da prua a poppa e da ordinate trasversali di forma triangolare. Dispone di due motori basculanti per la propulsione orizzontale e per gli spostamenti verticali, e di due altri motori a poppa, che possono fornire una spinta diretta in tre direzioni ortogonali. «Il sistema - scrive la Zeppelin - è simile a quello usato nell'ultimo dirigibile italiano progettato da Forlanini, dove si utilizzava, come soluzione avveniristica, un sistema di propulsione a reazione». Il dirigibile lenticolare, superiore ai 300. 000 metri cubi, è di progettazione russa. Ha una forma compatta, che vuol dire robustezza. Ma lascia perplessi perché pare molto instabile. Al convegno è stato anche presentato un dirigibile ibrido, ossia avente sostentazione aerodinamica a mezzo di eliche ad asse verticale, o rotori tipo elicottero-dirigibile a sostentazione aerodinamica a mezzo alette sostentatrici. Nel dirigibile a energia solare, l'involucro è rivestito con celle fotovoltaiche. La potenza è modesta, e modeste sono le prestazioni: ma il tedesco «Lotte 2» ha seguito in volo il World Solar Challenger, una corsa internazionale per auto solari che ha attraversato tutta l'Australia. Il dirigibile ad aria calda, tipo mongolfiera, è ai primi passi; può avere un avvenire: un campo di attività è nella pubblicità aerea, o nel piccolo turismo personale. E' di facile costruzione, anche amatoriale; non ha timone di profondità. Il pilota, per salire, tira la levetta del gas propano; la fiamma scalda l'aria del pallone e questo sale; per scendere abbassa la fiamma, l'aria si raffredda e il pallone scende. Unico inconveniente, la scarsa autonomia. Nel gennaio '96 si terrà in Valle d'Aosta un Campionato mondiale per dirigibili ad aria calda. Un progetto tedesco prevede il riscaldamento non solo dell'aria ma anche quello dell'elio, mediante il gas di scarico dei motori. Negli Stati Uniti è in costruzione un dirigibile di 50.000 metri cubi, il Sentinel 5000, per scopi militari. Sarà una grande stazione radar volante per la sorveglianza degli oceani. I motori saranno italiani, forniti dalla Crm di Castellanza. La Banca mondiale in un documentato «Rapporto» afferma che l'impiego del dirigibile in certi Paesi del Terzo Mondo è economicamente conveniente. Il Convegno di Trento ha confermato che il dirigibile può trovare impiego anche in Paesi industrializzati. Il tipo di costruzione e le dimensioni del mercato bene si adattano a industrie di media e piccola dimensione. Tullio Filtri


RICERCA La fabbrica dei Nobel I Bell Laboratories compiono 70 anni
Autore: VALERIO GIOVANNI

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: BELL ALEXANDER GRAHAM
ORGANIZZAZIONI: BELL LABORATORIES
LUOGHI: ITALIA

LASCIATE i sentieri battuti e tuffatevi nel bosco: sembra un consiglio per turisti fai-da-te in cerca di avventure. Invece è l'esortazione di Alexander Graham Bell, il (discusso) papà del telefono, ai suoi collaboratori, già alla fine del secolo scorso. Vinta la battaglia legale contro il povero Meucci, nel 1887 lo scozzese Bell ottenne il brevetto del telefono e fondò l'impero della American Bell Telephone. Ma senza smettere di tuffarsi nel bosco delle idee. Nel 1920, a 73 anni si concesse pure il lusso di costruire il primo aliscafo moderno, sviluppando il progetto di un altro italiano, Enrico Forlanini. Da allora, i suoi eredi, di boschi devono averne visti davvero parecchi. I Bell Laboratories, i laboratori di ricerca della At&T-American Telephone & Telegraph, hanno infatti festeggiato i loro primi 70 anni con un primato invidiabile: più di 25.000 brevetti, uno per ogni giornata di lavoro. Quasi un'idea al giorno per levare la concorrenza di torno. Soprattutto se si tratta di idee forti, destinate a cambiare davvero il mondo. Dai Bell Labs sono usciti il telefono e il fax, come è logico attendersi, ma anche laser e transistor, satelliti e computer. E non è finita. Vagabondando tra i boschi dell'alta tecnologia, i ricercatori dei Bell Labs si sono imbattuti anche in grandi scoperte scientifiche. Magari per caso, come capitò all'ingegner Karl Jansky negli ultimi mesi del 1932. Mentre cercava di individuare l'origine dei disturbi di un'antenna, scoprì la presenza di una sorgente di frequenza radio situata oltre il sole. Da quel momento, nacque la radioastronomia. Nel 1964, studiando i problemi di comunicazione via satellite, altri due scienziati dei Bell, Arno Penzias e Robert Wilson, rilevarono una radiazione diffusa uniformemente nello spazio. E' la «radiazione fossile», che corrisponde alla temperatura di tre gradi Kelvin, quella a cui si trova ora l'universo nel progressivo raffreddamento dopo la grande esplosione iniziale. La scoperta di Penzias e Wilson costituisce la prima conferma sperimentale della teoria del Big Bang; per questo motivo i due ricevettero nel 1978 il primo Nobel. E la AT&T ci scherzò persino sopra. Gli annunci pubblicitari dell'epoca, infatti, suonavano più o meno così: «Cosa c'entra un premio Nobel con il vostro telefono?». I Bell Labs, anima scientifica della At&T, sono da sempre divisi tra la ricerca pura e lo sviluppo della tecnologia, per rendere l'azienda madre sempre più competitiva. Un bel dilemma, che ha comunque permesso ad altri cinque ricercatori di ricevere il Nobel per la Fisica. Nel 1937 era toccato a Clinton Davisson per la natura ondulatoria della materia. William Shockley, Walter Brattain e John Bardeen lo ricevettero nel '56 per il transistor. L'ultimo Nobel targato Bell è del 1977, assegnato a Philip Anderson per il suo lavoro sulla struttura elettronica dei metalli. E ora? Tre sono le grandi direttrici della ricerca dei laboratori privati più ricchi del mondo: microelettronica, software e fibre ottiche. La prima è figlia dell'età dell'oro dei Bell Labs, iniziata alla metà degli Anni 30, e conclusa con la scoperta del transistor, tra la fobia da Sputnik e il maccartismo. Anche il software può vantare precedenti illustri. Ai Bell è nato il linguaggio Cpiùpiù, per opera di Bjarne Stroustrup, mentre Ken Thompson e Dennis Ritchie hanno realizzato il sistema operativo Unix, tanto celebre quanto sfortunato sul piano economico. Ora la nuova scommessa si chiama Plan 9. Il nome deriva da un filmetto di fantascienza Anni 50, «Plan 9 from Outer Space», con le astronavi appese ad un filo e i razzi a forma di salsiccia, da poco tornato alla ribalta. Il Plan 9 sviluppato dai Bell è un sistema operativo che permette, sin dall'accensione, di usare contemporaneamente computer e strumenti di comunicazione, in tandem. Tutto all'insegna della convergenza, che è un po' la parola d'ordine dei Laboratori Bell. Il futuro prevede televisione, computer e reti di telecomunicazione sempre più vicini. Lo dimostra Tv Information Service, il nuovo servizio della At&T, attivo dal gennaio scorso. Grazie alla tv, fornisce informazioni su meteo e traffico, Borsa e sport. Si collega una scatola scura nel cloppino telefonico e poi alla televisione. E, schiacciando un solo bottone, si possono registrare, spedire o visualizzare messaggi telefonici e fax. Tutto usando una tecnologia arcinota al consumatore medio americano: schermo televisivo e telecomando, nulla di più. Tutto semplice. Senza perdere di vista la telefonia cellulare, la tv ad alta definizione e la multimedialità, oggi così di moda, Daniel Stanzione, ottavo presidente del Laboratori Bell dal 1° marzo di quest'anno, punta sulla nuova frontiera delle telecomunicazioni. La sfida corre sulle fibre ottiche. Già nel 1988, la At&T ha unito Nord America ed Europa. Adesso, sotto l'egida del vicepresidente Gore, l'imperativo è «fiber the nation», ricoprire gli States di fibre ottiche, per strade, stradine ed autostrade dell'informazione. Intanto i 25.000 fabbricanti di idee dei Bell Labs continuano ad immergersi nel bosco: E chissà se il prossimo Nobel premierà gli studi sulle reti neurali di piccoli animali per vedere se sono applicabili ai chip intelligenti, o il nuovo tipo di laser semiconduttore, o i rivoluzionari algoritmi di compressione audio-digitali. Giovanni Valerio


CALCOLATA L'ORBITA La supercometa arriverà il 1° aprile 1997 Ci farà uno scherzo? Intanto vediamoci quella scoperta da Bradfield
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
ORGANIZZAZIONI: OSSERVATORIO AUSTRALE EUROPEO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Cometa Hale-Bopp, cometa Bradfield

MI arriva una busta dell'Osservatorio australe europeo, e dentro ci trovo due comete. In fotografia, si capisce. Un'immagine è a falsi colori, e mostra quella che potrebbe diventare la cometa del secolo: la Hale-Bopp. Per adesso è un puntino luminoso all'incirca di undicesima magnitudine, cioè 60 volte più debole della più fioca stella visibile a occhio nudo. Nel codice cromatico, l'alone giallo corrisponde alla chioma di gas che la circonda e il baffo rosso a una tenue e tozza «coda». La seconda foto è in bianco e nero. Ritrae la cometa Bradfield, fresca di scoperta: in questo caso l'iconografia tradizionale è rispettata: la «testa» della cometa è brillante, la «chioma» vaporosa, la «coda» bene sviluppata e suddivisa chiaramente nelle sue due componenti, una gassosa e una costituita da minuscoli detriti polverosi. Anche con la Bradfield però non facciamoci illusioni: la magnitudine è 6, corrispondente alle più fioche stelle distinguibili senza l'aiuto di strumenti ottici, e se la cometa Bradfield in fotografia presenta un bell'aspetto, ciò è dovuto soltanto al fatto che all'Osservatorio australe europeo, sulle Ande del Cile, Alain Smette e Manuel Pizarro l'hanno ripresa con un telescopio d'avanguardia: l'Ntt, il New Technology Telescope, che ha uno specchio da 3,6 metri, ottica «attiva» controllata da un computer e raccoglie quasi mezzo milione di volte più luce del nostro occhio. L'occasione è buona per fare il punto su questa piccola invasione di comete, dopo alcune informazioni un po' avventate, come può succedere intorno a Ferragosto. Incominciamo dalla Hale- Bopp, «la supercometa». Attualmente si trova a 950 milioni di chilometri, ben oltre l'orbita di Giove. Arriverà alla minima distanza dal nostro pianeta nella primavera del 1997: intorno al 1° aprile, se non farà scherzi, potrà diventare per qualche giorno l'astro più luminoso del cielo. Il diametro della supercometa è ora stimato tra i 40 e i 100 chilometri, mentre nell'euforia della scoperta i giornali avevano parlato di 1600. E' sempre una misura rispettabile, ricordando che la famosa Halley misura 16 per 12 chilometri. Quanto ai paventati rischi di collisione con la Terra, si può però stare tranquilli: tutte chiacchiere. Brian Marsden, dell'Unione astronomica internazionale, e Duncan Steel, dell'Osservatorio anglo-australiano, hanno calcolato l'orbita e non c'è dubbio che le distanze di sicurezza saranno ampiamente rispettate. La Hale-Bopp, che impiega tremila anni a percorrere la sua lunga orbita fortemente ellittica, passerà nell'aprile del prossimo anno a 120 milioni di chilometri da Giove. Nell'aprile del '97 arriverà fino a 140 milioni di chilometri dal Sole (poco meno della distanza Sole- Terra), ma si terrà a 200 milioni di chilometri da noi. Ciononostante si pensa che potrebbe diventare 250 volte più luminosa della Halley e raggiungere la magnitudine -1,5 o, nell'ipotesi più pessimistica, la magnitudine 0. Brillerà quindi da 6 a 2 volte più di una stella di prima grandezza. Il nostro emisfero boreale sarà favorito: la Hale- Bopp si comporterà come una stella circumpolare, rimanendo sopra l'orizzonte per tutta la notte. Secondo la tradizione, la supercometa è stata battezzata con i nomi dei suoi scopritori, due dilettanti di astronomia americani: Alan Hale di Cloud croft, nel New Mexico, e Thomas Bopp di Stanfield, in Arizona. Come spesso accade con le comete, l'avvistamento è avvenuto per caso. Il 23 luglio i due astrofili, armati di telescopi da 40 centimetri di apertura, stavano fotografando - contemporaneamente ma indipendentemente - M 70, un ammasso globulare nella costellazione del Sagittario, quando hanno notato una stellina dai contorni sfumati. Pare che Hale abbia scoperto la supercometa 20 minuti prima di Bopp: una corsa da photo-finish. Trasmessa la loro osservazione all'Unione astronomica internazionale, hanno avuto una bella soddisfazione: la loro non era una cometa qualunque (se ne scoprono una ventina all'anno) ma molto speciale. Al punto che era già stata fotografata nel 1993 in Australia, quando era ancora più debole e lontana, ma senza essere riconosciuta. Quella foto però si è rivelata utile per i primi calcoli dell'orbita. La cometa Hale-Bopp si spinge fino a 60 miliardi di chilometri dal Sole, 20 volte più lontano di Plutone, il più periferico dei pianeti. L'orbita chiusa indica che non è al suo primo passaggio nell'interno del Sistema solare. Probabilmente si è staccata abbastanza recentemente dalla «Nube di Oort», un remoto serbatoio di cento miliardi di nuclei cometari ghiacciati. Un'altra possibilità è che arrivi dalla «cintura di Kuiper», una «città delle comete» meno affollata e più vicina, un po' oltre l'orbita di Plutone. Qui negli ultimi anni sono stati scoperti 15- 20 planetoidi ghiacciati, con diametri sui 200 chilometri: potenziali supercomete. Più normale è la cometa Bradfield, scoperta il 17 agosto da William Bradfield, celebre dilettante di astronomia australiano, giunto - con questa - alla sua diciassettesima scoperta cometaria (dove si vede l'infondatezza delle superstizioni...). La Bradfield era allora nella costellazione australe del Cratere, e quindi inosservabile dalle alte latitudini boreali (anche la Hale-Bopp è in posizione piuttosto scomoda per noi). Le analisi spettrali fatte all'Osservatorio australe europeo hanno messo in evidenza nella coda molecole di carbonio, a conferma che le comete sono serbatoi di materiale organico potenzialmente utile per fabbricare quella cosa misteriosa che chiamiamo organismi viventi. Piero Bianucci


EFFETTO SERRA E' il sale a regolare il clima Modifica gli scambi di calore negli oceani
Autore: CANUTO VITTORIO

ARGOMENTI: CHIMICA, GEOGRAFIA E GEOFISICA, METEOROLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: G. Grafico variazione temperatura e anidride carbonica C. Trasferimento del calore dal mare all'aria. La grande fascia convettiva degli oceani

ANCHE se ci si ostina a chiamarla Terra, il 71 per cento della sua superficie è coperto d'acqua. Per fortuna: il 40 per cento dei famosi 7 miliardi di tonnellate di carbonio (che unendosi all'ossigeno formano l'anidride carbonica CO2 causa del temuto «effetto serra» antropogenico) viene gratuitamente assorbito dagli oceani, evitandoci così di essere vittime dei frutti nefasti della nostra civiltà. Non è tutto: l'acqua è un liquido termicamente assai inerte: la sua conduttività termica è 150 volte inferiore a quella dell'aria. Ne consegue che tutto il calore contenuto nell'atmosfera è equivalente a quello contenuto nei primi 3 metri dell'oceano; sottoposta a un aumento di calore, la variazione della temperatura dell'acqua è assai inferiore di quella dell'atmosfera nelle stesse condizioni. Il che significa che gli oceani ci fanno un secondo favore. Se l'effetto serra antropogenico dovesse scatenarsi, gli oceani lo ritarderebbero, dandoci una chance di adattarci al nuovo stato di cose. Fino a poco tempo fa questa era vox populi, il che non vuol dire vox dei, ma solo della comunità scientifica e quindi fallace. Recentemente si è cominciato a sospettare che gli oceani siano assai meno docili di quello che si pensava. E se gli oceani non fossero «graduali», e se dovessero «saltare» in modo discontinuo da uno stato a un altro? Andiamo con ordine. Dalle ricerche glaciologiche in Antartide si ricavano carote di ghiaccio antico, fino a 160 mila anni fa. Analizzando «l'aria antica» imprigionata nei cristalli di ghiaccio si deduce la concentrazione di vari gas, e fra questi la CO2. Misurando con altre tecniche la temperatura, viene alla luce un incredibile minuetto antico. Quando la temperatura era elevata, lo era anche la CO2 e viceversa. Perché? Per rispondere occorrono altri dati. Nelle regioni equatoriali l'energia che ci arriva dal Sole è maggiore di quella riemessa, mentre nelle regioni ad alta latitudine succede l'opposto. A prima vista si potrebbe concludere che le regioni equatoriali si riscaldano mentre le regioni polari si raffreddano. Il che è manifestamente falso. La spiegazione è che gli oceani trasportano calore dall'equatore ai poli limitando la disparità termica delle due regioni. La corrente calda sale fino all'Islanda, dove si imbatte nei venti gelidi provenienti dal Canada. Si raffredda e poiché l'acqua fredda è più densa di quella calda, quest'acqua pesa di più, affonda, dando luogo a una corrente sotterranea fredda. Per fissare le idee, basti dire che il calore rilasciato è di circa mille miliardi di kW, cioè il 30 per cento del calore ricevuto dal Sole in quelle regioni. Questo «calore extra» è la ragione per cui l'Europa del Nord gode di un clima mite mentre in Canada alla stessa latitudine di Londra si aggirano i caribù. L'opinione assai diffusa che la «bonanza climatica» dell'Europa del Nord sia dovuta alla corrente del Golfo è errata (fra l'altro la corrente muore assai prima). C'è di più. Il fenomeno che avviene in Islanda è anche accompagnato da evaporazione, il che significa che l'acqua che rimane è più salata, cioè più densa, aiutando così ulteriormente l'affondamento. Anche qui, una sorpresa: nel rendere più densa l'acqua, la salinità è di gran lunga più efficace del raffreddamento: un aumento dello 0,1 per cento della salinità porta a un aumento della densità dell'acqua pari all'abbassamento di 7° C. Esiste quindi un grande «nastro trasportatore», un serpentone oceanico: una corrente, fredda e salata che, nata nei mari del Nord, si snoda negli oceani visitandoli tutti. La portata è oltre 20 volte quella di tutti i fiumi del mondo: per esempio, nell'Atlantico del Nord parliamo di circa 15 milioni di metri cubi al secondo! Questo tapis roulant (l'idea è dell'oceanografo W. Brocker) non è però sempre attivo, e qui sta il punto chiave. Dodicimila anni fa uscimmo da una glaciazione. Prima di allora il tapis roulant era spento, ma quando i ghiacciai cominciarono a recedere e la temperatura ad aumentare, il serpente ritornò a snodarsi e a circolare. Il che ci spiega tutto in modo naturale: durante le glaciazioni, il nastro trasportatore è spento e quindi non porta alla superficie la CO2 che si trova nel fondo dei mari: il fito-plancton, che di mestiere assorbe CO2, è quindi l'unico meccanismo operante, col risultato netto che quando la temperatura è bassa, lo è anche la CO2. Quando il serpentone è in funzione, l'opera del fito-plancton è considerevolmente ridotta poiché per quanta CO2 si consumi ce n'è sempre di nuova riportatagli in superficie dai fondi marini. Ma gli esperti di polline ci dicono che quasi subito dopo, improvvisamente, il tapis roulant si spense di nuovo precipitando la Terra in un'era glaciale subitanea che durò 700 anni. Ancor più sorprendente è il fatto che il ritorno al periodo temperato avvenne in poco più di un secolo, un intervallo che comincia a interessarci da vicino. Ecco perché dicevamo all'inizio che gli oceani possono saltare da uno stato all'altro in breve tempo. Lo hanno fatto. E oggi cosa succede? Il serpentone è vivo e vegeto, l'Europa gode di un clima mite che ha permesso l'inizio della rivoluzione industriale che immette decine di miliardi di tonnellate di CO2 nell'atmosfera. Cosa può fare tale CO2 al serpente? Lo potrebbe soffocare. Infatti, una delle conseguenze dell'effetto serra è un aumento delle precipitazioni nelle regioni ad alta latitudine: acqua dolce quindi che, abbassando la salinità, abbassa la densità dell'acqua, che non precipiterebbe più nei fondi marini. Lo stesso effetto causerebbe lo scioglimento dei ghiacciai, fonte anch'essi di acqua dolce. Quanto CO2 ci vuole per causare tale effetto? Calcoli recenti fatti a Princeton suggeriscono che in un mondo con il doppio della CO2 di oggi, il serpentone oceanico soffrirebbe una momentanea crisi per poi ricuperare la sua forza. Qualora invece «caricassimo» l'atmosfera con 4 volte la CO2 di oggi, il serpente morirebbe. L'Europa del Nord cadrebbe sotto la giurisdizione dei gelidi venti canadesi, e nella City di Londra tornerebbero i caribù. Abbiamo descritto per sommi capi un intreccio di fenomeni, di caratteri sospetti, di impronte digitali. Gli scienziati di oggi sono archeologi e futurologi al tempo stesso: dalla lettura del polline di diecimila anni fa a quella dell'aria di 160 mila anni fa, all'effetto serra del futuro, si sta cercando di tracciare un quadro coerente per identificare le cause e quantificare gli effetti. Impresa ardua, da cui può dipendere il nostro destino. Gli immensi oceani, termostato del clima, mostrano una personalità più irta di quanto pensassimo. Sollecitati da forze esterne, reagiscono prima in modo docile, cullandoci nell'illusione che il clima di domani sia solo gradualmente diverso da quello di ieri. Tutto ciò appartiene però alla mistica screditata del gradualismo. Oggi ci sono forti indizi che quando la sollecitazione esterna raggiunge una certa soglia, il sistema scatta in modo brusco da uno stato a un altro, come un elettrone in un atomo, un fenomeno che accettiamo su scala microscopica ma che inconsciamente respingiamo su scala macroscopica, e questa riluttanza è forse il problema più grande. Chi disse «Natura non facit saltus» aveva torto. Vittorio M. Canuto Nasa, New York, N. Y.


RICORDO Bernardini pioniere dell'atomo
AUTORE: P_BIA
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, FISICA
PERSONE: BERNARDINI GILBERTO
NOMI: OCCHIALINI GIUSEPPE, ROSSI BRUNO, PONTECORVO BRUNO, BERNARDINI GILBERTO
LUOGHI: ITALIA

PONTECORVO, Occhialini, Rossi. Tre grandi fisici, tre esploratori dell'atomo in tempi pionieristici, legati da comuni interessi nello studio dei raggi cosmici e della fisica delle particelle. Oggi a Firenze si conclude un convegno che li ricorda, presenti i Nobel Cronin, Glashow, Mossbauer e Rubbia. Secondo i programmi, avrebbe dovuto aprire l'incontro un saluto di Gilberto Bernardini, decano dei fisici italiani. Ma Bernardini se n'è andato nei primi giorni di agosto, a 89 anni. Così, al convegno di Firenze, un'altra nobile ombra si è aggiunta a quelle di Pontecorvo, Occhialini e Bruno Rossi. Bernardini è uscito di scena in punta di piedi: la famiglia ha annunciato la scomparsa a funerali avvenuti, nello spirito di riservatezza che aveva contraddistinto tutta la vita dello scienziato. In più, il frastuono delle vacanze e lo sciocchezzaio dei giornali balneari non erano propizi a un ricordo meditato. Proviamo a rimediare ora, benché sia difficile riassumere in poche righe una lunga vita spesa per la scienza. Gilberto Bernardini nasce a Fiesole il 20 agosto 1906, studia alla Scuola Normale Superiore di Pisa (che poi dirigerà negli Anni 60-70) e si laurea in fisica nel 1928. Dopo un breve periodo di lavoro in una industria di ottica, rientra nell'Università e ad Arcetri partecipa a una serie di esperimenti sui raggi cosmici: particelle atomiche talvolta di altissima energia che continuamente bombardano la Terra provenendo da ogni direzione dello spazio. Siamo nei primi Anni 30, non c'erano acceleratori di particelle, e l'unico modo per sondare il mondo subatomico a energie elevate consisteva appunto nel catturare la radiazione cosmica usando speciali emulsioni fotografiche. Nel '34 Bernardini ebbe una borsa di studio che gli permise di andare a Berlino e di lavorare con Otto Hahn e Lise Meit ner, due scienziati che ebbero un ruolo fondamentale nella scoperta della scissione dei nuclei atomici. In quel laboratorio, bombardando sottili strati di berillio con nuclei di elio (particelle alfa), mise in evidenza la trasparenza per risonanza della barriera di potenziale che circonda gli atomi. Nel '35 tornò ad Arcetri, dove proseguì le ricerche con Persico e Garbasso. Quel gruppo, al quale bisogna aggiungere Occhialini, Conversi e Rossi, sarà per molto tempo all'avanguardia nel mondo negli studi di fisica delle particelle tramite i raggi cosmici. In cattedra a Bologna e a Roma, Bernardini collaborò con Edoardo Amaldi alla riorganizzazione della fisica italiana nel dopoguerra. Fu poi invitato negli Stati Uniti, alla Columbia University, dove insegnava anche Fermi, e qui poté finalmente sostituire i raggi cosmici con le particelle prodotte nel ciclotrone del laboratorio di Nevis: la potenza della macchina, 250 MeV, oggi è ridicola rispetto agli acceleratori del Fermilab e del Cern, ma all'epoca consentiva ricerche di primo piano. Dalla Columbia passò all'Università di Urbana, nell'Illinois, dove realizzò esperimenti fondamentali con i fotoni emessi dal bevatrone fatto costruire da Kerst. Il ritorno in Europa coincide con l'impegno di Bernardini accanto ad Amaldi nella fondazione del Cern: era stato tra i primi a capire che ormai la fisica stava diventando una «big science» e che per fare progressi non bastavano più i raggi cosmici o i piccoli acceleratori. Molte proprietà dei muoni e dei pioni furono comunque individuate da Bernardini integrando le due tecniche. Del Cern fu tra i primi direttori, così come nel '68 fu il primo presidente della European Physical Society. Degli incontri con Gilberto Bernardini due mi rimangono particolarmente impressi: uno alla Normale di Pisa, quando, mi mostrò la prova di ammissione di Enrico Fermi, e uno a Torino, quando partecipo' alla Biennale del Dissenso, dando forza alla domanda di libertà che Sacharov e tanti altri intellettuali levavano nella grigia Unione Sovietica di Breznev. Una signorilità d'altri tempi, un sorriso dolce appena accennato, un impegno civile fermo ma sussurrato sono le impressioni che mi rimangono. [p. bia.]


SEMI&ALBERI Competizione nel sottobosco
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA

DI solito si pensa che soltanto gli animali debbano competere tra di loro per sopravvivere. C'è lotta, invece, anche tra le specie vegetali. Gli alberi sembrano, a prima vista, privilegiati: con la loro altezza sono in grado di intercettare la luce prima che questa giunga al sottobosco, con le loro possenti radici possono esplorare una vasta porzione di terreno utilizzando l'acqua e le sostanze nutritizie disponibili assai prima di piante di dimensione più ridotta. Ma anche agli alberi capita di trovarsi in difficoltà. Si consideri, ad esempio, che cosa può accadere dopo quei violentissimi temporali ai quali il clima inclemente di questi anni ci ha abituati. In queste circostanze anche alberi con tronchi di alcuni metri di diametro cadono a terra come fuscelli: in poche ore migliaia di alberi possono venire abbattuti. In simili situazioni per le specie presenti nel sottobosco sotto forma di semi, quiescenti ma vitali, è giunto il momento atteso forse da decenni. Le sostanze presenti nei loro tegumenti per effetto di una luce di intensità maggiore a quella a cui erano abituate rendono i semi capaci di germinare. Può accadere che intorno agli alberi abbattuti il terreno si ricopra ad esempio di piante di digitale, una specie che necessita di molta luce per svilupparsi. Il loro accrescimento sarà rigoglioso grazie all'abbondanza di humus presente nel sottobosco, formatosi nel corso dei decenni per effetto della decomposizione delle foglie, delle cortecce, dei rami. Nel secondo anno del loro sviluppo le digitali formano bellissime spighe (botanicamente racemi) dal colore viola, composte da numerosi fiori dall'aspetto di ditali, rivolti verso il basso. Da tali fiori hanno origine i semi - ogni racemo ne rilascia anche 250 mila! - che vengono trasportati dal vento a grandi distanze. Le digitali, che sono biennali, ben presto vengono sopraffatte dalle ortiche. Queste sono caratterizzate da uno sviluppo lento all'inizio del loro ciclo ma assai veloce nella fase successiva e da una rapida capacità di colonizzare il territorio per effetto della presenza di rizomi, organi sotterranei che formano un intreccio così denso che, in presenza di ortiche, quasi nessuna specie può crescere. A differenza delle digitali, le ortiche non muoiono al secondo anno ma continuano lo sviluppo, soprattutto se il terreno è stato arricchito di fosforo prodotto dallo sterco degli animali o depositato dall'uomo. La presenza di grandi masse di ortiche indica che il terreno per qualche motivo è stato ripulito dagli alberi e che ci si trova in presenza dell'uomo o di animali. Dopo qualche anno, anche questi colonizzatori iniziano a decadere perché non sono più in grado di soddisfare il loro fabbisogno in sostanze nutritizie. Così altre specie provviste di organi di riserva li sostituiscono. Sembra che in questa lotta le betulle siano le vincitrici. I loro semi assai piccoli e leggeri, prodotti in elevati quantitativi e trasportati a grandi distanze dal vento nelle lunghe giornate estive (abbisognano di almeno sedici ore di luce), iniziano a germinare dando origine a tante piantine, dapprima esili, quindi sempre più vigorose. A poco a poco, queste formano interi boschi. Il terreno, ombreggiato durante l'estate (la betulla è specie a foglia caduca), consente lo sviluppo di poche specie: il paesaggio sarà così un affascinante bosco di betulle. Ma questi alberi rimarranno per poco tempo i dominatori dello spazio; può accadere, infatti, che scoiattoli e ghiandaie abbiano depositato delle ghiande che, dopo essere rimaste a lungo quiescenti, germinano. In esse infatti sono contenuti quantitativi elevati di sostanze nutritizie, assai maggiori di quelle presenti nei semi delle betulle. Nei primi mesi di vita saranno queste sostanze ad alimentare le giovani querce in sviluppo. Anche se le querce crescono lentamente, anno dopo anno diventano vigorose e maestose, proprio quando le betulle, che hanno vita relativamente breve (50-60 anni), iniziano a deperire, lasciando le querce incontrastate padrone del territorio. Alla loro ombra troveranno riparo non solo gli uccelli, ma anche tanti coleotteri (sembra più di 45 specie) e tantissimi lepidotteri: ogni parte dell'albero possiede i suoi inquilini e commensali. Una quercia adulta può produrre fino a 90 mila ghiande: quindi, oltre a governare la foresta, sfama molti animali. Quando scompaiono le foglie, il debole sole invernale raggiunge il terreno sottostante dove i bulbi stanno attendendo. Ecco comparire i bucaneve, i Trillium, i narcisi, i ranuncoli, gli anemoni, a seconda delle zone, tutti dotati di breve vita. Basterà infatti che i grandi alberi si ricoprano di foglie perché il sottobosco entri in dormienza. La natura ha dotato tutte le specie di strumenti per sopravvivere: osservandola, l'ameremo sempre di più. Elena Accati Università di Torino




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