TUTTOSCIENZE 20 gennaio 93


KAKAPO Il pappagallo che non sapeva più volare L'assenza di predatori ha modificato tutta la sua struttura fisica. Così adesso non sa difendersi dai nemici importati dall'Europa. Se la vegetazione è scarsa e quindi la dieta povera i kakapo possono stare anche anni senza riprodursi.
Autore: INGLISA MARISA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ETOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 011

La storia del pappagallo kakapo (Strigops habroptilus) della Nuova Zelanda sembrerebbe avere tutti i contorni della cronaca di una morte annunciata. Ampiamente diffusa in passato sulle tre isole principali neozelandesi, la specie ha visto man mano restringere la sua area di diffusione, al punto che nel 1987 rimanevano soltanto cinque piccole popolazioni insediate nelle impenetrabili foreste di montagna del Fiordland (distretto meridionale di Milford) e delle isole di Stewart, Little Barrier, Maud e Codfish. Lungo 64 centimetri, dalla punta del becco a quella della coda, con una livrea verde brillante nelle parti superiori e verde-giallastro in quelle inferiori, è il pappagallo più pesante del mondo: i maschi possono raggiungere i tre chilogrammi di peso (peso medio due chili) e le femmine superare normalmente il chilo e mezzo. La sua storia evolutiva per certi versi è emblematica degli uccelli adattati alla vita insulare: in assenza di nemici naturali come i carnivori predatori, ha perso la capacità di volare. Le sue ali sono corte e arrotondate e gli permettono solo piccoli voli planati spiccati dalla sommità degli alberi su cui si arrampica servendosi di poderosi artigli. Le sue ossa, al contrario degli uccelli volatori, non hanno camere d'aria. Dal tempo della scoperta e della loro prima descrizione, nel secolo scorso, i kakapo hanno subito un vero e proprio tracollo, sia a causa dell'introduzione dei mammiferi predatori dall'Europa, come donnole, martore, volpi, cani, gatti e ratti, sia per motivi legati all'alterazione dell'habitat causata dai cervi, voraci erbivori a loro volta introdotti dal continente europeo. Prima del 1977 era nota solo la popolazione insediata nel Fiordland, poi fu scoperto un secondo gruppo di 100-200 esemplari nell'isola di Stewart. Da allora quattro ricercatori del Dipartimento per la conservazione della natura di Wellington (la capitale della Nuova Zelanda) studiano l'ecologia e il comportamento di questo strano pappagallo dalle abitudini strettamente notturne. I risultati delle loro ricerche sono stati appena pubblicati sull'ultimo numero della rivista ornitologica «Ibis». Studiare la biologia riproduttiva del kakapo è difficile, non soltanto perché questi animali sono attivi di notte e nidificano in piccole cavità ricoperte da fitta vegetazione, ma anche a causa dell'estrema irregolarità con cui si riproducono. I kakapo infatti non nidificano tutti gli anni e i ricercatori hanno scoperto che i loro cicli riproduttivi sono strettamente legati alle risorse di cibo offerte dall'ambiente. La loro dieta è esclusivamente vegetariana: radici, rizomi, bulbi, germogli, fiori, foglie, bacche e polline. Questi cibi non sono disponibili nelle stesse quantità ogni anno e i pappagalli nidificano soltanto nelle annate favorevoli; possono trascorrere anche tre o quattro anni tra una nidificazione e la successiva. Gli ornitologi neozelandesi ritengono che l'irregolare produttività delle piante (che hanno stimato ogni anno tenendo sotto controllo 315 piante di 38 specie diverse) sia da mettere in relazione alle caratteristiche dei suoli torbosi su cui crescono, che a un'analisi pedologica si sono rivelati particolarmente poveri di nitrati. Dal 1977 al 1988 i kakapo dell'isola di Stewart hanno nidificato soltanto in tre annate, riportando oltretutto un basso successo riproduttivo (da covate di due-cinque uova sono nati in media uno o due pulcini). I ricercatori hanno marcato con piccole radio trasmittenti nove maschi e tre femmine per seguirne gli spostamenti e conoscerne le abitudini. I kakapo sono uccelli territoriali e ciascun individuo vive solitario su un'area estesa da 15 a 50 ettari. Durante le notti della primavera-estate boreale (da novembre a gennaio) i maschi si raggruppano in una «area di canto» (lek) posta generalmente in un'area sopraelevata e ciascun individuo scava un sistema di depressioni larghe in media cinquanta centimetri e profonde sette, collegate le une alle altre da «sentieri». Da queste postazioni ciascun maschio emette un suono a bassa frequenza, rimbombante, il booming, che può essere udito fino a cinque chilometri di distanza. Un concerto notturno che può durare incessantemente per otto ore. Il maschio e la femmina si incontrano soltanto nell'arena per accoppiarsi. I loro fugaci incontri avvengono nell'oscurità della notte e in undici anni di osservazioni i ricercatori non sono riusciti ad assisterne neanche a uno. La costruzione del nido sul terreno e l'allevamento dei piccoli è un compito esclusivo della femmina. La cova delle uova dura in media venticinque giorni e i giovani abbandonano il nido a circa dieci settimane di età. Un compito oneroso, quello della femmina, e pieno di insidie per lei e, soprattutto, per i pulcini che vivono a terra, costantemente esposti al pericolo dei predatori. Della popolazione originaria di cento-duecento individui nel 1977 sopravvivono oggi sull'isola di Stewart solo cinque esemplari. Dall'isola di Fiordland non giungono notizie rassicuranti: le ultime tracce di presenza del kakapo accertate dai ricercatori risalgono al 1987. L'ultima speranza per strappare il kakapo dall'estinzione è rappresentata da cinquanta esemplari, prelevati dall'isola di Stewart, che sono stati introdotti dagli uomini del New Zeland Wildlife Service a metà degli Anni Ottanta nelle isole di Little Barrier, Maud e Codfish. In queste tre piccole isole, infatti, i mammiferi predatori di origine europea non sono mai arrivati. E gli ornitologi sperano di salvare la specie fornendo agli ultimi kakapo rimasti risorse di cibo supplementari nel tentativo di indurli a riprodursi regolarmente e a incrementare così la popolazione ormai drammaticamente esigua. Maria Inglisa


LA PAROLA AI LETTORI Solo gli astigmatici vedono le stelle a punta
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 012

L A domanda sull' assenza di mammiferi verdi, pubblicata qualche settimana fa, ha incuriosito non pochi lettori, che hanno continuato a scriverci. Fra le tante lettere, abbiamo scelto quella del Dipartimento di Scienze Biochimiche dell' Università «La Sapienza» di Roma, che soddisfa ogni curiosità: «I mammiferi sono animali a sangue caldo: contrariamente ai rettili, possono mantenere una temperatura corporea (37 39) indipendente, entro certi limiti, da quella dell' ambiente esterno. Questa capacità ha fatto sì che i mammiferi si siano perfettamente adattati al clima della terra, mentre i rettili sono quasi scomparsi (secondo una delle teorie più accreditate sulla scomparsa dei dinosauri, le grandi dimensioni unite a una mancanza di termoregolazione li avrebbero resi incapaci di affrontare i cambiamenti climatici). I rettili infatti hanno bisogno, per mantenere un' adeguata temperatura, di esporsi per lunghi periodi al sole, nelle radure. Questo li avrebbe resi facili prede se non fossero stati di colore verde, come il paesaggio circostante. Nel meccanismo di termoregolazione dei mammiferi gioca un ruolo molto importante la melanina, un pigmento che si trova nella pelle, nei peli, nelle penne e nella pelliccia. Questa sostanza, il cui colore varia dall' ocra al marrone al nero, ha molte funzioni, tra le quali quella di assorbire il calore e non disperderlo. La termoregolazione e la formazione della pelliccia hanno fatto perdere la necessità di esporsi al sole e quindi della mimetizzazione verde. Al contrario, il colore scuro della pelliccia consente agli animali selvatici di avere abitudini notturne di caccia e si spostamento. Qualche tentativo di termoregolazione imperfetto esiste comunque anche nei rettili. Alcune rane, ad esempio, sotto l' influenza dei raggi del sole (che stimola la sintesi dell' ormone melanocita stimolante), possono secernere una certa quantità di melanina che le trasforma da verdi a brunastre (con effetti mimetici e termoregolatori) mediante un meccanismo analogo a quello della nostra abbronzatura. Gli uomini hanno perduto la pelliccia ma non la melanina e in tal caso la sostanza, presente nella pelle con caratteristiche diverse da quelle degli animali da pelliccia, ha assunto un ruolo protettivo nei confronti degli effetti fotodegenerativi dei raggi ultravioletti. Maria Anna Rosei Roma Che cosa rende contagiosi gli sbadigli? Lo sbadiglio è un atto involontario, che consiste in una inpirazione molto profonda e lenta, seguita da una espirazione breve. E' contagioso in quanto, essendo una sorta di riflesso nervoso, si può verificare anche per imitazione. Andrea Diotto Torino A che cosa è dovuto il formarsi delle occhiaie? L' area circostante l' occhio è molto attiva, con molti muscoli che controllano il movimento delle palpebre, dal quale dipende la vastissima gamma di espressioni di cui il viso è capace Ciò significa che in questa zona vi è un ricco apporto sanguigno e la pelle intorno agli occhi è più sottile e meno elastica rispetto al resto della cute. Una persona stanca o malata può avere un aumento dell' apporto sanguigno in questa zona, che si manifesta con un gonfiore sotto gli occhi e un' ombra bluastra. A causarla è il traferimento del sangue attraverso la pelle, in quel punto particolarmente sottile. Agnese Suno Novara Com' è nata la consuetudine di disegnare le stelle con le punte, se in cielo si osservano soltanto luci puntiformi o circolari? Ci sono sostanzialmente due ragioni: l' astigmatismo di molte persone, che impedisce di mettere perfettamente a fuoco le stelle e, benché siano effettivamente puntiformi, le fa veder punta. E la trepidazione atmosferica, che fa palpitare la luce. Giovanni Botta Genova & Perché gli elefanti hanno selezionato, nel corso dell' evoluzione, orecchie così grandi? & Perché quando si è contenti, si ride? & Perché se ci esponiamo al sole, la pelle si scurisce e i capelli si schiariscono? & Perché lo stesso odore, ad esempio quello di un bicchiere di vino, appare gradevole a qualcuno e sgradevole a qualcun altro? Perché un profumo è squisito sulla pelle di una persona e magari acido su un' altra? _______ Inviare le risposte a: «La Stampa Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino Oppure al fax numero 011. 65. 68. 688, indicando chiaramente «Tuttoscienze» sul primo foglio.


BIODIVERSITA' Cercasi nuova arca di Noè Ogni anno scompaiono migliaia di specie
Autore: FREMARIN FRANCESCO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, BIOLOGIA, BOTANICA, ANIMALI, ZOOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: WWF
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 009

IMMAGINATE, salendo sull' aereo, di notare un uomo intento a estrarre ribattini dalle lamiere dell' ala. Con una certa preoccupazione vi avvicinate e gli chiedete che diavolo stia facendo. «Lavoro per la Compagnia aerea Sviluppo Globale vi risponde e la compagnia ha scoperto che può vendere questi ribattini a mille lire l' uno. «Ma come fa a sapere che così non indebolisce l' ala? «Non si preoccupi vi assicura l' uomo . Sono certo che il costruttore ha fatto questo aereo molto più robusto del necessario, perciò non gli faccio alcun danno. Ho già tolto molti ribattini da quest' ala e non è ancora caduta. La Compagnia Sviluppo Globale ha bisogno di soldi; se non prendesse i ribattini, non potrebbe continuare a espandersi. E anch' io ho bisogno della commissione che mi pagano, 50 lire per ribattino]. «Lei dev' essere pazzo] «Le ho detto di non preoccuparsi; so quel che faccio Prendo anch' io questo aereo: mi creda, non c' è assolutamente nulla da temere. «Voi non siete obbligato a prendere un aereo. Ma tutti noi siamo passeggeri di una grande nave spaziale una su cui non abbiamo altra scelta che starci: la Terra. E disgraziatamente essa è piena di gente che si comporta come l' estrattore di ribattini. Togliere i ribattini nella nave spaziale Terra consiste nel permettere o favorire lo sterminio di specie e di popolazioni di organismi non umani. «I sistemi ecologici naturali della Terra, di cui le specie sono parte essenziale, forniscono direttamente e indirettamente benefici vitali all' umanità: analogamente alle parti di un aeroplano, che lo fanno un veicolo adatto ai passeggeri Gli ecosistemi, pur essendo molto più complessi delle ali e dei motori, tendono ad avere come gli aeroplani ben fatti sottosistemi ridondanti e altre caratteristiche progettuali che gli permettono di continuare a funzionare anche dopo aver subito una certa quantità di abusi. Può darsi che non si senta mai la mancanza di una dozzina di ribattini, o di una dozzina di specie. Ma un tredicesimo ribattino tolto da un alettone o l' estinzione di una specie chiave, implicata per esempio nel ciclo dell' azoto, potrebbe produrre un grosso guasto. «In generale un ecologo non sa predire le conseguenze dell' estinzione di una data specie più di quanto un passeggero d' aereo sappia valutare la perdita di un signolo ribattino. Ma entrambi possono facilmente prevedere i risultati a lungo termine del provocare continuamente l' estinzione di specie o del togliere ribattino dopo ribattino. Nessun passeggero sano di mente accetterebbe una perdita continua di ribattini dall' aereo che usa. Prima che sia troppo tardi, si deve cambiar mentalità, così che nessuna persona normale sulla nave spaziale Terra accetti una continua perdita di specie o di popolazioni di organismi non umani» Il 1992 è stato dedicato dalle maggiori organizzazioni internazionali (Wwf, Iucn... ) alla «conservazione della biodiversità », che vuol dire semplicemente la varietà nell' insieme di tutti gli organismi viventi. Sono uscite molte pubblicazioni e si sono svolte molte conferenze, ma è difficile trovare una presentazione del problema che sia semplice ed efficace come quella sopra riportata di P. e A. Ehr lich all' inizio del loro libro «The Causes and Consequences of the Disappearance of Species» (Gollancz, 1982). Già in essa si accenna ai tre principali livelli della biodiversità: dei geni, delle specie e degli ecosistemi. Solo 1, 7 milioni di specie di animali e piante sono state descritte scientificamente: quelle più grandi e più vicine all' Uomo e molte altre. Stime fondate suggeriscono però l' esistenza di almeno una dozzina di milioni di specie, per la maggior parte di microorganismi (insetti, funghi... ). Di qui l' urgenza di uno sforzo per arrivare a conoscere, se non certo tutte le specie sconosciute, almeno i gruppi di specie e le zone terrestri dove la nostra ignoranza è maggiore. L' urgenza deriva dalla rapidità con cui procede la distruzione degli ecosistemi, cioè degli «ambienti» dove vivono le diverse specie. Si valuta che questa distruzione stia procedendo a ritmi tali da portare all' estinzione intorno a 50. 000 specie l' anno, prevalentemente ma non solo microorganismi delle foreste tropicali. Non c' è mai stata sulla Terra una scomparsa così rapida di specie viventi, neppure durante le grandi catastrofi preistoriche. Francesco Framarin


DRAMMA BIOLOGICO E' il massacro dei geni materia prima dell' evoluzione naturale
Autore: F_F

ARGOMENTI: GENETICA, BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 009. Specie animali e vegetali

LA diversità genetica è quel fattore presente negli individui di ogni specie vivente per cui nessun individuo è esattamente uguale a un altro. Queste variazioni genetiche individuali sono contenute nei geni e sono ereditabili. Insieme con quelle che si producono naturalmente (per caso o per fattori esterni, come radiazioni o agenti chimici), sono la materia prima sia per l' evoluzione naturale delle popolazioni selvatiche, sia per la selezione artificiale delle varietà utilizzate dall' uomo. Tutti noi constatiamo la diminuzione della diversità nelle varietà di frutta che possono arrivare in tavola rispetto a 20 o 30 anni fa: sono ragioni commerciali la causa di questa perdita. Ugualmente noto è il fatto che, al di sotto di una certa soglia, una qualsiasi popolazione animale (o vegetale) entra nel rischio di estinzione, non solo per cause esterne, ma anche intrinseche, legate al patrimonio genetico (consanguineità, minore adattabilità e così via). La diversità delle specie è la più conosciuta: di solito si fa riferimento alla «ricchezza specifica» di un biotopo o di un' area, cioè al numero delle specie presenti, per valutarne l' importanza. Si sa che le specie vengono classificate secondo gruppi via via più ampi e generali (tassonomia). Per esempio la specie di fringuello Fringilla coelebs appartiene al genere Fringilla, della famiglia Fringillidi, dell' ordine Passeriformi, della classe Uccelli, regno animale. Quest' ordine riflette l' evoluzione delle specie e quindi la loro diversità o la loro «parentela». Due specie che hanno un antenato comune sono meno diverse fra loro che da una terza con cui non l' hanno. Per esempio una specie come l' upupa, unica rappresentante della sua famiglia, ha una grande distanza tassonomica dalle altre specie. Ve n' è solo un' altra dozzina con questa caratteristica, fra tutte le specie di uccelli: l' estinzione di una di esse sarebbe una perdita maggiore per la diversità biologica della perdita di una specie dei Fringillidi, che sono quasi un migliaio. La diversità degli ecosistemi, i quali includono oltre alle specie anche i componenti non viventi del suolo e del clima, non si può definire e misurare in modo semplice come nel caso dei geni o delle specie. In genere ci si riferisce alla diversità delle specie di fauna e di flora presenti, ma è inevitabile tener conto anche della importanza e delle funzioni di alcune specie o di alcuni gruppi di esse: una singola specie di albero tropicale, che nella foresta pluviale sostiene una fauna endemica di molte decine di specie di invertebrati, ha evidentemente una grande importanza per l' ecologia e per la biodiversità. Oppure un ecosistema contenente un certo numero di piante avrebbe biodiversità minore di un altro con lo stesso numero di specie, ma comprendenti anche alcuni animali erbivori e carnivori. In pratica possono entrare in gioco altre considerazioni ancora, suggerite dall' affermazione: «Gli elefanti non contano come i coleotteri»: è spesso opportuno concentrare l' attenzione pubblica su una o poche specie bandiera o specie simbolo, al fine di mobilitare sufficienti energie.


UNA RICERCA I Tropici scrigno della vita
Autore: F_F

ARGOMENTI: BIOLOGIA, ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 009. Specie animali e vegetali

IN generale la diversità biologica cresce al diminuire della latitudine; la maggior concentrazione di specie viventi si trova nella fascia tropicale della Terra. Sulla base delle sole liste dei vetebrati e delle piante superiori compilate nei diversi Paesi, si è calcolato che 12 di essi contengono circa il 70 per cento della biodiversità mondiale: Messico, Colombia, Ecuador, Perù, Brasile Zaire, Madagascar, Cina (la sola che ha una piccola parte nei Tropici), India, Malesia, Indonesia e Australia. E' un dato grossolano (ma già indica che lo sforzo per la salvezza, almeno parziale, della biodiversità globale è fortemente legato al rapporto economico politico fra il Nord e il Sud del mondo) e la sua precisazione dà risultati ancor più interessanti. All' avanguardia di queste indagini sono gli ornitologi, per una serie di ragioni. Sia per tassonomia che per distribuzione, gli uccelli sono un gruppo animale fra i meglio conosciuti, certo meglio di gruppi più vasti, per esempio di invertebrati o di piante. Inoltre gli uccelli sono ben distribuiti nei vari ecosistemi, anche in piccole isole oceaniche dove spesso non sono arrivati rettili o mammiferi. Quali dunque i risultati delle indagini? E' stato scelto solo un quarto circa di tutte le specie di uccelli, quelli distribuiti su meno di 50. 000 km2; si tratta praticamente di endemismi, quasi un terzo dei quali minacciati di estinzione. Combinando le aree di distribuzione di queste 2500 specie, si è trovato che l' area totale è meno del 5 per cento delle terre emerse, oppure fatto che colpisce ancor più che il 20 per cento delle specie di uccelli abita in appena il 2 per cento della superficie terrestre (senza tener conto si noti degli altri uccelli a distribuzione più ampia, che convivono in quelle aree). La maggior parte di tali aree, per circa metà localizzate su continenti e per metà su isole, si trova nei 10 Paesi che seguono in ordine decrescente: Indonesia, Perù, Brasile, Messico, Colombia, Cina, Nuova Guinea, Ecuador, Argentina e Filippine. Se si tien conto del numero delle specie e non del numero delle aree, la Cina e l' Argentina, due Paesi solo in minima parte tropicali, cedono il posto a Venezuela e Isole Salomone. La maggior parte di tali aree comprende foreste e ci sono molti e forti indizi che siano importanti anche per la biodiversità delle piante e di altri gruppi animali, soprattutto di vertebrati. Esse contengono i tre quarti di tutte le specie di uccelli del mondo minacciate di estinzione; i fattori di questa valutazione sono uniformi e attendibili e quello di gran lunga maggiore è la distruzione degli habitat. Un risultato che chiunque abbia un minimo di esperienza nella conservazione della natura poteva aspettarsi.


UN ARTICOLO DI UMBERTO GUIDONI Tethered, volo bis nel ' 94 La Nasa lavora alla nuova missione
Autore: GUIDONI UMBERTO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: MALERBA FRANCO
ORGANIZZAZIONI: CNR
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 009

NELLA prima missione del «satellite al guinzaglio» (TSS 1), che l' estate scorsa ha portato sullo shuttle Atlantis Franco Malerba, primo astronauta italiano, alcuni inconvenienti tecnici hanno impedito l' allontanamento del satellite fino alla distanza prevista di 20 chilometri. Dopo un po' di delusione per il parziale insuccesso, peraltro mitigata dal perfetto funzionamento del satellite costruito dall' Alenia Spazio, la Nasa e l' Agenzia spaziale italiana (Asi) hanno compiuto una dettagliata analisi delle anomalie che si sono verificate durante il volo. A conclusione dell ' indagine, durata diversi mesi, le due agenzie hanno deciso di continuare la collaborazione bilaterale per preparare una seconda missione «tethered» che dovrebbe centrare gli obiettivi scientifici solo parzialmente raggiunti nella prima missione. In un prossimo futuro, un nuovo equipaggio, con un secondo astronauta italiano, ritenterà il rilascio nello spazio del satellite, vincolato allo Shuttle con un sottile cavo conduttore rivestito di kevlar. Lo svolgimento del filo continuerà fino al raggiungimento della distanza prevista, con il satellite librato a 20 chilometri al di sopra della navetta, formando la più grande struttura mai messa in orbita intorno alla Terra. Questa configurazione verrà mantenuta per alcune ore, per permettere agli scienziati di raccogliere i dati più interessati dell' intera missione. Al termine, il filo sarà riavvolto e il satellite si riavvicinerà allo Shuttle fino alla ricattura finale e al suo rientro nella stiva della navetta. Non è per entrare nel Guinness dei primati spaziali che gli scienziati insistono per avere una lunghezza del cavo di decine di chilometri, ma per poter generare energia elettrica utilizzando il moto dello Shuttle ed il campo magnetico terrestre. L' energia che può essere catturata dalla ionosfera terrestre è, infatti, funzione di tre grandezze fondamentali: la velocità della navetta spaziale, l' intensità del campo magnetico terrestre e la lunghezza del filo che collega le due estremità di questo «aquilone spaziale». Dato che l' intensità del campo magnetico terrestre è fissa e che la velocità dello Shuttle è determinata dall' orbita prescelta, l' unico elemento su cui i fisici possono agire per aumentare il prelievo di energia elettrica dallo spazio, è la lunghezza del filo. Di qui la necessità di avere un cavo di diversi chilometri che permetta di caricare il satellite positivamente a valori di qualche migliaio di volt con correnti nel filo di poco meno di 1 Ampere. Sono potenze dell' ordine di una normale utenza domestica ma sufficienti a dimostrare che «i sistemi a filo» sono in grado di generare energia elettrica direttamente utilizzabile nello spazio. La missione, ormai indicata negli ambienti Nasa come TSS 1R (dove R sta per Riflight, cioè secondo volo), potrebbe avvenire già nel 1994, ma questa data è soltanto indicativa in quanto una commissione si sta occupando di trovare una opportunità di volo nel fitto manifesto dei lanci dello Space Shuttle. Gli esperimenti scientifici che voleranno a bordo del satellite TSS e nella stiva della navetta saranno praticamente gli stessi che hanno operato con successo, nell' agosto scorso, analizzando la regione di spazio a 300 chilometri di altezza chiamata ionosfera. Purtroppo, lo stop imprevisto a 250 metri ha drasticamente ridotto il campo di variazione delle grandezze che si volevano misurare (campi elettrici e magnetici, energia delle particelle cariche e caratteristiche delle onde elettromagnetiche) impedendo una caratterizzazione completa dei fenomeni fisici interessati. Per una migliore comprensione dell' interazione fra i sistemi «tethered» e il plasma ionosferico si dovrà aspettare questo secondo volo, che permetterà di estendere le misure alle alte tensioni, cioè le più interessanti per la comprensione dei meccanismi di raccolta della corrente da parte del satellite. Senza dubbio i dati scientifici raccolti e l' esperienza acquisita nel controllo del satellite rappresentano un patrimonio di informazioni che risulterà molto utile nella preparazione della prossima missione; ad esempio il personale del centro di controllo di Houston, e ancor più gli astronauti che parteciperanno a questo volo, potranno addestrarsi usando simulazioni della missione basate su dati reali, anziché su modelli puramente numerici. L' ottima collaborazione fra Asi e Nasa, che ha condotto alla prima missione TSS 1 e ha gettato le basi per un secondo volo del «satellite al guinzaglio», potrà avere ulteriori sviluppi nell' ambito del progetto, ben più ambizioso, della stazione spaziale Freedom, dove il concetto di «tether» sembra avere una sua naturale applicazione. Umberto Guidoni Candidato astronauta Istituto di fisica dello Spazio, Cnr


GAS INQUINANTI Tre malfattori onnipresenti Le case invase dall' ossido di carbonio E l' interno dell' auto peggio della strada
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, TRASPORTI, INQUINAMENTO, ATMOSFERA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: G. Emissione di monossido di carbonio in relazione alla velocità dell' auto
NOTE: 010

OSSIDI di azoto (in particolare biossido), biossido di zolfo, ossido di carbonio. Ecco i tre principali malfattori che trasformano le nostre città in autentiche camere a gas. Di questi inquinanti, dopo le targhe alterne, sappiamo quasi tutto. Ma uno studio dell' Enea (autori Raffaella Uccelli e Francesco Mauro) contiene numerose puntualizzazioni e alcune sorprese. Le fonti. Quanto contribuiscono le diverse fonti all' inquinamento delle città ? Circa la metà dei biossido di azoto è prodotto dalle auto (in parti eguali tra benzina e diesel), seguono le centrali termoelettriche e con quote minori gli altri settori industriali. L' ossido di carbonio viene prodotto da fonti naturali (incendi delle foreste, eruzioni vulcaniche, oceani, gas di palude) e da fonti antropiche, in primo luogo dalla combustione di carbone e di derivati del petrolio. Tra questi la fonte più rilevante, secondo lo studio dell' Enea, è costituita dagli autoveicoli a benzina (il diesel ha un ruolo trascurabile) le cui emissioni raggiungono il 70 per cento delle emissioni antropiche; il resto va attribuito alle raffinerie di greggio, alle fonderie, alle cartiere, agli inceneritori di rifiuti e alle centrali termoelettriche. Dal 1980 le emissioni di ossido di carbonio sono rimaste stazionarie; con le marmitte catalitiche le cose dovrebbero migliorare. Il biossido di zolfo nell' aria dei Paesi industrializzati è aumentato costantemente dal 1940 fino al 1973, anno della prima crisi petrolifera; poi è diminuito di circa il 15%. Il dilemma velocità. Recenti esperimenti hanno mostrato che le emissioni di ossido di carbonio da parte delle auto cala all ' aumentare della velocità. Purtroppo, però, contemporaneamente aumenta il biossido di azoto. Non solo in strada. Concentrazioni di biossido di azoto notevolmente superiori a quelle esterne si riscontrano spesso in casa quando si usano cucine a gas, stufe a cherosene e a legna, caminetti; idem dove si fuma; in tali casi sono normali concentrazioni di oltre 200 microgrammi per metro cubo. Ma durante la cottura dei cibi si sono misurate concentrazioni orarie tra 470 e 2000 microgrammi, con brevi picchi fino a 4000 microgrammi. Anche all' interno delle auto, secondo lo studio dell ' Enea, c' è più ossido di carbonio che nei punti di monitoraggio fino a 40 microgrammi per metro cubo tanto che «i trasferimenti su mezzi pubblici e privati sono i momenti di maggior esposizione». Che cosa fanno gli altri? I limiti generali in vigore in Italia sono gli stessi degli altri Paesi Cee. Perché allora altrove in Europa non si sente parlare di targhe alterne, circolazione sospesa, centri chiusi? Forse perché si è puntato per tempo su interventi strutturali (aree pedonali, parcheggi periferici, vie di scorrimento, semafori intelligenti per evitare rallentamenti e ingorghi) invece che su diktat improvvisi e improvvisati. Le targhe alterne? Drastico l' Enea, ente cui sono affidati specifici compiti in materia: «Il giudizio in termini di rapporto costi benefici è sfavorevole». Vittorio Ravizza


LE CENTRALINE Ma siamo proprio certi che i dati siano esatti?
Autore: JONA ROBERTO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, TRASPORTI, INQUINAMENTO, ATMOSFERA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 010

SONO tornate le targhe alterne: comunicati allarmati ed allarmanti ci hanno informati che l' ossido di azoto, l' ossido di carbonio avevano superato i limiti Cee. Ma qual è l' attendibilità dei dati? Il numero di «superamenti» delle varie soglie, espresso seccamente come di solito fanno radio e giornali, non significa nulla. Gli sperimentatori sanno che qualsiasi misura è affetta da errore. Possiamo avere l' errore dovuto a funzionamento irregolare dello strumento. Ma ci può essere anche l' errore di campionamento per esempio, quando, si fanno i rilevamenti in 5 località soltanto occorre che queste siano veramente rappresentative di tutta la superficie di una città. Certo è una scelta difficile e delicata, ma può essere corretta da una serie di meccanismi matematici che permettono di tener conto degli inevitabili errori. Non basta. Trattandosi di emissioni ad andamento ciclico, il superamento della soglia ha un peso variabile in funzione del momento in cui esso avviene: un superamento rilevato in una strada di grande traffico nel bel mezzo di un' ora di punta ha una rilevanza ben inferiore a un superamento che abbia luogo di notte in una strada tranquilla. Infine, la stratificazione orizzontale: i gas si mescolano con l' aria, ma prima che la loro concentrazione diventi uniforme trascorre un certo intervallo: nel frattempo, vicino al punto di emissione, la concentrazione è più elevata. Bisogna quindi fare il rilievo ad altezze diverse a ciascuna delle quali nel fare la media dovrà essere attribuito un peso opportuno. Inoltre: se vicino alla sonda transita un' auto particolarmente inquinante per cattiva manutenzione, oppure se nelle vicinanze vi è qualche caldaia che emette fumi particolarmente tossici, l' apparecchio rileva giustamente dati elevati che però non sono significativi. Sarebbe anche giusto includere una ricerca sull' origine dell' inquinamento: nel 1973 si rinunciò alle domeniche pedonali perché ci si rese conto che risparmiare in un settore che consumava appena il 12% del petrolio importato creava molti disagi e altrettanti danni, ma non mitigava la carenza del petrolio bloccato dall' Opec. Per l' inquinamento non sarà la stessa cosa? Siamo certi che chi ha predisposto il rilevamento aveva ben presenti questi problemi e queste difficoltà e che ogni cura è stata posta per dare ai rilevamenti validità per tutto il territorio comunale. Tuttavia la presentazione dei dati è insoddisfacente: fornire un numero bruto, senza informare anche del numero delle ripetizioni, del metodo e dei criteri di campionamento, dell' errore della media della significatività statistica del dato (cioè della sua attendibilità ) costituisce una mancanza di riguardo verso l' automobilista appiedato. Roberto Jona Università di Torino


ASTRONOMIA Nel Cuneese alla ricerca di cieli bui
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: FERRARI ATTILIO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 010

RICACCIATI dalle luci delle città in luoghi sempre più marginali, gli astronomi sono ormai abituati alle migrazioni. Niente di strano dunque, che all' Osservatorio di Torino si stia pensando ad aprire una succursale sulle montagne della provincia di Cuneo, più esattamente al Pian della Gardetta, tra la Valle Maira e la Valle Stura, a quota 2538, in una località indicata sulle carte militari con un nome occitano ma dagli echi spagnoleschi: Salsas Blancias. L ' iniziativa, presentata recentemente in una serata dello Zonta Club, ha trovato l' appoggio della Provincia di Cuneo e della Regione Piemonte. Attilio Ferrari, direttore dell' Osservatorio torinese, è cauto. «Per ora dice preferisco parlare semplicemente di una stazione osservativa, un avamposto dal quale studiare la qualità del cielo e la meteorologia locale. Se questa analisi preliminare darà risultati incoraggianti, potremo pensare a sistemare a Salsas Blancias un telescopio di dimensioni maggiori. E infine chissà che non si arrivi a trasferire l' osservatorio vero e proprio, lasciando naturalmente a Torino gli uffici, il centro di calcolo, i laboratori» . Fa tenerezza ricordare che nel 1912, quando gli astronomi spostarono i loro telescopi dalle cupole che sorgevano su Palazzo Madama in piazza Castello alla collina di Pino Torinese, a 622 metri di altezza, l' Osservatorio di Torino divenne il più alto d' Italia. Oggi le luci di una città di un milione di abitanti inquinano nel raggio di 150 chilometri e per trovare cieli veramente bui bisogna andare ben più in alto e in paesi esotici: a La Palma, nelle isole Canarie, dove sorgerà il Telescopio Nazionale italiano, sulle Ande del Cile, dove ha sede l' Osservatorio australe europeo (Eso), in Arizona o nelle isole Hawaii, dove sta per entrare in funzione il telescopio più grande del mondo, con uno specchio a tasselli dal diametro di 10 metri. Di fronte a questi remoti santuari dell' astronomia, la cima di Salsas Blancias sembrerà un po' troppo casalinga. In realtà bisogna tener presente che per molte ricerche astronomiche non sono indispensabili un cielo eccezionale e strumenti giganteschi. Anzi, i grossi telescopi, compreso lo Space Telescope «Hubble» in orbita a 500 chilometri fuori dell' atmosfera, hanno bisogno del supporto di numerosi strumenti piccoli e medi. Inoltre nuove tecnologie nei sensori elettronici (i Ccd, che hanno in gran parte sostituito le lastre fotografiche) e nella costruzione dei telescopi consentono di realizzare strumenti relativamente piccoli e a basso costo ma anche molto efficienti. Per avviare la stazione osservativa del Pian della Gardetta basteranno 250 milioni, in gran parte necessari per costruire la strada di accesso. Si incomincerà con una capannina meteorologica e con un telescopio Marcon da 46 centimetri di obiettivo, uno strumento che, oltre a sondare la qualità del cielo permetterà già ricerche di qualche interesse. In prospettiva c' è un telescopio da 80 centimetri che potrà essere telecomandato da Torino. Un buon sito astronomico, oltre ad essere buio, deve offrire numerose notti serene, aria senza smog e una grande stabilità atmosferica. Sono queste le qualità che verranno messe alla prova a Pian della Gardetta, e ciò comporterà anche la protezione ambientale del luogo. La stabilità atmosferica, cioè l ' assenza di quella turbolenza che disturba le immagini e che fa «tremare» le stelle, ha un' importanza determinante. Di solito, anche quando la stabilità è buona, lo strato di aria che sovrasta il telescopio ha una struttura a cellule di microturbolenza ognuna delle quali misura una ventina di centimetri. La turbolenza diventa quindi più fastidiosa quando il diametro dell' obiettivo del telescopio supera questa misura. Uno strumento da 46 centimetri consente dunque un test senza dubbio convincente. La presenza in zona di astrofili qualificati, cresciuti intorno all' osservatorio amatoriale del Liceo Scientifico Peano di Cuneo sotto la guida di Fulvio Romano, renderà più facili gli studi preliminari. Poi, se son rose, fioriranno. Piero Bianucci


PETROLIO IN MARE: CHE FARE? Batteri all' attacco della marea nera Per favorirne l' azione azoto e fosforo sul greggio
Autore: PAVAN DAVIDE

ARGOMENTI: ECOLOGIA, INQUINAMENTO, MARE, PETROLIO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. Le strade delle petroliere nell' Adriatico
NOTE: 010

IL disastro ecologico provocato dal naufragio della petroliera liberiana Braer presso le coste delle isole Shetland, con la perdita in mare di migliaia di tonnellate di greggio, ripropone in modo drammatico il problema della prevenzione e degli eventuali rimedi contro questi incidenti. Si calcola che nel Mediterraneo ogni anno ci sia una dispersione di 635 mila tonnellate di petrolio, tra incidenti, acque di lavaggio delle cisterne scaricate a mare (operazione proibita dalla legge, ma effettuata piratescamente) ed errate manovre di carico e scarico nei terminali. Il pericolo maggiore proviene dagli «oil spills», cioè dai versamenti accidentali di enormi quantità di petrolio in mare, che si raccolgono in enormi chiazze di parecchi chilometri di diametro, come nel caso della Braer e, in un recente passato, della Exxon Valdez nel Golfo dell' Alaska, e della Haven nell' alto Tirreno. Ma qual è l' evoluzione prevedibile della macchia in mare? A quale destino andrà incontro? Esistono, nel linguaggio internazionale di questa materia, alcuni termini francesi e inglesi entrati nell' uso corrente per designare l' aspetto e il risultato dei processi di alterazione del petrolio o di interazione tra il greggio, l' acqua marina e i sedimenti di spiaggia. I termini descrivono la consistenza fisica e macroscopica assunta dal greggio in alcuni suoi stati evolutivi. Così, quando la chiazza si sfilaccia a causa del vento e delle onde e dà luogo a bande allungate, si hanno i «windrows»; la «mousse» è lo stadio ulteriore in cui il petrolio si aggrega diventando sempre più denso e viscoso; infine, se il greggio alterato si arena sulla spiaggia, formerà le «tar balls», sfere di catrame molto persistenti, miscelate a detriti vari. L' esperienza degli «oil spills» del passato ha mostrato che, anche alcuni anni dopo si riscontravano effetti biologici consistenti, come il calo del numero di specie animali e vegetali e del numero di individui all' interno di tali specie, dovuto principalmente allo sconvolgimento di numerose catene alimentari. Questo è dovuto al fatto che le capacità di autodepurazione dell' ambiente marino e costiero (principalmente tramite meccanismi di evaporazione e biodegradazione) richiedono tempi lunghi e quindi lo strato oleoso permane per molto tempo, creando gravi problemi di ossigenazione e di passaggio della luce e quindi l' inibizione della vita degli organismi fotosintetici, primo anello delle catene. Da questo deriva che il primo tentativo di bonifica da mettere in atto consiste nel contenere il greggio con barriere mobili, in genere dei «salsicciotti» galleggianti, seguito da una raccolta meccanica degli idrocarburi. Spesso queste pratiche non possono essere eseguite per le condizioni del mare e i forti venti, come è capitato nelle Shetland. Si ricorre allora in genere all' impiego di solventi chimici da spruzzare sulla macchia per trasformarla in microaggregati: i prodotti «disperdenti» poco graditi agli ecologisti, che rimproverano loro una indebita invasione del petrolio disperso anche sotto la superficie marina. Inoltre, nonostante gli approfonditi studi, questi solventi mantengono un certo grado di tossicità che fa apparire il loro utilizzo più di carattere «cosmetico» che effettivamente risolutivo. Partendo dall ' analisi dei naturali meccanismi di biodegradazione, si sono studiati anche metodi di bonifica «biologica» mediante batteri «mangia petrolio». La principale limitazione dell' azione dei microorganismi è costituita dalla modesta disponibilità di composti nutritivi contenenti azoto e fosforo. Sono stati quindi messi a punto speciali fertilizzanti oleofili che, aderendo allo strato di idrocarburo, lo rendono «piatto unico» per i batteri. Esperimenti in laboratorio e in mare aperto hanno dimostrato che, in condizioni meteoclimatiche standard, la velocità dei processi di degradazione naturale del petrolio aumenta di tre volte e la macchia inquinante si disgrega in meno di un mese, ripristinando le condizioni essenziali di ossigenazione e trasparenza alla luce. Dal 6 luglio prossimo entreranno in vigore le nuove norme antinquinamento decise dall' Imo (International Maritime Organization) che prevedono, tra l' altro, l' obbligo per le petroliere di disporre di un doppio scafo di sicurezza in grado di isolare e proteggere il carico da eventuali danneggiamenti dello scafo esterno. In Italia il ministero dell' Ambiente ha già annunciato due provvedimenti importanti: il divieto di passaggio nelle Bocche di Bonifacio, tra la Sardegna e la Corsica, dove transitano ogni anno 5000 petroliere e dove il rischio di incidente è grande per i forti venti e la ristrettezza di quel braccio di mare, e la limitazione del transito delle petroliere nella Laguna di Venezia in vista di una futura eliminazione del traffico marino in quell' area grazie alla costruzione di un oleodotto. Anche le compagnie petrolifere non stanno a guardare: in un recente convegno a Trieste l' Agip ha presentato un sistema informatico, già approvato dalla Environmental Protection Agency americana, che, con l' ausilio di modelli matematici, consente di prevedere in tempo reale l' evoluzione di un «oil spill» in mare e di individuare la strategia più adatta per l' intervento. Davide Pavan


SIMULAZIONE E il computer ci fa vedere cosa accadrebbe a Venezia se un giorno una petroliera...
Autore: RUSSO SALVATORE

ARGOMENTI: ECOLOGIA, INQUINAMENTO, MARE, PETROLIO, INCIDENTI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 010

QUARANTOTTO ore per raggiungere il Canal Grande, con lo scirocco; 12, quando tira la bora, per ricoprire velme e barene e invadere poi le valli da pesca di Chioggia; 4 giorni per lasciare il bacino lagunare verso l' Adriatico. Questi sono i «movimenti» di 5 mila tonnellate di petrolio fuoriuscito da una cisterna mentre attraversa il Canale di Malamocco, la «strada d' acqua», a poca distanza da Venezia, percorsa ogni anno da duemila petroliere. Lo scenario, a dir poco disastroso, per fortuna è soltanto frutto di una simulazione al computer. Le conseguenze, però, calibrate su maree venti e correnti abituali in Laguna, secondo gli esperti sono più che verosimili e d' attualità. La ricostruzione al computer fatta dal Cnr e dall' Ismes sul Canale dei Petroli (vi transitano ogni anno circa 11 milioni di tonnellate di greggio) era stata commissionata dal ministero dell' Ambiente dopo l' affondamento della Haven, avvenuto due anni fa tra Genova e Arenzano. Proprio sulle caratteristiche di quell' incidente è stato simulato l' affondamento della petroliera. Ecco alcuni dati sul disastro in provetta. La sostanza che simula la presenza del petrolio è costituita da pseudoparticelle rilasciate da una sorgente puntiforme alla velocità di una unità (un barile circa) ogni 5 secondi, per un periodo di 48 ore. La simulazione si è resa possibile grazie a due modelli: il primo ad elementi finiti, sull' evoluzione idrodinamica del bacino; il secondo, matematico, sugli spostamenti del liquido costituito dalle particelle. Sia con la bora, da Nord Est, sia con lo scirocco, da Sud Est, la velocità considerata nel modello matematico è relativamente ridotta, pari a sei metri il secondo. In entrambi i casi si nota una fuoriuscita della marea nera dalla Bocca di Malamocco. Nonostante le diverse condizioni climatiche, dopo 4 giorni almeno il 50 per cento del petrolio si trova oltre le bocche di porto, nell' Adriatico settentrionale. «In caso di incidente spiega Andrea Bergamasco del Cnr i guasti non sarebbero limitati al bacino lagunare, ma fuoriuscendo dalla gronda potrebbero interessare le spiagge adriatiche, danneggiando anche l' attività turistica». Il Cnr ha concluso un progetto di simulazione in tre punti dell' Adriatico: nel Golfo di Trieste, alla foce del Po (Po di Maistro) e oltre il Lido di Venezia, a 25 chilometri da Malamocco. «Sulla base di questi studi, anche se ancora parziali spiega Bergamasco la zona più colpita risulterebbe il Lido». Il Canale dei Petroli non è l' unica area a rischio della penisola. Ancor più probabile è il pericolo di collisione nelle Bocche di Bonifacio, tra Corsica e Sardegna. Questo tratto di mare, infatti, è attraversato ogni anno da circa 5 mila cisterne. Quale soluzione, dunque? Stando alle cifre sul traffico merci via mare il problema non è semplice; nei porti italiani transitano ogni anno 14 mila navi cisterna; nel bacino Mediterraneo arrivano ogni mese circa 50 mila tonnellate di petrolio. E sempre qui si sviluppa il 20 per cento del traffico merci mondiale, il 70 del commercio petrolifero europeo. Salvatore Russo


IL LAVANDINO Declino di un' essenza famosa Ragioni di mercato, ma anche parassiti
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA, COMMERCIO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 011. Lavanda

IL lavandino (traduzione del termine francese lavandin) ossia la Lavandula hybrida Reverchon, un ibrido tra Lavandula officinalis e lo spigo Lavandula latifgolia, è un cespuglio spontaneo sulle colline e sulle pendici sassose delle zone mediterranee a un' altitudine compresa tra 300 e 900 metri. Lo si coltiva per l' essenza pregiata che si ricava dai fiori violetti. La maggiore produttrice è la Francia, mentre in Italia le vicende sono state alterne. Il lavandino ha sostituito la lavanda, che ha conosciuto grande successo in zone dell' entroterra ligure, ma poi ha avuto molti problemi di ordine fitopatologico. Negli Anni 50 60 nella Val Nervia, e nella Val Roja in certi periodi dell' anno i campi erano un' immensa distesa di azzurro e gli alambicchi lavoravano alacremente. A poco a poco, però, tutto questo fervore si è affievolito: il lavandino non è più ritenuto vantaggioso ed è stato sostituito con anemone e bulbose perché più remunerative. Oggi in Liguria esiste solo qualche nucleo di lavandino, mentre si sta diffondendo in altre regioni italiane, ad esempio nel parmense. Il lavandino chiaro possiede una resa superiore al lavandino scuro, però è di qualità più scadente. Oggi si tende a coltivare i tipi che forniscono, per un quintale di fiori distillati, fino a tre chilogrammi di essenza con una resa media in essenza del 2, 5 per cento. Della lavanda e del lavandino si parla, ora per gli studi fatti presso la Stazione di Patologia vegetale di Versailles e presso l' Istituto di Fitovirologia applicata del Cnr a Torino. In Francia è stato notato un deperimento giallo del lavandino, soprattutto sulla varietà Arial, che in due tre anni dalla comparsa dei sintomi può portare a morte le piante. In altri casi il deperimento sarebbe più lento, comunque comporta sempre l' estirpazione delle piante per effetto della bassissima produzione di essenza. Altri ricercatori francesi hanno notato che anche un insetto, la Thomasiniana lavandulae, può causare il disseccamento e la morte del lavandino. D' altra parte è nota fin dal 1967 la presenza di una cicadella, Hyalesthes obsoletus, vettrice dello Stolbur, un micoplasma, sulle radici del lavandino che sta deperendo. Per determinare la responsabilità degli insetti cicadellidi o di un eventuale agente patogeno del tipo del micoplasma sensibile agli antibiotici del gruppo delle tetracicline sono stati impostati trattamenti con insetticidi e antibiotici usando parcelle contenenti 28 piante ciascuna. Su ogni pianta sono stati rilevati indici di sanità per valutare la loro risposta e il contenuto in essenza. In base ai risultati ottenuti, si ipotizza un effetto sinergico dovuto all' azione modificatrice dell' agente patogeno e a quella debilitante diretta o indiretta degli insetti succhiatori, le cicadelle. Elena Accati Università di Torino


LE TEORIE DI FANTI In analisi tutti i giorni E una visita ai luoghi dell' infanzia
Autore: GIGLIOTTI DURANDO ANGELA

ARGOMENTI: PSICOLOGIA
NOMI: FANTI SILVIO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 011

LE varie correnti psicoanalitiche, generando confusione nel pubblico, rischiano anche di far perdere di vista sviluppi nuovi e importanti dello studio della psiche. La micropsicoanalisi è uno di questi sviluppi. Vediamo di delinearne le principali caratteristiche. Lo scienziato che ha formulato i concetti fondamentali della micropsicoanalisi è Silvio Fanti. Nel 1953 Fanti, che svolge la sua attività a Ginevra, decise di aumentare la durata di ogni singola seduta e la loro frequenza settimanale, cioè non più di 45 o 50 minuti tre o quattro volte la settimana, ma tre o più che si svolgono più volte la settimana (anche tutti i giorni) secondo un ritmo dettato dal materiale dell' analizzato. Le lunghe sedute consentono così di elaborare sufficientemente questo materiale per lasciar emergere il rimosso. Sigmund Freud spese tutta la vita per arrivare alla formulazione dell' inconscio, inteso come contenitore di tutto ciò che è rimosso. Fanti usò l' inconscio come trampolino per accedere all' es, ridefinito come il cardine di una porta che sta tra l' energia dei tentativi e la motricità della pulsione fino ad arrivare al vuoto e alla sua organizzazione energetica. La micropsicoanalisi pone in luce la continuità tra il vuoto cosmico e terrestre permettendo di situarci rispetto ad esso e di scoprire attraverso le lunghe sedute il vuoto di cui siamo fatti. Vediamo che cosa succede nelle sedute di micropsicoanalisi: la persona sdraiata sul divano si lascia andare alle libere associazioni, dice tutto ciò che gli passa per la mente e tutto ciò che prova, senza mascherare nulla. Passa quindi attraverso la scomposizione dei dettagli della propria vita, prima consci, poi preconsci, poi inconsci, alla loro scomposizione in rappresentazioni e affetti elementari, che a loro volta si riducono in tentativi neutri di finalità e finiscono col perdersi nel vuoto L' analizzato neutralizza così l' energia che mantiene la situazione dolorosa, che altrimenti continuerebbe a ripetersi per tutto il corso della vita. Ognuno di noi porta dentro dei traumi che condizionano l' esistenza e dai quali è impossibile liberarsi perché sono inconsci e si ripresentano puntualmente ogni volta che si verifica la possibilità nella vita di dar corpo all' immagine del trauma, che può essere addirittura quello di un antenato. Il micropsicoanalista si avvale anche di supporti tecnici: lo studio delle fotografie, personali e di famiglia, lo studio della corrispondenza personale e di famiglia, lo studio delle mappe delle case e dei quartieri in cui l' analizzato e i suoi ascendenti sono venuti a trovarsi. Lo studio del dato genealogico (materno e paterno) e altre notizie storiche individuali e collettive. Talvolta può essere necessaria la visita dei luoghi dell' infanzia che l' analizzato compie assieme al micropsicoanalista e poi rivive e analizza in seduta. Non è esclusa la possibilità di rapporti sociali tra micropsicoanalista e persona in micropsicoanalisi. Solo tenendo conto di tutto questo si può arrivare a capire l' importanza che ha oggi lo studio dell' inconscio e di ciò che va oltre ad esso. Il periodo storico disgregato in cui viviamo produce un' enorme angoscia: sono caduti i valori di riferimento. Il conflitto vincolato su poli opposti reciprocamente buoni e cattivi (Stati Uniti e Unione Sovietica o equivalenti) si è dissolto. Allora, coma accade per le fobie che vincolano l' angoscia, quando esse esplodono una massa di energia fluttua liberamente e viene avvertita come un' angoscia diffusa. La pulsione di morte fa da padrona. Il tentativo è quello di riformare un punto di riferimento che inglobi questa massa di energia libera. Il ritorno storico per coazione a ripetere di una tensione dolorosa, determinata da traumi rimossi si riferisce in situazioni dolorose e angoscianti come quelle che stiamo vivendo oggi. L' uomo cerca disperatamente di abbassare la tensione; per far calare questa tensione è portato ad avvicinarsi sempre di più a ciò che è senza vita, allo stato inorganico. La pulsione di morte funziona come una valvola, prima si rivolge all' interno per ottenere un processo di autodistruzione poi verso l' esterno con finalità aggressiva e distruttive. Tutto questo, lo possiamo verificare intorno a noi: dove Aids e naziskin (interno, esterno) sono al servizio della pulsione di morte, che Fanti ridefinisce come la spinta a ritornare alla continuità indeterminata del vuoto. Il rimbalzo vitale avviene appunto attraverso l' energia del vuoto e per questo in micropsicoanalisi si parla di «pulsione di morte di vita». Angela Gigliotti Durando


MALATTIE RESPIRATORIE Bastano meno di due ore per una diagnosi precisa dei virus invernali
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 011

NELLA stagione fredda i virus aggrediscono l' albero respiratorio, con particolare frequenza nei bambini, negli anziani, negli immunodepressi: riniti, rinofaringiti, influenza, laringotracheiti, bronchiti, bronchioliti, polmoniti. Oltre 150 tipi di antigeni virali sono responsabili di queste infezioni. Più sovente si trovano i virus influenzali parainfluenzali, il virus respiratorio sinciziale, gli adenovirus, i rhinovirus, i coronavirus, i virus Coxsackie e Echo, il virus del morbillo. Per esempio il virus respiratorio sinciziale viene riscontrato nel 20 per cento delle bronchioliti dei bambini, e ogni inverno vi è un' epidemia che culmina nei mesi di dicembre e gennaio. Gli adenovirus, che comprendono ben 41 tipi, provocano una patologia respiratoria infantile lungo tutto l' anno, con rinofaringiti e tracheobronchiti Nei soggetti immunodepressi i virus causano sintomatologie polmonari gravi, originanti talvolta una disseminazione dell' infezione. Gli herpesvirus e il cytomegalovirus sono i più importanti. La questione essenziale è sempre stata la diagnosi, oggi possibile in tempi brevi. Per il clinico, le tecniche virologiche devono soddisfare due esigenze identificazione del virus e rapidità che non sono soddisfatte con la tradizionale ricerca degli anticorpi nel siero di sangue mediante la fissazione del complemento, poco sensibile. Inoltre richiede una quindicina di giorni, dato che occorre un secondo esame a distanza di qualche tempo dal primo. Vi sono metodi più sensibili quali l' inibizione dell' emoagglutinazione, la microneutralizzazione, l' immunofluorescenza, l' Elisa (immunoenzimatico), specialmente per le infezioni virali dell' adulto, ma l' interpretazione dei risultati è delicata, gli anticorpi possono non comparire o non essere specifici. Nei laboratori di virologia si utilizzano oggi altri metodi. Nel materiale prelevato dal malato mediante aspirazione bronchiale, lavaggio broncoalveolare, biopsia bronchiale o polmonare, si può effettuare la ricerca delle particelle virali con il microscopio elettronico. Un altro mezzo è l' isolamento del virus in coltura. Il prelievo viene seminato su diversi terreni di coltura, ognuno dei quali è adatto per uno o più virus. Dopo un periodo variabile dai 3 ai 15 giorni compaiono i segni dello sviluppo del virus, il quale viene poi identificato. Senza dubbio questo è il mezzo principe di diagnosi diretta delle infezioni virali respiratorie, ma vi sono limiti alla sua utilizzazione corrente, per varie ragioni. Più pratici sono i mezzi immunologici. Le tecniche di immunofluorescenza e immunoenzimatiche consentono di mettere rapidament in evidenza gli antigeni virali. La loro precisione è ulteriormente migliorata grazie agli anticorpi monoclonali. Per esempio la diagnosi di infezione da virus respiratorio sinciziale, virus influenzali e parainfluenzali, adenovirus, è ottenuta in meno di due ore con la tecnica di immunofluorescenza di Gardner, semplice, facile, rapida. Analogamente buoni risultati dà la tecnica immunoenzimatica, veloce (da due a cinque ore) e automatizzabile. Ulrico di Aichelburg


LE SETTE UNITA' FONDAMENTALI VIAGGIO NELLA METROLOGIA La misura del mondo Ecco il «Sistema Internazionale»
Autore: P_B

ARGOMENTI: METROLOGIA
NOMI: CALCATELLI ANITA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. Le sette unità di misura fondamentali
NOTE: 012

ALLA base della scienza c' è la misura. Nessun fenomeno naturale può essere descritto scientificamente senza definirne dimensioni, massa, temperatura e altre caratteristiche. Quasi tutti i progressi scientifici si devono a qualche cifra decimale in più, cioè alla maggior precisione di qualche misura. La disciplina che si occupa della misurazione è la metrologia, e le sue applicazioni riguardano strettamente anche la vita pratica: non solo la scienza, infatti, si regge sulla misura, ma anche l' economia, il commercio e ogni tecnica di uso quotidiano. Per questo abbiamo pensato di passare in rassegna le unità di misura fondamentali nella pagina che «Tuttoscienze» dedica al mondo della scuola. Lo faremo grazie alla preziosa collaborazione di Anita Calcatelli e dei suoi colleghi dell' Istituto di Metrologia «Colonnetti», una struttura del Consiglio nazionale delle ricerche che ha sede a Torino. Poiché quello delle misure deve essere un linguaggio comune a tutti i Paesi del mondo, esiste un «Sistema internazionale delle unità di misura » (indicato con il simbolo Si) che comprende sette unità fondamentali per misurare altrettante grandezze: lunghezza, massa, tempo, intensità di corrente elettrica, temperatura, quantità di sostanza e intensità luminosa. Alle unità fondamentali si aggiungono unità «supplementari» e unità «derivate». L' atto di nascita del Sistema Internazionale risale al 1960. Ma non si pensi che queste unità di misura siano state fissate una volta per sempre: i progressi tecnologici potranno permettere di ottenere campioni più stabili e sicuri, che dovranno essere ratificati da nuovi accordi internazionali. L' Italia con la legge n. 273 dell' 11 agosto 1991 si è data una organizzazione metrologica alla quale contribuiscono tre enti: l' Istituto «Colonnetti» del Cnr per le unità usate in meccanica e termologia, l' Istituto elettrotecnico nazionale «Galileo Ferraris» di Torino per le unità di tempo, frequenza, elettricità, fotometria, optometria e acustica, l' Ente per le nuove tecnologie, l' energia e l' ambiente (Enea) di Roma per le unità di misura usate nel campo delle radiazioni ionizzanti (cioè quelle radiazioni di energia sufficiente a staccare dagli atomi qualche elettrone). I nomi delle unità di misura sono considerati comuni e quindi si scrivono con l' iniziale minuscola anche quando derivano dal nome di qualche scienziato (Ampere, Kelvin). In questo caso però sono invariabili al plurale e hanno come simbolo una lettera maiuscola (A per ampere, K per kelvin). (p. b. ) eGRANDEZZA UNITA' SI NOME SIMBOLO LUNGHEZZA METRO m MASSA KILOGRAMMO kg TEMPO SECONDO s INTENSITA' DI CORRENTE ELETTRICA AMPERE A TEMPERATURA TERMODINAMICA KELVIN K QUANTITA' DI SOSTANZA MOLE mol INTENSITA' LUMINOSA CANDELA cd


Il metro, un raggio di luce E' custodito al «Colonnetti» di Torino
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 012

IL nostro viaggio attraverso le unità di misura fondamentali del Sistema Internazionale incomincia con l' unità di lunghezza: il metro, simbolo m. Per definizione il metro è la lunghezza del tragitto compiuto dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo pari a 1/299792458 di secondo (XVII Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure, 1983). Fino al 1960 la definizione del metro era basata sul prototipo internazionale di platino iridio (del 1889), custodito a Sevres nei sotterranei dell' Ufficio Internazionale dei Pesi e Misure di Parigi. Del 1960 è la prima radicale innovazione il metro veniva definito per mezzo della lunghezza d' onda di una radiazione monocromatica specificata, la radiazione corrispondente a una determinata transizione tra due differenti livelli energetici dell' atomo del cripto 86. Grazie allo sviluppo delle tecniche interferometriche, questa definizione consentì di ridurre il valore dell' incertezza relativa nella realizzazione del metro a 4 milionesimi di millimetro su un metro. Pochi anni dopo, il metrologo veniva a disporre di sorgenti di radiazioni monocromatiche (laser) più stabili e meglio riproducibili della lampada al cripto Inoltre poteva contare su un campione di tempo di elevata precisione e su un valore della velocità delle onde elettromagnetiche nel vuoto determinato sperimentalmente con un' incertezza che era limitata soltanto da quella dell' unità di lunghezza. Tutte queste considerazioni portarono alla già ricordata definizione del 1983: «Il metro è la lunghezza del tragitto compiuto dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo di 1/299792458 di secondo», avendo così fissato la velocità della luce in 299792458 m/s. In Italia la metrologia della lunghezza è affidata all' Istituto di Metrologia «Colonnetti» di Torino, responsabile della realizzazione e della conservazione dell' unità di lunghezza e della sua disseminazione attraverso i campioni secondari. Il campione nazionale è ottenuto mediante radiazioni monocromatiche di frequenza nota e assumendo per la velocità della luce il valore sopra citato. Tale campione è mantenuto mediante laser stabilizzati con incertezza relativa pari a una parte su un miliardo. Ciò significa che, facendo riferimento al laser a elio neo, la lunghezza d' onda della luce emessa, pari a circa 633 nm, è definita con una incertezza minore di un milionesimo di miliardesimo di metro] E con il 1993 verrà ridotta di un ulteriore ordine di grandezza. Il passaggio da campioni materiali di uso più comune, come il regolo, avviene mediante l' interferometria ottica, che consente di collegare questi campioni di tipo ottico, quali sono i laser, a vari campioni materiali come blocchetti, aste regoli graduati. Un esempio di tale collegamento è l' apparecchiatura chiamata comparatore di lunghezza. In questo modo si genera una catena di riferibilità che, a partire dal campione primario, arriva ai campioni di lavoro di maggior interesse pratico


LE DATE DELLA SCIENZA Il barometro ideato da Torricelli 350 anni dopo è rimasto immutato
AUTORE: GABICI FRANCO
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA
NOMI: TORRICELLI EVANGELISTA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 012

NEL 1643, 350 anni fa, Evangelista Torricelli, discepolo di Galilei e continuatore della sua opera, inventava il barometro a mercurio. Con questo strumento, ancora oggi usato nelle nostre abitazioni, Torricelli dimostrò, contrariamente alle convinzioni di Aristotele, che l' aria aveva un peso e che in natura era possibile creare il vuoto (Aristotele sosteneva che «la natura ha paura del vuoto». Anche Cartesio, benché fosse più vicino a Torricelli, la pensava così ). L' esperimento, realizzato da Vincenzo Viviani, è famosissimo. Un tubo di vetro lungo circa un metro, riempito di mercurio e capovolto dentro a una vaschetta contenente mercurio, mostrava uno strano comportamento. Una volta lasciata libera l' estremità del tubo, il mercurio scendeva e si fermava a un' altezza di 76 centimetri dal livello della vaschetta. Lo spazio sopra la colonna di mercurio risultava vuoto (in realtà è occupato da vapori di mercurio la cui pressione, a temperatura ambiente, è talmente piccola da poter essere trascurata) e la colonna misurava il valore della pressione atmosferica. Secondo il principio di Pascal, infatti, la pressione sulla superficie libera della vaschetta esercitata dal peso dell' aria si distribuisce uniformemente in tutte le direzioni all' interno del recipiente e, agendo anche sulla base della colonna di mercurio, bilancia esattamente il peso della colonna. La pressione equivalente a quella esercitata da una colonna di mercurio di 76 centimetri a 0 C e al livello del mare (alla latitudine di 45) fu detta atmosfera. Franco Gabici


L' ESSICCATORE Panni asciutti in un attimo Un elettrodomestico poco conosciuto
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D
NOTE: 012

L' ESSICCATORE è un elettrodomestico non molto diffuso in Italia: il clima mite e una larga tolleranza per i panni stesi sul balcone lo rendono praticamente inutile. Nelle regioni del Nord Europa o nelle città particolarmente attente all' arredo urbano è invece diffusissimo fin dagli Anni 20. Gli indumenti, introdotti bagnati nel cestello, vengono mossi incessantemente attraverso un flusso di aria calda e secca. Alcuni essiccatori sono alimentati a gas, altri (come quello del disegno) hanno un riscaldamento elettrico. E' possibile selezionare la temperatura dell' aria e anche la durata dell' asciugatura, tenendo conto che quanto più pesanti sono gli indumenti, tanto più tempo e tanto più calore richiederanno per seccare. Alcune macchine hanno un sensore che rileva la percentuale di umidità: quando il 90 per cento dell' acqua è stato eliminato il motore si ferma.


STRIZZACERVELLO Soluzione unica
AUTORE: PETROZZI ALAN
ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 012

Soluzione unica Qual è quel numero per il quale, nello scrivere il suo cubo e la sua quarta potenza, si utilizzano tutte e dieci le cifre da 0 a 9, ciascuna una sola volta? La soluzione, come sempre, verrà pubblicata domani, accanto alle previsioni del tempo. E ora due precisazioni. Nella soluzione del problema intitolato «Quante soluzioni? » apparso il 24 dicembre scorso, vi era un evidente quanto involontario errore di stampa: il valore corretto della risposta era 220, anziché 120. Per «Una curiosa addizione», pubblicato il 13 gennaio, diversi lettori hanno trovato altre tre soluzioni esatte, oltre alle tre riportate sul giornale. Complimenti ai super solutori: ci sono infatti anche queste possibilità: 58. 287 più 80. 641 = 138. 928 38. 487 più 89. 561 = 128. 048 36. 465 più 69. 781 = 106. 246 (A cura di Alan Petrozzi )




La Stampa Sommario Registrazioni Tornén Maldobrìe Lia I3LGP Scrivi Inizio