TUTTOSCIENZE 18 marzo 92


L' EREDITA' DI COLOMBO Le piante d' America Il Nuovo Mondo apparve ai navigatori uno scrigno di tesori vegetali sconosciuti Come il mais e la patata contribuirono alla rivoluzione industriale europea
AUTORE: BENEDETTI GIUSTO
ARGOMENTI: BOTANICA, ALIMENTAZIONE, AGRICOLTURA
NOMI: COLOMBO CRISTOFORO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 041

QUANDO gli europei giunsero nelle Americhe, non tardarono ad osservare come le popolazioni indigene coltivassero o comunque utilizzassero specie di piante del tutto sconosciute nel Vecchio Mondo. Alcune di esse, come il mais o la patata, venivano utilizzate a scopo alimentare, altre, come l' agave, il cotone o l' albero della gomma per ricavarne fibre tessili o materie prime, altre ancora, come il tabacco, per farne un uso strano e incomprensibile, quale dovette apparire l' abitudine di fumare agli occhi dei primi esploratori. E' abbastanza logico che si sia tentato ben presto di acclimatare queste nuove piante in Europa. Non tutti i tentativi andarono a buon fine: molte specie, avvezze al clima tropicale, non diedero nel nostro continente i risultati sperati, ma altre ebbero un successo superiore a ogni previsione. Non fu comunque un successo immediato: ci volle del bello e del buono per convincere la gente che quel che mangiava l' indio poteva andar bene anche per il cristiano. Il mais, portato in Europa dallo stesso Colombo nel 1493 si diffuse lentamente e per più di un secolo fu coltivato negli orti solo per produrre becchime per i polli e foraggio per i bovini soltanto le grandi carestie del primo ' 600 indussero le popolazioni contadine a cibarsene e a portarne la coltura in pieno campo, ma bisogna attendere il ' 700 perché la sua produzione raggiunga livelli significativi. Non dissimili sono i tempi della patata. Introdotta intorno al 1560, si diffonde abbastanza rapidamente negli orti botanici di tutta Europa, e viene coltivata in orto da numerose popolazioni contadine. La gente però si rifiuta di mangiarla: tutti la credono velenosa, alcuni sostengono addirittura che trasmetta la peste. Gli agricoltori più intraprendenti la usano tutt' al più come foraggio per il bestiame Per promuoverne il consumo si tentano tutte le strade: il vescovo di Castres, nei Pirenei, ne tesse l' elogio in chiesa durante le prediche domenicali; l' intendente Turgot, nel Limuosin, la distribuisce ai parroci e agli agricoltori, e la mangia di fronte a tutti per dimostrarne l' innocuità; Federico II di Prussia fa altrettanto, obbliga tutti i funzionari governativi a cibarsene ostentatamente in pubblico, e la include nel rancio giornaliero delle sue truppe; ma deve ricorrere ai «dragoni rurali» e alla minaccia delle armi per costringere i contadini a piantare patate nei campi del Berlinese. Soltanto a partire dal 1789, quando viene dato alle stampe il «Traité sur la culture et les usages des pommes de terre» di Antoine Augustin Parmentier, la patata comincia ad affermarsi, dapprima sulle mense delle classi agiate e poi nell' alimentazione popolare. Ma ancora nel 1803, quando il tubero fa la sua comparsa sul mercato ortofrutticolo di Torino, sono necessari parecchi giorni di distribuzione gratuita per indurre i torinesi a prenderlo in considerazione come alimento. Una volta accettati, il mais e la patata determineranno tuttavia un radicale sconvolgimento nella storia europea, in quanto sono fonti alimentari che, rispetto a quelle tradizionali, offrono una grande resa a basso costo; basti pensare che, rispetto al frumento, il mais ha una resa per ettaro più che doppia, e che la patata fornisce, a parità di superficie coltivata, una quantità di cibo di 5 10 volte superiore. La loro affermazione coincide con gli albori della rivoluzione industriale, e due condizioni sono necessarie perché quest' ultima esploda: una gran massa di lavoratori ed una massa ancor più grande di consumatori. La disponibilità di cibo a basso costo favorisce ovviamente l' incremento demografico: nella seconda metà del ' 700 in concomitanza con la diffusione del mais, il tasso di crescita della popolazione europea raddoppia rispetto a quello del cinquantennio precedente, e nell' 800, con l' affermazione della patata, sarà acora maggiore. E non dobbiamo dimenticare che il basso costo del cibo consentiva ai primi industriali di mantenere bassi anche i salari, a tutto vantaggio dei costi di produzione.. e del capitale. C' è veramente da chiedersi se, senza il mais e la patata, la rivoluzione industriale avrebbe mai potuto aver luogo CRISTOFORO Colombo non fu probabilmente il primo europeo a posar piede sul continente americano: se non vogliamo dar credito alla leggenda di San Brandano e dei suoi monaci irlandesi, che vi sarebbero giunti fin dal VI secolo d. C., possiamo tuttavia supporre abbastanza ragionevolmente che qualche piccolo «knorr» vichingo abbia toccato le coste americane almeno 4 o 5 secoli prima delle celebri caravelle. Ma questo nulla toglie alla portata storica dell' impresa colombiana: non v' è dubbio che l' arrivo di Colombo nel Nuovo Mondo abbia gettato per la prima volta un ideale ponte attraverso l' Atlantico. E lungo questo ponte non passarono soltanto conquistadores, missionari, avventurieri: passarono anche innumerevoli specie di animali e di piante. Alcune vennero portate in Europa per semplice curiosità, alcune con la speranza di una proficua utilizzazione, altre per puro caso. Molte specie non ebbero futuro; altre invece si affermarono a tal punto nel Vecchio Mondo da sconvolgerne le abitudini, gli assetti socio economici, gli stessi equilibri ecologici. A questo tema è dedicata la mostra «1492 1992 animali e piante dalle Americhe all' Europa», allestita dal museo di Storia Naturale di Genova. Ed è grazie al prezioso lavoro di ricerca e documentazione del museo e dei suoi collaboratori che la stesura di questi articoli è stata possibile.


SPECIE INFESTANTI Robinie e fichi d' India hanno cambiato il paesaggio dell' Italia
AUTORE: BENEDETTI GIUSTO
ARGOMENTI: BOTANICA, ALIMENTAZIONE, AGRICOLTURA
NOMI: COLOMBO CRISTOFORO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 041. Le piante importate dall' America

SONO più di un migliaio le specie vegetali americane che vivono in Europa: il dato è impressionante, se si pensa che l' intera flora europea è costituita da poco più di 11. 500 specie e che, nel conteggio, non sono state considerate le innumerevoli piante «da appartamento» (Filodendro, Billbergia, Stella di Natale, Calatea, ecc. ) che ornano le nostre case o i nostri balconi. L' introduzione di piante americane di interesse ornamentale inizia precocemente: già nel ' 500 sono presenti in Europa la tagete, la bella di notte la passiflora, la yucca, il fico d' India. Ma soltanto a partire dal XVIII secolo il fenomeno assumerà proporzioni ragguardevoli: ad ogni viaggio di esplorazione del Nuovo Mondo partecipano naturalisti che portano in patria una grande quantità di piante, da studiare comodamente negli orti botanici. Molte di esse verranno deliberatamente messe a dimora in parchi e giardini per motivi estetici: si pensi all' araucaria, alla magnolia, alla bougainville alla dalia, alla fucsia o alla petunia. Altre sfuggiranno di mano ed andranno a colonizzare spontaneamente gli ambienti più disparati, sino a divenire vere e proprie infestanti: è il caso dell' erigero (noto anche come «malerba» ), dell' amaranto (che infesta sovente i campi di mais), dell' enotera e della galinsoga, che invadono i terreni incolti (e spesso anche quelli coltivati) di quasi tutta l' Europa. Particolarmente infestante si è dimostrata anche la robinia (Robinia pseudoacacia): originaria del settore orientale del Nord America, ove era usata dai pellirosse per costruire gli archi, fu introdotta in Francia nel 1601 da Robin, direttore dell' Orto Botanico di Parigi. La robinia palesò subito un sacco di buone qualità: cresceva rapidamente, forniva un legname di grande durabilità, era un' ottima pianta mellifera (il celebre «miele d' acacia» ). La sua coltura si diffuse rapidamente in tutta Europa, ma ben presto sfuggì al controllo, e si andarono via via creando boschi spontanei di dimensioni sempre più vaste che soppiantarono parecchie latifoglie indigene. Attualmente la robinia è diffusa in tutto il mondo, ove ha determinato radicali trasformazioni del paesaggio. Soltanto nel nostro Paese occupa almeno 170. 000 ettari. Consistenti trasformazioni del paesaggio sono imputabili anche all' agave ed al fico d' India, entrambi d' origine centroamericana, divenuti parte integrante degli ambienti mediterranei. In Australia, poi, è divenuto un vero flagello: occupa una superficie di 24 milioni di ettari, ed è necessario provvedere a sistematiche eradicazioni per arrestarne la diffusione Anche gli ambienti acquatici hanno conosciuto l' invasione americana: la felce galleggiante (Azolla caroliniana), introdotta in Europa alla fine del secolo scorso, forma ormai estesi tappeti verdi sulla superficie di numerosi stagni europei. La sua presenza non è tuttavia negativa, dal momento che sembra inibire lo sviluppo delle larve di zanzara. L' Azolla possiede inoltre un' interessante caratteristica: ospita come simbionte un' alga unicellulare (Anabaena azollae) in grado di fissare l' azoto atmosferico. Questa proprietà viene spesso sfruttata nelle risaie dell' Estremo Oriente: coltivata a parte, l' Azolla viene introdotta nei campi inondati in modo che, alla sua morte, metta a disposizione delle piantine di riso l' azoto che aveva accumulato in precedenza. Piuttosto curiosa è la vicenda di un' altra pianta acquatica, l' elodea canadese. Nel Paese d' origine è organismo assai discreto, che non compare mai in grande quantita ': introdotta in Europa verso la metà del secolo scorso, ha invece colonizzato fiumi, laghi e canali in quantità tale da rendere spesso impossibile la navigazione e da meritarsi il nome popolare di «peste d' acqua». Da notare che non esistono in Europa esemplari di sesso maschile (si tratta di pianta dioica, cioè a sessi separati): la sua enorme diffusione è dovuta dunque a semplice moltiplicazione vegetativa, attraverso stoloni o rametti. «In tutte le specie scriveva Kipling la femmina è più temibile del maschio» e, almeno nel caso dell' elodea, non si può dire che avesse torto.


NEL ' 500 Quando i sovrani europei si scambiavano fagioli come preziosi doni di nozze
AUTORE: BENEDETTI GIUSTO
ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, AGRICOLTURA, BOTANICA
NOMI: COLOMBO CRISTOFORO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 041. Le piante importate dall' America

E' difficile, oggi, immaginare una qualsiasi mensa europea su cui non compaiano regolarmente ortaggi di origine americana. Alcuni di essi sono addirittura divenuti simbolo ed emblema: che ne sarebbe della cucina italiana senza il pomodoro, indispensabile per gli spaghetti o la pizza? O della cucina ungherese senza il peperone da cui ricavare la paprika per il «goulash» ? Ma anche i fagioli, le zucchine e la zucca, il topinambour, la patata dolce, hanno un posto di rilievo nelle tradizioni gastronomiche del vecchio mondo. E gli olii alimentari ricavati dall' arachide e dal girasole vanno sempre più insidiando il primato dell' olio d' oliva. Come già per la patata e il mais, anche le altre «piante nove» hanno avuto inizi difficili: il pomodoro, introdotto in Spagna nel 1523 e in Italia una ventina d' anni più tardi, verrà a lungo coltivato come pianta ornamentale, ed ancora alla fine del ' 600 il resto dell' Europa considera una stranezza il fatto che gli italiani lo mangino. Neppure una passeggera fama di afrodisiaco ( «pomme d' amour», lo chiamarono i francesi) vale ad imporlo sulle mense d' oltralpe. Soltanto verso la metà del XIX secolo, con l' introduzione dall' America di nuove e migliori varietà, il suo uso inizierà a diffondersi. Il vero «boom» del pomodoro ha coordinate precise, e prende il via da Torino nel 1856, quando Francesco Cirio inizia nel capoluogo piemontese la produzione delle sue celebri conserve. Anche i peperoni ebbero un successo tardivo: è vero che fu lo stesso Colombo a portarli in Spagna al ritorno dal suo primo viaggio, ma è anche vero che per almeno due secoli furono considerati nulla più che una spezia. Le varietà piccanti, essiccate e ridotte in polvere, costituivano difatti un economico surrogato del ben più caro pepe orientale. Nel ' 600 ebbero un breve periodo di gloria come medicinali: il decotto di peperoncino ha fama di sanare il mal di denti, ed il masticarne la polvere, mista a grasso di gallina, «fa maturare ogni tumore» (almeno a detta di Vincenzo Tanara). Soltanto verso la fine del ' 700 le varietà dolci e carnose iniziano ad affermarsi, ed i «peparoli ripieni» fanno la loro comparsa nel ricettario del gastronomo napoletano Vincenzo Corrado. Molto più rapida, almeno in Italia, è l' affermazione dei fagioli, che già nel 1529 vengono coltivati a Lamon, nel Bellunese. Che fossero tenuti in gran conto è dimostrato dal fatto che nel 1533 Alessandro dè Medici li inviasse come dono di nozze alla sorella Caterina, sposa ad Enrico II in terra di Francia, o che, nel 1570, essi comparissero tra le portate di un banchetto di gala offerto da papa Pio V. Intorno alla metà del ' 600, fanno la loro comparsa anche i fagiolini verdi «mangiatutto» che, ancor più dei fagioli, conquistano immediatamente i palati francesi e inglesi: il loro successo continuerà sino ai giorni nostri, tant' è che la produzione europea si aggira attualmente intorno a 1, 2 milioni di tonnellate annue, contro le 750. 000 tonnellate di fagioli secchi. Tra le innovazioni gastronomiche derivanti dalla scoperta dell' America, non si possono dimenticare alcuni frutti ormai entrati nell' uso corrente: primi fra tutti le fragole. Va subito detto che le fragole già esistevano in Europa: si tratta delle celebri e sempre più introvabili «fragoline di bosco» (Fragraria vesca e F. Moschata); ma dalle Americhe giunsero, tra il ' 600 ed il ' 700, la Fragraria virginiana e la Fragraria chiloensis, due specie con frutti (falsi frutti, direbbero i botanici) di grandi dimensioni. Una serie di sapienti ibridazioni tra fragole americane e fragole europee ha dato origine alla grande varietà di «fragoloni» attualmente in commercio, della cui produzione l' Europa rimane il leader mondiale.


DA OGGI «ARS LAB» A TORINO Tra scienza e arte, la libertà del caos Una mostra che viene dalla Villette e dall' Exploratorium di San Francisco
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: DIDATTICA, ARTE, MOSTRE
NOMI: JUILLOT XAVIER, FAURE CLAUDE, CHENH CARL
LUOGHI: ITALIA, TORINO
NOTE: 042

STRANE appendici mobili sventoleranno da oggi fino al 26 aprile intorno alla Mole Antonelliana, il simbolo architettonico di Torino Sono maniche a vento colorate di dimensioni enormi, gonfiate da ventilatori che hanno la potenza di un motore aeronautico. L' idea è di un artista francese, Xavier Juillot, 46 anni, originario di Digione, professore di arti plastiche all' Ecole d' Architecture de Paris alla Villette. Il suo obiettivo è di alterare la fissità delle architetture senza per questo stravolgerne le funzioni. La tecnica che usa consiste nel avvolgere le costruzioni in involucri aspirati o nel far uscire dagli edifici strutture di plastica fluttuanti gonfie d' aria. Al di là dell' effetto estetico, ciò che interessa a Juillot è che queste strutture visualizzano delle forze, dei flussi energetici, rapporti dinamici tra compressioni e depressioni. L' interazione con le correnti d' aria dell' atmosfera accentua la visibilità delle forze in gioco e ne fa qualcosa di imprevedibile: appendici, proboscidi, lingue o che altro vi si voglia vedere in perenne moto caotico. Opere del genere Juillot le ha realizzate a Montreal, al Museo d' Arte moderna di Parigi, alla Villette, sulla Tour Eiffel. Le gigantesche «maniche a vento» ancorate alla Mole sono insieme un «pezzo» e un richiamo della mostra «Ars Lab: Metodi ed Emozioni» che si inaugura oggi per iniziativa dell' assessorato per la cultura di Torino, con la sponsorizzazione dell' Italgas e della «Stampa». Una quarantina di altre opere provenienti per metà dal gruppo Ars Technica che lavora a Parigi all' ombra della Villette e per metà dal celebre Exploratorium di San Francisco sono esposte all' interno. «Ars Lab» nasce da un' idea dell' artista Piero Gilardi, mentre la Extramuseum ha fornito il supporto per la complessa realizzazione. L' operazione è originale e curiosa perché si colloca su un crocevia tra arte, scienza e tecnica, su un confine incerto, in un territorio conteso. Dice Claude Faure, con Gilardi e Piotr Kowalski fondatore di Ars Technica: «Certo il nostro gruppo sorge nell' ambito della divulgazione scientifica, ma occorre subito dissipare un equivoco: le nostre domande concernono in primo luogo il campo dell' arte, benché inteso in un' accezione più ampia. Oggetto della nostra riflessione è in primo luogo la creazione e la diffusione delle opere». Diverso il punto di partenza delle opere provenienti dall ' Ex ploratorium di San Francisco, fondato, come si ricorderà, da Frank Oppenheimer, fratello del fisico che diresse il progetto della prima bomba atomica, poi perseguitato in epoca maccartista perché sospettato di simpatie per il comunismo. Qui il fine principale è presentare al visitatore oggetti interattivi, generalmente frutto di una tecnologia «povera», che permettano di far capire un fenomeno della natura. C' è quindi un primario intento didattico e divulgativo. Ciò non toglie che si ottengano anche risultati estetici, anche effetti emotivi oltre che riflessioni razionali. Il tutto all' interno di un rovesciamento dell' idea stessa di museo: nel museo classico, infatti, lo spettatore è passivo e ad esso è «proibito toccare»; all' Exploratorium, invece, si vuole uno spettatore attivo per il quale «toccare è obbligatorio». Gli aspetti tecnico scientifici che una mostra come «Ars Lab» coinvolge sono numerosi. Qui mi limiterei a uno solo, che però è il denominatore comune di molte delle opere giunte da San Francisco: il concetto di caos, e in particolare di caos deterministico. Carl Chenh presenta una vasca con bolle d' aria che salgono dal fondo alla superficie. Paul Demarinis esibisce un apparato in cui un raggio laser casualmente interrotto dal passaggio di un pesce rosso arresta l' esecuzione del valzer di Strauss «Danubio blu». Ned Kahn ci mostra un pendolo triplo a bracci snodati che oscilla in modo scomposto e imprevedibile, un paesaggio desertico in miniatura le cui dune sono continuamente rimodellate da un ventilatore, un globo di cristallo in rotazione che rimescola un fluido al suo interno. Tutte queste opere hanno alla propria radice un fenomeno aleatorio, che non si lascia inquadrare in leggi scientifiche rigide. Fino a qualche anno fa la scienza è rifuggita dall' aleatorio come da un mostro della natura. Il suo scopo era ricavare da una molteplicità di fenomeni una regola semplice e di valore assoluto, in grado di predire i fenomeni del futuro. Ci riusciva (ci riesce) a patto di semplificare la realtà. Il moto di due corpi celesti è perfettamente determinato dalla legge di gravitazione universale di Newton. Ma in natura ci sono sempre numerosi corpi che interagiscono, e non è possibile inquadrare questa complessità in una equazione. Ci troviamo di fronte al caos. Un caos, tuttavia, che ha delle sue regolarità, un suo determinismo. E', questo, il nuovo paradigma scientifico che si delinea all' orizzonte della ricerca in questi anni. La geometria dei frattali, gli attrattori di Lorenz, per esempio, ne sono una formalizzazione. Si può fare un passo ulteriore. Caos in qualche modo è anche libertà: libertà da leggi troppo semplicistiche, libertà di movimenti e di forme. In questa libertà si può riconoscere una creatività, una bellezza. Ecco così che, attraverso il concetto di caos, si può gettare un ponte tra l' arte e la scienza. E spesso il ponte è rappresentato da una tecnologia, da uno strumento che permette all' artista di esprimersi esteticamente e insieme di suggerire un modo di conoscere la natura. Ecco una delle lezioni che si possono ricavare visitando la mostra «Ars Lab». Piero Bianucci


NATURA L' Airone d' argento a «Tuttoscienze»
NOMI: DE MISTURA STAFFAN
ORGANIZZAZIONI: TUTTOSCIENZE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 042

C' E' anche «Tuttoscienze» tra i premiati con l' Airone d' argento 1991, il riconoscimento che l' Editoriale Giorgio Mondadori riserva ogni anno a chi «si è distinto per la salvaguardia della natura e il rispetto di ogni forma di vita». Il premio principale, l' Airone d' oro, è andato a Staffan De Mistura, che è stato direttore della sezione italiana del Wwf e oggi è ambasciatore dell' Onu e dell' Unicef nelle zone in cui l' uomo e la natura sono più a rischio. Un Airone d' oro junior è stato assegnato, per la prima volta, al coraggioso figlio dodicenne del maresciallo Silvano Natale, Leonardo, abbattuto con il suo elicottero in Croazia. Sei gli Aironi d' argento. Con «Tuttoscienze», «che da dieci anni si dedica a divulgare le avventure e i segreti delle scienze con il linguaggio del quotidiano», vengono premiati Gianluigi Ceruti e Piero M. Angelini per l' azione politica a favore dei Parchi italiani; Gabriella Paolucci, per aver idealizzato e realizzato la prima cassaforte di specie botaniche rare; Paolo Bulgari, per il sostegno alla produzione di «Anima mundi», il più bel film dell' anno sul mistero e la bellezza della natura; Alvise Zorzi, presidente dei Comitati privati per la salvaguardia di Venezia; Giuseppe Arnone, per la sua battaglia contro l'abusivismo edilizio in Sicilia, soprattutto nella zona archeologica della Valle dei Templi di Agrigento. Una targa speciale è stata assegnata a «Archeoclub» e a Lino Pellegrini, per cinquant' anni di esplorazione e giornalismo. La targa «Villaggio ideale d' Italia» è andata a Fornazzo di Milo, in provincia di Catania.


ASTRONOMIA Primavera ballerina L' inizio della stagione non cade sempre il 21 marzo ma nel corso di due secoli oscilla entro un intervallo di due giorni e un quarto: vediamo di capire perché
Autore: PANNUNZIO RENATO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T L' equinozio è in anticipo. Le date degli equinozi precedenti
NOTE: 042

E' convinzione diffusa che l' equinozio di primavera, e quindi l' inizio di questa stagione, capiti sempre il 21 marzo. In realtà non è così: questa data varia di anno in anno e nel corso di un paio di secoli può discostarsi, al massimo, di circa due giorni e un quarto. L' inizio della primavera, per definizione, è l' istante in cui il Sole nel suo moto apparente sul piano dell' eclittica passa per un punto dello spazio chiamato «punto gamma» o «equinozio di primavera», situato sulla linea d' intersezione dei piani dell' eclittica e dell' equatore celeste. Tale punto ha la caratteristica di muoversi lentamente sull' eclittica, per effetto della precessione generale degli equinozi, in senso opposto al moto apparente del Sole, compiendo un giro completo in circa 26. 000 anni (anno platonico). L' asse polare terrestre, per lo stesso fenomeno di precessione, descrive un cono intorno al polo dell' eclittica nel medesimo tempo. Se esistesse solo il fenomeno della precessione, il tempo che impiegherebbe il Sole per passare consecutivamente due volte all' equinozio di primavera sarebbe di 365 giorni 5 ore 48 minuti e 46 secondi, cioè nell' intervallo di tempo che convenzionalmente viene chiamato «anno tropico medio». Tuttavia, già in questo caso, la parte frazionaria di giorno eccedente l' anno sarebbe sufficiente a modificare la data di inizio della primavera, in quanto per ogni «anno civile» trascorso occorrerebbe aspettare ancora un quarto di giorno circa per ritornare alla medesima stagione. Se nei secoli passati non si fosse provveduto a introdurre nel calendario gli anni bisestili di 366 giorni, avremmo visto slittare l' inizio della primavera addirittura di una stagione in avanti ogni 380 anni circa. Per fortuna, con la riforma del calendario introdotta da Papa Gregorio XIII nel 1582, si arrivò alla definizione di un anno gregoriano medio, più lungo di appena 26 secondi rispetto a quello tropico. La riforma, oltre a correggere gli errori accumulati nel passato con il calendario giuliano, riuscì a mantenere confinata la data di questa stagione intorno al 21 marzo. Tuttavia, come è possibile vedere dalla tabella, in cui sono riportati gli istanti degli equinozi di primavera dal 1970 a oggi, il tempo per avere due primavere consecutive corrisponde solo grossolanamente all' anno tropico medio definito prima. La ragione di ciò è da ricercarsi nel fenomeno della nutazione, prodotta dall' azione gravitazionale della Luna sulla Terra, che fa descrivere all' asse terrestre una piccola ellisse in 18, 6 anni intorno ad un polo medio che si muove sul cono della precessione generale. Questo fatto si ripercuote in una oscillazione del punto gamma rispetto a una posizione media, che modifica la durata dell' anno tropico medio di una quantità inferiore a 10 minuti. A rendere ancora più complesso il moto del polo e quindi la fluttuazione del punto gamma sull' eclittica, si aggiunge un effetto secondario della nutazione, derivato dall' azione del Sole e della Luna sulla Terra. Tale perturbazione, una decina di volte più piccola del fenomeno principale ha una periodicità di 6 mesi per la parte che compete al Sole e di 13, 7 giorni per la parte lunare. Se si aggiungonofenomeni di minore entità, come lo spostamento della linea degli apsidi rispetto al punto gamma o, il che è lo stesso, del perielio (punto più vicino al Sole), oppure quello dovuto ai termini secolari che modificano i periodi dei fenomeni sopra descritti, o ancora a tutte quelle cause che modificano la posizione dell' asse terrestre, si capisce quanto sia complesso determinare con precisione l' istante di inizio dell' equinozio primaverile. Comunque sia, il fenomeno preponderante che determina le variazioni dell' anno tropico vero da quello medio è la nutazione principale con periodicità di 18, 6 anni. Una conferma si può avere facendo la media delle durate degli anni tropici veri riportati in tabella, che coprono un periodo leggermente superiore a quello nutazionale. Il risultato di questa operazione porta ad un valore molto vicino a quello di 365 giorni 5 ore 48 minuti e 46 secondi che corrisponde all' anno tropico medio. (Ad essere precisi, la durata effettiva dell' anno tropico, per scopi astronomici, è stata determinata dalla media di un grandissimo numero di intervalli di tempo occorrenti per ritornare sempre alla medesima stagione primaverile) Analizzando ancora la tabella, ci rendiamo subito conto che la data di inizio della nuova stagione in questi ultimi 23 anni è capitata preferibilmente al 20 di marzo (14 volte) piuttosto che al 21 (solo 9 volte), come solitamente si tende a credere. Il fatto più interessante è che negli anni bisestili, dal 1970 ad oggi, la data dell' evento, oltre a mantenersi stabilmente al 20 di marzo, ha subito un progressivo anticipo anche nell' ora di inizio. Infatti, la primavera di quest' anno, che capiterà il 20 marzo alle ore 9 e 48 dei nostri orologi, sarà la primavera più precoce di quelle riportate nella tabella. La data più bassa dell' equinozio primaverile si avrà il 19 marzo del 2096 alle ore 15, mentre quella più alta, andando a ritroso nel tempo, si è verificata il 21 marzo del 1903 alle ore 20. Questi istanti estremi si verificano alle stesse date e all' incirca anche nelle medesime ore, periodicamente ogni 400 anni, in quanto l' anno gregoriano è praticamente corretto rispetto a quello tropico solo in un arco di tempo così lungo. Renato Pannunzio Osservatorio astronomico di Torino


BIOMATEMATICA Quando le lucciole brillano in coro Misteriosi fenomeni di sincronizzazione
Autore: SPIGLER RENATO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, MATEMATICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 042

MOLTI fenomeni biologici si possono descrivere come insiemi di «oscillatori» accoppiati, cioè sistemi elementari caratterizzati da una grandezza fisica, chimica o biologica (un' intensità luminosa, un segnale acustico, un potenziale elettrico) che fluttua nel tempo In certe circostanze questi oscillatori, di regola presenti in gran numero, tendono a sincronizzarsi, passando ad uno stato in cui tutti oscillano in fase anziché ciascuno per conto suo. Una delle manifestazioni più spettacolari è stata segnalata su Science da H M. Smith fin dal 1935. Egli descrisse la fantastica visione di enormi sciami di lucciole posate su grandi alberi del Sud Est asiatico, sfavillanti ad intermittenza ma tutte insieme, tanto da porre gli alberi alternativamente in luce oppure in un buio profondo. Perché e come accade questo fenomeno di sincronizzazione? In un recente articolo apparso sul Siam Jounal on Applied Mathematics, R. E. Mirollo e S. H. Strogatz hanno messo a punto un modello matematico che dimostra una congettura di C. S. Peskin e spiega il meccanismo del passaggio dallo «stato incoerente » (in cui tutti gli oscillatori vibrano indipendentemente) allo stato sincronizzato. La transizione ha luogo quando l' accoppiamento tra i vari oscillatori (supposti identici) è sufficientemente forte; nel caso delle lucciole l' accoppiamento è di tipo visivo. Questi fenomeni di sincronizzazione collettiva di popolazioni di oscillatori accoppiati si incontrano un po' ad ogni livello di organizzazione biologica, ad esempio nel comportamento delle cellule cardiache stimolate dal pacemaker, in reti di neuroni che danno il ritmo circadiano e nell' ippocampo, nelle cellule del pancreas che secernono l' insulina, in insiemi di grilli che cantano all' unisono, in gruppi di donne che, vivendo nello stesso ambiente (quale è ad esempio un collegio), sincronizzano mutuamente il loro ciclo mestruale. Ovviamente il modello matematico è sempre più o meno approssimativo e non fornisce tutte le risposte, ma la strada intrapresa è promettente. E' comunque vantaggioso ed «economico» disporre di un' unica teoria che spieghi numerosi fenomeni, all' apparenza anche molto diversi, e a proposito dell' uso (fruttuoso) della matematica in connessione con le altre scienze, va notata la tendenza al fiorire (almeno su di una scala internazionale) della cosiddetta matematica applicata, e i frutti che grandi organizzazioni e grandi scuole prima o poi producono: non a caso l' articolo di Mirollo e Strogatz è apparso su uno dei giornali della Siam, la Society for Industrial and Applied Mathematics americana, e non a caso Strogatz lavora al Mit, e la congettura di Peskin, che è professore al Courant Institute of Mathematical Sciences della New York University, il celebre istituto fondato da R. Courant, è stata formulata nelle Lecture Notes del Courant Institute scritte per gli studenti. Renato Spigler Università di Padova


SPECIE IN PERICOLO Abbattere gli elefanti? A Kyoto sono state fornite cifre diversissime sull' effettivo numero di pachidermi Troppi capi nel parco dello Zimbabwe: le proboscidi sradicano gli alberi Alcuni Paesi chiedono limiti per il bando sul commercio dell' avorio
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI, STATISTICHE, CONFERENZA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 043

GROSSE polemiche all' ultima riunione della Cites, la «Convention on International Trade in Endangered Species» (Convenzione sul Commercio Internazionale delle Specie Minacciate) che si è tenuta in queste settimane a Kyoto, in Giappone. Pareri contrastanti tra i protezionisti a oltranza che intendono mantenere, e semmai inasprire, le norme che regolano il commercio dell' avorio e delle specie animali in pericolo e i delegati di alcuni Paesi che vorrebbero invece, almeno in determinati casi, la mitigazione di quelle norme che giudicano troppo severe o inadeguate alla loro situazione interna. Si è parlato di animali che forse nessuno pensa siano in pericolo, come l' orso bianco, a cui si dà la caccia perché la sua cistifellea è un importante ingrediente della medicina tradizionale asiatica, o come il pangolino del Capo, di cui si utilizzano le scaglie nella farmacopea cinese e la cui carne è considerata un' autentica leccornia in molti Paesi africani. Ma il pomo della discordia è soprattutto l' elefante africano (Loxodonta africana) sulla cui consistenza numerica vi sono ampie divergenze. Iain Douglas Hamilton, che ha dedicato gran parte della sua vita all' osservazione e allo studio degli elefanti in Africa Orientale, ritiene che la popolazione della specie sia passata da 1. 300. 000 individui nel 1979 a 609. 000 nel 1989, una drastica riduzione nel corso di un decennio. Diverso è il parere di altri studiosi, i quali fanno osservare che il quaranta per cento degli elefanti africani sono abitanti delle foreste e come tali appartengono alla sottospecie Loxodonta africana cyclotis (mentre l' elefante delle savane s' identifica con la sottospecie Loxodonta africana oxyotis) ed è oltremodo difficile farne un censimento esatto con il metodo più largamente usato, quello delle ricognizioni aeree, perché dall' aereo non si riescono a distinguere gli animali in mezzo alla fitta vegetazione della foresta. A questa difficoltà si uniscono altri fattori negativi, come le abitudini migratorie della specie, l' instabilità politica dei paesi e le guerre civili. D' altra parte si sono rivelati inefficaci anche altri metodi, come quello di contare gli elefanti che si recano ai punti d' acqua: vi possono infatti essere individui che non ci vanno affatto durante il periodo delle osservazioni e altri che ci vanno invece più di una volta. Si tratta sempre di stime numeriche arbitrarie, a parere di molti zoologi. Sul problema degli elefanti vi sono poi divergenze di fondo tra i vari Paesi africani. Mentre la situazione è semplicemente disastrosa in Paesi come la Tanzania o il Kenya, l' Angola o il Mozambico, il Sudan o la Somalia, è invece paradossalmente florida nello Zimbabwe e nel Sud Africa: il numero degli elefanti dello Zimbabwe è aumentato, a partire dalla metà degli Anni Ottanta, e oggi se ne contano circa 68 mila circa 25 mila in più di quanti ne possano sfamare le risorse vegetali del Paese. Il Parco Nazionale Hwange, che con i suoi quindicimila chilometri quadrati è il più grande dello Zimbabwe, quando fu istituito intorno agli Anni Venti conteneva solo un migliaio di elefanti che sono diventati ventimila nel 1980. Secondo il parere degli esperti, il parco non può sostentare più di dodici o tredicimila elefanti. Quando si supera questo numero, se ne vedono subito le conseguenze: centinaia di alberi giacciono stesi al suolo alcuni scortecciati dall' appetito degli elefanti, altri sradicati dalla proboscide dei maschi più robusti che ricorrono a questo sistema per raggiungere più facilmente la chioma di foglie commestibili. Sono grosse ferite inferte a una vegetazione che già di per sè non è affatto lussureggiante. Per contrastare la moltiplicazione degli elefanti, le autorità hanno deciso di intervenire abbattendo l' eccesso di popolazione. Può sembrare una decisione crudele ma, come sostiene Gary Haynes della Nevada University, è la più saggia. Lo Hwange ha una vegetazione diversa da quella di altri parchi africani. Cresce su uno strato molto sottile di terreno o su uno spesso strato di sabbia. Se animali pesanti come gli elefanti continuano a calpestarla e a rovinarla, distruggendo per giunta gli alberi esistenti, ci vorranno secoli prima che rinasca sul terreno un nuovo manto erboso e arboreo. Nel frattempo sono destinati a morire di fame non solo gli elefanti, ma tutte le specie erbivore che oggi popolano il parco. Lo Zimbabwe non è il solo che chiede sia parzialmente mitigato il bando del commercio dell' avorio imposto dalla Cites nel 1989. Lo affiancano Sud Africa, Botswana, Namibia, Malawi e Zambia. Per questi Paesi la ripresa del commercio d' avorio significherebbe poter disporre di denaro sufficiente a proteggere i parchi dall' invasione e dallo sfruttamento umano. Perché e su questo punto concordano tutti gli esperti la maggiore minaccia all' ambiente è rappresentata dalla popolazione umana, destinata a raddoppiarsi nel giro dei prossimi vent' anni. Secondo il parere di Mustafa Tolba, direttore dell' Unep, United Nations Environment Programme (Programma ambientale delle Nazioni Unite), ci vorrà un massiccio intervento straniero per arginare la corsa al territorio e alle sue risorse da parte di una massa sempre crescente di uomini. L' esempio più eloquente lo offre il Rwanda, che conta ora sette milioni e mezzo di abitanti destinati a diventare 15, 6 milioni nel 2012. Una popolazione così numerosa eserciterà certamente un' enorme pressione sul dieci per cento del territorio attualmente riservato alla conservazione della fauna selvatica. Di fronte a questa prospettiva, che si può estendere anche agli altri Paesi africani, ci si deve convincere che il vero problema del futuro è l' esplosione demografica umana. Isabella Lattes Coifmann


COLESTEROLO Quel «piccolo diavolo» nascosto tra i cibi ingiustamente calunniato
Autore: BOBBIO MARCO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 043

UN' INTERA pagina pubblicitaria di una rivista femminile reclamizza prodotti dietetici studiati per prevenire alcune malattie come l' infarto, l' ipertensione e il colesterolo: devo confessare che mi ha stupito molto scoprire che il colesterolo è diventato, da un giorno all' altro, una malattia. Ho cercato allora di capire a quale tipo di malattia potesse essere accomunato: a un raffreddore ( «Oggi sto a casa perché mi sono preso il colesterolo» ), a una malattia incurabile ( «Pensa che da quando gli hanno trovato il colesterolo è vissuto solo due anni» ), a una malattia che si può prevenire ( «Sono fiducioso che prima o poi troveranno un vaccino per il colesterolo» ), a una punizione dei nostri vizi ( «Con quel che mangia, sfido che abbia il colesterolo» ), a un male temibile ( «L ' hanno operato di cancro, ma per fortuna non ha il colesterolo» ) o a un disturbo lieve e passeggero ( «Sono tranquillo perché il medico mi ha trovato solo un po' di colesterolo» ) ? Certo, un annuncio pubblicitario non ha la dignità scientifica di un articolo pubblicato da The Lancet, ma è comunque un segnale di quanto molta gente pensa e i consumatori desiderano sentirsi dire. Proprio recentemente sono stati pubblicati sul Journal of the American Medical Association i risultati di una ricerca svolta in Finlandia. Ben 1222 dirigenti d' azienda in buona salute sono stati suddivisi in modo casuale in due gruppi: per cinque anni metà dei soggetti è stato trattato dai ricercatori con diete rigide e farmaci per ridurre colesterolo e ipertensione. Ai soggetti dell' altro gruppo non è stato invece prescritto alcun trattamento. Dopo circa 15 anni, si è notato che era deceduto il 10, 9 per cento dei soggetti «trattati» e il 7, 5 per cento di quelli lasciati a se stessi; e che le morti dovute a malattie del cuore erano 2, 5 volte superiori nel gruppo che era stato seguito con dieta e farmaci. Gli autori hanno commentato i risultati della ricerca sostenendo che «le conclusioni inattese non mettono in discussione la necessità di una prevenzione multifattoriale». Sembra di essere tornati indietro di duecento anni quando, per non mettere in discussione l' utilità dei salassi si preferiva sostenere che l' anemia era una malattia incurabile perché tutti gli anemici morivano nonostante la cura. In un' altra ricerca, che proviene dal centro di Framingham, dove si è compiuto il più prestigioso studio mondiale sulle cause delle malattie di cuore, è stato confermato il risultato di altre due indagini epidemiologiche, secondo cui le variazioni di peso dovute all' alternanza di diete a periodi di alimentazione «libera» facilitano l' insorgenza dell' infarto. Questo dato può avere notevoli ripercussioni sulla pratica di rispettare la dieta solo per brevi periodi di tempo e ripropone alcuni dubbi sulla troppo semplicistica equazione: meno colesterolo = meno infarto. Negli ultimi anni l' attenzione del pubblico è stata troppo spesso focalizzata sulla questione del colesterolo; si sono create eccessive apprensioni per un «piccolo diavolo» annidato tra i cibi e si è forse esagerato nel colpevolizzare chi non si sottopone a diete o a lunghe terapie per ridurne forzatamente il contenuto nel sangue. Marco Bobbio


ORTODONZIA Denti in fuori Teleradiografia del cranio per stabilire il tipo e la durata della cura Controlli periodici finché le strutture cranio facciali non smettono di crescere
Autore: LA LUCE MAURO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 043

LA lettera è di una madre giustamente preoccupata. Dice: «Mio figlio, di 13 anni, aveva i denti superiori sporgenti. L' ortodontista l' ha curato con un apparecchio fisso. Per due anni, esattamente com' era previsto. I risultati sono buoni, anche se mi pare che ora i denti siano sin troppo rientrati. Ma il guaio è che la cura non è finita: l' ortodontista mi dice che bisogna ancora ricorrere a un apparecchio di assestamento per altri sei mesi. E forse più. Perché non me l' ha detto prima? E si può sapere quanto dura effettivamente una cura ortodontica? ». Certo che si può sapere. A patto che alla visita eseguita dallo specialista segua un check up completo, e cioè una teleradiografia del cranio, una panoramica delle arcate dentali, lo studio accurato dei modelli in gesso che riproducono le arcate e, in alcuni casi, una radiografia della mano per accertare l' età scheletrica del paziente. Seguirà poi il tracciato cefalometrico della teleradiografia, che consente di quantificare la crescita facciale, individuando il tipo di problema (dentale o scheletrico). La cura ortodontica si sviluppa in tre periodi: la fase attiva, quella di assestamento e quella di contenzione. La prima riguarda il ristabilimento dei rapporti corretti tra i denti delle due arcate e talvolta, può interessare anche le parti scheletriche: mascella e mandibola. La durata di questa fase dipende dalla complessità dell ' anomalia. Al termine di questo periodo quasi sempre l' ortodontista «ipercorregge» le arcate, e cioè non si limita a riportarle nella norma, ma (come la stessa signora ha osservato nella lettera cui abbiamo fatto cenno) accentua il rapporto fra i denti in maniera opposta al disturbo di partenza. Come una pergamena che arrotoliamo in senso opposto per metterla in piano. La seconda fase della cura consiste in un breve periodo di osservazione (può durare da uno a tre anni) in cui l' ortodontista toglie momentaneamente i fili ortodontici che hanno raddrizzato i denti (la parte attiva dell' apparecchio), lasciando però gli attacchi e le bande (la parte passiva), nell' eventualità che si renda necessario ancora qualche piccolo movimento dentale. Le arcate, liberate dai fili, si assestano così nella forma e nella posizione congeniali. Il terzo periodo, detto di contenzione, è quasi sempre indispensabile, ed è una procedura che consente di mantenere la posizione raggiunta dai denti, in attesa che anche i muscoli e le strutture ossee sottostanti si adeguino ai nuovi rapporti dentali. Esistono diversi dispositivi di contenzione, costruiti con materiali differenti. Alcuni sono rimovibili, altri fissi. Tra quelli rimovibili, il più diffuso è il posizionatore. E' fatto di una gomma resistente ed elastica, e consente di eseguire alcuni particolari esercizi di masticazione, indispensabili per guidare i denti nella loro posizione definitiva. Viene applicato lo stesso giorno in cui viene tolto l' apparecchio fisso, e per i primi due giorni va portato a tempo pieno (tranne che durante i pasti). Nei giorni successivi i tempi vengono diminuiti, e già dopo un mese l' uso può essere ridotto alla sola notte. Alla fine della fase attiva talvolta può accadere che i denti, pur avendo raggiunto una buona posizione, si trovino in un ambiente muscolare sfavorevole: più semplicemente non c' è una buona armonia tra i denti e i tessuti molli che li circondano. In questi casi la contenzione consiste in una serie di esercizi di mioterapia funzionale, diffusi da alcuni clinici statunitensi ed europei (Garliner, Deffez, Levrini e altri). Si tratta di rieducare i comportamenti scorretti dei muscoli impegnati in tre attività: deglutizione (avvengono in media duemila atti deglutitori al giorno e una spinta anomala della lingua può scompaginare la stabilità del risultato di una buona terapia ortodontica), la respirazione e l' eloquio; in alcuni casi vengono effettuate delle serie di esercizi per aumentare il tono, la forza e la struttura stessa di alcuni muscoli ipotonici. Bisogna infine sottolineare che, quando una cura ortodontica termina prima che il paziente abbia completato lo sviluppo e la crescita, l' ortodontista dev' essere consultato per i controlli periodici post trattamento che consentono di verificare l' evoluzione dei denti, della mascella e della mandibola. I risultati ottenuti, infatti, vanno tenuti sotto controllo fino a quando le strutture cranio facciali non avranno completato la loro crescita. Mauro La Luce


LABORATORIO Il dilemma dell' ecologista: intervenire sull' ambiente o lasciar fare alla natura
Autore: CASTIGNONE SILVANA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, BIOETICA, LIBRI
NOMI: HARGROVE EUGENE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 043. «Fondamenti di etica ambientale»

SI parla molto di accanimento terapeutico, la pratica, purtroppo sempre più diffusa, di somministrare cure straordinarie al malato terminale, prolungandone di giorni e talora di settimane o mesi la sopravvivenza, anche quando si tratti di situazioni irreversibili e il procedimento non serva a migliorare le condizioni di vita del malato stesso anzi, finisca per aggravarne la sofferenza. Un tipico esempio di tale modo di procedere sono i meccanismi per la respirazione artificiale o per la circolazione extracorporea. Non altrettanto conosciuto è invece il cosiddetto «nihilismo terapeutico», che consiste nel ritenere inutile qualsiasi intervento curativo che comporti la somministrazione di farmaci, nella convinzione che occorra «lasciar fare alla natura» e che le medicine sono più dannose che benefiche. Questo atteggiamento viene tenuto nei confronti dei malati in genere, non solo del malato terminale. Il nihilismo terapeutico viene fatto risalire alla pratica medica del secolo scorso (con inizi già nella seconda metà del ' 700) in Austria, dove si effettuava la cosiddetta «terapia passiva» o «terapia d' attesa». In effetti i medicamenti dell' epoca non erano molto efficaci: anzi il più delle volte si poteva dimostrare facilmente che i pazienti guarivano o morivano allo stesso modo con o senza cure. Sarebbe tuttavia un errore ritenere che il nihilismo terapeutico sia cosa del passato, ormai scomparsa in questa epoca così medicalizzata. Si può constatare invece che è un atteggiamento ancora abbastanza comune, in relazione a determinati settori dell' attività medica, ad esempio nelle cure prestate agli anziani o in certi tipi di tumori; anche di fronte a malattie nuove si tende a limitare la somministrazione di farmaci per poterle studiare e ricercarne le cause senza che le sostanze assorbite possano alterare i dati, rallentando così l' osservazione scientifica. Forse si potrebbe ricondurre sotto l' etichetta del nihilismo terapeutico anche quel rifiuto delle vaccinazioni che si sta diffondendo in alcuni settori dell' opinione pubblica. Eugene C. Hargrove riprende il tema del nihilismo terapeutico nel suo libro Fondamenti di etica ambientale (Muzzio Editore, Padova, 1990), e lo applica al campo ambientalistico, osservando come il nihilismo ambientale rappresenti una delle due anime del pensiero «verde» contemporaneo, per il quale «la natura sa che cosa è meglio». Bisogna quindi intervenire il meno possibile, o addirittura non intervenire affatto, se si vuole veramente proteggere la natura; ogni manipolazione dell' uomo, infatti, anche a fini conservazionisti, è destinata a ritorcersi contro le intenzioni di coloro che l' hanno posta in atto. La seconda anima invece, crede nell' efficacia dell' intervento dell' uomo nella gestione e nella conservazione dei beni naturali; crede cioè alla «ingegneria ecologica», anche se allo stato attuale delle nostre conoscenze scientifiche in materia ecologica è consigliabile avere una certa prudenza. Personalmente preferisco il nihilismo terapeutico ambientale, perché l' idea di una natura completamente addomesticata e regolata da calcoli ingegneristici, magari governata da un immenso computer, mi sembra in netto contrasto con la concezione stessa della preservazione dell' ambiente naturale: quantomeno in rapporto alla cosiddetta wilderness, o natura selvaggia, cioè per gli ambienti ancora incontaminati e per i grandi parchi naturali. Gli interventi sono invece necessari per gli ecosistemi più piccoli, limitati nello spazio e quindi aggrediti continuamente dalle influenze esterne, oppure quando una specie si sviluppa troppo a scapito delle altre o dell' habitat circostante. E' evidente che in questi casi l' uomo deve intervenire: tuttavia il nostro rispetto verso la natura ci impone di farlo il meno possibile, altrimenti il naturale sarà sostituito gradualmente ma inesorabilmente, dall' artificiale e i valori della wilderness saranno perduti per sempre. Silvana Castignone Università di Genova


COM' E' FATTO IL DNA L' elica prodigiosa La perfetta conoscenza della doppia struttura a spirale ha permesso uno straordinario intervento sui geni
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 044

I L DNA, o acido desossiribonucleico, è il materiale genetico di base presente in tutti gli organismi viventi, situato nei cromosomi delle cellule. Tutto il Dna di una cellula è raccolto in uno spazio di appena un centesimo di millimetro, ma se fosse disteso sarebbe lungo un metro e 80 centimetri. La struttura del Dna fu decifrata nel 1953 da James Watson e Francis Crick, i quali scoprirono che essa consiste di due strisce separate, avvolte l' una sull' altra in modo da formare una spirale, o doppia elica. Ognuna delle due strisce è composta di elementi chiamati nucleosomi. La molecola del Dna si può paragonare a una scala a chiocciola; il bordo esterno della scala, formato alternativamente da zuccheri e fosfati, forma l' asse longitudinale mentre i gradini sono costituiti da quattro sostanze chimiche, chiamate basi: adenina (A), timina (T), citosina (C), guanina (G). L' adenina si lega sempre con la timina, la citosina sempre con la guanina. Attraverso questo «alfabeto» composto di sole quattro lettere, il Dna sovrintende alla sintesi delle proteine e in questo modo attua il suo compito di trasmissione genetica. Oggi le tecniche di manipolazione consentono di aggiungere un gene là dove manchi: è questa la terapia genica, attuata anche in Italia la settimana scorsa su un bambino affetto da scid, una grave forma di immunodeficienza causata dalla mancanza di un gene. Per poterlo introdurre nella cellula dove manca in questo caso, i linfociti si procede in due fasi. Da una parte, i linfociti vengono isolati dal resto del sangue e messi in coltura a moltiplicarsi: solo nel momento della divisione cellulare, infatti, il Dna si apre azione indispensabile perché un gene nuovo possa infilarsi. Dall' altra, è stato messo a punto un «veicolo» capace di attraversare gli strati esterni dei linfociti e depositare al loro interno l' inconsueto carico. Il vettore ideale è risultato un retrovirus, che viene svuotato dei geni tossici e caricato con il nuovo gene da introdurre facilissimo da trovare, perché ce l' abbiamo tutti. In provetta, i retrovirus entrano nei linfociti aperti e mescolano i Dna.


INTELLIGENZA Ecco Superbaby Bambini superdotati: i programmi scolastici spesso li trascurano
Autore: LENTINI FRANCESCO

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, DIDATTICA, BAMBINI
NOMI: TERRASSIER JEAN CHARLES, DOMAN GLENN, EINSTEIN ALBERT
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 044

IL bambino ha l' espressione intelligente ma è svogliato. Si annoia quasi subito, stenta a seguire i giochi ripetitivi dei compagni. La maestra dice che è «legato» perché non ama i giochi di squadra, come il calcio e il basket. Non socializza facilmente perché preferisce la compagnia di uno o due amici, scelti da lui. A volte appare pigro, ma è solo perché non ama ricevere ordini. Se avete un bambino (o una bambina) che al primo impatto con la scuola si comporta così, niente paura: potreste avere un figlio particolarmente dotato. Jean Charles Terrassier, dell' Istituto di Psicologia della Sorbona (Parigi), suggerisce un test per orientare genitori e insegnanti nell' individuazione di questo genere di bambini. Ma chi seguirà il suggerimento? I programmi scolastici sembrano pensati per attuare un livellamento verso il basso. La legge italiana vieta l' iscrizione alla scuola elementare dei bambini che non abbiano compiuto i 6 anni di età (a meno che non li compiano entro il 31 dicembre). I genitori che desiderano anticipare l' insegnamento sono costretti a iscriverli, all' età di 5 anni, a una scuola privata (dove frequentano la cosiddetta primina, che dovrebbe prepararli direttamente alla seconda elementare). Eppure esistono bambini capaci di imparare l' aritmetica a 8 mesi e leggere a 3 anni, come sostiene lo studioso americano Glenn Doman, autore di due famosi libri sull' argomento ( «Leggere a tre anni» e «Come moltiplicare l' intelligenza del vostro bambino» ). Se la vera intelligenza è difficilmente riconoscibile in un adulto, lo è ancora di più in un bambino. Studi recenti hanno dimostrato che un elevato IQ (quoziente d' intelligenza) non sempre si accompagna a un' elevata capacità creativa e viceversa. I bambini creativi hanno spesso un talento naturale che consente loro di eccellere in determinate discipline (matematica, musica, pittura, danza, ecc. ), ma contemporaneamente impedisce loro di ottenere una buona valutazione globale. Il loro scarso rendimento scolastico è un problema nel problema. Albert Einstein fu bocciato in fisica al Politecnico di Zurigo. Evariste Galois, uno dei più grandi matematici mai esistiti, fu espulso dalla Ecole Normale perché non tollerava le frustrazioni del metodo d' insegnamento convenzionale. O qualcosa non funzionava in loro, o qualcosa non funzionava nelle scuole che frequentavano. In effetti esiste nella società e si potrebbero citare centinaia di casi una specie di rifiuto nei confronti di chi possiede un' intelligenza di tipo diverso, rifiuto che oggi si concretizza nel termine (con significato negativo) «superbaby». Ferdinando Camon ha scritto addirittura un romanzo per ribadire questo concetto, cioè dissuadere i genitori dal desiderare un bambino superiore alla media. Ma i bambini superiori alla media esistono da sempre, indipendentemente dalla volontà dei loro genitori. Si tratta allora di intendersi sul significato dei termini: se «super baby» e «superdotato» non sono termini accettabili (per il concetto razzistico che racchiudono), bisogna comunque accettare l' esistenza dei bambini «particolarmente dotati». Tornando alla scuola, c' è da dire che per i bambini (particolarmente) dotati i problemi non si risolvono con il salto di un anno. La maggioranza degli asili costringe i bambini a trascorrere un' età decisiva, quella dai 3 ai 5 anni, semplicemente giocando. L' obiettivo dichiarato è quello della «socializzazione», mentre dal punto di vista cognitivo ci si limita a svolgere una serie, altamente standarizzata e a volte caotica, di esercitazioni grafiche o pseudo grafiche. La soluzione di far frequentare il bambino un anno avanti produce spesso risultati disatrosi, poiché la precocità non è un sicuro sintomo di intelligenza superiore alla media. Eppure i piccoli talenti esistono, anche se nessuno li conosce o si preoccupa di cercarli. A questo proposito vi sono due correnti di pensiero. La prima sostiene che i bambini non vanno mai sovrastimolati, per non produrre una pericolosa forma di disadattamento (vedi Camon). Altri (americani e giapponesi in testa) hanno studiato le grandi menti del passato e sostengono invece che i giovani talenti vanno coltivati. In Italia abbiamo notizia di un progetto pilota della Regione Veneto, teso a individuare i bambini dotati fin dal loro ingresso nella scuola materna. L' obiettivo è quello di sensibilizzare genitori e insegnanti affinché questi bambini, pur frequentando classi normali, possano usufruire di programmi adeguati alle loro capacità. Ma se questa è l' impostazione più equilibrata, purtroppo è anche la più utopistica. Com' è possibile far marciare la stessa classe su ritmi differenti? L' insegnante dovrebbe dedicarsi (poniamo) per il 90 per cento allo svolgimento dei programmi normali e per il 10 per cento ai bambini dotati, con il risultato di sviluppare solo il 10 per cento del potenziale di questi ultimi (e di trascurare tutti gli altri). Ancora una volta si dimostra che Einstein non ci ha insegnato niente. Di quanti talenti mai sbocciati è responsabile questo tipo di scuola? Quanta intelligenza (con la variante della creatività ) si spreca giorno dopo giorno nella scuola italiana? Forse è veramente venuto il momento di decidere se i giovani talenti vanno coltivati come fiori di serra, o se vanno lasciati crescere completamente incolti. Molti sostengono che il vero genio, se esiste, prima o poi viene fuori. Cioè, come si suol dire, se son rose fioriranno. Francesco Lentini


CHE COSA OSSERVARE Un test che vi dirà se vostro figlio ha la stoffa del genio
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 044

QUESTA è la sintesi di un test proposto da Jean Charles Terrassier (Università della Sorbona, Parigi) per individuare i super baby. Il bambino che risponde ad almeno la metà delle seguenti caratteristiche ha buone probabilità di appartenere alla categoria dei «particolarmente dotati»: 1) ha imparato molto presto a riconoscere le lettere e i numeri (2 3 anni) e a leggere prima di entrare nella scuola elementare 2) mostra grande interesse per libri e giornali (2 3 anni) e per enciclopedie e dizionari (6 12 anni). 3) sceglie in prevalenza amici di età maggiore. 4) ama dialogare con gli adulti. 5) conosce e adopera un notevole numero di parole. 6) vuole sapere sempre il «perché » di tutto. 7) riesce a cogliere le differenze di carattere tra persona e persona. 8) possiede il senso dell' umorismo e lo dimostra nei modi più svariati (storpiando le parole, modificando le canzoni). 9) ama i giochi complicati (scacchi, costruzioni) e vi riesce bene. 10) dimostra interesse per l' osservazione della natura e del cielo stellato. 11) possiede uno spiccato senso estetico ed è sensibile all' armonia della bellezza (musica, pittura). 12) pratica uno o più hobby che cambia di frequente.


STRIZZACERVELLO Gara di regolarità
Autore: PETROZZI ALAN

ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 044

Gara di regolarità Come tutti sanno, nelle gare di regolarità quello che conta è giungere al traguardo a un' ora la più prossima possibile all' orario stabilito dalla giuria. In una di queste gare tale orario è stato fissato per le 12 in punto; nel nostro caso i concorrenti hanno saputo che, tenendo una media di 30 chilometri all' ora, sarebbero arrivati alle 11 e cioè con un' ora d' anticipo. Se invece la media fosse stata di 20 chilometri all' ora, l' arrivo avrebbe avuto luogo alle 13 e cioè con un' ora di ritardo. Se foste uno dei concorrenti, a quale media percorrereste il tragitto? Questa domanda ne sottende un' altra: qual è la lunghezza del percorso? Questa seconda risposta non comporta sforzi supplementari rispetto alla prima. Le soluzioni domani, accanto alle previsioni del tempo. (a cura di Alan Petrozzi)


CHI SA RISPONDERE?
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 044

& Come fa il canguro femmina a ripulirsi dagli escrementi prodotti dal piccolo, che viene tenuto per mesi nel marsupio? & Perché gli aeroplani molto grandi richiedono di solito lunghe piste di decollo ? & Come si riesce a eliminare la caffeina dal caffè & Dal momento che cavalli e zebre appartengono al medesimo gruppo (i perissodattili), è possibile cavalcare le zebre così come si fa con i cavalli? _______ Inviare le risposte a: «La Stampa Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure al numero di fax 011 65 68 504, indicando chiaramente «Tuttoscienze» sulla prima pagina.


LA PAROLA AI LETTORI Le note sembrano sette, in realtà sono dodici
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 044

Perché le note sono sette? In realtà... sono dodici, dal punto di vista fisico e acustico. La musica occidentale è storicamente costruita su sette note inframmezzate, ma in maniera non uniforme, da altre cinque «alterate». Proprio da questa asimmetria è nato un sistema di scale e di modi tanto complesso e rigoroso da studiare quanto istintivo e naturale al nostro orecchio di occidentali che risultata impreparato, invece, a capire musiche diverse come quella pentatonica (cioè basata su cinque note) degli orientali. E viceversa. La musica moderna, capostipite Schonberg, ha riportato le dodici note i dodici semitoni a pari dignità, sfondando gli schemi consolidati (anche dal nostro orecchio) e creando sonorità nuove. (Vittorio Colombo Masserano, VC) Il sistema delle note si basa sull' invenzione di Guido d' Arezzo l' esacordo formato da sei suoni. Il nome delle note deriva dalle iniziali delle strofe di un inno antico dedicato a San Giovanni. Il settimo suono, desunto dallo stesso inno, è opera di Ramis de Pareya, che modificò l' esacordo introducendo l' ottava. (Laura Cominetti Casale Monf., AL ) Ecco l' inno latino da cui trassero nome le note: ut queant la xis/resonare fibris/mira gestorum/famuli tuorum/solve polluti/labii reatum/sancte johannes (affinché i tuoi fedeli/a gola spiegata/possano della tua vita/esaltare i fasti/togli dalle loro labbra/ogni impurità /o San Giovanni). In Italia ut ha poi preso il nome di do. (Silvia Quartero Collegno, TO) Perché i capelli, dalla nascita in poi, si scuriscono e a una certa età diventano bianchi? Nei primi anni di vita il capello in formazione è impregnato di migliaia di pigmenti melaninici. Le cellule chiamate melanociti producono due tipi di pigmento: l' eumelanina, che conferisce ai capelli i toni del nero e del castano e la feomelanina, che dona sfumature che vanno dal biondo al castano dorato e al rosso. Lo scurirsi dei capelli dalla nascita in poi è dovuto al fatto che i melanociti, fin verso i trent' anni, intensificano la loro attività. Passata la trentina, invece, la produzione di pigmenti melaninici rallenta e i capelli cominciano a ingrigire. Quando poi i melanociti sospendono ogni attività, i capelli spuntano senza alcuna pigmentazione e assumono il colore bianco che altro non è se non il colore naturale delle proteine pilifere. (Attilio Novelli Pescara) E' vero che la luce al neon è dannosa alla vista? Nuocere è eccessivo. Si può dire, invece, che gli occhi più delicati possono affaticarsi più facilmente. La luce al neon infatti non comprende tutto lo spettro dei colori: le sfumature dal rosso al giallo sono praticamente inesistenti, mentre rimangono tutte le componenti vicine all' azzurro. (Italo Bianco Lucca) Perché quando si è stanchi si è anche nervosi? Alla base del fenomeno c' è la molecola dell' acido lattico. Raggiunto un determinato livello di attività fisica, il muscolo non riesce più a produrre Atp (una specie di benzina organica) alla velocità con la quale viene demolita. A questo punto si attiva una via metabolica alternativa, che produce forti quantitativi di Atp, pagati però con la formazione di acido lattico come prodotto terminale: è questo che, accumulandosi, determina la stanchezza. La sensazione di nervosismo o meglio di ansia che si associa, è dovuta invece al fatto che nel sistema nervoso centrale è presente una classe di recettori ai quali normalmente si lega un tipo di psicofarmaci, le benzodiazepine, le quali, modificando il tempo di apertura del canale del cloro, svolgono un' azione calmante e antidepressiva. A questi recettori si possono legare anche le molecole di lattato, con un' azione però diversa: esse modificano il metabolismo del calcio, determinando ansia. (Girolamo Gullace Gassino, TO)




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