Una navicella dell'Agenzia spaziale europea esplorerà Mercurio. La missione è prevista per i primi anni del 2000. Finora una sola sonda ha sorvolato il pianeta più vicino al Sole: la ««Mariner 10» » della Nasa, negli anni 1974-75, ma senza poter fotografare l'intera superficie. L'aspetto di Mercurio è molto simile a quello della Luna, ma tra i due corpi celesti c'è una differenza sostanziale:la densità della Luna è all'incirca la metà di quella di Mercurio. Questo pianeta, benché piccolo, deve quindi possedere un nucleo di ferro molto massiccio. Altre domande in attesa di risposta riguardano il suo campo magnetico, la sua eventuale attività geologica residua, la tenuissima atmosfera che lo avvolge, la possibile esistenza di ghiaccio in crateri vicino ai poli dove non possono mai arrivare i raggi del Sole. La sonda europea si chiamerà ««BepiColombo»» in ricordo del matematico Giuseppe Colombo, che stabilì il periodo di rotazione di Mercurio e suggerì la rotta del ««Mariner 10»». Una parte della sonda entrerà in orbita polare intorno al pianeta e farà riprese con due telecamere; un altro orbiter rileverà il campo magnetico; un modulo di atterraggio scenderà sul suolo di Mercurio e metterà in azione una telecamera, un sismometro e un'apparecchiatura per l'analisi geologica e chimica del terreno. \
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. IL PUNTO DEL CIELO NELLA COSTELLAZIONE DEL LEONE DAL QUALE
SEMBRANO PROVENIRE LE METEORE
NELLA notte tra il 17 e il 18 novembre gli astronomi si aspettano una grande pioggia di stelle cadenti, o, più scientificamente, di meteore. Si tratta delle Leonidi perché sembrano uscire dalla costellazione del Leone e derivano dalla disgregazione della cometa Tempel-Tuttle. La caduta della cometa Shoemaker-Levi su Giove nel luglio 1994 ha fornito un esempio spettacolare dell'influenza gravitazionale che i pianeti maggiori del sistema solare esercitano sulle comete che passano nelle loro vicinanze. Giove e Saturno, per le loro dimensioni, sono più efficaci nel modificare i parametri orbitali delle comete, ma anche altri pianeti, come Urano e Nettuno, possono perturbare il moto di questi corpi e dei loro frammenti (meteroidi) che si trovano disseminati lungo l'orbita. E' il caso della 55P/Tempel-Tuttle, una cometa con periodo di 33 anni che è passata in questo secolo al perielio nel 1932, 1965 e 1998, e che ha l'afelio nei pressi di Urano. Come ogni passaggio, quello del 1998 ha causato la parziale disgregazione del nucleo cometario da parte della radiazione solare con il rilascio materiale che ha rifornito lo sciame delle Leonidi. Alcuni astronomi affermano che tra il 1965 e il 1998 (il periodo tra gli ultimi due ritorni della cometa) il campo gravitazionale di Urano non ha perturbato l'orbita della cometa, ma è stato in grado di spostare sensibilmente le traiettorie delle Leonidi dall'orbita della cometa. Che cosa è accaduto in realtà? Nel 1998 la distanza tra le orbite della cometa e della Terra era di circa 1,2 milioni di chilometri, mentre la distanza tra le orbite dei meteoroidi e della Terra era di circa 0,8 milioni di chilometri. In pratica nel 1998 le tracce delle Leonidi erano più vicine all'orbita della Terra, molto meno distanti (di 400 mila chilometri) dell'orbita della cometa. Secondo i calcoli, questa situazione inattesa porterebbe lo sciame a una distanza ancora minore nel 1999, favorendo una più intensa attività dello sciame. Dunque che cosa dobbiamo attenderci quest'anno dalle Leonidi? L'anno scorso la Terra è giunta al punto nodale tra la sua orbita e quella della cometa dopo 257 giorni dal passaggio di quest'ultima, incrociando le particelle più grosse, che la mattina del 17 novembre hanno dato vita un po' a sorpresa a splendenti fireball e bolidi, con il picco previsto (più modesto del primo) che è passato quasi inosservato 18 ore più tardi. La spiegazione è che in quell'occasione la Terra ha incontrato i frammenti più grossi della cometa che, lasciando il nucleo a velocità minore di quelli più piccoli hanno sostato per un tempo più lungo attorno al nucleo stesso, essendo poco dispersi dalla radiazione solare. Nel 1999, a più di 600 giorni dal passaggio al nodo, la Terra incontrerà le particelle più piccole disperse dalla radiazione solare all'interno di una zona più ampia popolata di un gran numero di particelle lasciate nel corso degli ultimi passaggi della cometa. Infatti ad ogni ritorno la cometa lascia sottili filamenti ad elevata densità di meteoroidi, quelli che caratterizzano appunto la componente di tempesta, che viene gradualmente dispersa dalla radiazione solare. Molti astronomi continuano a credere che quest'anno sarà eccezionale per gli alti tassi orari delle Leonidi, con uno spettacolare show a 33 anni dall'ultimo meteor storm del 17 novembre 1966, quando all'Osservatorio di Kitt Peak in Arizona si osservarono, per una mezz'ora, fino a 40 meteore al secondo. Ma quando assisteremo al possibile exploit dello sciame? E' consigliabile osservare la componente più fine dello sciame (quella di storm), causa delle piogge del 1833, 1866 e 1966, fino a qualche ora dopo l'attraversamento del nodo, cioè attorno alle 3 del 18 novembre. Mai come in questo caso la cautela è d'obbligo in quanto molti ritorni della cometa (quelli del 1899 e 1932, per citare i più recenti) non ci hanno regalato le piogge tanto attese. Le previsioni di quest'anno prospettano un'intensa attività nelle due ore che vanno all'incirca tra le 3 e le 5 del 18 novembre, ma questa finestra temporale potrebbe essere ancora più ampia. Per l'occasione, l'Europa sarà in condizioni ottime per osservare l'evento. Giordano Cevolani Cnr, Bologna
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. TRANSITO DI MERCURIO DAVANTI AL SOLE. DA HONOLULU (ISOLE HAWAII)
SI VEDRA' COSI'
TRA i fenomeni astronomici di novembre, uno dei più rilevanti è il passaggio (transito) di Mercurio davanti al Sole. Questo evento non è raro come quello cui dà luogo Venere, ma non è neppure molto frequente: avviene in media 13 volte al secolo. Per il nostro secolo, in cui se ne verificano 14, uno in più della media, l'ultima volta avvenne il 6 novembre 1993 e la prossima è il 15 di questo mese. A differenza di quelli di Venere, i transiti di Mercurio non sono visibili ad occhio nudo: Mercurio è troppo piccolo (diametro di 4800 km, il 38% di quello della Terra) perché se ne riesca a distinguere il disco senza strumenti. Il transito del 15 ottobre sarà molto particolare, perché radente, con il limite del fenomeno che passerà per la Nuova Zelanda e l'Australia. Nelle regioni più a Nord di queste terre il transito sarà completo; a Sud sarà visibile in parte, cioè con il disco di Mercurio in parte esterno al disco solare. Sfortunatamente il fenomeno non sarà visibile dall'Italia, ma dalle regioni che confinano con l'Oceano Pacifico. Ovvero, durante il fenomeno la Terra sarà messa in modo tale da rivolgere frontalmente al Sole l'Oceano Pacifico. Le terre più avvantaggiate sono le Hawaii, dove il transito si verificherà nelle ore centrali della giornata, durante il passaggio in meridiano del Sole. Esso infatti inizia alle ore 22 e 15 minuti e termina alle ore 23 e 7 minuti, cioè quando per noi il Sole è abbondantemente sotto l'orizzonte. In condizioni meno favorevoli l'evento sarà osservabile dalle coste occidentali delle Americhe, soprattutto dalla California. Mercurio si presenterà come un piccolo pallino nerissimo (molto più scuro delle macchie solari) che rullerà attraverso l'infuocata superficie solare, apparendo in alto, presso il bordo Nord. Durante il transito Mercurio si troverà a 101 milioni di chilometri dalla Terra; il Sole, più lontano, a 148 milioni di km da noi. Quindi Mercurio sarà a 47 milioni di km dal Sole, rispetto al quale apparirà 194 volte più piccolo; davvero troppo poco perché lo si possa scorgere senza alcun aiuto strumentale. Per fare un esempio, possiamo dire che il suo disco apparirà grande come una moneta da 500 lire vista da 500 metri. Con uno strumento da 100 ingrandimenti, sarà come vedere la stessa moneta a 5 metri. Ma, in ogni caso, di Mercurio si vedrà solo una silhouette perché il pianeta ci rivolge l'emisfero buio. Per osservare il fenomeno occorre un filtro solare molto denso, in modo da rendere tollerabile la visione dell'abbagliante superficie solare. Cioè un filtro come quello usato durante l'eclisse dell'11 agosto scorso, che rende osservabile il Sole ma nerissimo ogni altro corpo celeste. Mercurio arriva sempre da sinistra (Est), attraversa il disco solare e lo abbandona a destra (Ovest). Il primo transito di Mercurio davanti al Sole fu osservato il 7 novembre del 1631 da Gassendi a Parigi, su predizione di Keplero. Nel passato i transiti di Mercurio erano utilizzati per verificare l'esattezza dei calcoli dell'orbita di questo piccolo pianeta. Da essi era emerso che il punto dell'orbita più vicino al Sole (perelio) e di conseguenza tutta la forma dell'orbita cambia orientamento più di quanto previsto. Tant'è che il transito del 5 maggio 1707, previsto da P. de La Hire, risultò errato di un giorno; quello del 6 maggio 1753, calcolato dallo stesso La Hire e da Halley, si verificò con i tempi sfalsati di alcune ore rispetto a quelli calcolati. Neppure De Lalande, che migliorò le tavole per i transiti del 1789, 1799 e 1802, riuscì a stabilire una teoria completa del moto di Mercurio. Questa apparente anomalia (avanzamento del perielio di Mercurio) è stata poi spiegata dalla relatività di Einstein. Nel secolo scorso si era supposto che la causa fosse un pianeta ancora più vicino al Sole e prontamente battezzato Vulcano. Proprio con il fenomeno dei transiti si sperava di ««stanare»» Vulcano, ma le osservazioni confermarono che non vi era alcun altro pianeta: oggi sappiamo con certezza che Mercurio è il pianeta più vicino al Sole. Grazie all'ingresso molto tangente, vi saranno condizioni favorevoli per il manifestarsi del fenomeno della ««goccia nera»», cioè l'effetto ottico per il quale anche quando tutto il disco di Mercurio è immerso in quello solare si ha l'impressione che un peduncolo lo unisca al bordo del Sole. Altri effetti ottici osservati sono stati un punto luminoso e un'aureola, che alcuni osservatori del passato avevano segnalato e attribuito, rispettivamente, ad un vulcano in eruzione e ad un'atmosfera assai estesa. Oggi sappiamo, soprattutto grazie alla sonda Mariner 10, che su Mercurio non vi è alcun vulcano in eruzione, nè un'atmosfera estesa. Gli strumenti migliori per osservare il fenomeno sono quelli privi di ostruzione e poco sensibili alla turbolenza, cioè i telescopi con obiettivi a lenti o rifrattori. Per l'irradiazione diurna prodotta dal Sole, tranne casi eccezionali, è inutile utilizzare telescopi grandi. Praticamente il massimo della visione si ottiene con un obiettivo da 12-13 centimetri. Lo strumento ideale è quindi un rifrattore di questo diametro, meglio se apocromatico. Walter Ferreri Direttore di ««Orione»»
ARGOMENTI: MATEMATICA
LUOGHI: ITALIA
LE domande sull'età sono in genere indiscrete, e le risposte che si ottengono spesso false. Non si dovrebbero dunque fare, tanto meno riferite alla più venerabile signora alla quale possiamo pensare: che non è la Juventus, sia chiaro, ma la Terra. Risulta però che, spesso, l'età si può determinare indirettamente, senza domandarla: deducendola ad esempio dalle rughe di un viso, o dai cerchi concentrici della sezione di un tronco. Nel caso della Terra, è possibile determinarne l'età in tanti modi. Uno però ci sembra particolarmente interessante, come perfetto esempio del tipico procedimento matematico basato su assiomi, dimostrazioni e teoremi. Avendo dunque l'occasione di prendere due piccioni con una fava, di ottenere cioè un risultato esemplificando un metodo, non possiamo certo lasciarcela scappare. Per iniziare, dovremo partire da una premessa concreta. Diversamente dalla matematica pura, infatti, che si interessa di mondi possibili e può dunque permettersi di scegliere i suoi punti di partenza come più le aggrada, la matematica applicata (detta anche scienza) pretende di descrivere l'universo esistente, e deve dunque partire da fatti sperimentali. Nel nostro caso, vogliamo considerare materiali radioattivi quali l'uranio. La brutta notizia è che essi sono pericolosi, come è noto: non soltanto per l'abuso che se ne può fare (ed è stato fatto) negli armamenti atomici, ma anche perché una semplice esposizione alle radiazioni può provocare mutazioni genetiche, cancri e morte. La buona notizia è che essi si disinnescano automaticamente e gradualmente, benché molto lentamente: a ciascun materiale radioattivo è dunque associato un tempo di dimezzamento, che misura il periodo necessario a farne dimezzare la radioattività. I fatti sperimentali da cui partiamo sono i seguenti: ci sono due tipi differenti (isotopi) di uranio, indicati con i numeri 235 e 238; i loro tempi di dimezzamento sono, rispettivamente e approssimativamente, 700 milioni e 4 miliardi e mezzo di anni; e, in proporzione, l'uranio 235 presente in natura è circa il 7 per mille dell'uranio 238. Per poter partire con il nostro calcolo dovremo avere qualche ipotesi di lavoro, che i matematici chiamano assioma: l'ipotesi, che in quanto tale non dimostra, ma viene assunta come atto di fede perché se non fosse così non ci sarebbe più religione, è che al momento della formazione della Terra i due tipi di uranio fossero nella stessa quantità. Si tratta ora di procedere alla dimostrazione, che in questo caso sarebbe il calcolo (approssimato, ovviamente) di quanto tempo deve essere passato affinché l'uranio 235, all'inizio nella stessa quantità dell'uranio 238, abbia potuto ridursi al solo 7 per mille di esso. Notiamo che in otto suoi dimezzamenti, cioè in 5,6 miliardi di anni, l'uranio 235 si riduce al 4 per mille di quello che era. Lo stesso periodo corrisponde a circa un dimezzamento e un quarto dell'uranio 238, che si riduce così a circa il 44 per cento di quello che era (perdendo cioè prima il 50 per cento, e poi un quarto del 25 per cento): la loro proporzione diventa dunque del 9 per mille circa. Da questi calcoli si può dunque dedurre un teorema, e cioè che se i due tipi di uranio erano presenti inizialmente nelle stesse quantità, sono necessari circa 6 (cioè un po' più di 5,6) miliardi di anni affinché essi decadano nella proporzione del 7 (cioè un po' meno del 9) per mille in cui effettivamente si trovano oggi. Se l'assioma da cui siamo partiti è corretto, la Terra ha dunque circa 6 miliardi di anni. Chi fosse deluso dalla mancanza di precisione può sempre rivolgersi ad altre parrocchie: alla Bibbia, ad esempio, che come è noto determina precisamente il giorno della settimana (mercoledì) in cui nacque la Terra, ma molto meno precisamente l'anno della creazione (si va dal 3761 a.C., secondo l'era ebraica, al 4004 a.C. secondo Ussher, al 4713 a.C. secondo Scaligero). Anche per questi risultati sono comunque necessari calcoli, e ben più complicati dei nostri: della matematica non si può proprio fare a meno in certe cose, e l'unica scelta possibile è il libro da cui trarre i propri assiomi. Benché ciascuno abbia i suoi gusti noi, con Galileo, preferiamo quello della natura. Piergiorgio Odifreddi Università di Torino
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
A differenza di quanto si credeva solo pochi decenni fa, è ormai chiaro che l'acqua - sotto forma di ghiaccio, allo stato liquido o di vapore - è un elemento presente in abbondanza nel nostro sistema planetario e ciò non deve meravigliare in quanto l'idrogeno, che con l'ossigeno forma questa molecola, è l'atomo più comune nell'universo e nel Sistema Solare. E' di qualche settimana fa la scoperta di minuscole goccioline di acqua all'interno di cristalli di sali di potassio e di sodio (il ben noto sale da cucina) rinvenuti in due meteoriti cadute di recente, rispettivamente in Texas e Marocco; mentre le impressionanti immagini della luna di Giove, Europa, inviateci dalla sonda ««Galileo»», fanno pensare che esistano buone probabilità che al di sotto di una crosta di ghiaccio superficiale dello spessore di alcuni chilometri esista un oceano di acqua allo stato liquido profondo almeno un centinaio di chilometri. Per non parlare poi della miriade di corpi ghiacciati che orbitano attorno al Sole al di là dell'orbita di Nettuno (Fascia di Kuiper e nube di Oort), da cui provengono le comete, e dei satelliti dei pianeti esterni costituiti essenzialmente da un miscuglio di ghiaccio d'acqua e rocce. Nelle regioni interne del Sistema Solare l'acqua è presente in tracce nell'atmosfera di Venere, in abbondanza sul nostro pianeta, oltre che nei ghiacci che ricoprono le regioni polari marziane e quasi certamente al di sotto della superficie del pianeta rosso, sotto forma di ««permafrost»» (dalla composizione delle parole inglesi ««permanent frost»», ghiaccio permanente). Uno dei pochi corpi planetari di grosse dimensioni completamente privi d'acqua sembrava essere la Luna, ma lo scorso anno la sonda spaziale ««Lunar Prospector»», che ha orbitato attorno al nostro satellite per oltre un anno e mezzo, aveva rilevato dei segni (Tuttoscienze, 11 marzo 1998) che facevano pensare che nelle zone interne di alcuni profondi crateri da impatto localizzati nelle regioni polari, mai illuminate dal Sole, esistessero degli enormi depositi di ghiaccio d'acqua, probabilmente accumulatisi a seguito di impatti di comete nel corso degli oltre 4 miliardi di anni di esistenza della Luna. Si trattava di deduzioni tratte dal fatto che in queste regioni gli strumenti della sonda avevano individuato un'anomala abbondanza di idrogeno, forse proveniente dalla dissociazione di molecole d'acqua. Per ottenere una prova certa dell'esistenza di ghiaccio d'acqua sul nostro satellite, agli inizi di quest'anno i responsabili della missione hanno deciso di far schiantare la ««Lunar Prospector»» all'interno di uno dei crateri dove le condizioni sono tali da rendere possibile la presenza di ghiaccio d'acqua, per osservare con i più potenti telescopi disponibili a terra e con il telescopio spaziale ««Hubble»» se a seguito dell'impatto fossero individuabili tracce di vapore d'acqua. La sonda, come programmato, lo scorso 31 luglio ha colpito l'interno del cratere preso come bersaglio, ma le complesse e lunghe analisi dei dati raccolti dai numerosi strumenti puntati in direzione del luogo del ««suicidio»» spaziale non hanno rilevato alcun segno della presenza di vapore d'acqua o di molecole derivate, come l'ossidrile (OH). Era ben chiaro ai responsabili della missione che le probabilità di confermare la presenza di acqua sulla Luna erano molto basse, in quanto la sonda potrebbe aver mancato, anche di poco, il bersaglio oppure aver colpito una grossa roccia. Inoltre le molecole d'acqua, anziché essersi aggregate in blocchi di ghiaccio di dimensioni più o meno grandi, potrebbero essere presenti sul suolo lunare strettamente legate alle rocce sotto forma di minerali idrati, per cui l'energia generata dall'impatto potrebbe non essere stata sufficiente a liberarle nello spazio. Infine i telescopi, che hanno un piccolissimo campo di vista, potrebbero non essere stati puntati in maniera corretta (ipotesi possibile, ma poco probabile), oppure il vapore d'acqua e gli altri materiali una volta eiettati dall'impatto non avrebbero avuto l'energia necessaria a superare il bordo del cratere, rimanendo così invisibili agli osservatori terrestri. Anche se i risultati di questo esperimento, il primo nel suo genere, sono stati negativi, l'esperienza acquisita sarà comunque utilissima in futuro nel caso di altre sonde che, una volta terminato il loro lavoro scientifico, potrebbero essere fatte impattare all'interno di crateri lunari in cui è sospetta la presenza di ghiaccio d'acqua ed essere così utilizzate come veri e propri ««rabdomanti spaziali»». Mario Di Martino Osservatorio astronomico di Torino
ARGOMENTI: TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. FOTOCAMERA DIGITALE
IL mercato dell'immagine oggi viene sempre più condizionato dalle opportunità che offre la tecnologia digitale. Con lo strepitoso aumento dei personal computer e della connettività Internet si registrano eccezionali incrementi di vendita di fotocamere digitali, scanner e altri prodotti multimediali, sia in ambito professionale che consumer. Inoltre ottima qualità, estrema facilità di utilizzo, maggiori funzioni ««intelligenti»», apparecchi di prezzo contenuto conferiscono al digitale una forte attrazione. Si pensi alla pellicola tradizionale che, grazie alla digitalizzazione, può essere convertita in nuovi prodotti finali. Allo Smau di Milano sono stati presentati articoli assolutamente accessibili agli utenti del segmento amatoriale. La ««Digital economy»» della Nikon, ad esempio, la Coolpix 700, viene affiancata dal modello 800 in vendita da novembre. I dati tecnici segnalati: CCD da 1/2'' e 2,11 Megapixel, zoom ottico 2X e digitale 2,5X, scatto continuo ultrarapido con 30 scatti al secondo per 40 immagini a 320x240 pixel, misurazione esposimetrica intelligente Matrix, Spot e Semi-spot, autoscatto selezionabile e messa a fuoco manuale 45 step da 7 cm a infinito. E' possibile anche creare immagini fotografiche sferiche interattive (campo visivo completo di 360°) con la tecnologia IPIX, nuova applicazione digitale distribuita da Nital. Per la fascia consumer ««Kodak Digital Vision 2000»» propone la nuova fotocamera DC215 Zoom, compatta e versatile sempre pronta allo scatto. Oltre all'ottica grandangolo 2x (zoom ottico da 29 al 58 mm), e risoluzione da un megapixel (1152 x 864 pixel), è possibile rivedere subito l'immagine sul display Lcd a colori da 4,57 cm; e, ancora, formati file Jpeg e Fpx, opzioni per risoluzione Vga e display multilingue, compatibilità con l'anno 2000 per un costo del prodotto sotto il milione. Altre novità Kodak sono la fotocamera DC240i Zoom, ideale per piattaforme iMac e Pc, la professionale DC290 Zoom e il nuovo proiettore digitale DP2000 leggero e compatto. Per l'uso personale o professionale il gruppo Agfa ha in vetrina la nuova fotocamera digitale e Photo 780c. Simile alla precedente 780 si presenta in rinnovato look blu metallizzato e sfrutta la rivoluzionaria tecnologia applicativa PhotoGenie, grazie al sensore CCD di 350.000 pixel. Inoltre monta uno schermo Lcd a colori da 1.8'', quattro diverse possibilità di ripresa e può immagazzinare da 12 a 96 immagini sulla SmartMedia Memory Card da 2 MB. L'apparecchio ha un obiettivo con focale di 50 mm di buona qualità. Per fine anno Sony lancia il design ««Art Couture»», linee pulite e un colore originale - il biancoperla - caratterizzano alcuni prodotti: due nuovi televisori, lettore Dvd e un videoregistratore hi-fi stereo. Colore a parte, Sony propone in pratica, nel settore Digital Video, il modello DVP-F11 chiamato ««salvaspazio»» perché può stare sia in orizzontale che in verticale. Dispone di un convertitore 96kHz/24 bit, uscita digitale ottica e coassiale per i segnali Dolby Digital, Mpeg e DTS. Come ««chicca»» per i fotoamatori Sony propone la fotocamera DSC-F505 con risoluzione U-XGA (1600 x 1200 punti), flash intelligente, monitor 2'' e slot per Memory Stick (registra immagini in movimento e commenti), in più di 2 milioni di pixel e ottica Carl Zeiss. Angelo Arpaia
ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: DANA FARBER CANCER INSTITUTE
LUOGHI: ITALIA, AMERICA, USA
CON il diffondersi delle pratiche mediche alternative è importante che i medici si rendano conto del perché i pazienti facciano una scelta del genere. Secondo recenti statistiche un terzo circa dei pazienti americani usa oggi la medicina alternativa affiancandola a cure convenzionali. Si ha motivo di credere che le cose non vadano diversamente in Europa. Il boom economico della medicina alternativa ha raggiunto un livello di profitti tale da indurre le industrie farmaceutiche multinazionali a sviluppare settori interamente devoluti a tali prodotti (principalmente di erboristeria). Una serie di studi fatti negli Stati Uniti ha esaminato tale soggetto dal punto di vista sociale, psicologico, socioeconomico, del livello di educazione e dell'età del paziente. I risultati possono predire con alto livello di probabilità il profilo tipico medio del paziente che si rivolge a pratiche come agopuntura, omeopatia, l'ipnosi, chiroprassia, meditazione ed uso di erbe medicinali. Tra i motivi che sembrano giustificare l'esodo dalla medicina classica verso quella alternativa troviamo in primo piano le carenze dei sistemi sanitari sia pubblici che privati (lunghe attese, incuranza verso il paziente e mancanza di contatto tra medico e paziente), alti costi di certi farmaci, ricerca di una terapia definita ««olistica»» cioè completa e ««naturale»», una forte aspirazione a curarsi da sè, e la presenza di malattia croniche non facilmente trattabili colle terapie convenzionali. Da questi studi è emerso il fatto che nella grande maggioranza dei casi la medicina alternativa non rappresenta la sola forma di terapia seguita dal paziente. Nell'80% dei casi essa si affianca a quella convenzionale per completarla. La scelta di una determinata forma di terapia diventa particolarmente critica nel caso di un tumore. La decisione di intraprendere una chemioterapia avente documentate statistiche di guarigione o l'affidarsi ad un ««trattamento alternativo»» che non offre alcune garanzie in quanto mai rigorosamente scrutinato può rappresentare la differenza tra la vita e la morte del paziente. Casi recenti di scelte tragicamente errate non sono affatto rari in Italia. Il problema della scelta della terapia da parte di paziente affetto da un tumore è di tale importanza da meritare uno studio da parte di uno dei più famosi centri di terapia del cancro, il Dana-Farber Cancer Institute di Boston in collaborazione col Dipartimento di Sanità pubblica della Harvard Medical School. I dati che vengono ora pubblicati nella New England Journal of Medicine rivelano un palese difetto nel sistema attuale di assistenza medica oncologica. Il team che ha in cura un paziente di cancro dovrebbe informarsi circa l'uso o meno di una forma di medicina alternativa da parte del paziente e rendersi conto della possibilità di forme particolarmente gravi di sofferenza mentale, livelli notevoli di stress e di ansia o depressioni in atto. Tra le 480 donne diagnosticate di cancro della mammella al primo stadio viste alla clinica di Boston quasi un terzo (28%) aveva optato per una forma alternativa al momento della diagnosi e utilizzato varie forme di queste dopo l'intervento chirurgico, o durante chemioterapia o radioterapia. Circa il 10% aveva deciso per una forma alternativa già prima di ricevere la diagnosi da parte dello specialista. La scelta di una forma di terapia alternativa non era affatto correlata al tipo di terapia curativa offerta dal medico. Una seconda visita eseguita a tre mesi di distanza dall'intervento chirurgico rivelava che la presenza di notevole sofferenza psichica, di uno stato mentale alterato in senso depressivo, di insoddisfazione sessuale e di un forte timore di una ricaduta era molto più frequente tra le pazienti che avevano usato la forma alternativa. E' importante notare che le pazienti di tumore mammario allo stadio iniziale hanno a disposizione multiple forme di terapie efficaci ad esito assai favorevole. La prognosi utilizzando tali terapie mediche è di guarigione completa nella grande maggioranza dei casi. Le pazienti hanno pure una certa possibilità di scelta per quanto riguarda l'uso o meno di una chemioterapia coadiuvante con tossicità moderata. Nei casi in esame la decisione di seguire o meno la chemioterapia non rivelava essere un fattore determinante la decisione di iniziare una seconda forma di terapia (quella alternativa). Secondo dato la qualità di vita del paziente dopo l'operazione era molto peggiore tra le donne che avevano scelto la terapia alternativa. Cosa può insegnare questo studio ai pazienti ed ai medici? Anzitutto evidenzia un contrasto palese tra l'immagine convenzionale di una donna più sicura di sè, indipendente nelle scelte, psicologicamente forte che preferisce ottenere un senso di controllo e potere conferito da una propria scelta della terapia basandone la scelta su informazioni attinte direttamente su Internet o discutendo nell'erboristeria o nel negozio specializzato. Risulta invece che le donne in terapia alternativa dello studio della Harvard sono le più fragili e le meno sicure. Esse si sono rivolte alla medicina alternativa con la speranza di trovare un sollievo alla loro sofferenza mentale. Non avevano mai confessato al medico i loro dubbi terapeutici ««per non distrarlo dal compito principale di assegnare una terapia»». La raccomandazione emersa è ora sotto studio da parte della Rete Nazionale per la terapia globale antitumorale in Usa per definire condotte terapeutiche di routine che includano anche un breve esame psicologico del paziente. Una risposta positiva da parte di una paziente alla domanda ««Ricorre a cure alternative?»» dovrebbe esser sufficiente per indirizzare l'oncologo a consultare un collega che abbia esperienza specifica dei complessi problemi psicologici affrontati dai pazienti colpiti da un tumore. Ezio Giacobini
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: NATURE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: RICERCA SCIENTIFICA E NUOVE TERAPIE CONTRO IL CANCRO
CON un ««cocktail»» genico finalmente si è riusciti a convertire in vitro cellule umane normali in cellule tumorali. Questo è stato possibile, dopo più di quindici anni di tentativi, grazie all'azione di due classici oncogeni - Ras e l'oncogene SV40 large T - e del gene della telomerasi. La scoperta è avvenuta nel laboratorio guidato da Robert Weinberg, al Mit di Cambridge, Massachusetts. Era già stato visto che gli stessi oncogeni, se espressi in cellule di topo, erano in grado di trasformarle in cellule tumorali, cellule cioè che, se iniettate in topi sani, causavano l'insorgenza di un tumore. E' bastato aggiungerne un terzo, quello della telomerasi, come hanno descritto recentemente su Nature, perché cellule, questa volta umane, diventassero cancerose. La grande novità è data dal fatto che adesso l'uomo sa creare un tumore umano da cellule sane; questo significa che d'ora in poi si potranno studiare i processi tumorali procedendo in senso inverso per individuare nuovi concorrenti nella formazione dei tumori. Finora infatti si sapeva che il processo che porta alla formazione di un tumore è costituito da molteplici stadi che coinvolgono l'accumularsi di alterazioni geniche lungo il percorso. E si sapeva anche quali sono gli ostacoli cellulari che si frappongono lungo questo stesso percorso e le mutazioni che permettono alle cellule cancerose di superare gli ostacoli. Quello che fino ad ora non si conosceva erano informazioni che dessero gli strumenti per convertire appunto cellule umane sane in cellule tumorali. Incognita svelata dal gruppo americano, che ha determinato il numero minimo necessario di eventi genici la cui combinazione forma appunto un tumore. Ma perché la telomerasi? Tutte le cellule hanno una capacità limitata di replicare se stesse. Esse trasmettono il proprio patrimonio genetico alle cellule neonate attraverso i loro cromosomi. Da una cellula normale si formano due cellule, ma prima di ciò ciascuna cellula duplica i propri cromosomi in modo da trasmetterne una nuova copia alla cellula figlia. E qui si presenta il primo problema: le cellule umane normali non sanno come duplicare le estremità dei cromosomi, ovvero i telomeri. Ad ogni divisione cellulare, quindi, un cromosoma perde una parte della sua fine, accorciandosi via via. Non solo, la cellula cresce meno più il donatore è vecchio, cioè più il donatore ha i telomeri corti. Questo succede perché le Dna polimerasi - i classici enzimi di replicazione del Dna - non riescono a replicare l'ultimo pezzettino. Entra allora in gioco una polimerasi atipica, la telomerasi appunto - responsabile del mantenimento della lunghezza dei telomeri - diversa da tutte le altre e simile alla polimerasi dell'Hiv (trascrittasi inversa), che usa l'Rna come stampo su cui sintetizza il Dna. Le cellule sono paragonabili ad un'automobile che per funzionare ha bisogno di benzina. Quando questa finisce la macchina si ferma. I telomeri sono la benzina delle cellule e quando si accorciano eccessivamente la cellula si ferma e non può crescere ulteriormente. La scoperta di questi giorni è che i tumori, che per definizione crescono indefinitivamente, hanno bisogno di avere telomeri lunghi, e ciò viene ottenuto attraverso l'espressione della telomerasi, l'enzima che appunto allunga i telomeri. Quindi, per creare un tumore umano in vitro è necessario esprimere non solo gli oncogeni responsabili dell'insorgenza del tumore, ma anche la telomerasi per permettere a queste cellule una crescita illimitata. Questa scoperta è stata confermata dall'osservazione che infatti tutti i tumori di pazienti umani hanno le telomerasi in azione. E Weinberg ha dimostrato come il gene della telomerasi sia proprio un elemento chiave della carcinogenesi. Il grande contributo che questo studio ha dato sta nelle informazioni utili per l'individuazione di eventuali bersagli terapeutici. Infatti aziende, quali la californiana Geron Corporation, hanno già focalizzato la loro ricerca sullo sviluppo di prodotti terapeutici per l'invecchiamento attraverso il controllo dell'attività telomerasica nelle cellule. Marta Paterlini Università di Cambridge, UK
ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
PERCHE' hai la bocca così grande? Per mangiarti meglio. Non è la favola di Cappuccetto Rosso in versione originale (oggi ci sono le favole ecologiche in cui il lupo è un bonaccione che non si mangia certo la bambina). E' la domanda che si potrebbe rivolgere a certi pesci. Quella bocca grande è frutto della loro storia evolutiva che, nel corso dei tempi, ha modificato muso e bocca per adeguarli al tipo di alimentazione della specie. Già, perché non tutti hanno gli stessi gusti. C'è chi mangia altri pesci anche più grossi di lui e allora gli si è sviluppata una bocca enorme. E c'è invece chi si accontenta dei minuscoli organismi che vagano in balìa delle maree e del moto ondoso e che fanno parte del plancton. In tal caso basta una bocca piccolina capace di succhiare e aspirare quel brodino nutriente. Adattamenti evolutivi di questo tipo non sono una novità in natura. L'esempio più clamoroso ce lo dà il becco degli uccelli. Rondini e passeri mangiano semi? E allora hanno un becco piccolo ma robusto, fatto apposta per sgranocchiare semi. I colibrì mangiano il nettare dei fiori? Ed eccoli provvisti di un becco lungo e sottile che penetra in profondità nell'interno del fiore fino a raggiungere il dolcissimo alimento. Il picchio è goloso degli insetti nascosti nel tronco degli alberi? E' per questo che gli si è sviluppato un becco-trapano capace di perforare il legno. E gli esempi potrebbero continuare. Altrettanto è successo per la bocca dei pesci. Come al solito la natura non fa economia in fatto di varietà. Una varietà frutto della selezione naturale che ha eliminato durante il corso dell'evoluzione gli individui provvisti di bocche inadeguate. Chi è riuscito a sopravvivere? Solo gli individui che si sono meglio adattati a quello che offriva la piazza. A un estremo troviamo la bocca spettacolare dei lofioidei a cui appartiene la rana pescatrice (che non è un anfibio, ma un pesce). I lofioidei sono pesci lunghi circa un metro e mezzo, con una testa colossale estesa soprattutto in larghezza. Quando il pesce la spalanca, compare la serie irregolare di denti aguzzi impiantati sulle poderose mascelle. Di solito i lofioidei se ne stanno adagiati sul fondo, mimetizzati dalla livrea screziata e quindi quasi invisibili. Cacciano all'agguato. Fa da esca il primo raggio della pinna dorsale allungato e filiforme che porta alla sua estremità un brandello di carne. Quell'esca traditrice che può venir scambiata per un vermiciattolo o un pesciolino attira come una calamita gli ignari abitanti dei dintorni. E non appena uno di loro si accinge a mangiarla, si spalanca l'immensa bocca del predatore che lo cattura con la rapidità del lampo. Analizzando le riprese di un film girato nella Grande Barriera corallina d'Australia, si è visto che un lofioideo, e l'Antennarius maculatus, impiega esattamente sei millesimi di secondo per catturare la preda. All'altro estremo della scala delle grandezze c'è un piccolo labride carnivoro, l'Epibulus insidiator, che possiede una bocca minuscola terminante con una proboscide retrattile. Quando è estroflessa, funziona come un aspirapolvere e risucchia tutti gli esserini nascosti nell'accidentato fondo corallino. Qualcosa di simile troviamo nei bellissimi chetodonti, i pesci farfalla che rallegrano con la loro splendida tavolozza di colori il paesaggio dei mari corallini. Non hanno una proboscide come quella dell'Epibulus, ma una sorta di pinzetta tubolare allungabile che penetra nelle intercapedini dei coralli e afferra i piccoli animaletti che vi si nascondono. Per contrasto, bocca enorme quella degli squali che, per la sua tipica posizione ventrale, fa da biglietto da visita agli straordinari predatori. Socchiusa, lascia intravvedere l'impressionante chiostra dei denti aguzzi, affilatissimi, impiantati sulle due mascelle. E dietro i denti anteriori vi è una serie di denti di ricambio, per cui appena uno si logora, viene prontamente sostituito. Una bocca sempre in perfetto assetto di guerra. Ci sono poi dei pesci, meno noti degli squali, ma non meno aggressivi. Sono i pesci serra (Pomatomus saltator), lunghi un metro e mezzo o anche più. Per rendersi conto della loro pericolosità basta dare un'occhiata alla bocca. Qui c'è un vero arsenale di denti di tuttte le taglie, grandi e piccoli, conficcati su tutta la cavità orale, sulle mascelle, sul vomere, sul palato e perfino sulla lingua. Dentoni robusti e taglienti anche quelli impiantati nella grande bocca di una categoria di pesci famosa per la sua aggressività, quella dei piranha (genere Serrasalmus). E bocca assolutamente "sui generis" quella degli scaridi chiamati anche "pesci pappagallo" per la policromia della loro chiassosa livrea. Abitanti della scogliera corallina, mangiano proprio il corallo. E per poter frantumare il durissimo calcare da cui ricavano le sostanze nutritive, hanno i denti fusi assieme a formare una sorta di becco, mentre altri denti impiantati sulla faringe sono trasformati in robuste piastre trituratrici. Le sostanze non assimilabili vengono evacuate con gli escrementi sotto forma di una polverina che forma la sabbia bianca impalpabile tipica dei fondi corallini. Ma la bocca più originale è quella del pesce arciere (Toxotes jaculator) che vive nelle lagune salmastre ricche di mangrovie e nelle acque dolci dell'Asia sudorientale. Il Toxotes gusta molto i gamberetti e altre creature acquatiche, ma pratica lo sport del tiro al bersaglio ogniqualvolta avvista (ci vede benissimo non solo nell'acqua ma anche nell'aria) un grillo, una libellula o un altro insetto posati su una pianta della sponda. Allora mette in azione la sua prodigiosa "pistola ad acqua". Comprimendo i coperchietti branchiali, spinge l'acqua in un solco che corre lungo il palato e si trasforma in tubo quando vi si appoggia sopra la lingua. All'uscita del tubo c'è la punta della lingua, che regola come una valvola il deflusso dell'acqua. Se il primo colpo fallisce, il pesce non si scoraggia. Apporta una correzione all'angolo di mira e la preda viene inesorabilmente catapultata in acqua, dove il Toxotes l'afferra e se la mangia. Isabella Lattes Coifmann
IL Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino, ospitato nell'aulico palazzo barocco di via Giolitti 36, progettato nel XVII secolo da Amedeo di Castellamonte, ed ex ospedale San Givanni Battista, ha ampliato e potenziato il Centro Didattico, a disposizione delle scuole, dalle elemtari alle superiori, con una serie di servizi che si possono prenotare al numero: 011-432.30.67. Laboratori didattici. In due ore gli studenti possono approfondire singoli temi di scienze naturali, usando strumenti di laboratorio, microscopi e reperti. Gli argomenti possibili sono: botanica (sistematica e licheni), entomologia, mineralogia, paleotologia, tettonica, zoologia (anfibi e anatomia comprata). Progetto scuola-museo. Nato allo scopo di dialogare con le scuole più lontane dalla sede di Torino, consiste nell'incontro di uno specialista, scelto secondo le esigenze delle classi, direttamente nelle scuole delle varie province. Laboratori presso il Giardino Botanico Rea, situato in mezza montagna, in Val Sangone, a 30 chilometri da Torino, fra Trana e Giaveno. Le visite guidate permettono di osservare direttamente piante provenienti da luoghi diversi, la ricostruzione dei loro ambienti, l'analisi di vari ecosistemi e biotopi. Per visite guidate, per gruppi scolastici e non, basta prenotare per telefono . Corsi di aggiornamento e visite precognitive per insegnanti, in collaborazione con Irsae, Università della terza Età e altri enti. Infine è in corso di realizzazione un cd-rom multimediale con simulazioni ed esperimenti interattivi per approfondire poi i aula la lezione al museo. Da segnalare poi la possibilità di visitare la Collezione Franchetti di colibrì (fino al 21 novembre), una fra le raccolte più importanti del mondo, con oltre mille esemplari impagliati di uccelli, iniziata ai primi del '900 da don Franchetti, (1878-1964), già docente al Collegio San Giuseppe; è stato anche pubblicato un catalogo completo della collezione (Aimassi & Levi editore) con tutti i dati relativi agli esemplari e la nomenclatura aggiornata.
ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA
CHI non ama la prospettiva di vedere una presenza sempre più massiccia di vocaboli anglosassoni nella nostra lingua, deve comunque prendere atto dell'influsso inevitabile dell'inglese sull'italiano e valutarlo senza preconcetti. Abbiamo già considerato in questa sede alcune parole utilizzate spesso. Possiamo analizzarne altre, in modo da capirle meglio ed eventualmente usarle e/o tradurle in modo del tutto appropriato, evitando così il rischio di perpetuare errori all'infinito, come è successo per week end, che è diventato il (si noti il maschile! ) fine settimana! Partiamo da screening, parola che è utilizzata molto spesso con uno dei suoi significati di origine, quello di indagine operata su un numero elevato di dati, per ottenerne risultati statistici, per selezionare, vagliare. Così si parla di screening di massa per individuare ad esempio i portatori sani per una certa malattia oppure patologie nel loro stato iniziale, o anche per valutare certe caratteristiche genetiche di una popolazione. Una parola italiana equivalente non esiste, anche se, di volta in volta si possono usare espressioni che comunicano lo stesso concetto. Decisamente si può dire che il vocabolo inglese è vincente Altrettanto comuni sono bypass e l'italianizzato bypassare. Originariamente presenti in italiano solo nelle descrizioni di procedimenti cardiochirurgici ormai divenuti comuni (consistenti nell'innesto di un vaso sanguigno prelevato da altra parte in modo da permettere al sangue di evitare un'occlusione), indicano oggi anche passaggi o collegamenti alternativi, come in inglese. Usate in senso metaforico, sono il modo e l'azione che permettono di evitare qualcosa o qualcuno. Particolarmente importante e oggi molto utilizzata è feedback, che consiste di feed 'alimentarè con l'avverbio back 'indietrò. E' usata nella lingua inglese in tante situazioni diverse, in ogni caso per descrivere come l'effetto ottenuto in seguito ad un'azione vada a influenzare l'azione stessa, eventualmente modificandola, e adeguandola così alla nuova situazione. La parola esprime quindi la capacità di un sistema ad autoregolarsi. L'uso che se ne fa in italiano è il medesimo ed è nato anche un vocabolo corrispondente: si tratta di 'retroazionè. Così nel linguaggio scientifico che riguarda i sistemi biologici si usa feedback o 'retroazionè, per indicare le modalità di regolazione delle ghiandole endocrine, il controllo di una reazione biologica da parte del prodotto finale, l'influenza di variazioni nella disponibilità di cibo, acqua, o altro su una specifica popolazione in un ecosistema. Esempi analoghi si possono riferire a sistemi artificiali, meccanici o elettronici. Retroazione lo ritroviamo per lo più in contesto scientifico. Ma feedback si utilizza ormai, come in inglese, in altri tipi di fenomeni. Così, nel mercato, l'aumento della domanda induce un innalzamento dei prezzi, e ciò a sua volta una diminuzione della domanda, seguita da una diminuzione dei prezzi... A scuola l'abbassamento nei voti induce un aumento dell'impegno degli studenti (speriamo!) che a sua volta provoca un miglioramento dei risultati cui fa seguito un attenuamento dell'impegno...Si può descrivere l'andamento dei fenomeni con ««le cose si aggiustano da se»», secondo una diffusa sentenza, riportata dal Dizionario Italiano Ragionato (D.I.R.). Oppure optare per ««fenomeno di feedback»», definizione decisamente più rigorosa. Carla Cardano
ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: MUSEO DI STORIA NATURALE
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, MI, MILANO
TABELLE: T.C. I principali siti europei dove sono stati scoperti fossili di
homo sapiens e suoi manufatti
IL Museo di Storia Naturale di Milano (corso Venezia 55), si è arricchito di una sezione dedicata all'origine e all'evoluzione dell'uomo. Progettata una decina di anni fa dall'allora direttore Giovanni Pinna e dalla paleontologa Anna Alessandrello, questa novità pone il museo al livello dei più importanti musei europei: Londra, Parigi, Ginevra e Vienna. Il percorso è didatticamente illustrato in 50 vetrine allestite con reperti già di proprietà del museo e 150 nuovi calchi di esemplari rinvenuti nei principali paleositi del mondo, a partire dallo scheletro di Lucy, l'australopiteco africano più antico finora scoperto, per arrivare all'uomo di Neandertal, all'Homo habilis, cioè la più antica delle specie umane, ai resti dei primi italiani ell'età della pietra, fino all'uomo moderno. Questa sezione è stata realizzata grazie alla preziosa collaborazione offerta dai colleghi dei più importanti centri di ricerca nazionali e internazionali di paleontologia umana come, per citarne alcuni, Giacomo Giacobini dell'Università di Torino, Carlo Peretto dell'Università di Ferrara, Giorgio Manzi de La Sapienza di Roma, Yves Coppens del Collège de France, Donald Johanson dell'Istituto delle origini dell'uomo di Berkeley, Emma Mbua del Museo Nazionale del Kenya a Nairobi. La nostra origine parte dai mammiferi placentali, animali di piccola taglia (simili agli attuali toporagni), che si nutrivano di frutti e insetti. La testimonianza è data da una mandibola trovata nel Montana, datata 70 milioni di anni fa e denominata Purgatorius. Nella vetrina successiva l'attenzione è attratta da un piattino cinese con molari grossi come una noce. Sono le famose ««ossa di drago»», utilizzate dall'antica farmacopea cinese, rinvenute casualmente in una farmacia di Hong Kong nel 1931 dal paleontologo olandese Koenigswald. Non appartenevano nè all'uomo, nè alle scimmie antropomorfe, bensì al Gigantopithecus, un animale gigantesco vissuto nel Miocene superiore e nel Pliocene. Si prosegue con le Proconsul africans, Miocene inferiore, trovate in Kenya nel 1927, un cranio di macaca rinvenuto nella miniera umbra di Pietrafitta, l'oreopiteco di Monte Bamboli in Toscana, Miocene superiore, una serie di reperti proscimmie e scimmie del vecchio mondo. Una splendida ricostruzione li divide fra scimmie che vivono sugli alberi, come il Gibbone e l'Orango, e altre che marciano, Gorilla e Scimpanzè: una lenta evoluzione che le porta verso l'antropomorfismo. Molto particolareggiata è la classificazione degli ominidi, che vede le impronte di Australopithecus africans a Laetoli e lo scheletro di Lucy trovato da Johanson a Hader in Etiopia e datato 3,5 milioni di anni fa. Seguono l'Austr. Boisei, l'Austr. Robustus, l'Homo Habilis di Olduvai nelle pianure del Serengeti in Tanzania, che viveva in un riparo e usava manufatti di pietra, per scarnificare le pelli. Ampiamente illustrata è la comparsa dell'Homo Erectus e la sua diffusione in nuovi territori che ha conquistato spostandosi dal Kenya, Etiopia, Tanzania, verso il Marocco, l'Arabia Saudita, la Turchia, la Grecia, l'India, la Malesia, il Sud della Cina, la penisola Balcanica, l'Italia centrale, la Francia. Percorsi migratori testimoniati dai reperti fossili le cui datazioni vanno da 1.600.000 a 300.000 anni fa. La culla dei fossili più antichi è la Rift Valley, una spaccatura che divide l'Africa continentale dal corno d'Africa, il cui processo geologico iniziato 20 milioni di anni fa, con la conseguente variazione del clima che ha modificato l'ambiente favorendo così l'evoluzione degli esseri che vivevano i quei luoghi. Dall'Homo erectus all'Homo sapiens, si può dire che il passo è breve. Nel Quaternario medio, 500.000 anni fa, dai fossili trovati si deduce che in Europa, Asia e Africa, vissero uomini con caratteristiche anatomiche intermedie tra quelle dell'Homo Erectus e dell'Homo Sapiens. Sono stati definiti Homo Sapiens arcaico, datato da 500.000 a 150.000 anni fa e Homo Sapiens anteneandertaliano. Una vetrina è dedicata all'uomo di Neandertal con la storia, il luogo e i protagonisti del rinvenimento avvenuto in Germania nel 1856. Un'altra descrive l'uomo Cro-Magnon e infine l'Homo Sapiens Sapiens, cioè l'uomo moderno, apparso 35.000 anni fa, secondo i reperti fossili e le tracce della sua cultura arrivati ai giorni nostri (pittura, incisioni, oggetti di culto e di lavoro, sepolture come quella riprodotta in sala, di Mondeval de Sora, nel Bellunese). Nella vetrina ««Antichi uomini in Italia»» il pubblico può conoscere i nostri siti, documentati con fotografie, calchi e la storia dei rinvenimenti: Grotta Guttari, Circeo, e Saccopastore vicino a Roma, dove sono stati trovati nel 1935 reperti neanderthaliani; Altamura (Bari), dove nel 1993 affiorò uno scheletro di Homo Sapiens arcaico; Ceprano (Lazio), dove nel 1994 si trovarono frammenti di calotta cranica datati 700.000 anni fa, mentre nel vasto sito La Pineta di Isernia sono stati rinvenuti numerosi fossili di fauna e utensili litici di 700-800 mila anni fa. Uno spazio denominato ««Arte della pietra»» è dedicato alla litotecnica e all'archeologia sperimentale; vi sono ricostruite le fasi di lavorazione di utensili preistorici come punte di lancia, lame, amigdale, cioè ciottoli in pietra scheggiata, grattatoi, pugnali, falcetti, accette, zappe. A supporto della teoria dell'evoluzione è stato affrontato in modo chiaro il problema delle affinità genetiche fra l'uomo e lo scimpanzè: sono simili per il 99 per cento, il che significa che è bastato un 1 per cento di geni diversi per separare la nostra specie dalle scimmie. L'esposizione si conclude con quattro proposte di alberi genealogici dell'uomo proposti da Richard Leakey (1977), Donald Johanson (1981) Yves Coppens (1981) e Giorgio Manzi (1998) su schema di Jan Tattersal del 1995. Il Museo di Storia Naturale, fondato del 1838, è aperto al pubblico tutti i giorni, dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle 18, sabato, domenica e festivi dalle 9,30 alle 18,30. L'ingresso è gratuito. L'associazione didattica museale mette a disposizione delle scolaresche visite guidate denominate ««Il cammino dell'uomo»». Prenotazioni: 02-795.448/783.528. Pia Bassi
UN' OPERA d'arte alla Calder, mobile al minimo soffio d'aria, subisce il logorio del tempo: un filo che sostiene uno dei suoi contrappesi si spezza, e il contrappeso sfonda il pavimento. Si esamina allora il materiale usato dall'artista: ha una densità incredibile, superiore non solo a quella dell'uranio, ma anche dell'osmio. Nei giorni seguenti l'oggetto misterioso si riscalda e raggiunge temperature altissime. Alla fine apprenderemo che è l'uovo di una creatura aliena finito sulla Terra per errore, attratto dai neutrini che escono dagli impianti nucleari. E' lo spunto di uno dei racconti di fantascienza che Tullio Regge ha scritto quasi per gioco negli ultimi anni, facendoli circolare tra gli amici. Una vacanza del ricercatore, così come qualche anno fa i disegni realizzati al computer. Sono pagine intelligenti e spassose, con frequenti spunti satirici e allusioni a personaggi più o meno noti. Il lettore si divertirà almeno quanto si è divertito l'autore.
Sappiamo quanto anoressia e bulimia - due facce di uno stesso problema - siano diffuse tra i giovani di oggi, e specie tra le ragazze. Questo libro propone, tramite l'esposizione testuale di colloqui reali tra terapeuta e paziente, un intervento psicologico di tipo strategico, che in poche sedute molto spesso riesce a raggiungere la guarigione. Giorgio Nardone è docente di Tecnica di psicoterapia breve presso la Scuola di specializzazione in psicologia clinica dell'Università di Pisa. Tiziana Verbitz e Roberta Milanese sono due sue strette collaboratrici associate al Centro di Terapia Strategica di Arezzo.
Mario Rigutti, già direttore dell'Osservatorio di Napoli, ci presenta una storia dell'astronomia dal taglio molto originale, che viene ad aggiungersi alle opere di Abetti e di Godoli. Ma mentre questi autori hanno cercato di dare un quadro ««oggettivo»» e per quanto possibile completo dell'astronomia di tutti i tempi, Rigutti ha fatto scelte personali: prima di tutto l'attenzione è dichiaratamente solo sull'astronomia occidentale; poi il modo di procedere è per grandi temi e grandi personaggi, senza la pretesa di inseguire una inutile completezza; infine gli snodi tematici sono visti con tutte le sfumature del loro tempo, senza aderire a mitiche svolte che in realtà non ci sono state, essendo il reale procedere della scienza fatto di piccoli passi e sfumature. Un esempio per tutti: ««Quello che oggi indichiamo come sistema copernicano non è il sistema di Copernico, ma quello nato dall'evoluzione della sua rivoluzione.»».
Le religioni indagate con la chiave di lettura della scienza moderna, e la scienza indagata con la chiave di lettura della teologia: è l'operazione, per certi versi acrobatica, compiuta dal logico matematico Piergiorgio Odifreddi attraverso una analisi di paradigmi come la creazione, il Nulla, la ricerca dell'Unità. Una lettura intelligente, ricca di stimoli e provocazioni.