TUTTOSCIENZE 14 luglio 99


COME OSSERVARE IL FENOMENO DUE MINUTI PREZIOSI Durante le fasi parziali occorre munirsi di filtri per proteggere gli occhi. I consigli per scattare fotografie e fare riprese di interesse scientifico
AUTORE: FERRERI WALTER
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: ECLISSE SOLARE IN EUROPA L'11 AGOSTO '99

L'eclisse di Sole che si verificherà l'11 agosto è un evento molto atteso: da 38 anni non ne avveniva una in Europa. Ecco qualche consiglio per seguire al meglio questo fenomeno raro e spettacolare. Un'eclisse di Sole si può osservare con facilità sia ad occhio nudo sia con strumenti ottici. Ma è determinante proteggere la vista dall'abbagliante luce solare durante le fasi parziali, le uniche visibili dall'Italia. La luce del disco solare è infatti assolutamente troppo forte per l'occhio anche quando il Sole è ridotto ad uno spicchio sottile. I comuni occhiali scuri sono inadatti allo scopo. Una protezione sicura, oltre agli appositi filtri solari, è data dai vetri scuri usati dai saldatori e da comuni pellicole fotografiche bruciate in bianco e nero. Invece quelle a colori o quelle di tipo moderno in bianco e nero che non contengono argento, trasmettono molto nell'infrarosso. Quindi, anche se esternamente sembrano adatte, fanno passare gran parte della radiazione a maggiore lunghezza d'onda. Molto adatti sono i fogli in mylar (polietilene ricoperto di alluminio) appositamente progettati, tant'è che vengono utilizzati senza problemi anche come filtri solari a tutti gli effetti. Il grande richiamo provocato dall'eclisse dell'11 agosto ha sensibilizzato i venditori a disporre di notevoli quantitativi di mylar, che non è raro trovare anche presso comuni rivenditori di articoli ottico-fotografici. Sembra incredibile, ma ad occhio nudo l'inizio del fenomeno si percepisce subito dopo la visione che ne può dare un telescopio. Benché senza strumenti ottici il disco solare appaia piccolo, si nota bene il bordo lunare che intacca quello solare e che ne ««mangia»» una porzione via via più vasta. La parte del Sole che inizia ad essere coperta è quella in alto a destra. A distanza di pochi minuti si nota benissimo anche ad occhio come cambi la percentuale del disco eclissato. Per quanto possa sembrare strano, fino a circa una grandezza del 60-70 per cento (cioè fino a quando questa percentuale del disco del Sole non viene coperta dalla Luna), chi non guarda direttamente il disco solare non nota nulla. Appare però un fenomeno curioso. Le macchie di luce prodotte dagli interstizi tra il fogliame della vegetazione non sono più circolari, ma hanno assunto la forma del Sole eclissato, cioè a mezzaluna. Quando la Luna copre il 70-75 per cento del disco solare, ciò che avverrà in ogni parte d'Italia, i panorami terrestri appaiono come se fossero visti attraverso un paio di occhiali da sole. Chi si recherà all'estero per vedere la totalità, dovrà togliere il filtro solo quando la Luna avrà ricoperto anche l'ultimo sottile lembo di superficie solare. Cioè pochi secondi dopo la comparsa delle ««ombre volanti»» , le bande alternativamente chiaro-scure che appaiono su ogni superficie chiara. Per vederle meglio distendete sul terreno un lenzuolo bianco. Appena tutto il disco solare è nascosto, appare, maestosa, la corona. Ad occhio si vedono le protuberanze, le ««lingue»» rosse di idrogeno che dalla fotosfera si sollevano nella corona. Durante l'eclisse è interessante notare anche altri aspetti ad essa collegati. Ad esempio il comportamento degli animali e l'abbassamento della temperatura. Durante la totalità animali come le galline vanno a dormire, mentre altri, come i cavalli, si spaventano. Anche ««il vento dell'eclisse»» è un fenomeno collegato all'evento; esattamente all'abbassamento di temperatura. Fotografare o riprendere l'eclisse non è difficile. Il problema principale deriva dalla mancanza di esperienza, cosa normale per un fenomeno visibile di rado. Per le fasi parziali è necessario mettere davanti all'obiettivo della macchina fotografica un filtro, esattamente come quello che si usa davanti agli occhi. Con una comune fotocamera l'immagine del disco solare risulterà molto piccola: il diametro del Sole sulla pellicola equivarrà a circa 1/100 della focale dell'obiettivo utilizzato. Così, se usiamo un 50 mm (l'ottica più comune), avremo 50/100 = 0,5 mm. Chi ha a disposizione dei teleobiettivi è bene che li usi. Un problema, con le comuni fotocamere, riguarda il tempo di esposizione. L'esposimetro delle macchine, infatti, tende a impostare un tempo che tenga conto anche del cielo circostante, con la conseguenza di immagini sovraesposte. Infatti, l'esposimetro fa una media tra il cielo reso scuro dal filtro e il disco solare che occupa solo una piccola porzione sulla pellicola. Sarebbe bene fare prima delle prove, per stabilire quale tempo darà i migliori risultati. Si tenga presente che con un filtro di densità 4, cioè che lascia passare solo una parte su 10 mila, e con diaframma 16, il tempo orientativo è di 1/1000 di secondo con pellicola da 100 ISO. Il filtro solare si deve togliere durante la totalità; anche qui il tempo di esposizione dovrebbe essere un po' più breve di quello indicato dall'esposimetro; ad esempio di 1/4 o di 1/8. Come pellicole vanno bene quelle comuni a colori da 100 ISO. La scelta migliore consiste nell'utilizzare quelle a maggiore definizione nelle fasi parziali, ad esempio quelle da 25, 50 o 64 ISO. Durante la totalità, invece, sono preferibili quelle un po' più sensibili, ad esempio da 200-400 ISO, così è possibile utilizzare tempi sufficientemente rapidi (1/125 di secondo con diaframma 4-5,6) da evitare l'uso di un cavalletto. Per la fotografia delle ombre volanti occorre una pellicola molto rapida (da 800-1600 ISO) e ci si affida completamente all'esposimetro. Walter Ferreri


DOVE ANDARE In Romania i luoghi più favorevoli Meglio scegliere sulla base delle statistiche meteorologiche
AUTORE: W_F
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C.
NOTE: ECLISSE SOLARE IN EUROPA L'11 AGOSTO '99

UN fenomeno spettacolare come un'eclisse totale di Sole merita certamente un viaggio. Spesso si tratta di affrontare spostamenti lunghi, costosi e disagevoli. Questa volta, poiché l'eclisse totale riguarda una ampia regione d'Europa, tutto è più semplice. Ma dove conviene recarsi? Per chi non ha problemi di mobilità e di spesa, tanto vale scegliere il meglio, ovvero dove l'eclisse non solo è totale, ma dura di più. Questo succede in Romania, a ridosso di una località chiamata Rimnicu-Vilcea, 150 km a Nord-Ovest di Bucarest. Il calcolo indica che qui la durata della totalità è di 2 minuti e 23 secondi. Ma il grosso dubbio concerne le condizioni atmosferiche. In base a otto anni di analisi (dal 1983 al 1990), effettuate su dati raccolti da satelliti meteorologici, scaturisce una percentuale di possibilità di cielo sereno del 60 per cento. Chi volesse essere tranquillizzato da una percentuale più alta deve spostarsi ulteriormente verso Est. In Turchia questa percentuale raggiunge e supera il 70 per cento, mentre il massimo viene toccato in Iran con il 90 per cento. Ma qui la durata della totalità scende già sotto i 2 minuti, mentre in Turchia è di circa 2 minuti e 10 secondi. Nell'ambito dell'Europa le maggiori probabilità di cielo sereno si trovano lungo le coste del Mar Nero e decrescono via via che ci si sposta verso Ovest. Le probabilità minori si hanno in Inghilterra, dove la striscia di totalità attraversa la Cornovaglia. La regione francese è caratterizzata da una chance di quasi il 50 per cento mentre la Germania (Stoccarda, Monaco) raggiunge e supera, sia pure di poco, questo valore. Chi, pur volendo vedere l'eclisse come totale, ha poco tempo a disposizione o comunque gradisce dedicarle solo lo stretto necessario, troverà più vantaggioso recarsi nelle regioni in cui la totalità passa più vicino all'Italia, cioè Germania e Austria. Addirittura, per chi abita nel Nord Italia, partendo presto al mattino, è possibile fare tutto in giornata, poiché il fenomeno ha il suo apice verso il mezzogiorno locale. Qualsiasi regione si scelga, è molto importante cercare di venirsi a trovare nella parte centrale della fascia. Uno spostamento anche di parecchie centinaia di chilometri al di qua o al di là del punto centrale, cioè lungo la lunghezza, comporta una diminuzione del tempo di totalità di pochi secondi. Ma, come ci si sposta nel senso della larghezza, la diminuzione diventa drastica, ad esempio si passa da 2 minuti a 1 minuto per uno spostamento di 50 km. Scelta la regione, rimane da valutare il sito. Cosa è meglio? Pianura, collina, montagna? Per finalità turistico-contemplative non vi sono grosse differenze. Comunque, più in alto ci si trova e maggiore sarà l'effetto del buio, in quanto ci si lascia al di sotto gli strati più densi dell'atmosfera. Naturalmente è bene recarsi in uno spiazzo privo di ostacoli, come alberi o edifici. Questo consiglio è importante non tanto per chi si limita a contemplare l'eclisse ad occhio nudo, quanto per chi eseguirà fotografie. In particolare chi desidera riprendere tutto il fenomeno sullo stesso fotogramma, dovrà valutare con attenzione l'assenza di ostacoli lungo tutto l'arco di cielo percorso dal Sole dall'inizio alla fine. Si tenga presente che nel complesso il fenomeno dura circa 3 ore, durante le quali il Sole appare spostarsi di 45 gradi. Fortunatamente, in Europa, il Sole si manterrà sempre ad una notevole altezza al di sopra dell'orizzonte. Ovviamente telescopi e apparati dotati di motori che necessitano di alimentazione a rete dovranno per forza di cose essere piazzati a ridosso di prese di corrente e quindi nei pressi di alberghi o abitazioni. \


ASTRONOMIA Eclisse, sull'Europa buio a mezzogiorno
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: ECLISSE SOLARE IN EUROPA L'11 AGOSTO '99

L'11 agosto, verso mezzogiorno, il Sole scomparirà per un paio di minuti lungo una fetta d'Europa larga 100 chilometri, dall'Inghilterra alla Turchia. Su milioni di persone calerà una notte lattescente, l'orizzonte avrà il chiarore del crepuscolo, alto nel cielo spiccherà un disco nero circondato da una corona color madreperla e intorno appariranno il pianeta Venere e alcune delle stelle più luminose: Regolo, Procione, Capella. Sarà una eclisse di Sole memorabile non perché è l'ultima del millennio, che è circostanza irrilevante, ma perché raramente questo fenomeno, il più spettacolare che la natura possa offrire, tocca regioni densamente popolate e grandi città: in questo caso Strasburgo, Lussemburgo, Monaco, Bucarest e la capitale del Pakistan Karachi. Per il cuore dell'Europa, l'ultima eclisse totale risale al 15 febbraio 1961 ma si notò poco in quanto avvenne di primo mattino. La prossima sarà nel 2081. Pur essendoci anni con tre eclissi di Sole, in un dato luogo in media solo ogni 400 anni il Sole viene completamente oscurato. Ecco perché, per provare l'emozione del buio a mezzogiorno, quasi sempre bisogna raggiungere luoghi scomodi e lontani: i deserti dell'Africa, la Siberia, le isole del Pacifico... Che cosa potremo osservare durante l'eclisse? Prima di tutto l'avanzare del disco nero della Luna nuova su quello abbagliante del Sole. Se ci sono macchie solari, si noterà che sono assai meno scure rispetto al disco lunare: la percezione visiva dipende molto dalla forza dei contrasti. Questa è la sola osservazione che si potrà fare dall'Italia, dove la copertura del Sole non sarà totale, pur raggiungendo il 95 per cento nel Nord-Est e il 90 per cento a Torino, per scendere al 75 per cento via via che ci si sposta a Sud. Può essere curioso osservare il Sole parzialmente eclissato tra le ombre proiettate dalle foglie delle piante: un fenomeno analogo a quello che si ha in una camera oscura con foro stenopeico. Poco prima della totalità, l'avanzare dell'ombra lunare sulla Terra (a 2000 chilometri all'ora!) causa le ««ombre volanti»», rapide alternanze di chiaro e di scuro sul terreno. Poi gli ultimi raggi solari filtrano tra le montagne sul bordo lunare, circondandolo con uno splendido diadema: è il fenomeno dei ««grani di Baily»», dal nome dell'astrofilo inglese Francis Baily, vissuto nel '700. Scomparsi dopo pochi secondi i ««grani»», per un tempo ancora più breve si può vedere un anello rosso intorno al disco lunare: è la cromosfera, un sottile strato di gas che segna la transizione alla corona, un plasma ancora più rarefatto che si estende fino a diversi raggi solari di distanza. Dalla cromosfera si levano le protuberanze: giganteschi zampilli di idrogeno color albicocca. La corona appare durante la fase totale dell'eclisse: una gloriosa aureola che questa volta, poiché siamo vicini al massimo undecennale dell'attività solare, dovrebbe risultare alquanto brillante e simmetrica. La sua luminosità è appena un milionesimo rispetto alla fotosfera, e quindi solo la totalità la rende visibile: tanto che fino all'eclisse del 1868, osservata in India da Janssen, non si ebbe la certezza della sua reale esistenza. La corona è un eccezionale laboratorio di fisica. Formata in prevalenza da elettroni e nuclei di idrogeno, ha una temperatura altissima, tra 1 e 5 milioni di gradi, e assume forme determinate dal campo magnetico solare. In continua espansione, disperde la sua tenue materia nello spazio. Talvolta, dopo violente esplosioni avvenute sulla fotosfera, rilascia vere e proprie nubi di plasma. Le eclissi di Sole sono state per più di un secolo, dal 1850 al 1970, importanti occasioni di ricerca scientifica, e non solo in campo strettamente astronomico: quella del 1919 fornì una prova della relatività generale. Oggi hanno perso una parte della loro attrattiva per via dei coronografi (realizzati da Bernard Lyot negli Anni 30) e più ancora per la possibilità di produrre in qualsiasi momento nello spazio eclissi artificiali di lunga durata, rispetto alle quali anche i 70 minuti di totalità ottenuti inseguendo l'eclisse del 1973 con il ««Concorde»» sembrano pochi. Basti pensare che la sonda europea ««Soho»» osserva la corona quasi ininterrottamente da qualche anno. Scienza a parte, rimane l'aspetto estetico: che è davvero emozionante. Per questo, forse, il miglior modo di godersi un'eclisse è anche il più semplice: senza strumenti ottici (se non un filtro durante le fasi parziali), senza l'affanno di riprendere foto e film. Guardare e basta, con un brivido. Piero Bianucci


SCIENZE FISICHE. AMBIENTE Radon, subdolo nemico che esce dal sottosuolo L'Italia affronta il problema delle regioni a rischio con uno studio del Cnr
Autore: TOZZI MARIO, VOLTAGGIO MARIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. IL RADON IN ITALIA

QUANDO avrete terminato di leggere questa frase, avrete inspirato, in media, 10.000 atomi di radon e riuscirete ad espellerne una gran parte senza che abbia il tempo di interagire con i vostri polmoni. Ma una parte di quegli atomi entrerà in contatto con il sangue e un'altra rimarrà nei bronchi fino al suo decadimento (cioè fino alla sua trasformazione in un altro elemento). Infatti il radon è un elemento radioattivo - ««figlio»» del radio - che si trasformerà alla fine in piombo, emettendo energia, in un tempo di dimezzamento (quello necessario a ridurlo della metà) di 330.000 secondi, quanto basta per provocare dei danni. L'Icpr (la Commissione internazionale per la protezione radiologica della Cee) ha stabilito che la seconda causa delle morti per cancro al polmone è dovuta al radon. Le preoccupazioni sono tutte rivolte verso gli incidenti nelle centrali nucleari. Pochi sanno che la radioattività di fondo del pianeta Terra è in grado di provocare problemi molto più gravi. In Italia la questione è particolarmente importante, in quanto da noi si registra una media, in ambienti chiusi, di 77Bq/m cubo (Bequerel è l'unità di misura della radioattività) di radon contro i 40 del resto del mondo. Nel Lazio e nelle altre zone vulcaniche questi valori possono salire a diverse centinaia di Bequerel, fino a quindici volte al di là del limite tollerabile; ma anche in Lombardia e in Friuli si registrano valori superiori alla media (90-120 Bq/m cubo) e per trovarne al di sotto bisogna spostarsi in Basilicata o in Liguria (30 Bq/m cubo). Le case costruite nel periodo umbertino a Roma, le residenze papali di Viterbo o le abitazioni della Campania possono registrare valori molto pericolosi di radon indoor. Finora molto si è discusso di questo inquinamento, determinato dal rilascio di radioattività naturale dalla muratura di alcune abitazioni composte di rocce vulcaniche. I prodotti eruttati dai grandi apparati vulcanici tirrenici hanno carattere particolarmente favorevole al rilascio del radon: alto contenuto in uranio (e quindi di radio) e elevata porosità che facilitano flussi elevati. Inodore, insapore e incolore il radon ristagna facilmente negli ambienti chiusi non aerati (non a caso nelle miniere il problema fu inizialmente gravissimo). Ma si è dimenticato che quell'accumulo dipende essenzialmente dal contesto geologico in cui si abita o si lavora, particolarmente ai piani più bassi, dove il legame con il flusso superficiale al suolo è strettissimo. Il Centro di studio per il quaternario e l'evoluzione ambientale del Cnr di Roma ha messo a fuoco proprio questo aspetto e ha articolato in 5 fasi uno studio che dovrebbe contribuire a ridurre il rischio causato dal radon. Si tratta in primo luogo di studi di natura geologica, che consentano di individuare e limitare le aree vulcaniche suscettibili di contenere uranio e quindi i suoi prodotti di decadimento. Nel Lazio, per esempio, la Solforata di Pomezia - il luogo dove si manifestava l'oracolo di Fauno ricordato nel VII libro dell'Eneide - presenta rilasci elevati del gas radon che sono attualmente tenuti sotto controllo; una situazione simile si registra all'isola di Vulcano. Il radon indoor, dunque, dipende da quello esterno e direttamente dalla situazione geologica: dove ci sono importanti sistemi di spaccature vicino ad apparati vulcanici è facile che si abbiano rilasci di radon che - è bene ricordarlo - non possono essere impediti in nessun modo (tantomeno suturando le fratture). Dal radon però ci si può difendere conoscendo nel dettaglio il contesto geologico e costruendo meglio. Il limite stabilito dall'Icpr all'interno di abitazioni nuove è 200 Bq/m cubo, mentre in quelle già costruite è di 400 Bq/m cubo. Adeguati sistemi di ricambio dell'aria possono mitigare il rischio, anche se sono meno efficaci per il flusso di radon primario dal sottosuolo. Negli Stati Uniti lo studio e il monitoraggio del radon fanno già parte integrante delle compravendite immobiliari, proprio perché si possono appoggiare su studi di dettaglio che da noi sono ancora in corso. Il riconoscimento delle aree di anomalia termica interessate da grandi faglie e fratture e dei bacini uraniferi, la caratterizzazione geochimica e geotecnica a piccola scala si devono accoppiare necessariamente alle misure dei coefficienti di emanazione caratteristici che consentano di prevedere i flussi, prima di procedere alle misure sul posto dei flussi stessi e alla costruzione di mappe del rischio. La conoscenza delle aree a rischio permetterà di individuare in modo non casuale, ma mirato, le costruzioni che potrebbero contenere elevate concentrazioni di radon, dopo di che avranno maggior senso anche gli interventi tesi ad allontanarlo. Mario Tozzi Mario Voltaggio Cnr, Roma


SCIENZE FISICHE. BIOSPHERE 2 Una Terra in miniatura per capire meglio l'effetto serra Visitiamo in Arizona il più grande laboratorio di ecologia del mondo
Autore: MALUSA' ELIGIO, MARCHESINI AUGUSTO

ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. LA STRUTTURA DI BIOSPHERE 2

UNA domanda che oggi tutti ci poniamo riguarda il clima. Sta cambiando? Con che rapidità? Quale peso ha l'effetto serra sull'ambiente? Quali sono le conseguenze dell'inquinamento atmosferico dovuto all'industrializzazione? A queste e ad altre domande ancora occorre dare una rapida risposta. Allo scopo di accelerare la raccolta dei dati, in Arizona, è stato aperto un laboratorio, denominato ««Biosphere 2»». Il centro di ricerca ha iniziato l'attività scientifica nel 1990. Lo scopo iniziale era quello di creare un ambiente naturale del tutto isolato dal pianeta. Si studiava, tra l'altro, la produzione di ossigeno dai vegetali e di alimenti simulando la situazione in cui verranno a trovarsi gli astronauti durante i futuri viaggi interplanetari. Il progetto non fu completato e dal 1996, sotto la direzione della Columbia University, le serre e i programmi sono stati finalizzati alla creazione del più grande laboratorio di ecologia del mondo. La struttura attuale si sviluppa su una superficie di circa 15 mila metri quadrati, è alta fino a 30 metri ed è isolata dal suolo mediante tubazioni di sostegno e vetri speciali. ««Biosphere 2»» contiene sei diversi ecosistemi terrestri, un'area destinata all'agricoltura intensiva e un ««habitat umano»». Gli ecosistemi riprodotti sono la savana, la boscaglia, il deserto, la palude, la foresta tropicale e l'oceano (sia la sua superficie sia l'ambiente in profondità). La loro disposizione riprende su scala ridotta quanto si riscontra sulla Terra: ad esempio la boscaglia è un settore di passaggio tra savana e deserto. Il sistema palude riproduce l'habitat naturale con un laghetto di acqua dolce che progressivamente diviene più salata. Davvero impressionante è l'oceano, simulato in una struttura alta più di 8 metri che contiene 4 milioni di litri di acqua marina, dove possono essere osservati pesci e coralli. L'habitat umano è stato progettato con l'intento di permettere la vita di dieci persone e al suo interno è dotato di tutti i comfort. Presenta le necessarie dotazioni per la vita urbana, come ad esempio una clinica, un centro di comunicazioni e di monitoraggio di tutti i parametri climatici dei vari ecosistemi e una piccola fabbrica di prodotti alimentari, dove vengono trasformati i raccolti provenienti dall'area destinata all'agricoltura intensiva. In quest'area attualmente si svolgono anche ricerche sulle variazioni climatiche che incidono sulla produzione dei cereali e degli altri vegetali. Una delle serre è utilizzata per verificare gli effetti dell'aumento dell'anidride carbonica sulla crescita delle piante. L'incremento non determina solo condizioni vantaggiose per le piante aumentando la resa fotosintetica, ma produce anche un effetto riducente nel terreno che influenza negativamente la respirazione dell'apparato radicale. Altre ricerche riguardano i principali inquinanti atmosferici presenti nelle città quali monossido di carbonio, ammoniaca e ossidi di azoto che influiscono sulla salute dell'uomo. Al momento attuale popolano ««Biosphere 2»» circa 3000 diverse specie vegetali e animali. Allo scopo di conservare fedelmente gli ecosistemi originali, sono utilizzati sistemi di condizionamento che depurano l'aria e sistemi di purificazione che forniscono acqua potabile, pioggia o nebbia a seconda delle esigenze dei vari habitat. Inoltre, per compensare le variazioni giornaliere della pressione dell'atmosfera interna, sono stati predisposti due ««polmoni»» in cui l'aria può espandersi quando è riscaldata dalla luce solare. L'energia necessaria al funzionamento di tutte le strutture proviene da una centrale elettrica esterna, così come succede per la Terra che attinge energia dal Sole. Le ricerche che si svolgono in ««Biosphere 2»» riguardano anche l'influenza dell'attività umana sui diversi ecosistemi in condizioni sperimentali programmate e riproducibili. Il vantaggio finale di questo laboratorio è legato alla registrazione in continuo di tutti i dati climatici (temperatura, composizione dei gas, tenore di ossigeno disciolto nelle acque in funzione dello sviluppo di microrganismi). L'attività scientifica è seguita anche da studenti che svolgono ricerche di ecologia per la stesura della loro tesi di laurea. E' così assicurata la preparazione di ecologi capaci di affrontare i pericoli che minacciano la società umana del 2000. Augusto Marchesini Eligio Malusà


SCIENZE FISICHE. STORIA DELLA TECNOLOGIA L'età dell'auto elettrica Già cent'anni fa era promettente, ma...
Autore: CLERICI GUIDO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

RICORRONO quest'anno numerosi centenari di invenzioni nel campo elettrotecnico che si collegano al bicentenario dell'invenzione della pila di Volta: qui vorremmo ricordare i veicoli elettrici, che cento anni fa destavano grandi speranze, durate tuttavia un solo decennio per la trionfale avanzata del motore a combustione interna. Negli Stati Uniti da qualche anno correvano diversi veicoli elettrici che si diffondevano nelle grandi città per le doti di affidabilità e pulizia in confronto coi primi veicoli a carburante. La Edison Electric aveva preconizzato che il maggior consumo di energia elettrica sarebbe stato per questo uso. Il capo officina si chiamava Henry Ford; proprio colui che dieci anni dopo avrebbe lanciato il famoso ««modello T»». Nella sua autobiografia ««My life and my work»» scriveva nel 1925: ««Non c'era e non si prevedeva alcun accumulatore sufficientemente leggero per essere utilizzabile sul veicolo elettrico»». Inoltre riportava un colloquio con Edison, che condivideva la previsione che l'elettricità non sarebbe rimasta l'unica fonte di energia per i veicoli stradali. Tuttavia Edison sperava di risolvere il problema con l'accumulatore al ferro-nichel e la signora Ford continuò per alcuni anni ad usare una vetturetta elettrica. A Cleveland, nel 1899 la Baker Motor Vehicle Co., che tuttora produce carrelli elettrici nel gruppo United Technologies, fabbricava piccole vetture ««Runabout»» che circolavano a migliaia e lussuose ««sedan» » a quattro posti più l'autista. Steinmetz, il teorico dei circuiti magnetici, iniziò la sua attività in una di queste fabbriche, contribuendo allo sviluppo dei motori. Anche in Europa c'era l'interesse per queste automobili: a Parigi nel 1898 si tenne una prima competizione cui parteciparono 13 tipi diversi. L'anno dopo, esattamente un secolo fa, per la prima volta un veicolo stradale superava i 100 chilometri all'ora: nel parco di Acheres, su un percorso di 1,6 chilometri fu omologata una velocità di 106,2 km/ora. Questo veicolo, degno di Jules Verne, merita maggiori dettagli. L'ingegner Camille Jenatzy, un belga che a Parigi costruiva taxi elettrici, ebbe l'idea di sfidare ad una gara di velocità il conte Chasseloup Loubat, possessore di una vettura Bollee da 3 litri. Costruì allora un prototipo, la ««Jamais contente»» dalla aerodinamica forma di siluro, ancora visibile al Museo dell'Auto di Compiègne: aveva due motori da 25 kW, direttamente sugli assi delle ruote posteriori, alimentati da una batteria al piombo. Al successo contribuirono i pneumatici Michelin, studiati appositamente con largo battistrada. In Inghilterra, l'Automobile Club inglese aveva fin dal 1898 organizzato un concorso per vetture elettriche. A Vienna, la ditta Lohner iniziò nel 1898 a produrre ««carrozze elettriche»». Il tipo che ricordiamo utilizzava un motore da 7HP alimentato da una batteria al piombo che rappresentava circa la metà del peso totale del veicolo. Il progettista era un giovane tecnico di nome Ferdinand Porsche: prima di dedicarsi al motore a scoppio che lo avrebbe reso celebre, aveva intuito i limiti del sistema e per primo tentò la strada del veicolo ibrido che oggi si sta ripercorrendo. Questo veicolo utilizzava due motori a benzina De Dion Bouton da 3,5 HP e due generatori da 1,8 kW che alimentavano due motori elettrici da 2,5 Cv. Il veicolo pesava 1700 kg e poteva raggiungere i 90 km/ora: si aggiudicò il primo premio alla Esposizione Universale di Parigi del 1900. Nell'anno successivo ne fu decisa la produzione in serie con motori Daimler Benz. La società era costituita da Lohner, Porsche e un industriale di nome Jellinek che aveva una figlia di nome Mercedes. Infatti il nome era ««Mercedes Electric»», e durò solo fino al 1908, ma pose le basi per le glorie future. Anche in Italia non mancarono le iniziative. La Società Italiana Veicoli Elettrici Turrinelli costruiva a Sesto S. Giovanni veicoli industriali e taxi elettrici. Sulla ««Domenica del Corriere»» del 19 luglio 1903, l'illustrazione del pittore Beltrame raffigura il Cardinal Ferrari in visita pastorale sulla sua vettura elettrica guidata dallo stesso Gino Turrinelli. Nei pressi di Torino, ad Alpignano nella fabbrica dove Cruto costruì le prime lampadine elettriche (prima di Edison) la Società ««Dora»» produceva vetture elettriche e anche i loro accumulatori. Da questi appunti di storia della tecnologia, si possono trarre alcune considerazioni per i programmi attuali in questo campo. L'obiettivo dovrebbe essere il miglioramento della qualità della vita nei centri urbani. Ma oggi il confronto avviene con veicoli che hanno raggiunto un alto livello di prestazioni, di affidabilità e che lucrano economie di scala, mentre gli ««elettrici»» possono contare per ora solo su accumulatori al piombo che, anche se migliorati, non offrono energie specifiche sensibilmente superiori al passato. Accumulatori al nichel (cadmio o idruri metallici) o al litio dànno energie specifiche doppie o triple, ma il costo li confina ad applicazioni per l'elettronica portatile. Nuovi sistemi non sono prevedibili entro i prossimi anni. Anche con le esigenze ecologiche attuali, i veicoli elettrici sembrano destinati a occupare nicchie limitate e imposte per legge. In queste nicchie si potrebbero sviluppare i veicoli ibridi, nei quali un accumulatore di minor energia ma di sufficiente potenza viene alimentato da una pila a combustibile o da un motore termico/generatore. Guido Clerici


SCIENZE DELLA VITA. ESPERIMENTI INCORAGGIANTI Primi tentativi per riparare il sistema nervoso In un centro di ricerca di Milano sono stati impiantati neuroni staminali
Autore: ERIDANI SANDRO

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

PER lungo tempo si è ritenuto che le cellule del sistema nervoso centrale non avessero possibilità di ricambio. Negli ultimi anni, tuttavia, si è constatato come si possano generare cellule giovani, capaci di ridare smalto anche ad una funzione perduta. Queste ricerche, condotte su animali, hanno suscitato un enorme interesse. Basti pensare alla possibilità che si intravede di curare, ad esempio, il morbo di Parkinson, il morbo di Alzheimer, la sclerosi multipla. Ma quali sono le basi sperimentali su cui si fondano queste speranze? Anzitutto bisogna identificare quali cellule, nel sistema nervoso, possiedano la capacità di riprodursi e, nel contempo, di differenziarsi nelle varie componenti del sistema meritando il termine di ««cellule staminali»». Bene, sia pure con una certa difficoltà, si è dimostrata anche nel sistema nervoso, l'esistenza di cellule di questo tipo, localizzate in certe zone dell'encefalo, come l'ippocampo: il problema consiste nell'indurre tali cellule a esprimere il loro potenziale, il che non appare tanto semplice. Una nuova possibilità si è aperta con lo studio di cellule ancora più primitive, che si trovano nell'embrione: ricerche condotte anche su colture di provenienza umana hanno permesso ai gruppi di Schublott e Thompson di dimostrare come tali cellule embrionali, opportunamente stimolate, possano dar luogo ad elementi differenziati di ogni tipo, comprese quelle del sistema nervoso. E' possibile addirittura allestire delle ««linee»» cellulari permanenti, da usare come serbatoio da cui attingere gli elementi destinati alla differenziazione. Ecco dunque profilarsi una possibilità che solo alcuni anni fa sembrava fantascientifica: la ripopolazione del sistema nervoso da parte delle cellule giovani, opportunamente orientate. Ciò è stato già ottenuto in vari modelli animali, in cui si erano lesionati determinati tessuti nervosi; dapprima si sono trapiantate cellule già differenziate come quella della glia, ma appare promettente anche l'uso di quelle cellule staminali in coltura prima menzionate e capaci di espandersi in vitro per poi trasformarsi nelle maggiori linee cellulari del sistema nervoso. Risultati significativi sono stati ottenuti recentemente da ricercatori dell'istituto Neurologico ««Besta»» di Milano guidati da Vescovi, che hanno trapiantato con successo in topi cerebrolesi cellule staminali umane, ottenendo non solo il loro attecchimento, ma anche la loro diffusione nel tessuto malato. Il salto alla patologia umana è grande , ma non si può escludere che la disponibilità di cellule nervose primitive possa essere usata per tentare di ripopolare un tessuto nervoso degenerato: ciò potrebbe avvenire anche attraverso un'azione di stimolo per la riattivazione di cellule staminali ««in riposo»» presenti nel malato. I rischi comprendono, fra l'altro, l'eventualità che cellule primitive manipolate in vitro con l'aggiunta di particolari enzimi possano subire un'evoluzione tumorale ma ciò non si è verificato finora, in un periodo di osservazione abbastanza lungo. Sandro Eridani Cnr, Milano


SCIENZE DELLA VITA. TOSSICODIPENDENZA Nelle discoteche ballando con l'Mda C'è una nuova droga, ancora più dannosa dell'ecstasy
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

QUALCHE tempo fa in un camion proveniente dalla Germania apparentemente abbandonato in una corsia di attesa vicino al Passo di Calais i doganieri francesi hanno rinvenuto 400.000 dosi di ecstasy. Si tratta di una delle più potenti (e più spacciate) droghe a base di anfetamina chiamata appunto Mdma (metilendiossimetanfetamina). Tra queste confezioni 60.000 contenevano una nuova generazione di una droga ancor più potente chiamata Mda fabbricata a partire da una molecola di dimetossibromanfetamina (Dob). Dall'inizio del '98 la polizia francese che opera in quel che si chiama ««il boulevard della droga» » (zona tra le Fiandre e il Passo di Calais) in collaborazione con la belga e l'olandese ha requisito quasi un milione di dosi di ecstasy in transito verso la Spagna e l'Inghilterra. La sintesi delle anfetamine fa parte di una catena di produzione ad opera di numerosi piccoli laboratori chimici, vere fabbriche della morte, scoperte a Rotterdam ed in altre città olandesi. I ricercatori basandosi su dati evidenziati in animali di laboratorio hanno predetto che l'effetto dell'ecstasy dovesse essere estremamente localizzato nel cervello umano come in quello dei roditori e delle scimmie trattate con dosi paragonabili a quelle assunte dai tossicomani. Il bersaglio comune sarebbe costituito da quelle cellule nervose che fabbricano la serotonina, un neurotrasmettitore cerebrale che ha un effetto sull'umore (sostanze che aumentano la serotonina hanno un effetto antidepressivo), regolano il sonno e controllano l'attività sessuale. Finora si era potuto documentare questa affermazione solo in modo indiretto misurando nel liquido cefalorachidiano di tossicodipendenti un aumento notevole di una sostanza prodotta dalla stessa serotonina del cervello (l'acido idrossindolacetico). Questo reperto era importante ma non decisivo. Il recente raffinamento di una tecnica quale la tomografia ad emissione di positroni utilizzante un composto radioattivo che si lega selettivamente alle cellule nervose che utilizzano la serotonina (bloccandone il trasporto all'interno della stessa cellula) ha permesso per la prima volta di ««vedere»» direttamente nel cervello dei drogati da ecstasy le conseguenze terribili di tale sostanza. In uno studio riportato in ««Lancet»» proveniente dalla divisione di psichiatria dell'Istituto nazionale della salute mentale (Nimh) del Maryland e dall'Università Johns Hopkins di Baltimora sono stati esaminati 14 giovani individui (nove maschi e cinque femmine) utilizzanti abitualmente ecstasy e che si erano accordati di sospenderne totalmente l'uso per tre settimane. Come gruppo di controllo venivano arruolati 14 giovani della stessa età, del medesimo sesso e livello d'istruzione che non avevano mai usato droghe e che non presentavano i sintomi di malattie psichiatriche. Trascorso il concordato periodo di astinenza, veniva somministrata ad entrambi i gruppi nel corso di un esame Pet una dose della sostanza radioattiva marcante esclusivamente le cellule nervose serotoninergiche del cervello. Veniva poi calcolata zona per zona l'eventuale differenza di effetto tra drogati e controlli. Comparse sullo schermo Pet le varie sezioni del cervello dei drogati, paragonandole a quelle dei non drogati si assisteva ad uno spettacolo drammatico di sterminio selettivo dei neuroni a serotonina. Tale distruzione era globale, diffusa cioè a tutte quelle zone alle quali giungono normalmente le fibre nervose che prendono origine dalle cellule serotoninergiche. Per disgrazia di chi usa l'ecstasy (e altre anfetamine) la rete di fibre nervose serotoninergiche è diffusa praticamente a tutto il cervello. Il danno può essere quindi totale già dopo poche dosi. Confermando ancora una volta l'utilità dell'uso di animali in esperimenti di farmacologia nei quali non può essere usato l'uomo, la distribuzione e la gravità dei danni era analoga nei babbuini iniettati con ecstasy e nei drogati sottoposti alla sostanza radioattiva marcante. L'unico dubbio lasciato dallo studio è il fatto che gli individui tossicodipendenti che fanno uso di ecstasy utilizzano spesso anche la marijuana. Le due droghe assunte contemporaneamente potrebbero aumentare il danno totale. Non si constatarono pertanto differenze tra i due sessi nel grado e nella distribuzione del danno al tessuto cerebrale. Il tragico sacrificio di milioni di cellule serotoninergiche dimostrato direttamente col Pet e causato dall'effetto dell'ecstasy (uno dei prodotti più venduti in discoteca in Italia) corrisponde molto bene ai sintomi riscontrati in chi ne fa uso. I sintomi sono rappresentati da stati depressivi più o meno profondi (che possono talvolta portare al suicidio), stati d'anzia insopprimibili, disturbi della memoria (danni al rendimento scolastico), della concentrazione e dei riflessi (gravi incidenti d'auto notturni), facilità alla violenza (risse e episodi di aggressione) che assieme ad altri sintomi psichiatrici sono caratteristici degli stati di intossicazione nei quali è principalmente implicata la serotonina. Ezio Giacobini


SCIENZE DELLA VITA. ETOLOGIA Il canto delle balene nasconde una lezione
Autore: D'UDINE BRUNO

ARGOMENTI: ETOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

L'attenzione per i meccanismi dell'evoluzione biologica contrassegnati da fattori comportamentali e culturali si è rivolta allo studio di alcune specie di balene. Una ricerca recente di un biologo canadese sottolinea come ciò che una madre insegna ai suoi piccoli possa alterarne il corso evolutivo. Un tratto culturalmente appreso dà quindi un vantaggio selettivo potenziale ai membri del gruppo. E' qui necessaria una definizione operativa di cultura in un contesto animale. La si può definire come una serie di comportamenti che vengono appresi e trasmessi da una generazione all'altra od anche come un'informazione che causa variazioni nel comportamento, appresa dai conspecifici per imitazione o apprendimento. La forma più chiara di trasmissione culturale nei cetacei riguarda le vocalizzazioni. I cetacei sono tra i pochi mammiferi, a parte l'uomo, noti per l'apprendimento vocale e quindi per le potenzialità dei loro repertori acustici acquisiti. Lo studioso canadese ha rilevato che alcune specie di balene vivono in gruppi matrilineari occupanti medesime zone geografiche. Un gruppo matrilineare si costituisce con madri e figlie che trascorrono assieme la vita. Tali gruppi tendono a segregarsi mediante l'uso di distinti dialetti locali, acquisiti culturalmente. Il dato più affascinante, emerso da indagini di genetica molecolare eseguite su queste balene, è la correlazione tra dialetto e struttura del Dna mitocondriale degli individui del gruppo. I mitocondri sono strutture cellulari devolute alla produzione di energia che vengono ereditate solo dalla madre. Poiché è praticamente impossibile che il Dna mitocondriale possa codificare un pattern sonoro complesso, l'unica ipotesi è che la correlazione osservata sia dovuta alla trasmissione culturale dalle madri alle figlie. L'analisi del Dna mitocondriale nelle tre specie di balene esaminate riserva però un'ulteriore sorpresa. La variabilità genetica in queste specie matrilineari è meno del 20% rispetto a quelle di altre specie di balene o di delfini. Simulando, mediante un computer, una sequenza evolutiva il ricercatore ha visto che tale perdita di variabilità può avvenire, nei tempi accelerati di sole duecento generazioni, se si ipotizza un 10% di vantaggio riproduttivo determinato dall'apprendimento culturale. Un'idea migliore su come evitare la predazione, o migrare verso fondali più ricchi di cibo, può essere insegnata vocalmente dalle madri determinando così l'acquisizione rapida di vantaggi selettivi per il gruppo. L'apparente ruolo significativo dell'eredità culturale tra i cetacei, confrontati con i mammiferi terrestri, ad eccezione ovviamente dell'uomo, può essersi determinato principalmente per differenze ambientali. Comparando l'oceano con la maggior parte degli ambienti terrestri è chiaro come i mari possano sostenere strutture corporee molto più grandi e presentino bassi costi energetici per il movimento. Comportamento e struttura sociale dei cetacei sembrano quindi essere evoluti in un contesto dagli aspetti peculiari comprendente, tra l'altro, ampi territori di alimentazione, mancanza di territorialità e un medium, l'acqua, favorevole all'apprendimento sonoro. Nel caso delle balene a struttura sociale matrilineare la trasmissione culturale può infine costituire un'ulteriore, vantaggiosa, specificità. La complessità sonora del mondo dei cetacei ci riserva altre sorprese. Un'altra specie di balene, studiata di recente, presenta emissioni sonore molto più complesse di quanto prima ipotizzato da chi ha esaminato la ««grammatica»» delle loro emissioni sonore, alla luce della teoria dell'informazione. La teoria dell'informazione, ridotta all'essenziale, è un modo per misurare la quantità di informazione contenuta in un flusso di simboli attraverso l'entropia del flusso stesso o la sua imprevedibilità. Un aspetto cruciale è che meno prevedibile è la sequenza dei simboli più alta è l'informazione contenuta. Si è osservato che i canti analizzati delle balene cambiano, lentamente, nel corso delle stagioni. Sviluppano temi differenti ma ripetuti con ordine regolare; alcuni decadono, altri sono modificati, altri aggiunti. Si costituiscono però sempre in sequenze di suoni o fraseggi sonori prevedibili. Sono state anche misurate le variazioni dei canti come, ad esempio, i cambi di frequenza. Queste sequenze sono state trasformate in una serie di simboli rappresentanti i differenti temi. Successivamente è stata misurata l'entropia delle sequenze. I dati preliminari indicano che l'entropia delle emissioni sonore, ««i canti»», delle balene va nella direzione dell'esistenza di una grammatica gerarchica; ossia si verifica la condizione in cui un suono viene variato rispetto ad un altro suono abbastanza lontano nella sequenza sonora complessiva. Questa struttura mostra analogie formali con linguaggi umani dove una parola alla fine di una frase è grammaticalmente correlata, in modo significativo, ad una prima parola. Bruno D'Udine Università di Udine


SCIENZE FISICHE. TRENT'ANNI DALLO SBARCO Le colonie lunari tappa per Marte
Autore: GUIDONI UMBERTO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA

ORMAI l'avventura spaziale è diventata routine: quando lo Shuttle è in orbita con gli astronauti impegnati ad effettuare importanti esperimenti scientifici, la notizia finisce in coda ai telegiornali. Non era così trent'anni fa la, la notte in cui l'uomo, per la prima volta, mise piede sulla Luna. Era 1969. Fino a poco prima, lo spazio era stato solo il sogno di uno sparuto gruppo di ingegneri, impegnati a costruire macchine che sembravano sfidare la legge di gravità e di un nucleo, ancor più ristretto, di uomini coraggiosi che quelle macchine desideravano pilotarle per spingersi dove nessun essere vivente era mai stato prima. L'intera vicenda era rimasta confinata fra le pianure dell'Alabama e le paludi della Florida: tra il Marshall Space Center, dove Wernher von Braun andava realizzando vettori sempre piùù potenti, e Cape Canaveral, primo spazioporto da cui spiccare il balzo verso l'ignoto. Quel decennio era stato caratterizzato soprattutto dalla guerra fredda, dal confronto tra blocchi contapposti e dalla minaccia di un devastante conflitto nucleare. La corsa allo spazio non poteva sfuggire al clima generale: ogni nuovo primato spaziale veniva percepito come una vittoria politica. Il volo orbitale di Gagarin aveva messo in discussione la supremazia della tecnologia americana. Nel maggio 1961 John F. Kennedy aveva rilanciato la sfida americana dicendo davanti al Congresso: ««Prima che il decennio si chiuda, questa nazione sarà in grado di far atterrare esseri umani sulla Luna e di riportarli sani e salvi sulla Terra»». Era il via ufficiale al programma Apollo, la corsa verso la Luna era incominciata e la contrapposizione fra le due superpotenze rischiava di estendersi ben oltre i confini della Terra. Eppure in quel 20 luglio - alle 15,18 ora di Houston - senza distinzione di appartenenza all'uno o all'altro blocco, il mondo intero si fermò, con il fiato sospeso, a guardare Neil Armstrong ed Edwin (" Buzz") Aldrin che mettevano piede sul suolo lunare. Per un istante, miliardi di uomini e donne, sul nostro pianeta, furono accomunati dalla consapevolezza che un sogno, vecchio come l'umanità, si era finalmente realizzato: la specie umana aveva spiccato il primo balzo verso un altro corpo celeste! Oggi dell'epopea della Luna restano tre "Saturn V"- giganteschi razzi alti più di trenta piani - che fanno bella mostra di sè in altrettante basi della Nasa. Erano i vettori destinati ad effettuare le altre missioni lunari che furono cancellate, all'improvviso, per mancanza di fondi. Quei giganti, costruiti per toccare il suolo di un altro mondo, e finiti sdraiati su un prato, a fare da sfondo alle foto dei turisti, sembrano ammonire che anche i sogni più affascinanti debbono fare i conti con la realtà: vinta la corsa con il nemico sovietico, gli Stati Uniti, alle prese con il dramma della guerra del Vietnam, non avevano più risorse da destinare alla conquista dello spazio. Un sogno sfumato per sempre? Forse solo rimandato... A trent'anni di distanza, si torna a parlare di missioni verso la Luna ma in uno scenario profondamente cambiato: la contrapposizione fra Russia e Stati Uniti è finita e l'attività spaziale avviene in un clima di cooperazione. Ne è simbolo la realizzazione di un altro grande progetto: la Stazione Spaziale Internazionale, frutto della collaborazione di 16 Paesi. Non è difficile prevedere che anche le future missioni lunari saranno condotte in una cornice internazionale, con equipaggi formati da astronauti provenienti da paesi diversi. Almeno tre agenzie spaziali hanno espresso interesse per l'esplorazione della Luna: oltre alla Nasa, la giapponese Nasda e l'Agenzia Spaziale Europea (Esa). E' interessante notare come si stia creando, presso il Johnson Space Center di Houston, un vero e proprio nucleo di astronauti internazionali che si addestrano per volare a bordo dello Shuttle e della Space Station ma che, come il sottoscritto, sarebbero ben lieti di riconvertirsi ad una missione sulla Luna. Un altro elemento di differenza è di tipo economico. Il nuovo programma di esplorazione lunare non disporrà di un credito illimitato, come nel caso dell'Apollo, ma dovrà fare i conti con i fondi che la Nasa e le altre agenzie ricevono dai rispettivi governi. Il terzo punto di differenza e, per molti versi, il più importante è che questa volta si torna sulla Luna per restarci. Un programma di esplorazione può essere credibile soltanto se indirizzato a stabilire una base permanente sulla superficie lunare, un avamposto capace di sopravvivere e di crescere usando risorse locali e fornendo servizi da utilizzare direttamente nello spazio e anche sulla Terra. In questo quadro di riferimento, quali potrebbero essere i tempi di relizzazione? Il nuovo programma di esplorazione lunare non potrebbe iniziare prima del 2005, quando sarà completata la Stazione Spaziale Internazionale. Considerando cinque anni per lo sviluppo delle infrastrutture necessarie a garantire il successo della missione, il primo equipaggio potrebbe mettere piede sulla Luna entro la fine del primo decennio del prossimo secolo. Per quella data, diverse missioni robotizzate dovrebbero aver fornito i dati necessari per la localizzazione del primo insediamento umano sulla Luna e le tecnologie fondamentali dovrebbero essere ormai mature. Tra i passaggi chiave della fase di preparazione, c'è lo sviluppo di un nuovo veicolo per i viaggi di trasferimento Terra-Luna e ritorno. A differenza del programma Apollo, questo veicolo dovrebbe essere riutilizzabile e capace di rifornirsi in orbita, attraccando alla Stazione Spaziale. Un altro aspetto essenziale sarà la realizzazione di un habitat per la permanenza dei primi esploratori sul suolo lunare. La Space Station potrebbe essere utilizzata come banco di prova: si potrebbe provare il modulo abitativo progettato per la Luna in orbita terrestre, come un modulo aggiuntivo della Stazione. Ci sono studi di ogni tipo per i primi insediamenti umani sul nostro satellite: si va dalle proposte che disegnano scenari simili a quelli delle missioni Apollo a progetti faraonici come la proposta, di una ditta giapponese, di realizzare un albergo sulla Luna. Ragionevolmente la colonizzazione lunare dovrà passare attraverso diverse fasi e non si può escludere, a priori, il suo sfruttamento per il turismo di massa; prima, però, bisognerà dimostrare la capacità di mantenere una presenza umana sulla Luna. In questo senso appaiono più realistici i progetti per costruire, sulla superficie lunare, laboratori scientifici e osservatori astronomici che potrebbero trarre vantaggio dalla ridotta gravità - un sesto di quella terrestre - e dall'assenza di atmosfera. Sembra proprio che l'esplorazione della Luna, iniziata dagli astronauti delle missioni Apollo, potrà essere completata dalle nuove generazioni di astronauti che, tra non molto, torneranno a calpestare il suolo polveroso del nostro satellite. All'alba del nuovo millennio, l'umanità sarà in grado di spingersi sempre più lontano, verso nuovi mondi da colonizzare, non più alla ricerca di nuovi campi di battaglia, ma per migliorare le condizioni di vita sulla Terra. Mentre sono in corso i festeggiamenti per i trent'anni dello sbarco sulla Luna, mi viene da pensare che, con ogni probabilità, il quarantesimo anniversario verrà festeggiato sul posto. Con che cosa brinderanno gli astronauti della prima base internazionale sulla Luna? Umberto Guidoni Astronauta


SCIENZE FISICHE. ASTRONAUTICA Suicidio sulla Luna alla ricerca di acqua
Autore: DI MARTINO MARIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA

IL 31 luglio, pochi giorni dopo il trentesimo anniversario del primo sbarco umano sulla Luna, con una ardita manovra i tecnici della Nasa faranno schiantare la sonda ««Lunar Prospector»» in un cratere vicino al Polo Sud lunare dove non batte mai il Sole. L'impatto della sonda avverrà ad una velocità di 4700 km/h e se al di sotto di uno strato di ««regolite»» spesso una cinquantina di centimetri esiste davvero del ghiaccio d'acqua, l'energia liberata nell'urto dovrebbe vaporizzarne una ventina di chilogrammi e generare una nube visibile con il telescopio spaziale ««Hubble»» e con i più potenti strumenti disponibili a terra. I piani per il ««suicidio»» della sonda prevedono di utilizzare il propellente rimasto a bordo per innalzare la sua quota dagli attuali 30 km a 200 km, ridurre la sua velocità orbitale e provocare quindi la collisione alle ore 11,51 (ora italiana) del 31 luglio. La manovra è molto delicata e presenta numerose difficoltà. L'angolo di impatto rispetto alla superficie lunare sarà di soli 7 gradi e il cratere prescelto, denominato Mawson, ha un diametro di circa 50 km e un bordo sufficientemente alto da far sì che il suo fondo sia permanentemente in ombra, ma abbastanza basso da permettere alla sonda la voluta traiettoria. Le informazioni raccolte con osservazioni radar e con misure effettuate dalla sonda ««Clementine 1»» e dalla stessa ««Lunar Prospector»» suggeriscono che il cratere Mawson deve contenere una elevata abbondanza di ghiaccio d'acqua. Infine il cratere è osservabile da terra al momento dell'impatto. La rilevazione di vapor d'acqua, o di suoi sottoprodotti come l'ossidrile (OH), fornirebbe la prova inequivocabile della presenza di ghiaccio d'acqua sul suolo lunare. Ma anche nel caso queste osservazioni risultassero negative ciò non significherebbe che il ghiaccio d'acqua non è presente. La sonda infatti potrebbe mancare il bersaglio e cadere in una zona illuminata dal Sole, oppure l'energia di impatto potrebbe essere insufficiente a liberare una quantità di vapor d'acqua osservabile da terra. Si stima che le probabilità di successo siano circa del 10 per cento, ma se si avesse la conferma definitiva dell'esistenza di acqua sul nostro satellite le prospettive di una sua futura colonizzazione da parte dell'uomo riceverebbero sicuramente un fortissimo impulso. ««Lunar Prospector»» è stata la seconda missione della serie ««Discovery»», un programma della Nasa che si ripromette di inviare nello spazio sonde interplanetarie di basso costo (meno di 150 milioni di dollari), di rapido sviluppo (circa 3 anni) e con cadenza praticamente annuale. La sonda ha la forma di un ciclindro alto 1,5 metri e del diametro di 1,2 metri, pesa poco meno di 300 kg. Il suo carico scientifico è costituito da sei strumenti che hanno funzionato perfettamente per tutto il corso della missione e le cui osservazioni ci hanno permesso di avere una nuova visione della Luna, che dalla fine delle missioni umane dei primi Anni 70 era praticamente stata trascurata dalle esplorazioni spaziali. Grazie a ««Lunar Prospector»» disponiamo adesso di una completa mappa dei componenti della superficie lunare. Sono stati rilevati forti campi magnetici localizzati in certe aree, mentre il campo generale è debole, se confrontato con quello della maggior parte dei pianeti. Si pensa che i campi magnetici locali, distribuiti a macchia di leopardo, siano stati formati, come anche dimostrato in esperimenti di laboratorio, dall'impatto di asteroidi e comete che nel corso di miliardi di anni hanno bombardato la superficie lunare. Le accurate misure gravimetriche hanno permesso di scoprire sette nuove concentrazioni di massa, denominate in gergo Mascon (Mass concentration), tre sulla faccia rivolta alla Terra e quattro su quella nascosta. Ma i risultati più notevoli sono stati la scoperta che la Luna possiede un piccolo nucleo metallico di circa 500 km di diametro, che confermerebbe la teoria della sua origine a seguito di un impatto titanico che coinvolse la Terra poco dopo la sua formazione, e la quasi certa esistenza di ghiaccio d'acqua all'interno di alcuni crateri situati nelle regioni polari, il cui fondo non è mai illuminato dalla luce solare. La presenza di ghiaccio d'acqua è stata dedotta dall'osservazione di elevate quantità di idrogeno in corrispondenza dei poli lunari. Secondo le più recenti stime si tratterebbe di una quantità pari a circa sei miliardi di tonnellate sepolte sotto un sottile strato di polveri e detriti rocciosi. Mario Di Martino Osservatorio di Torino


SCIENZE FISICHE. ESPERIMENTO NASA L'eclisse modifica la gravitazione? L'11 agosto si verificherà una ipotesi alquanto dubbia
Autore: BONANNI AMERICO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

IL pendolo di Foucault, il vincitore di un premio Nobel e un improbabile mistero vecchio di quasi cinquanta anni. Sono i tre ingredienti di una vicenda piuttosto insolita destinata a movimentare la prossima eclissi di Sole, il tutto sotto l'autorevole supervisione del Centro di ricerche Marshall della Nasa. La posta in gioco è decisamente alta (anche se saranno in pochi a scommetterci): l'eventualità di dover ripensare le leggi della gravitazione. La storia inizia negli anni '50 a seguito di alcuni esperimenti del francese Maurice Allais, che avrebbe poi vinto il Nobel nel 1988. In un articolo comparso sulla rivista ««Aero/Space engineering»», Allais sostenne di aver notato un comportamento anomalo in un pendolo di Foucault durante due eclissi solari, nel 1954 e nel 1959. Può stupire che queste osservazioni siano praticamente sconosciute, nonostante l'autore le abbia ricordate durante il suo discorso alla cerimonia del Nobel. Il fatto è che il protagonista della vicenda ha vinto sì il celebre premio, ma non per la fisica, bensì per l'economia. Alla Nasa non si sono fatti troppi problemi, e hanno deciso che valeva la pena di indagare. Così durante l'eclissi dell'11 agosto l'ente spaziale americano userà alcune delle sue attrezzature più sofisticate per mettere alla prova quelle affermazioni. Economista di mestiere, Maurice Allais era considerato da molti anche un serio ricercatore in fisica, al punto da vincere due riconoscimenti in questa disciplina. La sua preoccupazione più importante, quando non creava modelli economici, era unificare in qualche modo la forza gravitazionale e quella elettromagnetica, una questione ben lontana dall'essere risolta anche oggi. Per portare avanti le sue ricerche Allais costruì un certo numero di pendoli di Foucault, strumenti celebri per aver fornito la prima prova non astronomica della rotazione terrestre. Una volta messo in movimento, infatti, il piano di oscillazione del pendolo rimane fermo, mentre la Terra ruota sotto di esso con un effetto estremamente spettacolare per chi osserva. E' importante considerare che in questo meccanismo la forza gravitazionale e l'inerzia giocano ruoli fondamentali, da qui l'interesse del ricercatore francese. Allais costruì pendoli di materiali diversi che fece muovere sotto l'influenza di campi magnetici, ma non riuscì mai ad osservare alcun rapporto tra le forze elettromagnetiche e quelle gravitazionali, come invece sperava. Però nel corso delle due eclissi già ricordate il suo pendolo sembrò comportarsi in modo insolito. Escluse tutte le possibili fonti di disturbo (effetti di marea dovuti alla Luna e al Sole, vibrazioni nella struttura del pendolo e così via), ciò che restava era un fenomeno ««assolutamente inspiegabile - come commentò lui stesso - nell'ambito delle attuali teorie sulla gravità»». ««Che qualcosa di strano possa accadere al pendolo di Foucault durante una eclissi solare - dice David Noever, uno degli scienziati Nasa coinvolti nell'esperimento di verifica - è veramente difficile da credere. Perché mai la gravità dovrebbe comportarsi in modo diverso proprio in quei momenti? Dopo tutto il Sole, la Luna e la Terra sono allineati allo stesso modo ad ogni luna nuova. L'eclissi ha solo la caratteristica di un allineamento più preciso". Circondato da comprensibile scetticismo, l'esperimento sarà condotto in Alabama usando un gravitometro di altissima precisione al posto del pendolo. ««Se i disturbi osservati da Allais sono reali - continua Noever - saremo certamente in grado di misurarli con estrema accuratezza»». Per ampliare ancora di più i rilevamenti, i ricercatori del Marshall sperano di coinvolgere anche scienziati che abbiano la possibilità di usare uno dei tanti pendoli di Foucault esistenti. In tutto si contano circa 60 grandi pendoli in musei o palazzi, ma a questi vanno aggiunti anche quelli amatoriali, qualche migliaio. Insomma, una vera e propria rete planetaria che l'11 agosto potrebbe funzionare in sincronia per l'ennesimo, probabilmente ingenuo, tentativo di sfidare Newton ed Einstein. Vista la relativa semplicità del Pendolo di Foucault, qualcuno potrebbe essere interessato a costruirsene uno. Informazioni e istruzioni specifiche per dilettanti possono essere trovate sul sito Internet del Franklin Institute Science Museum: http://sln.fi. edu/tfi/exhibits/mechanic.html Americo Bonanni




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