TUTTOSCIENZE 6 gennaio 93


ALLARME DALLE ALPI I ghiacciai sono in ritirata Scatta un piano per metterli sotto controllo Un preoccupato rapporto del Comitato glaciologico: una tendenza che si accentua
Autore: BIANCOTTI AUGUSTO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, MONTAGNA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. T. Modificazioni dei ghiacciai delle Alpi
NOTE: 001

E' una ritirata in piena regola: gli oltre mille ghiacciai italiani 607 chilometri quadrati di superficie complessiva, miliardi di metri cubi d' acqua pura allo stato solido, si stanno sciogliendo. La riunione autunnale del Comitato Glaciologico Italiano, riservata per tradizione all' esame delle variazioni in atto nelle masse glaciali alpine, ha confermato che la tendenza degli anni precedenti è diventata ancora più negativa. Nel Gruppo del Bianco la fronte del Prè de Bar è regredita di 40 metri. La Brenva, che arriva a lambire l' imbocco della Val Veni, è arretrata di meno, 9 metri, ma si è completamente interrotto il flusso che arrivava dal braccio laterale sulla destra: la lingua, molto meno alimentata, si è fatta più stretta di un anno fa, la superficie si è abbassata. E' la premessa all' inevitabile destino che l' attende nel futuro prossimo: una fuga all' indietro che cambierà profondamente il paesaggio ben noto a chi frequenta quelle montagne. Les Blanches mostra sintomi di un vero e proprio disfacimento: ne possediamo una carta di estremo dettaglio, rilevata qualche anno fa, e quindi possiamo capire a fondo l' evoluzione in atto. Le cose non cambiano altrove. Il Tsa de Tsan in Valpelline è progredito per l' ultima volta nel 1981, poi, e sempre più rapidamente, si è rintanato verso monte. Il Roisette, il Chateau des Dames in Valtournenche non sfuggono alla regola, altri si sono ridotti ancora di più, al punto di rischiare l' estinzione. Se nel settore occidentale delle Alpi si piange, in quelli centrale e orientale certo non si ride. Quasi tutti gli accumuli glaciali dell' Ortles Cevedale, più di cento chilometri quadrati di superficie, stanno in parte fondendo. I dati più certi provengono dal Careser in Val di Peio, tenuto sotto stretto e costante controllo da più di vent' anni. Dal confronto fra fotografie aeree di diverse generazione, dal rilevamento diretto sul terreno, dalla valutazione dell' entità dell' accumulo e dell' ablazione sia della neve sia del ghiaccio vivo, risulta che la superficie si è abbassata dagli otto ai venti metri; volume e area naturalmente si sono comportati di conseguenza. Non è più possibile dare nessuna misura per il Calderone nel Gran Sasso, l' unico corpo glaciale degli Appennini. Il Catasto dei Ghiacciai Italiani eseguito in occasione dell' Anno Geofisico Internazionale 1957 58 ne annotava una superficie di 6, 2 ettari, una lunghezza di 390 metri e una larghezza di 230. Oggi al suo posto c' è un' irta distesa di massi triquetri, la morena superficiale che ricopre ormai completamente il ghiaccio residuo rifugiatosi all' ombra, sotto terra. Il suo destino, che lo condanna all' estinzione, pare segnato, a meno che il clima non cambi, e in fretta. In realtà negli ultimi dodici mesi si è attenuata quella tendenza alla tropicalizzazione delle condizioni pluviotermiche che aveva dominato il triennio precedente. Il termometro si è tenuto basso per tutto giugno; solo tra la fine luglio e l' agosto, l' insolazione ad alta quota è stata feroce. E' nevicato fino a tardi, ma è stata poca cosa per rimediare alle magre precedenti. I deficit degli anni idrologici trascorsi si pagano dunque oggi. Su tutto l' arco occidentale, degli 86 ghiacciai controllati direttamente nel 1992, l' 83 per cento sono in regresso, il 3 per cento stazionari, appena il 14 per cento in progresso, come quello di Punta Budden in Valtournenche, che pareva estinto e si è riformato. Ma una rondine non fa primavera: più a Est, nel settore centrale e orientale della catena, la ritirata è ancora più generale, ed interessa più del 90 per cento dei soggetti analizzati. Chi opera in alta montagna, e usa abitualmente le acque di fusione glaciale, è ben conscio del rischio legato alla riduzione eccessiva delle riserve esistenti. L' Azienda Energetica Municipale di Torino ha affidato al Comitato Glaciologico il controllo delle variazioni climatiche e glaciali nelle «sue» valli Orco e Soana: arriva dagli impianti costruiti lassù buona parte dell' energia idroelettrica per la città. L' Enel agisce in modo simile oramai da lungo tempo. Non solo ha sempre sponsorizzato gli studi sul Careser nelle Alpi Orientali, ma oggi crea i presupposti per aprire un secondo vasto spazio di sperimentazioni: il piccolo ghiacciaio dell' Indren e il grande Lys il gigante del Monte Rosa: le prime conclusioni parziali, che sono state scritte in questi giorni, aggiungono un tassello al mosaico nelle conoscenze. Qualcosa finalmente si muove anche a Roma, e il ministero dell' Ambiente vuole un check up complessivo dei ghiacciai italiani: entro la prima metà del 1994 sarà completato un nuovo catasto con tutti i paragoni e le considerazioni possibili circa le variazioni intervenute nei 35 anni trascorsi dal primo. Considerando quanto sta accadendo, esiste una seria probabilità che i nostri ghiacciai scompaiano del tutto? La risposta è rassicurante: per adesso, e per molto tempo a venire, questa ipotesi non è verisimile. Di norma, anche nel caso dei corpi che appaiono più sofferenti, non si sono ancora raggiunti i minimi assoluti della fine degli Anni 50, che coronavano il trentennio più secco e caldo di questo secolo. Subito dopo, e fino ai primi Anni 80, quasi tutti i ghiacciai alpini si accrebbero in volume e le loro lingue si allungarono verso valle. Solo in seguito, quindi nell' ultimo lustro e mezzo, la tendenza è tornata ad invertirsi. E' probabile dunque che quella di oggi sia una delle normali pulsazioni che si ripetono nel tempo, forse un poco più accentuata: nessuna catastrofe irrimediabile in vista dunque, ma molta attenzione al fenomeno. Augusto Biancotti Università di Torino Presidente del Comitato Glaciologico Italiano


LO SCRIVE «NATURE» Le epoche glaciali? Il Sole potrebbe essere una stella variabile
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, GEOGRAFIA E GEOFISICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 001

LA luminosità del Sole può subire variazioni sostanziali nell' arco di pochi anni? Secondo una ricerca pubblicata da «Nature» (17 dicembre ' 92) la risposta è sì. A questa conclusione, che fino a ieri sarebbe stata considerata eretica, sono arrivati Lockwood e Brian Skiff del Lowell Observatory di Flagstaff (Arizona), Sallie Baliunas dello Smithsonian Astrophysical Observatory (Massachusetts ) e Richard Radick dell' Usaf Phillips Laboratory (New Mexico). Anche le teorie sulle cause delle ere glaciali potrebbero essere riviste. Attualmente per spiegare le oscillazioni climatiche con periodo di circa centomila anni la teoria più accettata è quella di Milankovitch, secondo cui l' alternarsi di caldo e freddo è dovuta al sommarsi di variazioni dell' eccentricità dell' orbita terrestre e dell' inclinazione dell' asse di rotazione del nostro pianeta: ma alcuni studiosi pensano che tali variazioni non siano sufficienti a giustificare le epoche glaciali. Le macchie solari hanno un periodo di circa 11 anni. Durante questo ciclo la radiazione della nostra stella varia di pochissimo: meno dello 0, 1 per cento (esattamente 0, 08% ) in base a misure compiute tra il 1978 e il 1986 dai satelliti «Nimbus 7» e «Solar Maximum Mission». Lo studio degli astronomi americani si basa sull' osservazione per 8 anni di 33 stelle simili al Sole. Di esse sono stati misurati tre parametri: la luminosità, l' attività della cromosfera (lo strato inferiore dell' «atmosfera» stellare) e le variazioni del campo magnetico. La radiazione emessa da più di metà delle 33 stelle è variata dello 0, 2 0, 3 per cento, cioè fino a 4 volte più di quella solare. E' ben documentato che la Terra ha attraversato una «piccola era glaciale» tra il 1650 e il 1800, in coincidenza con una forte riduzione dell' attività solare. Questo periodo è noto come «minimo di Maunder», dallo studioso che per primo lo rilevò. La ricerca pubblicata da «Nature» fa ora pensare che oscillazioni del genere, e anche molto più ampie, possano essere normali. Quanto al «periodo caldo» che stiamo vivendo, non si dimentichi che l' attività solare non è mai stata così intensa come nell' ultimo mezzo secolo. I ghiacciai sono un ottimo indicatore climatico. Il loro arretramento è incominciato, tra alti e bassi, più di diecimila anni fa, al termine dell' ultimo periodo glaciale. E' in questa cornice più ampia che deve situarsi anche il dibattito sull ' effetto serra. A chi volesse documentarsi segnaliamo la «Guida ai ghiacciai e alla glaciologia» di Claudio Smiraglia (Zanichelli). Piero Bianucci


PERCHE' C' INTERESSA TANTO LADY DIANA Il pettegolezzo, una eredità evolutiva E uno strumento per mantenere i rapporti sociali
Autore: CARRADA GIOVANNI

ARGOMENTI: ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA
NOMI: DUNBAR ROBIN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 001

SE il figlio di Stephanie di Monaco ci interessa più dell' assedio di Sarajevo, o le infelicità coniugali di Lady Diana ci commuovono più della sorte dei bambini somali, la colpa non è dei giornali o della tv. E' nostra. Secondo Robin Dunbar, antropologo all' University College di Londra, uno sproporzionato interesse per i fatti personali degli altri non è un vizio, ma fa parte dell nostra eredità evolutiva. Potrebbe anzi esserne una delle chiavi di volta Nella sua ricostruzione del più lontano passato degli ominidi, Dunbar collega l' origine del «gusto del pettegolezzo» addirittura con le spinte evolutive che permisero ai nostri antenati di sviluppare un linguaggio verbale. E, insieme alla parola, un cervello più grande, quindi l' intelligenza, che ci ha fatti diventare quello che oggi siamo. Vediamo come. Secondo l' ipotesi tradizionale, l' evoluzione del linguaggio sarebbe stata premiata dalla selezione naturale perché permise ai primi ominidi di scambiarsi informazioni sulle fonti di cibo e collaborare durante le battute di caccia collettive. Perché però altri predatori, dai lupi ai leoni, vadano a caccia in gruppo da milioni di anni e con ottimi risultati, senza sentire il bisogno di sviluppare nè linguaggio, nè intelligenza, l' ipotesi tradizionale non lo spiega Per Robin Dunbar le cose andarono diversamente. Non fu la ricerca del cibo la spinta decisiva che ci proiettò verso l' intelligenza, ma la cura dei rapporti sociali. Per seguire il suo ragionamento, bisogna entrare un po' nella vita dei primati, il gruppo di mammiferi dai quali la nostra evoluzione prese le mosse. A rendere i primati diversi da tutti gli altri mammiferi è la vita in gruppi sociali molto più complessi, nei quali vigono gerarchie precise, si stringono alleanze e i legami tra individuo e individuo sono molto forti. Per fare parte del gruppo i rapporti sociali vanno curati e bisogna conoscere in ogni momento ruolo, posizione gerarchica, umore di qualsiasi individuo del gruppo. Farsi i fatti degli altri, in un gruppo di babbuini, è una necessità che non ha nulla di frivolo. Curare i rapporti sociali, si sa, richiede tempo. I primati lo fanno in molti modi, ma soprattutto attraverso la pulizia reciproca del pelo, un' attività carica di significati che gli etologi conoscono molto bene. Un babbuino o uno scimpanzè passano anche un quinto del loro tempo a spulciarsi. Immaginiamo ora che quattro milioni di anni fa un primate abbia scoperto quanto è utile vivere in gruppi più grandi. Per difendersi dai predatori, ad esempio. Come avrebbe potuto curare i rapporti sociali, rimanere al corrente degli affari di tutti i membri e avere ancora abbastanza tempo per procurarsi il cibo? E' qui che entra in scena il cervello. Tra i primati, più grande è il gruppo sociale, più grande è il cervello della specie, perché più complessi diventano i rapporti sociali. L' evoluzione di un carattere influenza quella dell' altro. I lemuri, i primati più primitivi, vivono isolati o in gruppi molto piccoli, e hanno i cervelli più piccoli. Scimpanzè, babbuini e macachi, che vivono in gruppi di 50 60 individui, hanno cervelli più grandi e sono più intelligenti. Per ogni specie di primate, insomma, esiste una dimensione «naturale» del gruppo, che permette a tutti i membri di controllarsi a vicenda e mantenere un contatto individuale. Proviamo a estrapolare all' uomo i dati raccolti sui primati. Tenuto conto delle sue dimensioni e di quelle del suo cervello, dovrebbe vivere in gruppi di circa 150 individui. Ma un gruppo di 150 individui è stato anche calcolato richiederebbe ai suoi membri di spulciarsi per il 35 45% del tempo. Assolutamente troppo. La soluzione trovata dai nostri antenati potrebbe essere stata proprio la parola. Parlare non impedisce di raccogliere frutti, cercare una preda o una sorgente, trovare un riparo per la notte. Inoltre permette di rivolgersi a più individui contemporaneamente. Nel frattempo ci si tiene informati su che cosa fanno e che cosa pensano gli altri, chi è in sella e chi è in disgrazia, chi può tornare utile e chi no, e così via. Più o meno quello che facciamo noi al telefono, al bar o quando leggiamo i giornali. Ma è rimasta qualche traccia di gruppi umani «naturali» di circa 150 individui? Ecco qualcuno dei dati proposti. Setacciando la letteratura antropologica, si scopre che tra le popolazioni di cacciatori raccoglitori, quelle più vicine al tipo di vita condotto dagli ominidi per quasi tutta la loro storia evolutiva, le dimensioni dei clan oscillano tra i 100 e i 230 individui; 130 150 uomini è la dimensione della compagnia, l' unità di base degli eserciti di tutto il mondo, a partire da quello romano; 150 persone vivevano in media nei villaggi neolitici del Medio Oriente, altrettante nelle comunità degli Utteriti, una setta cristiana fondamentalista che vive isolata in Canada. Anche nelle aziende, quando il personale supera i 150 dipendenti si avverte il bisogno di una gerarchia più strutturata e formale. Da quel lontano momento della nostra evoluzione il linguaggio ha assunto altre e forse più importanti funzioni, rivelandosi l' adattamento vincente degli ominidi, perché ha messo in moto un' evoluzione culturale che non ha confronti nel mondo animale. In fondo in fondo, però, siamo sempre gli stessi. Giovanni Carrada


VERSO LA «PERSONALITA' VIRTUALE» Gorby nel floppy disk E si potrà intervistarlo via computer
Autore: LENTINI FRANCESCO

ARGOMENTI: INFORMATICA, TECNOLOGIA
NOMI: BATES JOSEPH
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 002

NON è lontano il giorno in cui registreremo la personalità umana, o parte di essa, su un comune floppy disk. Chi, dopo 50 o 100 anni, inserirà quel floppy disk nel proprio computer, potrà dialogare con il «simulacro elettronico» di una persona scomparsa. Questa nuova possibilità può essere definita Personalità virtuale (Pv) ed è stata descritta nell' articolo intitolato «Che carattere quel computer» apparso su Tuttoscienze dell' 8 luglio 1992. Intanto nel mondo sono successe alcune cose. E' arrivato sugli schermi «Il Tagliaerbe», primo film sulla realtà virtuale. L' industria giapponese ha lanciato la sfida «Real World computing», un progetto di ricerca che si pone l' obiettivo di ottenere, entro 10 anni, una macchina capace di operare efficacemente nel mondo reale (cioè dotata di buon senso). Il programmatore americano Joseph Bates, della Carnegie Mellon University, ha ottenuto un cospicuo finanziamento proprio da una multinazionale giapponese (la Fujitsu Ldt. ) per sviluppare i suoi studi sulle «palline che fanno il broncio». Bates ha costruito un mondo virtuale entro il quale si muovono quattro palline colorate: esse rimbalzano su e giù esibendo una sorta di «linguaggio del corpo», ovvero assumendo forme e colori corrispondenti ad un carattere timido o aggressivo, secondo le istruzioni del programmatore. Un ricercatore inglese, Aaron Sloman, sta addirittura tentando di costruire una «grammatica delle emozioni» , analoga alla grammatica delle frasi, da insegnare ai robot del futuro. Supponiamo ora di avere un computer che sia capace di: rispondere in perfetto italiano alle domande più comuni (Chi sei? Come ti chiami? Chi ti ha programmato? ); fornire un parere sugli argomenti più futili o più importanti (Ti piace il calcio? Secondo te Dio esiste? ); variare a piacimento la gamma dei pareri e degli argomenti (religione, filosofia, politica). Si forma quello che Edward de Bono chiama «stratale», un significato distribuito su più strati. Il tipo più comune di stratale è la poesia, il tipo più sofisticato è la Pv. Quando leggiamo una poesia ne percepiamo il significato non dai singoli versi, ma dopo aver letto «tra le righe». Il tutto è maggiore della somma delle parti. Ebbene, quando conversiamo con un computer accade qualcosa di simile: ogni parola, ogni frase usata dalla macchina stimola una parte del cervello e l' effetto complessivo è quello di una sovrapposizione di schemi. Ciò induce l' utente ad affermare: «Ecco una macchina saggia», oppure: «Ecco una macchina fortemente egocentrica». Esseri autonomi e pensanti abiteranno dentro il video? Può darsi. Per ora sappiamo che esseri parlanti abitano dentro il video, come ha dimostrato l' esperimento di conversazione uomo macchina presentato qualche mese fa su queste stesse pagine. Dunque il comune denominatore di tutte le ricerche è l' elaborazione del linguaggio (linguaggio del corpo, grammatica delle emozioni, linguaggio verbale). Il risultato a cui si tende è la creazione di una Pv, anche se questo termine non è ancora in auge. Alcuni parlano di «vita artificiale», ma sembra una forzatura. Ammettiamo, per esempio, di voler costruire una «versione cibernetica» di Mikhail Gorbaciov. Il primo passo è quello di digitalizzare le sue sembianze allo scopo di inserirle in un ambiente virtuale (magari una riproduzione del suo ex ufficio al Cremlino). Poi, perché questa semplice forma geometrica acquisti un significato, è necessario collegarla ad un programma di conversazione in linguaggio naturale. A questo punto abbiamo forma più significato, ma il risultato non è affatto un tipo di «vita» (non ha autonomia, non si riproduce, ecc. ). Nel concetto di Pv, al contrario, non vi è nessuna forzatura. Inoltre il problema cardine dell' intelligenza artificiale ( «Le macchine possono pensare? » ) non si pone nemmeno in quanto il gioco dell' imitazione di Turing viene sostituito con il seguente gioco dell' intervista. Gorbaciov ha ricevuto negli ultimi 8 mesi circa 5000 lettere provenienti da ogni parte del mondo. Egli è un individuo molto concreto e impegnato, tuttavia ha accettato di rispondere (su iniziativa de La Stampa) alle domande più curiose che la gente comune gli poneva. Ebbene, noi possiamo inserire nel computer tanto le domande del pubblico quanto le risposte di Gorbaciov (sia pure con qualche limitazione). Questa opzione è disponibile già oggi, e per qualsiasi personaggio, come si spiega nell' articolo «Quattro chiacchiere con Eloisa», apparso su Tuttoscienze del 5 febbraio 1992. Il programma che fa parlare «Eloisa» è il primo software per la Pv. Così alla prossima intervista Gorbaciov potrebbe farsi sostituire da un computer. Sembra un' ipotesi da fantascienza e invece non è neanche un' idea nuova. Negli Stati Uniti, ad appena un' ora di viaggio da Los Angeles, vi è una macchinetta a gettone che consente di intervistare l' ex presidente Richard Nixon. Le interviste attraverso un sistema di televisione interattiva: basta scegliere da un menu la domanda desiderata e l' immagine di Nixon recita la risposta prevista. Peccato che non si possa mai controbattere. Infatti l' iniziativa risale a qualche anno fa, quando il concetto di Pv e il software relativo non esistevano ancora. Oggi potremmo non solo interloquire con Nixon e Gorbaciov, ma addirittura farli conversare tra loro. Naturalmente dopo averli trasformati in tracce magnetiche sulla superficie di un floppy disk. Francesco Lentini


NORME PIU' SEVERE Carni sotto sorveglianza Alt ad ormoni e residui di farmaci
Autore: BURI MARCO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, ZOOTECNIA, LEGGI, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 002. Allevamenti

BASTA con ormoni e residui di farmaci nelle carni di produzione italiana? Certo, così prescrivono i due decreti legislativi n. 118 e 119 del 27 gennaio 1992. Queste norme dovranno controllare sia la somministrazione nell' allevamento sia la ricerca degli eventuali residui negli animali, nei vari prodotti derivati da questi e nelle carni fresche. Ma come si è giunti a questo inevitabile controllo? Dopo la seconda guerra mondiale il problema della produzione di proteine nobili (carne innanzitutto) era drammatico. Così la scoperta di alcuni farmaci antiinfettivi ha permesso un gigantesco sviluppo degli allevamenti, sino ad arrivare alla forma intensiva dei nostri anni che permette di produrre, a parità di calorie somministrate, almeno il 20 per cento in più di derrate carnee rispetto a trent' anni fa. Per lungo tempo sono valsi solo i termini della produzione ad ogni costo e della convenienza economica. Nessuno si è mai occupato dei criteri di valutazione delle derrate alimentari per l' uomo, sotto l' aspetto igienico sanitario, per salvaguardare la salute del consumatore dalla presenza di eventuali sostanze estranee di varia natura chimica. Molti farmaci antiinfettivi sono di comune uso sia nella terapia umana sia nell' allevamento zootecnico, nella prevenzione e terapia veterinaria. Questo è l' aspetto più pericoloso. I farmaci più usati sono antibiotici, sulfamidici, chemioterapici, ormoni. Nell' allevamento vengono somministrati, nell' alimento, soprattutto antibiotici a basso dosaggio per suini e volatili, praticamente per tutto l' arco della loro vita; nei bovini, invece, solo in certi periodi a maggior rischio infettivo. A scopo preventivo e terapeutico i dosaggi farmacologici sono maggiori; i principi attivi sono di natura chimica diversa a seconda delle patologie, ma sono concentrati in periodi brevi e determinati. Può succedere, però, che il trattamento debba essere ripetuto più volte. Per la qualità degli alimenti di origine animale, i residui assumono particolare importanza. Si tratta di molecole dei farmaci, tali e quali o modificate dal metabolismo del soggetto a cui sono stati somministrati. La natura chimica di questi, la durata dell' impiego sull' animale, l' assunzione in concomitanza alla raccolta dei suoi derivati e della macellazione, hanno fondamentale rilevanza nel quadro delle pericolosità sull' uomo. I potenziali danni terapeutici possono essere: resistenza batterica, reazioni allergiche, induzioni enzimatiche. Più difficili da correlare ma certo non da sottovalutare: cancerogenesi e teratogenesi. Alla luce di questi possibili pericoli, ogni volta che ci avviciniamo ad un piatto di carne, ben vengano le nuove legislazioni. La prima, citata in precedenza, si occupa di regolamentare gli agenti ormonali e tireostatici, vietandone l' ultilizzo nei soggetti all' ingrasso, ma, fatto importante, vieta pure l' importazione da Paesi che non sottostiano alla stessa legge. Il decreto n. 119 stabilisce che i medicinali somministrati ad animali le cui carni o i cui prodotti siano destinati al consumo umano debbano essere soltanto farmaci ammessi ed autorizzati ad uso veterinario. Inoltre, il medico veterinario curante deve prescriverli con apposita ricetta, su cui vengono siglati i tempi di attesa prima della macellazione dei soggetti trattati o della utilizzazione dei prodotti derivati da tali animali. Così facendo si dà tempo ai residui chimici di essere metabolizzati ed espulsi da rene e fegato. I tempi di sospensione dei farmaci ad uso veterinario sono indicati sul medicinale stesso e non possono essere inferiori a sette giorni per uova e latte, ventotto giorni per carni di pollame e mammiferi, inclusi grasso e frattaglie e, infine, con una formula di 500 grammi/giorno (in base alla temperatura media giornaliera dell' acqua delle vasche) per le carni di pesce allevato. Il medico veterinario è così, giustamente, al centro del controllo della somministrazione farmacologica agli animali di allevamento, cosa che per troppo tempo è stata lasciata a criteri non certamente scientifici nè sanitari. Anche se i dietologi raccomandano la dieta mediterranea, che prevede una moderata assunzione di proteine di origine animale, potremo almeno gustare la nostra bistecca con la certezza del miglior controllo igienico sanitario possibile. Marco Buri


GIORGIO SPEZIA Studioso solitario e tenace precursore misconosciuto nella scienza dei materiali
Autore: FERRARIS GIOVANNI, RINAUDO CATERINA

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
PERSONE: SPEZIA GIORGIO
NOMI: SPEZIA GIORGIO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 002

CHI si ricorda di Giorgio Spezia, che dal 1878 al 1911, anno della morte, fu professore all' Università di Torino e qui, primo al mondo, ottenne cristalli artificiali da soluzioni acquose operando a pressione e temperatura non ambientali? Nato a Piedimulera (Valdossola), Spezia si laureò nel 1867 alla Reale scuola di applicazione per ingegneri, specializzandosi poi a Gottingen e a Berlino. Acquisì così una visione precorritrice non solo delle discipline mineralogiche, allora essenzialmente descrittive, ma anche di quella che ora è nota come scienza dei materiali. Nominato professore a Torino, Spezia si adoperò affinché presso la cattedra di mineralogia, accanto ad un museo, sorgessero laboratori e fossero avviate ricerche sperimentali per ottenere informazioni circa i fenomeni naturali che portano alla nucleazione e alla crescita dei minerali. Tra i lavori dello scienziato si ritrovano osservazioni ed esperimenti pionieristici sulle inclusioni fluide nei minerali, argomento oggi di attualità in quanto le inclusioni possono essere utilizzate quali barometri e termometri nello studio dell' evoluzione della crosta terrestre. Tuttavia i lavori che, seppur postuma, diedero a Giorgio Spezia una fama mondiale riguardano la crescita di cristalli di quarzo e furono pubblicati sugli Atti dell' Accademia delle Scienze di Torino, tra il 1905 ed il 1911. Egli ideò e costruì il prototipo di quella che attualmente è nota come «bomba idrotermale», tuttora conservato al Dipartimento di scienze mineralogiche e petrologiche dell' Università di Torino. Da esperimenti che duravano anche sei mesi, Spezia riuscì a ottenere splendidi cristalli di quarzo. Nelle sue osservazioni egli prese in considerazione diversi parametri che, come solo in anni recenti è stato confermato, influenzano la crescita cristallina. Per esempio, notò che la presenza di impurezze, quali il cloruro di sodio, aumenta la limpidezza dei cristalli. Così pure scoprì che la velocità di crescita dei cristalli variava con la direzione, risultando maggiore lungo la direzione di massima simmetria del quarzo. Stabilì inoltre che lo sviluppo reciproco delle facce era una funzione della durata dell' esperimento. In un' epoca pre industria elettronica, l' opera dello Spezia passò inosservata ai contemporanei, anche se allora la presentazione delle ricerche avveniva ancora solennemente nelle accademie. Durante la seconda guerra mondiale la proprietà che ha il quarzo di generare frequenze elettromagnetiche se compresso (piezoelettricità ), e viceversa, rese tale minerale un componente essenziale di indispensabili apparecchiature elettroniche. Alla Germania nazista non era però possibile accedere alla maggior fonte di quarzi naturali, il Brasile. Fu così che la necessità aguzzò l' ingegno e, nel 1943, Richard Nacken riscoperse il metodo di Spezia, arrivando a mettere insieme un impianto pilota per piccola produzione industriale. Subito dopo la guerra, l' impellente necessità di procurarsi sempre maggiori quantità di quarzi portò a ulteriori ricerche sulla sintesi idrotermale, cioè sul metodo naturale, riprodotto in laboratorio per la prima volta da Spezia, che permette di raggiungere alte pressioni mediante riscaldamento di soluzioni acquose confinate in un dato volume. Nel 1948 dalla Brush Development Company (Stati Uniti) arrivò una lettera elogiativa «all' attenzione di Professore Giorgio Spezia, Università di Torino» in cui gli si riconosceva la paternità di un metodo ormai diventato industriale. Lui era morto nel 1911 senza lasciare nessun allievo in grado di perseguire le sue ricerche, anche perché, come tramanda la tradizione, era persona schiva che preferiva lavorare solitario. Il metodo idrotermale per la crescita di cristalli (non solo di quarzo) è ancora oggi quello di Spezia. Vari trattati sulla crescita cristallina ricordano il torinese nelle loro prime pagine. Ma il metodo di Spezia non porta il nome dell' inventore, come invece è per altri metodi del settore: per esempio, il metodo Verneuil e quello Czochraski. Perché ? Semplicemente perché lo scopo dello Spezia era di ripetere in laboratorio quello che la natura fa da sempre; così il nome per il suo metodo già esisteva: metodo idrotermale. Giovanni Ferraris Caterina Rinaudo Università di Torino


SCAFFALE Dizionari di Fisica, Chimica, Biologia; Atlante di Astronomia, Sperling & Kupfer
AUTORE: P_B
ARGOMENTI: DIDATTICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 002

Fisica, chimica e biologia in tre maneggevoli dizionari, più un atlante di astronomia. E' la nuova proposta dell' editore Sperling & Kupfer, che ha deciso di dedicare più attenzione ai lettori interessati alla scienza. Altri dizionari e altri atlanti seguiranno, fino a coprire tutte le discipline. Piuttosto di costruire in casa i volumi si è preferito tradurli (accuratamente) dall' inglese attingendo alla produzione della prestigiosa Oxford University Press. Quanto all' atlante di astronomia, è invece un recupero un po' discutibile: si tratta del vecchio anche se ottimo lavoro di Joachim Herrmann, per di più scarsamente aggiornato: per esempio è inutile cercare i dati raccolti dal «Voyager 2» nel suo sorvolo di Nettuno avvenuto nel 1989.


SCAFFALE Cantor Georg: «La formazione della teoria degli insiemi», Sansoni
AUTORE: P_B
ARGOMENTI: MATEMATICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 002

Il matematico Georg Cantor, vissuto dal 1845 al 1918, ha legato il suo nome a molti lavori fondamentali, ma il più famoso è certo la costruzione della teoria degli insiemi (che tra l' altro ha avuto sviluppi interessantissimi nello studio del concetto di infinito e nella geometria dei frattali). Questo volume è una antologia degli scritti di Cantor sulla teoria degli insiemi a partire dal primo articolo del 1872. Ampia e utile l' introduzione di Gianni Rigamonti.


SCAFFALE Rosenfield Israel: «Lo strano, il familiare e il dimenticato», Rizzoli
AUTORE: P_B
ARGOMENTI: PSICOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 002

Nello studio della mente e della malattia mentale e neurologica oggi prevale l' approccio biochimico: il cervello è visto meccanicisticamente come un insieme di oltre dieci miliardi di cellule che si scambiano messaggi tramite neurotrasmettitori. Questa linea ha portato e porta grandi risultati. E' però indispensabile anche un approccio totale alla coscienza e all' essere dell' individuo, senza il quale sarà sempre impossibile comprendere le origini dell' individualità e della creatività umana: ed è quanto propone in questo saggio Israel Rosenfield, non a caso un medico laureato in medicina, professore alla City University di New York.


SCAFFALE Eigen Manfred: «Gradini verso la vita», Adelphi
AUTORE: P_B
ARGOMENTI: BIOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 002

L' ENIGMA dell' origine della vita è un tema che tenta i laureati con il Nobel il cui lavoro si svolge all' incrocio tra chimica e biologia. Ci ha provato Monod, a sciogliere l' enigma, con la ricetta «caso e necessità ». Ci ha provato Crick, rilanciando la panspermia universale. Ci prova ora Manfred Eigen, 65 anni, tedesco sperimentatore di «macchine evolutive» al Max Planck Institut di Gottingen. Il passaggio più misterioso è quello che va dalle prime molecole organiche complesse a una molecola che è in grado di riprodursi. Per Eigen il ruolo del caso deve essere ridimensionato: il passaggio dall' inanimato al vivente avviene secondo regole che, a differenza del caso, rispondono a una logica interna. Fondamentale è il ruolo dell' informazione sotto due aspetti, quello quantitativo e quello semantico. Per fare un esempio grossolano, il verso di Leopardi «e il naufragar mi è dolce in questo mare» può essere tradotto in un dato numero di informazioni elementari del tipo sì no (cioè di bit). Scrivendo con un computer, l' endecasillabo leopardiano occupa, in concreto, 320 bit e questo è l' aspetto quantitativo. Ma poi c' è l' aspetto semantico: e allora la quantità di informazione diventa assai maggiore e difficilmente stimabile. Il salto dalla materia morta alla materia viva si ha quando una molecola incomincia a portare con sè una sorta di messaggio semantico, il programma secondo cui organizzare la materia bruta. La biologia molecolare, per Eigen, è la chiave culturale che può farci comprendere la transizione inanimato vivente. Un libro non facilissimo ma molto stimolante e anche di ottima qualità letteraria.


FORMICHE DEL SAHARA Una vita col tempo contato Per sfamarsi hanno una «finestra termica » di soli otto minuti al giorno Prima sono in agguato i predatori, poi la temperatura è intollerabile
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 003

QUANDO si dice «avere il tempo contato». Nessuno può affermarlo con più cognizione di causa della formica Cataglyphis bombycina dei deserti africani, che per fare la quotidiana provvista di cibo può concedersi in tutto più o meno otto minuti. E per di più nelle ore più calde della giornata, che dalle sue parti vogliono dire d' estate anche 60 gradi a livello del terreno. Stretta fra il rischio di morire per surriscaldamento e il pericolo di finire in bocca a un predatore, la formica ha a disposizione pochi attimi. Una frazione di tempo durante la quale, barcamenandosi fra costi e benefici, è in bilico come un funambolo fra due temperature cruciali: quella a cui il suo predatore naturale si rintana sottoterra e quella a cui lei incomincia a soffrire per stress da calore. Lo hanno scoperto R. e S. Wehner dell' Università di Zurigo e A. C. Marsh dell' Università di Namibia e pubblicato su Nature (vol. 357, 586). D' estate a mezzogiorno sulle sabbie infuocate del Sahara centrale e del Sahel nordafricano Cataglyphis bombycina è l' unico artropodo in giro. Gli altri si sono ormai tutti ritirati nei loro rifugi, comprese le formiche delle altre specie che sono al riparo dal calore nei loro nidi sotterranei. La nostra, che è uno spazzino nel suo ecosistema come le iene e gli avvoltoi lo sono nella savana, esce invece proprio a quell' ora per cercare i cadaveri di quegli insetti notturni, scorpioni e ragni che non sono stati sufficientemente veloci a trovare un riparo al sorgere del Sole. Anche lei deve fare i conti con il sole, e infatti può scorrazzare soltanto finché la temperatura del suo corpo non raggiunge i 53 gradi e lei incomincia a barcollare come ubriaca: è questa infatti la sua temperatura critica, oltre la quale muore per stress da calore. E' la più alta finora registrata per un animale terrestre. Se dunque i 53 gradi costituiscono il limite termico superiore da non oltrepassare per le scorrerie, quello inferiore, sotto il quale non le è consentito di uscire dal nido, è molto prossimo: 46, 5 gradi, valore al quale il suo predatore naturale, la lucertola Acanthodactylus dumerli, si rifugia sottoterra per trovare refrigerio. Osservare questo limite è d' obbligo per le formiche, perché la tana della lucertola spesso è nei pressi del formicaio e d' estate questo predatore nelle ore più calde della giornata concentra i suoi attacchi sulle Cataglyphis bombycina, le uniche in giro. E infatti, se sperimentalmente si pongono alcune formiche fuori dal nido prima dei fatidici 46, 5 gradi, queste cadono in bocca alla lucertola in meno di 5 minuti. Quando ormai tutti gli insetti, ragni e scorpioni sono al riparo, e nel microcosmo della formica i 4 millimetri sopra il terreno corrispondenti alla sua altezza si raggiungono i 46, 5 gradi, la Cataglyphis bombycina esce allo scoperto. La scelta del momento è affidata ad alcune esploratrici, che con brevi e regolari escursioni fuori dal nido saggiano a più riprese la temperatura che si va innalzando al progredire del mattino. Nel frattempo tutte le foraggiatrici, alcune centinaia di operaie, si sono ammassate nella camera del formicaio sotto l' uscita e attendono il segnale. Che arriva sotto forma di un odore fortissimo, un feromone emesso dalle esploratrici di ritorno tutte eccitate, l' equivalente nel nostro mondo di suoni di potenti squilli di molte trombe. E' il momento. Una massa brulicante di insetti dai riflessi d' argento esplode tutta d' un tratto dal buco del formicaio: le operaie escono in massa in superficie, come il getto di vapore espulso d' improvviso dalla bocca di un Geyser. Compresse nella strettoia termica di 7 gradi (tanti quanti separano i limiti tra le due temperature critiche) e prive di strutture che le proteggano dal calore, le formiche corrono come forsennate, costrette a spendere dal 30 al 75 per cento delle energie per guadagnare ogni tanto la cima di uno stecco, di un rametto, quanto basta insomma a sollevarle di una ventina di centimetri dall' inferno del loro spazio sul terreno, e perdere un po' di calore ad altezze caratterizzate da temperature più basse. Mentre il caldo sale, se sul percorso non trovano la possibilità di un rifugio, muoiono quando la temperatura esterna e di conseguenza quella corporea raggiunge i 55 gradi. Condizionata da questo limite termico, la scorreria si conclude in pochi attimi: otto preziosissimi minuti, sui quali si è modellata la sopravvivenza di questa specie nei deserti africani. Maria Luisa Bozzi


In Australia cresce il deserto Riemerge il sale di un oceano prosciugato
Autore: MORETTI MARCO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 003

I primi pionieri che, installatisi sulle rive del Murray River, cominciarono ad abbattere a colpi d' ascia le foreste di eucalipti, non pensavano di innescare un processo di degrado ambientale a cui oggi è difficile porre rimedio. Alcuni deserti di sale esistevano in Australia già prima dello sbarco degli inglesi, soprattutto nelle aride regioni centrali. Il taglio indiscriminato delle foreste, ridotte in due secoli dal 15 al 5 per cento del territorio e l' irrigazione di terreni aridi hanno alterato l' equilibrio geologico facendo emergere dal sottosuolo il sale in alcune delle regioni tradizionalmente più fertili della fascia meridionale del continente. Gli eucalipti avevano una funzione equilibratrice, le loro profonde radici pompavano acqua dalle falde sotterranee. I pionieri trasformavano le foreste in pascoli o in campi coltivati. L' irrigazione delle colture associata all' irregolarità delle precipitazioni talvolta torrenziali, innalzavano il livello delle acque sotterranee, che con il loro emergere portavano a galla il sale: i campi di grano celavano assopiti letti marini. Oceani asciutti che, risvegliati, coprono oggi già quattro milioni di ettari. E dilagano a macchia d' olio: nella sola Australia Occidentale diventano sterili ventimila ettari all' anno. Secondo le stime dei geologi, sotto l' epidermide innocente del continente giacciono 600 mila megatonnellate di sale: i resti di un fondo marino che si è prosciugato 500 milioni di anni fa. Se l' agricoltura ha facilitato l' erosione del terreno, l' eccessivo pascolo lo ha completamente depauperato. Il suolo australiano, abituato da milioni di anni al tocco delle zampe morbide dei canguri, è stato invaso da enormi mandrie (23 milioni di capi) di bovini. Nelle aree in cui erano molto concentrati (alla fine del secolo scorso diverse fattorie ospitavano più di centomila capi), con il calpestio dei loro zoccoli duri polverizzavano il suolo. Le immense greggi (135 milioni di capi) si rivelavano un autentico fragello: con la loro insaziabile ricerca di cibo hanno causato la desertificazione di ampie aree del Paese e distrutto l' habitat di numerose specie di piccoli marsupiali. La polverizzazione del terreno origina le spettacolari tempeste di sabbia che caratterizzano l' outback (l' interno australiano). Il fenomeno ha raggiunto dimensioni sempre più allarmanti: negli ultimi anni, la polvere portata dal vento ha creato nuvole che hanno invaso anche le città. L' origine del problema è culturale, prima ancora che ambientale. Per i colonizzatori, l' Australia era una terra di conquista, una landa da sfruttare, da cui ricavare il massimo per arricchirsi e ritornare in Europa. Oggi molte cose sono cambiate, ma l' atteggimento dei farmers pare immutabile. Secondo le ultime indagini, su cinque milioni di chilometri quadrati adibiti all' agricoltura e all' allevamento 2, 7 sono soggetti o in pericolo d' erosione; il 90 per cento dei farmers (secondo una ricerca della Griffith University di Brisbane) pensa che il problema esista ma non riguardi le loro proprietà. Il deserto di sale intanto avanza ovunque e produce gli effetti di un miraggio: i cristalli di sale riflettono i raggi del sole creando l' illusione di distese d' acqua. Il dilagare del fenomeno minaccia anche l' esistenza di numerose specie animali. In una delle aree colpite, attorno al lago Toolibin, in Australia Occidentale, uno dei pochi bacini d' acqua fresca rimasti nella regione, metà delle specie di uccelli che nidificano sulle sue rive sono scomparse da anni. Il problema comunque non è sottovalutato. «Il degrado del suolo è uno dei maggiori problemi che ha colpito la nostra comunità afferma Phillip Toyne, direttore dell' Australian Conservation Foundation A fianco dei costi economici e sociali, è minacciato l' ecosistema autraliano e la sua diversità biologica». Alla ricerca di rimedi, il governo laburista ha dichiarato gli Anni Novanta «il decennio per la conservazione del suolo». Una campagna per la riforestazione, con incentivi agli agricoltori che vi partecipano, è stata lanciata dal primo ministro in persona, con lo slogan «un miliardo di alberi in più per il Duemila». Marco Moretti


FIORI SECCHI Quei bellissimi mazzi dai colori così finti che sembrano veri
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: CHIMICA, BOTANICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 003

COMPOSIZIONI da tavola e bouquet di ogni dimensione sono realizzati sempre più spesso con i fiori essiccati, ottenuti mediante tecniche assai raffinate messe a punto dopo anni di esperienza basate sull' impiego di prodotti chimici. Le aziende specializzate in questo settore sono liguri e toscane e inviano all' estero il meglio della loro produzione, assai richiesta. Vengono utilizzate ottocento specie di fiori, con foglie, rami, frutti e semi appartenenti alle famiglie più varie. Si va dalle Asteracee (come i cosiddetti semprevivi Helycrisum orientale e bracteatum, il grande cardone dalle foglie pungenti spontaneo in montagna, la Carlina acaulis, il Cartamo usato in passato come fonte di coloranti, il fiordaliso), alle Ranuncolacee: Delphinium, Cmematis, Elleboro; dalle Amarantacee, come l' Amaranthus, noto come la penna del principe, la Gomphrena, alle Crucifere, come la Lunaria, la moneta del papa dalle bianche silique, dalle Solanacee, come l' alkekengi, le lanterne giapponesi, alle Graminacee, la Thyha, l' aveana, l' orzo, la Briza il laguro, la Stipa pennata. Questo materiale di partenza viene coltivato dal Nord al Sud dell' Italia, fatta eccezione per qualche specie esotica proveniente da paesi tropicali. Il materiale, raccolto e selezionato in modo da essere sano e perfetto, viene riunito in mazzi da 100 e 500 grammi appesi capovolti in magazzini, granai, tettoie, evitando l' insolazione diretta, e l' eccessivo riscaldamento per evitare la decolorazione di fiori e steli. Dopo 5 15 giorni l' essiccazione è ultimata e i fiori hanno perso fino al 75 per cento del loro peso iniziale. Quindi il materiale viene trasportato agli stabilimenti di lavorazione, dove viene sottoposto alla solforazione in locali chiusi ermeticamente, accendendo lo zolfo per due settimane, in modo da compiere una perfetta disinfestazione. In seguito il materiale è conservato, e prelevato a mano a mano che deve venire impiegato. La prima operazione da affrontare è la decolorazione, poiché gli steli, le foglie, i fiori, una volta essiccati, assumono un colore sbiadito e disforme, che impedirebbe di ottenere buoni risultati con la tintura. La decolorazione viene effettuata entro vasche, in presenza di ipoclorito, che libera prima acido ipocloroso (HOCl), quindi ossigeno che reagisce con i pigmenti e le cere. Tale procedimento ha la durata di 1 5 giorni, a seconda dell' intensità del colore da togliere. In seguito il prodotto viene sbiancato mediante acqua ossigenata alla dose di 50 litri diluiti in 500 litri di acqua. Si tratta di una ulteriore ossidazione a temperatura di 80 85C, della durata di un' ora, che conduce al bianco puro. Il materiale risciacquato, lasciato asciugare in essiccatoio in corrente di aria calda è pronto per la tintura, operazione delicata che richiede la dissoluzione di coloranti basici in acqua in dosi mantenute gelosamente segrete. Nessun operatore svelerà mai come riesce ad ottenere un rosa pallido o un delicato violetto o un rosso fucsia o un giallo paglierino, dato che gli è costato anni di esperienza accompagnati da molti insuccessi. Anche il tempo di immersione dello stelo nel colorante non viene assolutamente rivelato. E' un lavoro manuale che richiede sensibilità e precisione. Naturalmente in ogni vasca verrà ottenuto un apposito colore. Se così sono trattati i fiori, diversa è invece la sorte delle foglie. Seguiamo gli steli di magnolia, di pungitopo, di frassino, di faggio, di leccio, che dai boschi o dai vivai arrivano all' azienda. Qui sono immersi in CaCl2, che si sostituisce parzialmente all' acqua trattenendo questa all' interno dei tessuti, in modo da consentire una notevole morbidezza, aumentata dall' aggiunta di glicerina al cloruro di calcio. La chimica lascia ora il posto all' estro notevole degli operatori specializzati, che creano, con sapienti accostamenti di colori e di forme, spettacolari composizioni simili a volte, a preziose sculture vegetali. Come modelli esclusivi di abiti, sono esposte su appositi ripiani nelle eleganti show room delle aziende, dove i compratori stranieri si recano ogni sei mesi (il campionario viene periodicamente rinnovato) a scegliere le creazioni. Queste vengono riprodotte a migliaia da veloci e sapienti mani, per lo più femminili. Elena Accati


AGRICOLTURA Soia, una benedizione per i terreni Come tutte le leguminose restituisce fertilità
Autore: JONA ROBERTO

ARGOMENTI: BOTANICA, AGRICOLTURA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 003

LA controversia intorno alla soia, che contrappone Comunità Europea e Stati Uniti, non ha solo rilevanza commerciale ma in qualche modo coinvolge la questione della fertilità dei terreni. Una volta tutte le aziende erano dotate di stalla e si usava la paglia come lettiera per il bestiame. Si aveva così una continua produzione di letame che arricchiva il terreno di azoto, fosforo e, per l' apporto della paglia, anche di potassio. Microelementi e sostanza organica erano importanti corollari di questo apporto. Oggi l' allevamento del bestiame è divenuto un' attività specialistica. Questo comporta un' industrializzazione dei metodi di allevamento. Gli animali stanno su poste di tipo nuovo che non richiedono la lettiera di paglia: scompare quindi il letame tradizionale e gli escrementi, da benefico rigeneratore della fertilità del terreno, sono divenuti pericolosi inquinanti delle falde acquifere: anziché essere assorbiti nella paglia e stratificati a fermentare nelle letamaie, vengono lavati via dai pavimenti con potenti getti d' acqua e raccolti in apposite vasche da dove non si sa come smaltirli. Nei campi, alla rotazione delle colture si sostituisce la monocoltura con inevitabile intenso impiego di fertilizzanti e diserbanti e con le note conseguenze di inquinamento da atrazina e nitrati. Non molti anni fa la soia entra nel panorama produttivo italiano, grazie a una generosa integrazione comunitaria del prezzo internazionale, un intenso lavoro di miglioramento genetico e una metodologia di coltivazione studiata per il clima italiano. Dopo i primi anni di incertezze, l' Italia diviene uno dei principali produttori europei Ben presto l' Europa diviene un preoccupante concorrente per i produttori di soia americani, abituati per anni a un regime di virtuale monopolio. Da qui la guerra del Gatt. Ma per l' agricoltura italiana (e anche per quella europea) il problema non si pone solo in termini di prezzi del prodotto, di vendite e di reddito, ma va visto in termini globali. La soia (come del resto anche il pisello proteico) fornisce un contributo importante per la restituzione della fertilità ai terreni: le leguminose, grazie ai tubercoli radicali nei quali si annida il Rhizobium japonicum, fissano l' azoto atmosferico, sono cioè le uniche piante capaci di attingere l' azoto dall' atmosfera per trasformarlo in composti azotati utilizzati dalla pianta. Questo avvantaggia anche le piante delle colture successive. Inoltre, grazie all' interramento dei residui della coltura, il terreno acquisisce materia organica che ne migliora la struttura fisica. Si calcola che un ettaro di leguminosa lasci gratuitamente da 60 a 80 chilogrammi di azoto nel terreno, mentre per produrre industrialmente la stessa quantità occorrono da 60 a 80 litri di petrolio] Si pensi che una buona coltura di frumento richiede da 150 a 300 chilogrammi di azoto per ettaro. E' facile comprendere e calcolare l' enorme valore che una coltura di soia comporta per l' agricoltura; valore che trascende il prezzo dei semi prodotti. Questo incremento di fertilità, questo miglioramento della struttura non si improvvisa: non basta un anno di coltura, ma occorre che la leguminosa entri stabilmente in un ciclo di rotazioni; solo così i terreni miglioreranno e diverranno più fertili e produttivi. A proposito delle trattative Usa Europa si può osservare che la fertilità dei terreni di un continente non può essere oggetto di trattative. Si tratta di un bene strategico e irrinunciabile. Un periodo di siccità nelle pianure Usa, un cambiamento di politica agricola della Casa Bianca, uno scossone nei mercati internazionali per una di quelle cause fortuite e imprevedibili che, ahimè, oggi sono tanto comuni porrebbero l' Europa di fronta allo spettro della fame. In un caso sciagurato, imprevedibile, ma purtroppo possibile, non sarebbe neppure questione di prezzo da pagare, ma di carestia. A quel punto però non è possibile improvvisare la fertilità di un continente, come non si improvvisa una classe di agricoltori. Mantenerli attivi su un terreno fertile non rappresenta un regalo preelettorale a una classe sociale da valutare in termini di voti che può produrre, ma costituisce una polizza di assicurazione contro la fame per tutti i cittadini del continente. «L' agricoltura ti serve colazione pranzo e cena» diceva un azzeccato slogan di alcuni anni fa... Roberto Jona Università di Torino


LE BASI DELLA BIOLOGIA MOLECOLARE Proteine immobili? Frenetiche] Cambiano continuamente forma e funzione
Autore: MARCHISIO PIERCARLO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: FISCHER EDMOND, KREBS EDWIN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 004

IL Nobel 1992 per la fisiologia e la medicina Edmond Fischer terrà la mattina del 12 gennaio una conferenza a Roma, presso la sede del Cnr, in occasione della consegna dei Premi Glaxo per la divulgazione scientifica. Il riconoscimento che Fischer ha diviso con Edwin Krebs ha suscitato scarso clamore di stampa: a molti è certamente sfuggita la straordinaria importanza delle scoperte fatte dai due ricercatori in tempi ormai remoti, scoperte che hanno condizionato trent' anni di biologia cellulare. L' arrivo in Italia di Fischer è una buona occasione per tornare sul suo lavoro. Mi piacerebbe spiegare perché, se un giorno si arriverà alla comprensione definitiva di fenomeni come la trasmissione nervosa, la contrazione muscolare, la natura dei tumori, questo si dovrà in buona parte alle ricerche di Fischer e Krebs. Quando si parla di proteine si usa paragonarle a edifici costruiti di mattoni, gli aminoacidi. Ciò comunica il concetto errato di cosa statica, rigida e immutabile, cosa che la proteina non è. Anzi, nulla esiste di più dinamicamente modulabile di queste fantastiche molecole. Se è vero che l' architettura generale di una cellula è fatta di proteine, è anche vero che di proteine sono fatti molti segnali che la cellula usa per comunicare ordini e svolgere funzioni disparate. Gli enzimi, ad esempio, sono proteine dotate di grande capacità di adattare la propria forma alla funzione che via via svolgono; persino le proteine dello scheletro cellulare si aggregano di volta in volta in strutture rigide o cambiano in altre, flessibili e modulabili, indispensabili per generare moto. La cellula vivente non è un edificio ma un complesso di molecole che si agitano e brulicano incessantemente a sostenere un inestricato complesso di funzioni che brevemente chiamiamo vita. Nulla di più alieno quindi dalla rigidità di un edificio. Per sostenere la miriade di funzioni, ancora in larga misura ignote, la cellula ha bisogno di messaggeri abili, precisi e affidabili, in grado di trovare la strada nel labirinto di strutture diverse fino a raggiungere il destinatario del loro messaggio e assicurarsi che questo venga recepito. Per i biologi cellulari degli Anni 90 il concetto di regolabilità di ogni funzione cellulare è assolutamente ovvio e ovvi sono la maggior parte dei meccanismi implicati in queste funzioni. Non così era negli Anni 50 quando i biochimici Fischer e Krebs scoprirono uno dei meccanismi fondamentali della regolazione endocellulare e cioè la capacità che alcune proteine hanno di modificarsi mediante fosforilazione. Questa fosforilazione consiste nel legare alla proteina bersaglio un radicale di acido fosforico che modifica al tempo stesso la carica elettrica e la solubilità della molecola nell' acqua che sta dentro la cellula. In altre parole, la proteina che viene fosforilata cambia la sua forma e le sue caratteristiche fisiologiche e diventa adatta a portare un messaggio. Spedire messaggi costa alla cellula un certo dispendio di adenosintrofosfato o ATP, che fornisce al tempo stesso il francobollo (il gruppo fosforico) e l' energia necessaria a incollarlo e a spedire il plico. Il lavoro di Fischer e Krebs fu centrato all' inizio sulla comprensione dei meccanismi di regolazione della disponibilità di glucosio nel muscolo in funzione della contrazione. Ben presto tuttavia fu chiaro che gli effetti di questa scoperta erano ben più vasti. Si scoprì che la fosforilazione, operata da enzimi specifici chiamati cinasi, era un fenomeno reversibile e veniva seguita dall' attività di fosfatasi operanti un processo di defosforilazione che riconduceva la proteina enzima messaggio allo stato di riposo, pronta cioè a far partire un altro segnale. Fu chiaro subito che la scoperta della fosforilazione reversibile delle proteine rappresentava il primo esempio concreto di regolazione cellulare. Lo sviluppo della biologia cellulare moderna deve molto a questa scoperta, che ha aperto una strada nuova. Ha aperto nuove prospettive alla comprensione dei meccanismi di controllo della cellula operati da ormoni o fattori che agiscono su recettori situati sulla superficie cellulare, tanto che può essere considerata una specie di data di nascita della nuova farmacologia basata sulla fisiologia della cellula. Ha aperto il filone concettuale che ha portato alla scoperta dei fattori di crescita e della regolazione della proliferazione cellulare e quindi al nuovo modo di vedere il problema cancro, nato tra gli Anni 70 e 80. E' curioso che molte scoperte, come quella degli oncogeni, siano già state in passato premiate con i Nobel sebbene siano in larga misura dipese dal lavoro fondamentale di Fischer e Krebs, ora due ricercatori ultrasettantenni ancora attivamente impegnati in laboratorio. Forse il ritardo con il quale è stato riconosciuto il lavoro dei due biochimici americani dipende dal fatto che anche il comitato Nobel è molto sensibile agli aspetti spettacolari oltre che alla sostanza di un contributo scientifico. Piercarlo Marchisio Università di Torino


DERMATITE Acido gamolenico, l' antidoto contro il fastidioso prurito che toglie anche il sonno
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 004. Eczema

IL fastidioso prurito causato dalla dermatite atopica ha trovato un nuovo antidoto: l' acido gamolenico, che fornisce l' acido grasso essenziale di cui è carente l' ammalato. La dermatite atopica è dovuta infatti a un difetto genetico del metabolismo che presenta carenza degli acidi grassi essenziali. Colpisce il 3 per cento della popolazione nei Paesi industrializzati, in particolare i maschietti tra il secondo e il sesto mese di vita. L' eczema si forma in testa al viso e agli arti, soprattutto al momento del passaggio dal latte materno al latte vaccino. La dermatite atopica ha un andamento capriccioso, con momenti di remissione e di riaccensione più o meno associati a patologie respiratorie. Il prurito è così intenso da disturbare il sonno. Verso i due anni di età, nel 75 per cento dei casi, vi è una guarigione naturale. Se si manifesta dopo i diciotto mesi di vita la malattia colpisce inizialmente i gomiti, le ginocchia, i polsi, le caviglie e le regioni laterali del collo. Nell' adulto si manifesta su cuoio capelluto, volto, fronte palpebre, bocca, torace, pliche del collo, superficie estensoria arti e mani. Il prurito è diabolicamente costante, le zone grattate diventano alopeciche e di colore diverso. Le prime esperienze in Italia con la cura dell' acido gamolenico sono state condotte su 24 bambini dal gruppo bolognese che fa capo al professor Massimo Masi. Il trattamento, durato sei mesi, ha ripristinato gradualmente la morbidezza della superficie cutanea, diminuito il prurito e ridotto i segni esterni di infiammazione. L' effetto della cura si manifesta dopo tre mesi di terapia. L' acido gamolenico può essere utile anche in altre forme di dermatite, come psoriasi, malattie di Darier, eczema costituzionale della mano, eritema necrotico migratorio, acantosi nigricans, sindrome di Njogrem Larssem. Pia Bassi


MALATTIE EREDITARIE La paura della verità I dilemmi posti dai test genetici
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: GENETICA, MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: HAYES CATHERINE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 004

DURANTE i primi 33 anni della mia vita sono vissuta conoscendo il rischio di sviluppare il morbo di Huntington»: così dice Catherine Hayes, presidentessa dell' Associazione Americana dei malati di Huntington. Quella di Huntington è una malattia ereditaria trasmessa in modo autosomico dominante a penetranza completa, cioè una probabilità del 50 per cento di ereditare la malattia da un genitore. La frequenza è di cinque casi ogni centomila e la sua comparsa è indicata da movimenti involontari scoordinati, prima agli arti superiori e alla faccia, poi agli arti inferiori e al tronco, che producono la tipica deambulazione «danzante» (coreica) La malattia insorge di solito intorno ai 40 anni ma può comparire anche più tardi. «Da bambina racconta la Hayes scoprii che uno dei segreti meglio custoditi in famiglia era la fine del nonno materno in una clinica psichiatrica. Osservai pure l' insorgere dei sintomi del morbo di Huntington in una zia e in uno zio, finiti anch' essi in clinica psichiatrica. Anche mia madre ne è affetta. Ho cinque fratelli e uno di loro ha già cominciato a mostrare i primi sintomi. So che anch' io e i miei altri fratelli possiamo sviluppare la malattia». Nell' autunno dell' 83 la Hayes sentì alla radio che si era scoperto un frammento di Dna umano che avrebbe potuto esser usato come sostanza marcante in un test per scoprire se un individuo fosse affetto o meno da Huntington prima della comparsa dei sintomi. Nel 1986 il test era a punto e nel 1987 la Hayes si sottopose tra i primi alla verifica, all' Università Johns Hopkins di Baltimora. «Fu un processo lungo e penoso con una serie di multipli test racconta la donna . Finalmente, dopo molti mesi di angosciosa attesa, mi fu rivelato l' esito. Il risultato era negativo». Il test genetico basato sull' analisi del Dna del paziente ha un margine di errore solo dell' uno per cento. La paziente poteva quindi esser praticamente sicura di non aver ereditato il gene della malattia dalla madre, così come uno dei suoi fratelli. Per l' ultimo invece il test risultò positivo. In un recente studio pubblicato sul «New England Journal of Medicine» si riferiscono i risultati di un' indagine condotta in 14 centri canadesi di genetica clinica dal 1988 a oggi su 135 individui potenzialmente a rischio di malattie genetiche. L' obiettivo era la valutazione dell' impatto psicologico del risultato del test. Il test con il Dna può solo informare circa la probabilità statistica di sviluppare la malattia ma non può predirne nè l' epoca nè la gravità. Si distingue perciò da una diagnosi clinica. Molte nazioni offrono ora in laboratori specializzati in genetica un test precoce per l' Huntington agli individui a rischio. In teoria un test del genere potrebbe essere offerto anche ai membri delle 120 famiglie individuate come portatrici del gene (o dei geni) della malattia di Alzheimer di tipo famigliare (ereditario). In pratica, l' impatto dell' esito del test può esser notevole e può portare a una grave depressione, precipitare una crisi nervosa o condurre addirittura al suicidio. Lo studio canadese si è proposto appunto di valutare le conseguenze psicologiche a breve e a lungo termine. A secondo del risultato del test i 135 partecipanti vennero successivamente divisi in tre categorie: individui a rischio aumentato (test positivo), individui a rischio diminuito (test negativo) e un terzo gruppo a rischio inalterato. Al contrario delle previsioni, basate su esperienze precedenti, i risultati canadesi dimostrano che il prendere conoscenza di un alto rischio di sviluppare l' Huntington non ha necessariamente un impatto psicologico negativo nè determina sempre una grave crisi. Infatti l' esito riduce l' incertezza e offre la possibilità di pianificare meglio il proprio futuro. Nel dieci per cento delle persone alle quali viene rivelato un esito positivo, si scatena invece una reazione nettamente negativa a carattere depressivo con gravi difficoltà ad assorbire l' impatto della rivelazione e a razionalizzarne le conseguenze. Ovviamente il gruppo a esito negativo, come per la Hayes, ne ritrae un grande sollievo e un senso di stabilità. Questa ricerca la prima del genere ha ribadito la necessità di una preparazione psicologica adeguata delle persone interessate ad accedere a questo tipo di test. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois


ALLARME OMS I drogati della colla e dei solventi
ORGANIZZAZIONI: OMS
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 004

S NIFFANO aerosol e colle, diluenti e benzine: una iniziazione alla droga che comincia prestissimo, costa poco ma si paga cara, in termini di salute. Il pericolo immediato è quello della morte improvvisa. Ma ci sono anche le aritmie cardiache, le disfunzioni polmonari, epatiche o renali, gli avvelenamenti, le lesioni nervose L' Organizzazione Mondiale per la Sanità ha lanciato l' allarme e un programma pilota in alcuni Paesi, come la Nuova Zelanda, il Guatemala e il Marocco. L' utilizzazione abituale, infatti, genera tossicodipendenza.


PSICOANALISI Quel groviglio di sentimenti che sfugge al controllo per un errore dell' analista
Autore: CAROTENUTO ALDO

ARGOMENTI: PSICOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 004

BEN diversa da un puro metodo tecnico per indurre una guarigione, la relazione analitica è un procedimento dialettico fra analista e paziente. In questa interazione biunivoca essi sono diversamente coinvolti a seconda dei momenti, delle circostanze e dell' interagire delle reciproche personalità. L' unicità di ogni rapporto è quindi la cornice dove inserire, per poterli comprendere, gli eventuali errori professionali in cui l' analista può incorrere nel lungo cammino terapeutico con il paziente. Proprio perché la dimensione del rapporto analitico è quella dei sentimenti e delle emozioni, la cui radice affonda nelle pieghe nascoste dell' infanzia, i possibili errori hanno un' incidenza profonda nella vita dell' altro. L' errore dell' analista è vissuto dal paziente come un tradimento la cui bruciante intensità ricorda quelli subiti all' alba dell' esistenza quando l' inermità e il totale affidamento del bambino nelle mani dell' adulto lo privano degli strumenti adeguati a reagire costruttivamente. Responsabili di questi errori sono le ferite di cui l' analista è portatore, grazie alle quali egli può comprendere e accogliere il dolore del paziente, aiutandolo nel suo processo di trasformazione. E' possibile così che pure in un rapporto condotto con la massima correttezza professionale faccia capolino la presenza inquietante dei complessi dell' analista. Seppure capace di intuire i più segreti movimenti dell' animo del paziente, rispecchiando in una risonanza empatica, l' analista potrebbe in alcune rare occasioni mancare di un tale specchio per se stesso. Uno degli errori è quello di rispondere alla legittima richiesta di amore e di comprensione formulata dal paziente con un chiedere per sè affetto contenimento, rispecchiamento. Una segreta ragnatela di collusione avvolge allora i due partner, una ragnatela inconsciamente tessuta da entrambi e non solo, come di consueto, dal paziente, che nel suo rapporto di transfert ripete modelli infantili, desideroso di conquistare quell' affetto che non ha avuto o ha ricevuto in modo inadeguato durante l' infanzia. Intrappolato in una situazione che gli ripropone antiche ferite e che lo fa illudere di poterle finalmente sanare, l' analista può trovarsi incapace di decodificare le comunicazioni del paziente, accogliendone e contenendone il desiderio d' amore, in modo da utilizzarne l' energia per aiutare il processo di trasformazione dell' altro. Colludere con il desiderio del paziente, pur sempre nel rispetto del rapporto, rispondendo alla sua domanda di attenzione con una richiesta analoga che cerca di ottenere per sè l' affetto che sia rivolto non al ruolo che l' analista riveste, ma all' individuo dolente che dietro tale ruolo si cela può significare per il terapeuta il modo di entrare in contatto con emozioni inesprimibili perché da sempre private di un codice di comunicazione. Può così verificarsi un ribaltamento dei ruoli, in seguito al quale il terapeuta scivola a poco a poco impercettibilmente in una cifrata richiesta di aiuto al paziente, una richiesta simile a quella che ha portato il paziente a intraprendere la terapia. La capacità dell' analista di dare la sua attenzione, la sua comprensione in tal caso non mira soltanto a creare le condizioni all' interno delle quali il paziente può curare le sue parti ferite, ma il suo è un dare inconsciamente mirato, un dare nella segreta speranza di ricevere. Un passo di una lettera di Jung a Sabina Spielrein è a questo proposito particolarmente significativo: «In questo momento Lei dovrebbe rendermi un po' di quell' amore, di quel debito, di quell' interesse spassionato che ho potuto darLe al momento della Sua malattia. Ora sono io l' ammalato». L' errore dell' analista è racchiuso in quest' eleggere il paziente a proprio salvatore. Invece che salvare ed essere salvati si finisce per trovarsi catturati in una dinamica nella quale nessuno dei due può più veramente aiutare l' altro. Solo pagando di nuovo il prezzo amaro della solitudine, ritornando dolorosamente alle proprie ferite e cercando in se stessi il potenziale di cura è possibile, sia per l ' analista sia per il paziente, tentare di elaborare l' accaduto, utilizzandolo per il proprio cammino di crescita. Talvolta essi, assumendosi il peso doloroso dell' esperienza, possono leggerla come un momento della loro storia personale; l' humus di una difficile crescita. In altri casi invece rancori, rabbie e delusioni possono costruire un muro che impedisce di lasciarsi alle spalle il passato utilizzando per quanto possibile ciò che si è vissuto ed appreso. Se spesso è forte la tentazione di invocare un terzo analista (ricevendone purtroppo danni incalcolabili e irreversibili ) per uscire dalla situazione, del tutto scellerato appare l' affidare il giudizio a un consesso di persone esterne, per quanto qualificate esse siano. Un tale tribunale è completamente inadeguato al suo compito, perché non si troverebbe a valutare la presunta colpevolezza di un comune imputato, nè avrebbe, data la particolarità del rapporto analitico, la possibilità di esaminare oggettivamente i fatti. Le forze inconsce che hanno determinato tra quell' analista e quel paziente una particolare interazione, rimangono sepolte, e quindi invisibili, agli occhi di qualsiasi osservatore esterno. Aldo Carotenuto Università di Roma «La Sapienza»


In America Scorciatoia per i farmaci anti Aids
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 004

Meno rigore e più velocità; la Food and Drugs Administration, il rigido ente americano che controlla l' immissione sul mercato dei nuovi farmaci, ha annunciato che l' approvazione di nuovi rimedi contro l' Aids sarà molto più rapida rispetto alle procedure abituali. Le prove cliniche dovrebbero durare almeno un decennio, che è il decorso medio della malattia, ed escludere dal nuovo trattamento un gruppo di malati per il controllo. Due condizioni che oggi vengono considerate eticamente inacettabili




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