TUTTOSCIENZE 6 settembre 95


«MESSAGGI» DALLO SPAZIO Tornano di moda i raggi cosmici A Roma 800 fisici e astrofisici discutono gli ultimi dati
Autore: IUCCI NUNZIO

ARGOMENTI: FISICA, ASTRONOMIA, PRESENTAZIONE, CONFERENZA, MONDIALE
NOMI: OCCHIALINI GIUSEPPE, BERNARDINI GIUSEPPE, ROSSI BRUNO
LUOGHI: ITALIA, ROMA

LA ventiquattresima Conferenza internazionale sui raggi cosmici si concluderà venerdì presso l'Università di Roma «La Sapienza». Qui, 800 ricercatori provenienti da tutto il mondo stanno discutendo i più recenti risultati ottenuti usando le tecniche più disparate: rivelatori su satelliti o su palloni, telescopi al suolo o, come nel caso dei laboratori del Gran Sasso, rivelatori posti in profonde caverne, schermati da migliaia di metri di roccia. Siamo continuamente attraversati da un flusso di particelle atomiche create nelle interazioni tra l'atmosfera e particelle primarie provenienti dal cosmo. Alcune di queste arrivano a interagire nell'atmosfera con una energia molto superiore a quella ancora oggi ottenibile nei più grandi acceleratori di particelle. E infatti negli Anni 40-50 lo studio della radiazione cosmica ha dato un contributo essenziale alla fisica delle particelle elementari; successivamente questa fisica ha utilizzato soprattutto gli acceleratori. Negli ultimi decenni lo studio della radiazione cosmica è indirizzato in gran parte alla comprensione di fenomeni astrofisici. Ad esempio l'origine dei raggi cosmici di energia più elevata, dove essi vengono prodotti e con quali meccanismi vengono accelerati è ancora un problema aperto di grandissimo interesse. Inoltre la migliore comprensione delle caratteristiche e delle interazioni delle particelle sviluppatasi con gli acceleratori permette oggi di utilizzare questo fenomeno come fonte di informazione su fenomeni astrofisici. Lo studio dei raggi cosmici è un campo di frontiera con problemi comuni alla fisica delle particelle elementari e all'astrofisica sia per quanto riguarda la comprensione di fenomeni naturali sia per la frequente utilizzazione di tecniche di rivelazione molto simili. Un esempio emblematico discusso nel corso della Conferenza riguarda l'astronomia dei neutrini, sia di origine solare sia provenienti da altri oggetti stellari. Il neutrino è una particella elementare che, a causa della sua debole interazione, risulta così penetrante da poter attraversare la Terra o il Sole. Sebbene difficile da rilevare, il neutrino è quindi la particella ideale per lo studio dei fenomeni astrofisici; a differenza della luce che viene schermata da piccole quantità di materia e che ci permette quindi solo l'osservazione delle superfici degli oggetti, il neutrino ci porta informazioni su ciò che accade all'interno delle stelle. Nel caso dei neutrini provenienti dal Sole i risultati delle misure potrebbero avere anche implicazioni su alcune caratteristiche del neutrino stesso, con importanti riflessi per la teoria delle particelle elementari. Il Sole è una specie di enorme reattore che produce energia attraverso una serie di reazioni di fusione nucleare. (E' interessante notare che la comprensione del meccanismo di funzionamento delle stelle come sorgenti di energia non è venuta dal miglioramento delle osservazioni nella emissione di luce ma dallo studio delle reazioni nucleari). Il Sole emette un forte flusso di neutrini che attraversa continuamente il nostro pianeta. L'osservazione di questi neutrini e la misura della loro distribuzione in energia ci porta informazioni direttamente dai processi nucleari che avvengono dentro la nostra stella. Una serie di recenti misure, tra le quali di grande importanza quelle eseguite nei laboratori del Gran Sasso, indica una discrepanza tra le previsioni teoriche e i risultati sperimentali. Una possibile interpretazione di queste discrepanze è collegata con una caratteristica dei neutrini (l'oscillazione tra diversi tipi di neutrini) di grandissima importanza per la teoria delle particelle elementari e che una lunga serie di esperimenti agli acceleratori non è riuscita a mettere in evidenza. Ancora molti anni di misura e una serie di nuovi esperimenti attualmente in preparazione sono necessari per una completa comprensione del fenomeno. Nunzio Iucci Università di Roma «La Sapienza»


IN BREVE Quattro Nobel al Premio Dondi
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, PREMIO
NOMI: RUBBIA CARLO, BASSOV NICOLAY, DAUSSET JEAN, PRIGOGINE ILYA
ORGANIZZAZIONI: PREMIO DONDI DELL'OROLOGIO
LUOGHI: ITALIA, MILANO (MI)

Il 12 settembre Carlo Rubbia, Nicolay Bassov, Jean Dausset e Ilya Prigogine, tutti e quattro vincitori del Premio Nobel, assegneranno il premio europeo «Dondi dell'Orologio» per la storia della scienza, delle tecniche e dell'industria. La cerimonia si svolgerà al Museo di scienza naturale di Milano (corso Venezia 55) alle 10,30. Finalisti, Alistar Crombe, Marshall Clagett e Geoffrey Lloyd.


IN BREVE Tumori al seno dibattito ad Acqui
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, CONGRESSO
LUOGHI: ITALIA, ACQUI TERME (AL)

Diagnosi e terapia precoce dei tumori del seno saranno il tema di una tavola rotonda divulgativa che si terrà ad Acqui Terme sabato 14 ottobre. Partecipano Veronesi, Donna (Lega italiana tumori), Frigerio (responsabile dello screening a Torino), Di Maggio (Università di Padova, radiologo) e l'assessore alla Sanità del Piemonte. A un altro dibattito, più tecnico, parteciperanno anche Morino, Betta, Bottero e Giandomenico Bocchiotti, che è l'organizzatore di entrambe le iniziative.


IN BREVE «Oasis», manifesto per l'ambiente
ARGOMENTI: ECOLOGIA, EDITORIA
ORGANIZZAZIONI: OASIS
LUOGHI: ITALIA

La rivista «Oasis» compie 10 anni e cento numeri: li festeggia con un «Manifesto per l'ambiente» che è stato presentato a Roma di fronte ai rappresentanti di tutte le maggiori associazioni ambientaliste. Ma anche con un numero speciale corredato da una videocassetta dedicata al Parco del Gran Paradiso, il tutto per 7500 lire. E' l'inizio, dice l'editore Musumeci, di un nuovo ciclo, che vedrà la rivista rinnovarsi e diventare «più aggressiva».


IN BREVE Eclisse di Sole viaggio in Cambogia
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ESTERO, CAMBOGIA

Il 24 ottobre, esattamente a mezzogiorno, sulla Cambogia calerà la notte: sarà l'eclisse totale di Sole più interessante di questi ultimi anni. Il fenomeno potrà essere osservato da un luogo di grande fascino: il complesso monumentale di Angkor, antica capitale del popolo Khmer che le foreste dell'Indocina hanno restituito intatto dopo secoli. La Going (011- 814.2111) organizza un apposito viaggio per gli appassionati di astronomia, con la possibilità di scegliere tra una durata di 10 e di 17 giorni; quota da 3 milioni e mezzo, partenza il 20 ottobre. E' assicurata l'assistenza di astronomi professionisti. La rivista «Nuovo Orione», nel numero ora in edicola, dedica ampi servizi alle tecniche di osservazione.


MOSTRA ITINERANTE Il computer parla in piemontese Atlante linguistico con sintesi della voce
Autore: RAVIZZA PAOLA

ARGOMENTI: INFORMATICA, TECNOLOGIA, CULTURA, REGIONE, MOSTRE
NOMI: MONTALBANO GIANLUCA, GASCA QUEIRAZZA GIULIANO, GENRE ARTURO, MASSOBRIO LORENZO, ROSSEBASTIANO ALDA, TELMON TULLIO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. Esempi di variazione di pronuncia in alcune località del Piemonte
NOTE: «Il Piemonte linguistico». «Atlante parlato piemontese»

LA tecnologia è corsa in aiuto alla linguistica. L'avvento dei computer capaci di sintetizzare la voce ha permesso la creazione degli atlanti parlanti, la versione informatica di quelli linguistici, aprendo nuove prospettive di ricerca. Grazie ad essi, lo studioso può ascoltare come viene pronunciata la stessa parola in varie località di una o più regioni. E' un esempio di come le tecnologie avanzate possano offrire strumenti di lavoro nuovi alle discipline umanistiche, contribuendo, si spera, a ridurre la separazione tra le due culture. Un'occasione per mostrare al pubblico i fondamenti scientifici di questa materia sconosciuta ai più è la mostra itinerante «Il Piemonte linguistico». Ha preso il via a maggio al Museo della Montagna di Torino, accompagnata da un catalogo curato da Giuliano Gasca Queirazza, Arturo Genre, Lorenzo Massobrio, Alda Rossebastiano e Tullio Telmon, e ora sta toccando altre località piemontesi. I visitatori hanno accesso alle informazioni del primo «Atlante parlato piemontese» utilizzando il «touch screen», cioè toccando lo schermo del computer anziché tramite la tastiera o il mouse. Sulla videata della cartina del Piemonte si seleziona l'area che si vuole esplorare. Questa comparirà successivamente ingrandita e dettagliata con i nomi delle località nelle quali si è svolta la ricerca. A lato della videata ci sono i pulsanti virtuali con cui scegliere le parole e le frasi campione da ascoltare. Sfiorandoli, si potrà ascoltare la pronuncia della parola prescelta in una determinata località. Ideatore dell'Atlante parlato piemontese è Gianluca Montalbano, responsabile dei sistemi innovativi della Koinè di Beinasco, che ha utilizzato il software Hypercard 2.2 a colori. La realizzazione di questo sistema ha richiesto molti mesi di lavoro, perché le registrazioni delle interviste nelle località prescelte devono essere di ottima qualità, e vanno effettuate tutte con lo stesso registratore, utilizzando lo stesso tipo di cassette ed essere eseguite dalla stessa persona perché non deve cambiare la tecnica di registrazione. Anche lo studio, la progettazione e la realizzazione delle videate portano, via molto tempo, così come, ad esempio, la digitalizzazione delle interviste sul computer (bisogna tagliare con precisione il tracciato sonoro e ripulirlo dei rumori di fondo). Prima dell'avvento di quelli parlati, gli studiosi utilizzavano gli atlanti linguistici, grazie ai quali si sono conservate molte informazioni sui dialetti. E' a Giovenale Vegezzi-Ruscalla che si deve la prima esplorazione linguistica, una raccolta delle diverse traduzioni dialettali della «Parabola del figliuol prodigo», compiuta tra il 1830 e il '35. Da allora si sono moltiplicate le pubblicazioni. Tra quelle che riguardano il dialetto piemontese, oltre ai vari atlanti regionali, ve ne sono tre a carattere nazionale: l'«Atlas linguistique de la France», pubblicato agli inizi di questo secolo, l'«Atlante linguistico ed etnografico dell'Italia e della Svizzera meridionale», uscito nel '48, e l'«Atlante Linguistico Italiano», che dopo settant'anni di travagliate vicende sta per essere pubblicato dall'Istituto Poligrafico dello Stato. Paola Ravizza ----- SU una cartina geografica del Piemonte sono raffigurate le località prese in esame dal ricercatore, indicate solo dalla sigla della provincia e da un numero progressivo. A questo corrisponde il nome vero e proprio del luogo, indicato nella legenda posta a fianco della carta. Quella che prendiamo ad esempio è dedicata al nome «grembiule». Si potrà leggere sulla cartina e nella legen da la pronuncia di questo oggetto nelle varie località piemontesi. Ne risultano due distinte basi etimologiche (con l'eccezione di una variante «grembiul» trovata a Torino e una «scharè» di Solero, Alessandria, di origine incerta). Tutte le altre, con le dovute differenze di pronuncia, risalgono alla forma longobarda «skauz», cioè grembo, diffusa in generale nel Piemonte orientale, e alla forma franca «falda», diffusa in quello occidentale. Per esempio, in provincia di Torino, a Ronco Canavese grembiule si dice «faudal», a Salbertrand «foudl» e a Pragelato «foudiel». Nella provincia di Alessandria, a Villanova si dice «il faoudè», ma a Bozzole «scousà», a Cantalupo Ligure «scousò» e a Bistagno «scoushà». Ad Asti vale la pronuncia «faudà» mentre a Nizza M.to «scousà». In provincia di Verbania prevale la forma «scoussal», la cui base germanica è stata accettata nelle isole linguistiche walser di Formazza (Vb) con l'impronunciabile «ts echos» e di Alagna (Vc) con «schomt».[p. rav.]


DOPO 358 ANNI Fermat, giallo risolto Dimostrato il teorema-telenovela
AUTORE: SCAPOLLA TERENZIO
ARGOMENTI: MATEMATICA
PERSONE: DE FERMAT PIERRE
NOMI: WILES ANDREW, TAYLOR RICHARD, WEIL ANDRE', SERRE JEAN PIERRE, RIBET KENNETH, DE SHALIT EHUD, WOLFSKEHL PAUL, DE FERMAT PIERRE
ORGANIZZAZIONI: ANNALS OF MATHEMATICS, PRINCETON UNIVERSITY, INSTITUTE FOR ADVANCED STUDY
LUOGHI: ITALIA

CON la pubblicazione sugli «Annals of Mathematics» (vol. 141, n. 3, 1995), la rivista della Princeton University e dall'Institute for Advanced Study, di un lungo articolo, oltre novanta pagine, di Andrew Wiles («Modular elliptic curves and Fermat's Last Theorem») e di una nota di Richard Taylor e dello stesso Wiles («Ring Theoretic properties of certain Hecke algebras»), cala definitivamente il sipario su una tra le più note affermazioni matematiche: è davvero impossibile scrivere un numero intero che è una potenza più grande di due come somma di due potenze dello stesso ordine. A dispetto del nome col quale l'affermazione è ricordata, «Ultimo Teorema di Fermat», prima della dimostrazione di Wiles si trattava solo di una congettura. Anche come teorema non era certamente l'ultimo proposto dal grande matematico Pierre de Fermat (vissuto tra il 1601 e il 1665) se, come pare, fu da lui formulato (e dimostrato?) attorno al 1637, ben prima della sua morte. Nell'introduzione al suo lavoro Wiles ricostruisce il percorso che ha condotto alla soluzione del teorema, dopo oltre tre secoli di tentativi che hanno visto impegnati matematici insigni, da Eulero a Legendre, da Dedekind a Kronecker. Il punto di partenza è una congettura scaturita da ricerche condotte negli Anni 50 e 60 da Shimura e Taniyama («ogni curva ellittica sui razionali è modulare»). L'affermazione diviene nota solo dopo la sua pubblicazione in un lavoro di Andrè Weil (1967), confinata, per la sua plausibilità, al ruolo di «esercizio per il lettore interessato». Weil fornisce alcune evidenze concettuali a favore della verità della congettura. Nel 1985 Frey, con una efficace intuizione, la collega all'Ultimo Teorema di Fermat; più esattamente la congettura di Taniyama implica il teorema. La relazione è formulata con precisione da Jean-Pierre Serre e poi dimostrata compiutamente da Kenneth Ribet nel 1986. Di più, in base al risultato di Ribet la congettura di Taniyama è richiesta solo per particolari curve ellittiche. Wiles inizia la sua sfida personale nell'estate 1986, appena appresi i risultati di Ribet. Sono tentativi dapprima infruttuosi, poi coronati da successi parziali. Il mosaico sembra sul punto di completarsi ma manca sempre qualche tassello. Il punto di svolta avviene nella primavera del 1991, quando trova un collegamento inatteso tra due particolari strutture algebriche. Il materiale sembra assumere un volto organico e in tre seminari, tenuti a Cambridge nei giorni 21-23 giugno 1993, Wiles espone i suoi risultati davanti a un gruppo di studiosi. Dopo l'esposizione un collega, Ehud de Shalit, gli ricorda un suo risultato in qualche modo legato alle tecniche impiegate nella dimostrazione. Nell'autunno '93, un po' per le obiezioni sollevate da matematici ma forse a seguito di controlli più rigorosi da parte dello stesso Wiles (nessun manoscritto era ancora stato diffuso), gli fu chiaro che la sua esposizione era incompleta e forse difettosa. L'ostacolo viene presto identificato e Richard Taylor si unisce a Wiles per porre rimedio alla lacuna. Dapprima essi ritengono di dover cambiare tecnica, ma senza alcun successo sino ad agosto 1994. Poi si convincono che la metodologia originale può essere corretta, riguardano il tentativo iniziale, anche solo «per formulare con maggior precisione l'ostacolo». Così facendo, sono parole di Wiles, «ebbi all'improvviso una rivelazione meravigliosa: il 19 settembre 1994 vidi in un attimo che la teoria di de Shalit se generalizzata» poteva risolvere il problema. Ancora Wiles: «trovai inaspettatamente la chiave mancante al mio ragionamento iniziale che avevo abbandonato». In pochi giorni Wiles e Taylor mettono a punto i dettagli e questa volta, non ci sono dubbi, la dimostrazione è completa. Quanto all'errore che ha allungato i tempi di lavoro, Wiles può consolarsi, è in ottima compagnia: la dimostrazione di Eulero (1970) nel caso di potenze di ordine tre (nessun cubo è la somma di due cubi) conteneva anch'essa un errore, sia pure facilmente riparabile. A Wiles tocca certamente, tra i tanti riconoscimenti, anche il premio Wolfskehl, dal nome di Paul Wolfskehl che quando morì nel 1908 lasciò un premio di centomila marchi per chi avesse provato il teorema di Fermat che, come noto, ha attratto l'attenzione di moltissimi matematici professionisti e dilettanti. Sono stati soprattutto questi ultimi i più prolifici: nel 1908 a Gottinga c'erano già 621 soluzioni, nel 1924 erano tre i metri di corrispondenza. Nel 1947 a Parigi l'Accademia delle Scienze decise di cessare di considerare le prove del teorema di Fermat in quanto «le persone che propongono la dimostrazione ignorano di solito i risultati più recenti» e quindi il loro esame è «una grande inutile perdita di tempo per i Membri dell'Accademia». Ma, come spesso accade in casi analoghi, la sola notizia dell'avvenuta dimostrazione ha bisogno di anni per consolidarsi e i Direttori di dipartimenti matematici, i Presidenti di accademie scientifiche, i Comitati del Consiglio Nazionale delle Ricerche continueranno a ricevere «nuove» prove con richiesta di verifica. D'altra parte quella originale di Fermat, se c'era, non era certamente complessa come quella di Wiles e quindi forse c'è ancora spazio. La cronaca del lavoro di Wiles ben evidenzia gli aspetti costruttivi della matematica, spesso occultati dalla perfezione del risultato finale. C'è nella lunga storia del teorema di Fermat una sequenza di «trial and error» che non appartiene solo alle scienze sperimentali in senso stretto ma che è propria di ogni seria ricerca scientifica. Il racconto dell'impresa di Wiles restituisce alla matematica quella sua dimensione peculiare di «lotta e avventura» che sempre accompagna piccole e grandi conquiste della conoscenza umana. Terenzio Scapolla Università di Torino


LA TERRA SI RISCALDA E il pioppo colonizza la tundra Piante dei climi temperati avanzano verso l'Artico
Autore: ANGELA ALBERTO

ARGOMENTI: BOTANICA, GEOGRAFIA E GEOFISICA
NOMI: LANDHAUSER SIMON, WEIN ROSS
LUOGHI: ITALIA

C'E' una marcia silenziosa in atto da qualche anno nelle foreste dell'emisfero boreale verso l'Artico. Una lenta avanzata che solo pochi hanno notato e che ha dei protagonisti inattesi: gli alberi. Le piante non si sono certo messe a camminare, quello che accade è che le nuove generazioni hanno cominciato a occupare aree nuove, verso l'Artico, da sempre evitate per il clima troppo rigido. Interi boschi si stanno insomma progressivamente estendendo verso Nord. Cosa sta succedendo? Secondo i ricercatori che hanno annunciato la scoperta, alla base di questa migrazione che corre sul filo delle generazioni, vi sarebbe un sensibile riscaldamento terrestre, che renderebbe ambienti fino a oggi proibitivi più accessibili a certe varietà di alberi. Ad accelerare questa migrazione contribuirebbero gli incendi (favoriti dal riscaldamento climatico) che ogni anno devastano ampie aree di foreste nordiche spianando la strada ai nuovi invasori. A lanciare l'allarme sono due studiosi canadesi dell'Università dell'Alberta, Simon Landhauser e Ross Wein, che da alcuni anni stanno compiendo una serie di studi sulla ricolonizzazione da parte degli alberi di aree rase al suolo dal fuoco nell'estremo Nord del Canada. Gli ambienti coinvolti da questa avanzata silenziosa sono quelli tipici dell'estremo Nord, oltre il circolo polare artico, con distese di muschi e licheni (tundra piatta) a contatto con le ultime foreste del continente americano. Tradizionalmente è proprio qui che vivono le popolazioni occidentali di eschimesi Inuit. Contrariamente a quanto saremmo portati a pensare, viste le basse temperature, non sono pini o abeti (cioè delle conifere) ad andare verso Nord, ma pioppi e betulle, cioè alberi a foglie caduche. Facendo base a Inuvik, nel cuore dei territori nord-occidentali canadesi, i due ricercatori hanno esaminato molte aree devastate da incendi negli anni passati che si stanno rivegetando grazie ai semi portati dal vento. Le piantine che stanno crescendo però non riflettono la situazione precedente al fuoco: ci sono meno conifere e più alberi a foglie caduche. E' emerso che questi ultimi hanno in molti casi «ecceduto» nella loro opera di ricolonizzazione, occupando aree bruciate che non erano mai state coperte da alberi in precedenza, a testimonianza di un sensibile cambiamento del clima. Negli ultimi anni, sostengono i due ricercatori, il clima durante la stagione della crescita sarebbe diventato leggermente più caldo e più secco, costituendo il vero «motore» di questa avanzata. Se questa tendenza si confermasse e si stabilizzasse, assisteremmo a un graduale spostamento verso l'Artico dei boschi di alberi a foglie caduche. Le specie più favorite sarebbero quelle con maggior capacità di disperdere i semi su lunghe distanze. Stiamo dirigendoci quindi verso un generale riscaldamento terrestre? Da più parti giungono notizie allarmanti sull'aumento della temperatura dell'aria. Purtroppo la situazione è molto confusa. Non esistono certezze. Ecco gli unici dati sicuri. Dall'ultima glaciazione la tendenza è stata quella di un progressivo riscaldamento: gli strati di ghiaccio dell'Antartico indicano che la temperatura media attuale sarebbe la più alta degli ultimi 150 mila anni. E dall'inizio del secolo sarebbe aumentata di mezzo grado. Con il famigerato effetto serra, alimentato dall'immissione nell'atmosfera di gas come l'anidride carbonica, il metano, gli ossidi di azoto e i Cfc - tutti prodotti, direttamente o indirettamente, legati alle attività dell'uomo -, è garantito un riscaldamento dell'aria nel prossimo futuro. Ammesso, ovviamente, che non si intervenga per frenare questo meccanismo o che non scattino delle reazioni dell'ambiente stesso tali da modificare le previsioni. Conosciamo quindi ciò che è accaduto nel passato per via naturale, sappiamo ciò che rischia di accadere nel futuro per mano dell'uomo. Ciò che non si riesce ancora a definire è il presente: siamo di fronte a «normali» oscillazioni climatiche (in Italia, ad esempio, si sono alternati negli ultimi 130.000 anni climi caldi con savane e ippopotami e climi gelidi con neve e mammuth), oppure alle prime avvisaglie di un'alterazione artificiale del clima per opera dell'uomo? Nessuno lo sa con certezza. Alberto Angela


Grandine record Il chicco più grande osservato dagli studiosi è caduto nel settembre 1970 e pesava 750 grammi
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA
LUOGHI: ITALIA

ANCHE un chicco di grandine può passare alla storia. E' il caso di quello caduto il 3 settembre 1970 nel Nebraska. Pesava 750 grammi e aveva una circonferenza di 14 centimetri. Tuttora detiene il primato di superchicco. Nell'interesse delle nostre case, delle colture agricole, e soprattutto delle nostre teste, c'è da augurarsi che la natura non voglia battere tanto presto quel suo record di 25 anni fa. Nel frattempo i meteorologi lavorano per capire meglio come si formino i chicchi di grandine normali, con diametri di qualche centimetro. Tutto incomincia intorno a un minuscolo nucleo di condensazione: un granello di sale, di polline o di sabbia. Ad alta quota, come ci spiegano in aereo, la temperatura scende facilmente a 40-50 gradi sotto zero. L'umidità forma intorno ai nuclei di condensazione dei microcristalli di ghiaccio, e può succedere che questi rimangano sospesi in una nube di goccioline di acqua soprarraffreddata (cioè ancora liquida benché la sua temperatura sia abbondantemente sotto zero gradi). In questo caso il microcristallo condensa attorno a sè migliaia di volte più acqua di quanto avviene in condizioni normali. Ciò richiede però una forte turbolenza atmosferica, tale da riportare più volte in alta quota, e quindi al gelo, il cristallo di ghiaccio che stava precipitando, fino a quando raggiunge un peso tale da farlo cadere al suolo. La struttura a cipolla osservata in molti chicchi confermerebbe le varie fasi di accrescimento. Secondo idee più recenti però la crescita avverrebbe in un'unica discesa, rallentata da correnti ascensionali. Gli studi proseguono creando grandine artificiale in appositi «tunnel a vento» raffreddati. E anche analizzando grandine naturale ai raggi X: un chicco di un grammo può contenere 200 particelle più grandi di un micron, batteri e persino piccoli insetti, oltre a milioni di bollicine d'aria. La grandine avrebbe un ruolo importante nella genesi dei fulmini (vedi l'articolo a fianco e la foto in alto, scattata da Alessandro Poggi). A proposito di primati: Lombardia, Veneto, Friuli e parte del Piemonte si beccano il maggior numero di fulmini: 4 all'anno per chilometro quadrato contro i 2,5 del resto d'Italia. Piero Bianucci


FISICA DELL'ATMOSFERA La fabbrica dei fulmini Sulla Terra, 44 mila temporali al giorno
Autore: ROCCUZZO BRUNO

ARGOMENTI: FISICA, METEOROLOGIA
NOMI: FRANKLIN BENJAMIN
LUOGHI: ITALIA

DELL'ESTATE che sta volgendo al termine molti ricorderanno il brutto tempo. Da Ferragosto in poi l'Italia è stata colpita da violenti temporali, che hanno causato gravi danni all'agricoltura e fatto anticipare il rientro dalle vacanze. Sulla Terra si scaricano 16 milioni di temporali all'anno, 44.000 al giorno. Questo vuol dire che mentre state leggendo su tutta la Terra sono in corso ben 1800 temporali. La regione più esposta è Giava: in ogni località di quest'isola si sente un temporale per il 61 per cento dei giorni dell'anno. La percentuale scende al 30 per cento in Brasile e all'1 per cento della costa della California. La media europea è dell'11 per cento, con una punta del 18 sulle Alpi. Una caratteristica dei temporali estivi sono i fulmini. Benché vengano studiati da molti anni, qualche loro proprietà resta ancora sconosciuta. La prima esperienza che mostrò che i fulmini sono fenomeni della stessa natura delle scintille elettriche fu proposta nel 1750 dal fisico americano Benjamin Franklin ed eseguita nel 1752. In cima a un aquilone Franklin sistemò un filo metallico molto appuntito. All'altra estremità lo spago terminava con un nastro di seta, che aveva la funzione di isolare lo scienziato, e al punto d'incontro del nastro e dello spago era fissata una chiave. All'approssimarsi di nubi temporalesche, l'aquilone si caricava elettricamente. Avvicinando le nocche della mano alla chiave, dalle parti a punta di essa Franklin notò una serie di scariche elettriche. Con la corrente elettrica presa dall'aquilone Franklin riuscì anche a caricare un condensatore. Non provate però a ripetere questo esperimento. In Europa lo sfortunato Richmann tentò di verificare i risultati di Franklin, ma lo trovarono morto con una macchia rossa sulla fronte e due fori in una scarpa. Vediamo di capire il meccanismo di formazione dei fulmini. La sommità di una nube temporalesca contiene molte cariche positive, mentre le zone centrale e inferiore posseggono, prevalentemente, cariche negative. Non sappiamo ancora bene perché ciò avvenga. Alcune teorie legano la produzione di cariche al grandissimo numero di urti fra cristallini di ghiaccio e chicchi di grandine, in cui questi ultimi si caricano negativamente e i primi positivamente a causa delle loro diverse temperature. A volte capita anche che una piccola quantità di cariche positive si trovi nella pioggia, ossia alla base della nube, nella zona più vicina al terreno. Inizialmente si ha una scarica tra la base e la metà inferiore della nube; in altre parole gli elettroni, che sono carichi negativamente, scendono verso la base della nube. Questa discesa non avviene in maniera continua, ma a strattoni: con una serie di sbalzi lunghi circa 50 metri e a intervalli di 50 milionesimi di secondo, il fronte delle cariche negative si avvicina al suolo. In questo modo ha luogo la cosiddetta prescarica, in un tempo relativamente lungo, circa due centesimi di secondo. Quando l'estremità più avanzata della prescarica giunge in prossimità del terreno, un afflusso improvviso di un'enorme quantità di cariche elettriche, partendo dal suolo (di solito in corrispondenza di oggetti appuntiti o sporgenti dove il campo elettrico è più intenso, ossia dove si trova una maggiore concentrazione di cariche) risale verso il percorso della prescarica; è questa la scarica principale, dell'ordine di 10.000 ampere, che genera il lampo principale che noi vediamo, e che avviene più rapidamente della prescarica, intorno ad un decimillesimo di secondo. Talvolta vi è solo un lampo di ritorno, ma spesso ce ne sono molti in successione rapidissima, a intervalli di qualche millesimo di secondo. L'enorme energia rilasciata scalda l'aria, che quindi si espande, creando un'onda d'urto: quando questa giunge alle nostre orecchie, sentiamo un tuono. Che fare quando siete sorpresi da un temporale? Se siete in macchina, chiudete i finestrini e state pure tranquilli. Vi trovate infatti in una gabbia di Fara day: la corrente non penetra le pareti metalliche dell'automobile, ma rimane su uno strato esterno del metallo. Lo stesso Faraday dimostrò questa proprietà facendo costruire una grande scatola cubica ricoperta di metallo e posta su supporti isolanti. Mentre dall'esterno il cubo veniva caricato e scoccavano scintille, lui stava tranquillamente all'interno senza accorgersi di nulla. Se vi trovate all'aperto, liberatevi di oggetti metallici (catenine, orologi, collane, attrezzi da giardinaggio) e evitate di stare vicino a qualunque cosa che sia elevata rispetto al terreno (alberi, pali). Una volta colpito il suolo, la corrente si distribuisce orizzontalmente sul terreno. Se un animale, ad esempio una mucca, sta in piedi, è facile che la corrente al suolo entri dalle zampe anteriori e esca da quelle posteriori, uccidendolo. Il modo migliore per difendersi è dunque quello di accovacciarsi, tenendo la testa bassa e minimizzando la superficie di contatto con il suolo, così da rendere la differenza di potenziale tra due punti della superficie di contatto la più bassa possibile. Gli effetti dei fulmini sono a volte tragici, altre volte curiosi. Può capitare ad esempio di rimanere improvvisamente svestiti e senza scarpe, a causa della rapida evaporazione ed espansione dell'umidità presente sulla pelle. I fulmini sono molto importanti per il mantenimento dell'equilibrio delle cariche. Infatti, a prescindere dalla presenza di nubi, l'atmosfera è sede di un campo elettrico. Tra la Terra e l'elettrosfera, a 12 chilometri dal suolo, vi è una differenza di potenziale di 300.000 volt. Si forma quindi una specie di grande condensatore sferico, che potrebbe scaricarsi facilmente in pochi minuti a causa della continua ionizzazione delle molecole d'aria da parte dei raggi cosmici e della radioattività naturale terrestre. Ciò però non succede grazie all'incessante attività temporalesca, che ricarica il condensatore Terra- elettrosfera. E' curioso notare che nelle immediate vicinanze della superficie terrestre il campo elettrico vale in media 120 volt al metro, cioè c'è una differenza di potenziale di circa 100 volt tra i piedi e il naso se siete seduti, e di 200 volt se state in piedi. Anzi, in città la differenza di potenziale può anche raddoppiare. Fortunatamente però non siamo fulminati da nessuna scarica. Infatti la differenza di potenziale è tra l'altezza alla quale si trovano i piedi e il naso, ma il nostro corpo è un buon conduttore cosicché si trova praticamente tutto allo stesso potenziale. Quindi, ora che avete finito di leggere l'articolo, se vi dovete alzare fatelo pure senza problemi. Bruno Roccuzzo Università di Torino


ALIMENTAZIONE Patate ai raggi X: per conservarle meglio Secondo un rapporto Oms, la nuova tecnica non comporta particolari rischi
Autore: PELLATI RENZO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: OMS
LUOGHI: ITALIA

L'irradiazione degli alimenti è un metodo sicuro ed efficace per conservarli. I rischi eventuali legati a errori di trattamento non differiscono da quelli di altre tecniche, come la pastorizzazione, la sterilizzazione, la surgelazione. Così conclude uno studio con più di 500 referenze bibliografiche pubblicato dall'Organizzazione mondiale della Sanità. L'irradiazione degli alimenti, chiamata anche ionizzazione, consiste nell'esposizione a raggi gamma, a raggi X o elettroni. Questa tecnica offre notevoli vantaggi perché distrugge i microrganismi patogeni contenuti negli alimenti, ritardando il processo di deterioramento e rendendo più sicuro il consumo. L'uomo si è sempre nutrito di cibi conservati. Dall'impiego del sale, dell'aceto, dell'affumicatura, dell'essiccamento, si è passati all'impiego delle alte temperature (che ha aperto la via alla grande industria delle conserve in scatola) e all'azione del freddo (surgelazione). Oggi entriamo in un'altra era: l'impiego delle radiazioni ionizzanti, che permettono di combattere agenti patogeni quali le salmonelli, il campylobacter, la listeria monocytogena. Il timore che l'alimento irradiato diventi radioattivo è infondato: l'attivazione radioattiva di un elemento, per mezzo di raggi gamma, richiede radiazioni di energia 10 volte superiori a quelle normalmente utilizzate per gli alimenti. Questo non significa che le radiazioni siano completamente innocue per i cibi e che non possano provocare alterazioni nella composizione dei principi nutritivi perché quando una molecola o un insieme di molecole riceve energia sotto qualsiasi forma (calore, luce, radiazioni) può reagire modificandosi e alterandosi in diversi modi. Dall'irradiazione dei carboidrati possono derivare chetoni, aldeidi e acidi organici. Dalle proteine possono formarsi polipeptidi di dimensioni inferiori. Dai lipidi possono formarsi esteri, diesteri, trigliceridi a catena breve. Ma la percentuale di principi nutritivi modificata dalle radiazioni (vengono definiti radioliti e hanno un sapore poco accettabile) è inferiore all'1-2 per cento nel caso vengano seguite le norme di buona fabbricazione. Si tratta di modificazioni che notiamo anche sottoponendo i cibi a trattamenti fisici: per esempio al calore. Pensiamo al benzopirene che si forma nella carne alla brace e ai lipoperossidi che si formano friggendo esageratamente i condimenti grassi. Per ora l'irradiazione sarà applicata soprattutto ad alimenti solidi come la carne, il pollame, i pesci, i frutti di mare, tuberi e spezie. La presenza di acqua e di ossigeno e l'elevata temperatura possono favorire la formazione di radioliti. Ecco perché, in alcuni casi, si dovrà ricorrere all'irraggiamento del prodotto surgelato: la temperatura più bassa diminuisce la formazione dei radioliti. Si ritiene che l'irradiazione degli alimenti fino a una dose complessiva media di 10 KGy (il gray - Gy - è l'unità di misura della dose di energia ionizzante assorbita) non provochi problemi nutrizionali. L'irradiazione non distrugge la totalità dei microrganismi (come avviene con la pastorizzazione). Di conseguenza vanno rispettate le condizioni di conservazione. Ad esempio si raccomanda che il pesce irradiato venga conservato a temperatura pari o inferiore a 3 gradi, per impedire la produzione della tossina botulinica. In Italia, oggi, è possibile consumare patate, aglio e cipolle irradiate. In Francia sono ammessi anche il pollame e le spezie. Oltre a questi cibi, in America sono ammessi legumi, carni e cereali. In Canada anche il pesce. Renzo Pellati


ORGANI DI ANIMALI Trapianto di virus Rischio reale, data l'affinità genetica
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, GENETICA
LUOGHI: ITALIA

NEI prossimi anni organi di altre specie animali potrebbero essere trapiantati su larga scala allo scopo di salvare vite umane. Cuori, polmoni, reni e midollo osseo ci verrebbero donati dalle scimmie (per l'affinità genetica con l'uomo) e dai maiali (per la stessa dimensione degli organi) con un numero stimato per i maiali in 40 mila reni e 50 mila cuori l'anno. Apparsa a luglio su Nature, questa notizia ha implicazioni così importanti per il nostro futuro da richiedere la più ampia diffusione e discussione possibile. All'inizio dello scorso aprile i medici dell'Università di Pitt sburgh e dell'Università di California (San Francisco, Usa) erano pronti per eseguire un trapianto di midollo osseo di babbuino in un malato di Aids, nella speranza di sostituire il suo sistema immunitario indebolito dalla malattia con quello di un'altra specie evolutivamente vicina alla nostra, che quindi può compiere la stessa funzione di difesa, ma non può essere attaccato dal virus Hiv, specifico per l'uomo. L'esperimento però non ebbe luogo per l'opposizione degli organismi di controllo federali previsti dalla regolamentazione americana: il Food and Drug Administration e il Center for Disease Control di Atlanta, quest'ultimo divenuto famoso per l'azione svolta contro il virus Ebola nella finzione cinematografica (nel film «Virus letale») e nella dimensione reale della recente epidemia in Zaire. Le preoccupazioni che entrambi gli istituti avanzano riguardano la possibilità che questa prassi medica dia l'opportunità a virus latenti e per ora sconosciuti di altre specie di «saltare» nella nostra, innescando epidemie non controllabili. L'ipotesi è tutt'altro che infondata. I virus sono brevi ma completamente funzionanti tratti di Dna o di Rna inclusi in una capsula proteica, che devono entrare in una cellula ospite per poter vivere e riprodursi. Il pericolo che i trapianti di organi di altre specie determinino l'insorgenza di nuovi virus per la nostra specie viene in particolare modo dai retrovirus, forme patogene costituite soltanto da Rna: una volta penetrato in una cellula, l'Rna determina la sintesi di una complementare sequenza di Dna, la quale può entrare a far parte di un cromosoma dell'ospite, dove rimane celata. Sembra che ogni specie, quella umana compresa, porti nei suoi cromosomi una zavorra di Dna costituita da retrovirus appartenenti a un lontano passato, sconfitti, imbavagliati e non più in grado di nuocere finché un evento imprevisto non altera l'equilibrio e li fa riemergere. Un paziente che subisce un trapianto è per così dire il «sogno» di ogni agente patogeno, perché viene a trovarsi in un ambiente dove il sistema immunitario è stato deliberatamente annullato per evitare il rigetto: ecco quindi che antichi retrovirus possono rimettersi in corsa, e virus latenti o forme tuttora belligeranti possono avere nuove opportunità, che permettono loro di adattarsi con successo alla nostra specie. Homo sapiens è, per una nuova forma virale, una ricchissima nicchia: cinque miliardi di individui privi di anticorpi specifici, contro le poche migliaia di una popolazione di scimmie già da lungo tempo a contatto con il virus. E poiché per ora non esiste un test generale di laboratorio capace di scovare una forma virale ignota, noi rischiamo di trapiantare organi apparentemente sani, carichi invece di potenziali virus per la nostra specie. Un caso emblematico ce l'abbiamo proprio sotto gli occhi ed è la storia dell'Aids. E' ormai universalmente accettato che il virus dell'Aids (per l'appunto un retrovirus) deriva da una forma virale delle scimmie (il retrovirus Siv) che si è adattata all'uomo; e vi sono forti sospetti che a permettere il salto siano stati i vaccini antipolio (usati in Africa all'inizio degli Anni Sessanta) preparati utilizzando reni di scimmie apparentemente sani. Invece negli anni successivi divenne evidente che quei primi vaccini avevano propagato in milioni di persone la forma virale delle scimmie Sv40, sospetta di essere una causa dell'asbestosi nell'uomo. Anche il virus Ebola ha qualche cosa da insegnarci: celato in qualche animale finora sconosciuto, esso emerge di tanto in tanto colpendo le scimmie e l'uomo; e in più di un'occasione (in Germania e negli Stati Uniti) si è sprigionato da una partita di scimmie africane in attesa di essere utilizzate per la produzione di vaccini e la ricerca medica. Infine va considerato il problema etico di usare in un modo così crudele animali che, proprio per il fatto di dividere con noi il 99 per cento dei geni, hanno una psicologia complessa, un ricco mondo affettivo e sociale, soffrono il dolore fisico e mentale, patiscono la prigionia come noi. Se soltanto provassimo a immaginare di invertire le parti, con la nostra specie al posto della loro, forse accetteremmo anche quello che il nostro orgoglio ci impedisce di ammettere: che facciamo parte di un unico ecosistema, di cui è molto pericoloso sovvertire le regole; e le regole includono anche l'esistenza della malattia e della morte. Maria Luisa Bozzi


CROSS-REATTIVITA' Allergici alle betulle? Evitate i finocchi
Autore: CALABRESE GIORGIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

C'è gente che, mangiando fragole o pesche, si copre in un batter d'occhio di fastidiose, pruriginose e inestetiche macchie rosse, che si estendono dal collo alle braccia, al torace, alle gambe. C'è anche chi, senza aver mai mangiato in vita sua fragole e pesche, accusa i medesimi sintomi dei primi. Fino a poco tempo fa si pensava che ciò non fosse possibile, oggi, grazie a studi recenti, si sa che lo è. Grazie alla cross-reattività, un incrocio fra allergeni del polline e degli alimenti, si può diventare allergici ad alcuni alimenti, senza averli mai mangiati, toccati nè odorati. Tutto ciò a causa della presenza di profiline, molecole allergeniche, comuni alle diverse piante, localizzate, appunto, sia sui pollini, sia sulle parti commestibili. Le profiline sono glicoproteine, cioè proteine unite a glicidi, e si trovano nel citosol delle cellule eucariote, con la funzione di polimerizzare una proteina, l'actina. Esse sono così diffuse che vengono definite come «pan-allergeni». Alcuni di questi incroci sono noti nelle allergie alimentari, ad esempio tra le leguminose. E' nota, infatti, la cross-reattività che riguarda i pollini delle Oleacee, per cui una pollinosi da olivo si può sviluppare in seguito a sensibilizzazione ad altre specie della stessa famiglia, come il frassino, il ligustro o la forsizia. Ci sono ancora molti casi di incroci tra cibi e pollini, come tra le Graminacee e vari tipi di frutta, quali l'arancia, il kiwi, l'anguria e il melone. Lo stesso può avvenire per il polline di Betulla con sedano, carota e finocchio, e con le Rosacce, cioè ciliegie, mele e pere, oppure ancora con la frutta secca, nocciole, arachidi, noci, mandorle, pistacchio. C'è ancora il polline di Ambrosia, che può cross-reagire con melone e banana, e quello di Artemisia con sedano, carote, anguria e melone. Ecco perché tutti quei pazienti che in primavera soffrono di allergia alle Graminacee, e in autunno alle Composite, presentano gli stessi sintomi in altri periodi dell'anno, solo perché mangiano sedano, carote o melone. Da ciò si deduce che l'unico rimedio valido è quello di evitare l'alimento verso il quale si manifesta l'allergia. Ciò, a dir il vero, non è sempre facile, perché alcuni prodotti fanno parte della composizione di preparazioni industriali e quindi è arduo identificarli, cone accade con arachidi e cereali, responsabili di tante allergie alimentari. Dei pollini, quelli che provocano più allergie sono quelli di Graminacee e di Parietaria, seguiti da quelli di Betulla e Composite nel Nord, e da Cuprussacee e Olivo nel Sud. Ciò dimostra che a provocare allergie non sono solo i pollini ma anche alcune piante, semi, frutti, foglie e fusti. Se la causa è la stessa per tutti, la risposta è però sempre individuale: asma, rinite, congiuntivite e così via. In futuro, quindi, oltre a ricercare nuovi farmaci che possano disattivare le profiline e i loro effetti, sarà necessario per chi soffre di allergie sapere quali alimenti rimuovere dall'alimentazione quotidiana. Giorgio Calabrese Università Cattolica Piacenza


DISORDINI ALIMENTARI Cioccolato, droga mia Sostanze antioppioidi come rimedio
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: AMERICAN JOURNAL OF CLINICAL NUTRITION, WAYNE STATE UNIVERSITY
LUOGHI: ITALIA

IL richiamo del cioccolato per molti è fortissimo, per alcuni addirittura irrefrenabile. I dati parlano chiaro: un miliardo e mezzo di chili all'anno sono il consumo degli Stati Uniti, circa sei chili a persona. In Germania, Svezia e Svizzera queste cifre sono ampiamente superate. La composizione e il gusto cambiano da Paese a Paese, ma gli ingredienti fondamentali rimangono il cacao, lo zucchero e i grassi. Una recente polemica esplosa in Svizzera mette a fuoco l'uso dei grassi derivati dal cocco, con vantaggio dei Paesi asiatici e africani, rispetto ad altri tipi di grassi di produzione locale. Non è solo una questione di costi ma anche di gusto. Ma ritorniamo a chi di noi non si può frenare davanti a una scatola di cioccolatini. In certi individui che chiameremo «cioccolizzati» (in inglese li definiscono «chocoholics») gli eccessi possono portare a problemi di peso e di salute. Altri individui, definiti come bulimici, mangiano ogni due ore. Caratteristica in tutti è la mancanza di controllo e la sensazione di non potersi più fermare. Il tipo di cibo varia molto tra i vari episodi (chiamati in inglese binges), ma consiste tipicamente di dolci o prodotti ad alto contenuto calorico come gelati, paste e cioccolato. Fa parte di questo disturbo un comportamento di compenso per cui l'individuo si libera rapidamente delle calorie superflue e previene l'aumento di peso mediante il vomito, lassativi, diuretici, digiuni ed esercizio fisico intenso. Una recente e interessante ipotesi è quella che lega il comportamento degli individui affetti da bulimia nervosa alla presenza di sostanze oppioidi cerebrali che si trovano normalmente nel cervello e hanno una funzione di controllo del dolore. Tali sostanze chimicamente simili alla morfina e all'eroina avrebbero anche la funzione di aumentare l'impulso normale ad alimentarsi sotto lo stimolo della fame. I farmaci che bloccano l'effetto degli oppioidi naturali potrebbero in teoria aiutare i pazienti affetti da bulimia e da episodi di binge a mantenere un controllo sull'alimentazione. Un gruppo di scienziati dell'Università del Michigan ha studiato l'effetto di sostanze antioppioidi su due gruppi di donne, il primo affetto da obesità e il secondo a peso normale. In ognuno dei due gruppi dieci donne erano affette anche da bulimia nervosa. I soggetti erano invitati a scegliere sulla base della loro preferenza personale tra quattro categorie di alimenti. La prima scarsa di grassi e di zuccheri (granturco tostato, cioè popcorn e pretzel), la seconda povera di grassi ma ricca di zucchero (confetti di tipo gelatinoso), la terza ricca sia di grasso sia di zucchero (cioccolatini e biscotti al cioccolato) e la quarta ricca di grassi ma povera di zuccheri (patatine fritte e formaggini). A ogni partecipante veniva somministrato un farmaco bloccante degli oppioidi cerebrali o una sostanza neutra; il tipo di bloccante scelto era il naloxone, già usato nel trattamento dei drogati da eroina. Un'ora dopo il trattamento si offriva nuovamente un vassoio colmo dell'alimento preferito invitando il soggetto a farne uso a volontà. Nell'articolo pubblicato nel numero di giugno dell'American Journal of Clinical nutrition si riferisce che il naloxone diminuisce fortemente l'interesse per i cibi dolci e grassi quali il cioccolato, particolarmente in chi è affetto da bulimia. E' interessante notare che nè il gusto dolce nè la consistenza grassa dell'alimento sono percepiti diversamente da chi li assaggia. L'effetto del naloxone è nullo nei soggetti magri o grassi che non siano affetti da bulimia nervosa. Anche se l'esperimento è già indicativo di un effetto «anticioccolato» è difficile dimostrare una relazione specifica verso questo tipo di alimento. Altri esperimenti compiuti su animali fanno pensare che tale effetto sia esteso anche ad altri dolciumi che hanno una particolare proporzione di zucchero e grassi. Non dobbiamo dimenticare che gli effetti «farmacologici» del cioccolato sono dovuti alla presenza nel cacao di sostanze vicine alla caffeina, che esercitano azioni eccitanti sul sistema nervoso centrale agendo su recettori completamente diversi da quelli degli oppioidi cerebrali. Queste osservazioni cliniche coincidono con i risultati di altre indagini svolte alla Wayne State University di Detroit su soggetti sia bulimici sia anoressici tendenti a diminuire fortemente il peso corporeo usando però metodi opposti. Anche qui si sono notati effetti di trattamenti a base di farmaci anti-oppioidi. E' quindi pensabile in futuro di sviluppare terapie in grado di interrompere il ciclo vizioso che lega il paziente all'alimento (anoressia, bulimia e binge). Ezio Giacobini




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