TUTTOSCIENZE 16 giugno 99


RICERCA L'auto del futuro dialogherà con la strada Obiettivi: sicurezza totale, emissioni zero, minimi consumi
AUTORE: RIOLFO GIANCARLO
ARGOMENTI: TRASPORTI
ORGANIZZAZIONI: CENTRO RICERCHE FIAT, FIAT
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, TO, TORINO
NOTE: I CENTO ANNI DELLA FIAT TECNOLOGIA, AUTO, INDUSTRIA

UN veicolo da film di fantascienza. Così negli Anni 50 e 60 si immaginava l'auto del Duemila: mossa da una turbina d'aereo, con la carrozzeria a metà tra il jet e il razzo interplanetario. E c'era chi ipotizzava addirittura vetture capaci di sollevarsi per aria. Al Duemila mancano ormai pochi mesi. Le automobili continuano a correre con le ruote ben attaccate all'asfalto, di turbine non si sente più parlare da trent'anni e si viaggia sempre con un motore a pistoni. Eppure la tecnica ne ha fatta di strada, compiendo enormi progressi sul piano della sicurezza, dei consumi e della compatibilità ambientale. Grazie al controllo elettronico dell'alimentazione e al convertitore catalitico, dieci auto di oggi inquinano meno di una sola vettura del 1990 (ce ne vorrebbero addirittura cento, se si prendesse come riferimento un modello del 1960). A spingere il progresso provvedono la concorrenza tra i costruttori e le leggi. Con l'Unione Europea che si è posta per il 2008 obiettivi ambiziosi: riduzione del 95 per cento delle emissioni, del 30 per cento dei consumi e del 45 per cento delle vittime della strada. Come sarà, dunque, l'auto di domani? Ecco alcune delle innovazioni allo studio presso il Centro Ricerche Fiat, in parte presenti alla mostra ««Fiat, 100 anni di industria»». Iniziamo dai motori. Per ridurre ulteriormente le emissioni dei propulsori a benzina, la strada è quella dell'iniezione diretta del carburante nella camera di scoppio. Un ulteriore miglioramento si potrà avere attraverso il controllo completamente elettronico e flessibile delle valvole d'aspirazione e di scarico. Quanto ai diesel, dopo il rivoluzionario impianto d'iniezione diretta Unijet-common rail, ideato dalla Fiat e prodotto dalla Bosch, il Crf e la Magneti Marelli hanno messo a punto la centralina elettronica Multijet, brevettata in tutto il mondo, che permetterà una velocità d'iniezione superiore di due ordini di grandezza rispetto ai sistemi attuali. Per i consumi, il traguardo è tre litri per cento chilometri per le auto della classe Fiat Bravo, senza rinunciare a prestazioni e comfort. Oltre che sul motore, occorrerà intervenire su peso della vettura, aerodinamica e pneumatici. Un contributo può venire dal cambio robotizzato, che consente non solo passaggi di marcia più rapidi senza sollecitare la frizione, ma anche consumi inferiori del cinque per cento rispetto ai cambi tradizionali e del 15 nei confronti delle trasmissioni automatiche. Sempre per migliorare il rendimento energetico, il Centro Ricerche Fiat ha messo a punto un dispositivo, collocato tra propulsore e cambio, che svolge la funzione di motorino d'avviamento e alternatore. Il sistema consente inoltre di recuperare energia cinetica trasformandola in corrente elettrica e, viceversa, di fornire potenza aggiuntiva in accelerazione. Nei prossimi anni, il 10 per cento dei nuovi veicoli sarà a minimo impatto ambientale. Per esempio, a metano, combustibile economico e soprattutto pulito: non è tossico, non contiene sostanze nocive, brucia senza produrre fuliggine. Quanto all'auto elettrica, dopo un inizio promettente (la prima vettura a superare i cento all'ora nel 1899 era mossa da batterie), ha avuto sinora scarso successo, essendo fortemente penalizzata come prestazioni e autonomia. La ragione è semplice: un litro di benzina contiene la stessa energia di un accumulatore di 50 chili. L'auto elettrica è, però, l'unica a emissioni zero: una carta vincente per l'impiego nei centri urbani. Mentre la ricerca punta su nuovi tipi di batterie, più leggere ed efficienti di quelle al piombo, si studiano anche le pile a combustibile, da tempo utilizzate sulle navicelle spaziali. Molto più promettente (e già pronta per essere lanciata sul mercato) appare la tecnologia dei veicoli a propulsione ibrida, dotati, cioè, di motore termico ed elettrico, quest'ultimo da impiegare in città. Accanto alla difesa dell'ambiente, in primo piano c'è la sicurezza. Negli ultimi anni si sono fatti passi da gigante. Le auto si sono arricchite di barre anti-intrusione, di airbag frontali e laterali. L'Abs, il dispositivo elettronico che impedisce il bloccaggio delle ruote in frenata, ha avuto un meritato successo ed è ormai disponibile anche sui modelli più economici. E domani? Sono allo studio strutture ad elevato assorbimento d'energia e nuovi sistemi di ritenuta (resta di fondamentale importanza l'uso delle cinture, vero cardine della sicurezza passiva). Ma è sul piano della prevenzione degli incidenti, che il futuro riserverà grandi sorprese. Dopo i sistemi antibloccaggio dei freni, diventeranno di uso generalizzato i dispositivi elettronici di controllo dell'assetto e della trazione, elevando il margine di sicurezza nella guida su fondi con bassa aderenza. Si può facilmente immaginare una rapida diffusione dei sistemi elettronici capaci di aiutare o sostituirsi al guidatore in caso d'emergenza. Tramite telecamere, radar e sensori laser, il computer di bordo può riconoscere gli ostacoli anche nella nebbia più fitta. Se c'è rischio di collisione, avvisa chi siede al volante e, infine, aziona automaticamente i freni, sino al completo arresto dell'auto. Il Centro Ricerche Fiat sta già sperimentando sistemi in grado di riconoscere le corsie e di mantenere la traiettoria del veicolo. Per il momento, lo scopo è evitare le gravi conseguenze che possono avere l'attimo di distrazione o il colpo di sonno, ma è il primo passo verso la guida completamente automatica, che, almeno sulle autostrade, non sembra un obiettivo difficile da raggiungere. Numerosi programmi di studio cercano di sfruttare le potenzialità dell'informatica, della telematica e delle comunicazioni mobili per migliorare la circolazione. Oggi le maggiori case automobilistiche offrono sui molti modelli il ««navigatore»», che tamite mappe digitali e localizzazione satellitare indica il percorso più breve per arrivare a destinazione. Nei prossimi anni questi apparecchi potranno ricevere e trasmettere a loro volta informazioni sul traffico attraverso segnali radio digitali. Il computer di bordo potrà così segnalare pericoli e ingorghi, suggerendo percorsi alternativi. Non solo. L'auto entrerà a far parte di un sistema integrato di gestione informatica del traffico, che permetterà una circolazione più fluida, maggiore sicurezza, con una sensibile riduzione dei consumi e dell'inquinamento. Giancarlo Riolfo


100 ANNI FIAT Sulla frontiera tecnologica Dalla prima vettura del 1899 alla guida satellitare
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: TRASPORTI
PERSONE: AGNELLI GIOVANNI
NOMI: AGNELLI GIOVANNI
ORGANIZZAZIONI: FIAT
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, TO, TORINO
NOTE: I CENTO ANNI DELLA FIAT TECNOLOGIA, AUTO, INDUSTRIA

CI sono primati tecnologici del nostro Paese che pochi conoscono. Nel 1902 una vettura Fiat da 24 cavalli raggiunge i 96 chilometri all'ora: al volante, Vincenzo Lancia. Del 1903 è il primo autocarro Fiat: porta 4 tonnellate. Nello stesso anno l'azienda fondata a Torino l'11 luglio 1899 costruisce il primo motore marino. Nel 1906 un motore Fiat fa staccare i cavalli dai tram. Nel 1908 - cinque anni dopo il primo incerto volo dei fratelli Wright: 36 metri percorsi a 3 metri di quota - la Fiat sviluppa il suo primo motore aeronautico. Nel 1911 il pilota Pietro Bordino supera i 200 chilometri all'ora a bordo di una vettura da 28.000 cc soprannominata ««la belva di Torino»». Nel 1913 Fiat apre una filiale in Russia; già da tempo esporta in America. Poi la cronologia diventa troppo fitta: ogni anno si accumulano primati di autovetture, record aeronautici di quota, autonomia e velocità, record di potenza dei grandi motori per marina. Il primato di velocità per idrovolanti stabilito nel 1934 da Francesco Agello sul lago di Garda con un motore Fiat è tuttora imbattuto. Un salto al presente. Oggi la frontiera passa per l'elettronica e l'infomobilità. L'auto è ormai un computer che con sofisticati attuatori gestisce il propulsore e la meccanica; sistemi anticollisione basati su radar a microonde e a laser stanno arrivando sul mercato; Iveco sviluppa camion a guida automatica dotati di visione artificiale; treni veloci Fiat basati sulla tecnologia dell'assetto variabile corrono su linee inglesi, tedesche e del Nord Europa; FiatAvio è presente sul caccia Eurofighter, in grandi aerei civili e nel più potente razzo oggi disponibile in occidente, l'««Ariane 5»»; Comau realizza sistemi di produzione per tutto il mondo, i trattori New Holland adottano la guida satellitare. Il mercato e gli stabilimenti produttivi vanno dalla Cina all'America Latina, dal Canada all'India. Ecco: la mostra ««Fiat, 100 anni di industria»» racconta la costante presenza della maggiore industria italiana sulla frontiera della tecnologia: il che significa anche raccontare l'evoluzione dei sistemi produttivi, dall'officina artigianale di fine Ottocento alla catena di montaggio, ai robot, fino alla fabbrica integrata, telematica e globalizzata; e di conseguenza significa raccontare la trasformazione della società dalle tute operaie alla nuova figura di un lavoratore ad alto profilo professionale, proiettato in un mondo dove mansioni e stili di vita fanno sfumare le distinzioni di classe. Ma come comunicare una storia così complessa e articolata? Giocando le carte della multimedialità, dello spettacolo, della preziosità dei documenti, dell'evocazione di ricordi attraverso musiche e immagini in sè più efficaci che interi trattati di storia e di sociologia. Ecco qualche esempio. 1) Interattività. Il visitatore, munito di occhiali per la visione in 3D, può progettare estetica e meccanica di una vettura con i potenti computer del videogioco ««Atélier 2000»»; può confrontare la potenza del proprio braccio con quella della prima vettura Fiat, la 4 HP del 1899; può sperimentare su di sè l'effetto giroscopico che sta alla base del funzionamento dei treni ad assetto variabile; può confrontare direttamente i progressi tecnologici che negli ultimi 25 anni hanno reso i camion più ecologici e silenziosi; può fare un'esperienza di guida simulata su un camion dotato del cambio Eurotronic. 2) Tuffo nella storia. In mostra uno dei 4 esemplari esistenti al mondo della prima vettura Fiat, costruita in 26 unità quando in Italia complessivamente circolavano 111 automobili; la vettura da corsa ««Mefistofele»», esemplare unico, che nel 1924 stabilì il primato mondiale di velocità a 235 chilometri all'ora; il camion 18 BL, che motorizzò l'esercito italiano impegnato nella prima guerra mondiale; la Fiat 700, vettura presentata a Musssolini nel 1939 e mai prodotta a causa della seconda guerra mondiale; i motori d'aviazione che conquistarono centinaia di record di quota, di velocità e autonomia dal 1915 al 1940; l'idrovolante da corsa C 29 costruito per la Coppa Schneider 1931 (prestato dall'Aeronautica Militare); i disegni originali e le divertenti caricature di Dante Giacosa (progettista di vetture come la Topolino, la 600, la Nuova 500 e la ««Turbina»»); i documenti di Giuseppe Gabrielli (progettista di 125 aerei, di cui 55 realizzati). 3) Sguardo al futuro. Il visitatore attraversa un segmento di un ««booster»» di ««Ariane 5»», il nuovo razzo europeo capace di portare in orbita 20 tonnellate; scopre le nuove tecnologie che il Centro Ricerche Fiat sta sviluppando per l'auto del futuro; ammira un trattore guidato via satellite, vede all'opera un robot Comau dell'ultima generazione. 4) Tecnologia estrema. E' rappresentata dalla Ferrari di F1 usata da Schumacher nei Gran Premi del Lussemburgo e del Giappone 1998, dal Physics Fluid Module realizzato dal Centro Ricerche Fiat per esperimenti sullo Shuttle della Nasa; dai sofisticati componenti del ««Tornado»» e del nuovo caccia europeo ««Eurofighter 2000»». 5) Divertimento. Alcuni ««pezzi»» avvertono il passaggio del visitatore grazie a un sensore a raggi infrarossi e diffondono musiche d'epoca (il camion 18 BL intona ««La tradotta»», la Topolino ha le vocine del Trio Lescano, dalla ««1500»» esce la voce della giovane Mina che canta ««Nessuno»»); mezzi multimediali presentano in modo spettacolare rari documenti filmati del lavoro in fabbrica e del costume italiano del secolo. 6) Curiosità. L'Atto costitutivo della Fiat; un brevetto conseguito da Giovanni Agnelli nel 1905 per un ««dispositivo di vaporizzazione per motori funzionanti a petrolio e a oli pesanti»»; le biciclette Fiat da diporto e per uso militare (1910-1911); la ricostruzione dell'ambiente di lavoro d'inizio '900. Manca qualcosa? Come organizzatore di questa mostra, so che manca moltissimo. Un secolo di un'industria e l'opera di 850.000 lavoratori sono troppo anche per 4000 metri quadrati. Piero Bianucci


SCIENZE FISICHE TECNOLOGIA & DANZA E il sipario si alzò sulla pila di Volta Sabato a Roma in scena una nuova versione del Ballo Excelsior
Autore: TROMBETTA SERGIO

ARGOMENTI: STORIA SCIENZA
ORGANIZZAZIONI: SIEMENS, TEATRO DELLA TOSSE
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, ROMA

SI incomincia con l'Inquisizione spagnola, si prosegue con un battello a vapore. Seguono, nell'ordine, una locomotiva che corre su un ponte di New York, un piroscafo che solca i mari, Alessandro Volta nel suo laboratorio e l'invenzione della pila, la piazza del telegrafo a Washington, il canale di Suez, il traforo del Cenisio. Non è però un manuale storico sulle scoperte e le invenzioni, ma un balletto: ««Il Gran Ballo Excelsior»». Cioè, in assoluto, il più grande successo della danza italiana di fine 800, replicato senza interruzione sino al 1916, e ripreso, a cavallo dei due secoli, sulle scene di tutto il mondo: da New York, a Parigi a Pietroburgo. Se ne torna a parlare, ora, perché in occasione dei cento anni della propria attività in Italia la Siemens ha commissionato al Teatro della Tosse una nuova versione, non danzata, ma recitata e mimata, che andrà in scena a Roma il 18 giugno: scene di Lele Luzzati; regia di Tonino Conte; partecipazione del soprano Luciana Serra. Per celebrare il terzo millennio, anche la Scala metterà in scena il balletto a dicembre, mentre la versione per bambini delle milanesi Marionette Colla, infittirà le repliche. Proprio alla Scala l'11 gennaio del 1881 ««Il Gran Ballo Excelsior»» vide la luce: tutto è costruito sul contrasto fra le forze dell'Oscurantismo, la Luce e la Civiltà. In quegli anni il governo Depretis, il primo di sinistra dell'Italia unita, ampliava con una legge la base elettorale, introduceva l'istruzione elementare obbligatoria, aboliva, per poco, la tassa sul macinato. In quel 1881, l'anno in cui Verga con i ««Malavoglia»» e Collodi con ««Pinocchio»» raccontarono storie di povertà e fame, Luigi Manzotti, coreografo milanese, già garzone al Verziere, mercato di frutta e verdura, e Romualdo Marenco, nato suddito dei Savoia nel 1841 a Novi Ligure, danno vita a una ««ditta»» di spettacoli ballettistici, ««Excelsior»», ««Amor»» (1886) e ««Sport»» (1897), in cui l'Italia umbertina potesse rispecchiare la propria euforica fiducia nel progresso. Fu un successo clamoroso. Il pubblico si stupiva a vedere in scena Papin o Alessandro Volta. Si entusiasmava alla danza delle ballerine vestite da postine e da abat-jour che inondavano il palcoscenico nel ««quadro»» della piazza del telegrafo di Washington. Si commuoveva all'abbraccio fra minatori italiani e francesi quando a colpi di piccone cadeva l'ultima barriera del traforo. Si scatenava in applausi nell'apoteosi finale, il gran ballo delle nazioni, quando, in uno sventolare di bandiere tricolori, irrompevano le ballerine bersagliere. Furono 103 le repliche nel solo 1881, e il balletto furoreggiò per mezzo mondo, con riprese sino al 1916. Le sorti dell'Excelsior si risollevano nel 1967, quando, dopo l'inondazione di Firenze, il Maggio Musicale lo ripresentò per dare un segnale di fiduca nella ripresa della città. Da allora, pompier, retorico, un po' ridicolo, il balletto è tornato spesso sulle scene: al San Carlo di Napoli, all'Opera di Roma, alla Scala. Oggi non è più un oggetto da esportazione, ma, nel bene e nel male, è stato quanto di meglio l'Italia ha saputo fare nella danza. Sergio Trombetta


SCIENZE FISICHE I due grandi ingegneri del volo Decine di velivoli di successo firmati Rosatelli e Gabrielli
AUTORE: V_RA
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
PERSONE: GABRIELLI GIUSEPPE, ROSATELLI CELESTINO
NOMI: AGNELLI GIUSEPPE, GABRIELLI GIUSEPPE, ROSATELLI CELESTINO
ORGANIZZAZIONI: FIAT, FIAT AVIO
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, TO, TORINO
NOTE: I CENTO ANNI DELLA FIAT INDUSTRIA, AEREI, TRASPORTI, TECNOLOGIA

VERSO la fine della prima guerra mondiale era arrivato alla Sia un nuovo progettista, l'ingegner Celestino Rosatelli; il suo regno in quella che divenne poi la Fiat Aviazione e che nel 1926 acquisì dall'Ansaldo gli stabilimenti ex-Pomilio di corso Francia, durò vent'anni, durante i quali uscì a getto continuo una serie di caccia dalle caratteristici inconfondibili, biplani estremamente maneggevoli firmati con la sigla CR, come il CR1, il CR 20, il CR 30, il CR 32 dalle eccezionali capacità acrobatiche, e infine nel 1939, il CR 42 Falco, di cui furono prodotti 1781 esemplari; dal suo carnet vanno ancora citati almeno il BR 20, bimotore da bombardamento, e un elegante bimotore per 9 passeggeri, il Fiat APR 2, che operò sotto le insegne della Avio Linee Italiane, compagnia posseduta dalla stessa Fiat: con i suoi 410 chilometri l'ora fu uno dei più veloci aerei di linea dell'epoca. La guerra, purtroppo, ne stroncò la carriera. All'inizio degli Anni 30 aveva esordito in Fiat Aviazione un altro progettista di genio, Giuseppa Gabrielli: fu subito impegnato dal senatore Giovanni Agnelli, convinto dell'avvenire del trasporto aereo civile, nella costruzione di una serie di velivoli passeggeri, dal piccolo G 2 da 6 asseggeri al G 18, (18 erano i posti) al G 12 (14 posti); ma si annuncia la guerra e Gabrielli firma anche due caccia che diventranno molto popolari tra i piloti, il G 50 del '35 e il G 55 che è pronto solo nel '42, quando le sorti della guerra sono segnate. Il dopoguerra per l'industria aeronautica fu particolarmente difficile a causa delle pesanti limitazioni imposte dal trattato di pace; la Fiat dovette limitarsi agli addestratori, il G 46, il G 49 e il G 59. La svolta avvenne quando l'Italia ottenne di costruire su licenza il reattore inglese Vampire e quello americano F 86 K. Un'esperienza che consentì a Gabrielli di arrivare al clamoroso exploit del G 91, il caccia a reazione che vinse il concorso della Nato e fu adottato, oltre che dall'Italia, anche da Germania e Portogallo. Seguiranno l'F 104 prodotto su licenza Usa e il geniale biturbina da trasporto G 222, oggi in produzione negli Usa. Nel '70 la Fiat, riservandosi il settore motori, aveva ceduto all'Aeritalia il settore aerei con lo stabilimento di corso Marche e il know how relativo, compreso il piccolo nucleo di ingegneri spaziali guidato dal professor Ernesto Vallerani, che avrebbe poi dato vita all'attuale Alenia Spazio. E siano ai nostri giorni, alle collaborazioni internazionali, al Tornado, all'Amx e all'Eurofigther, di cui è appena iniziata la produzione nello stabilimento Alenia di corso Marche e in quello di Caselle, con i motori costruiti in Fiat Aviazione. Una storia che continua. (v.ra.)


SCIENZE FISICHE DAL PRIMO VOLO (1909) ALL'ERA SPAZIALE Cent'anni di primati dell'aria Torino culla e poi capitale dell'aeronautica
AUTORE: RAVIZZA VITTORIO
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
ORGANIZZAZIONI: FIAT, FIAT AVIO
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, TO, TORINO
NOTE: I CENTO ANNI DELLA FIAT INDUSTRIA, TRASPORTI, AEREI, STORIA

IN un libro pubblicato dalla Sagat per i quarant'anni dell'aeroporto di Caselle, Carlo Moriondo va alla ricerca puntigliosa e divertita dei primati torinesi in campo aviatorio. E ne trova un bel po', anche limitandosi ai tempi eroici dei pionieri: prima donna al mondo a volare (la scultrice Tèrèse Peltier, portata sul suo biplano dall'amico Leon Delagrange durante la trionfale tournèe torinese del 1908); primo italiano (l'onorevole Montù, sempre sul Voisin di Delagrange); primo volo di un aereo made in Italy (quello del triplano di Aristide Faccioli, il 13 gennaio 1909); prima fotografia scattata dal cielo (1910), primo aereo italiano venduto all'estero (un biplano di Faccioli, finito in Russia); il fantastico record di altezza, rimasto a lungo imbattuto, stabilito dall'aerostato Albatros di Luigi Mina e Umberto Piacenza nell'agosto di quello stesso 1909: 9240 metri. In effetti, come documenta la mostra ««Fiat, 100 anni di industria»» aperta al pubblico sabato scorso, Torino, proprio negli anni in cui si avviava a diventare la capitale italiana dell'auto, assumeva una posizione di leader anche in campo aeronautico; due vocazioni con un'unica matrice, il know how accumulato dai tecnici e dalle maestranze subalpine nell'Ottocento nel campo della meccanica; non è un caso che molti costruttori di automobili si cimentino anche con aeroplani o motori aerei, come Chiribiri, Diatto, Darbesio, Spa, Itala, Scat, e che la Fiat fin dal 1907, oltre che auto, cominci a produrre motori aeronautici con l'SA 8/75. Così è quasi scontato che, quando nel 1912 si costituisce un battaglione aviatori, la sede sia a Torino. Ormai si è messo in moto un volano che concentra sotto la Mole un crescendo di iniziative, come la creazione del Laboratorio Aeronautico del Politecnico diretto dal professor Panetti, che resterà la base del sapere aeronautico torinese fino all'attuale era spaziale; o come la costituzione della Direzione tecnica dell'aviazione militare. La prima guerra mondiale fece compiere ai numerosi, piccoli costruttori un formidabile salto di qualità: da artigiani divennero industriali. A Orbassano nacque la Aer che produsse i Caudron, a Condove le Officine Moncenisio costruirono gli Aviatik (così come fece anche la Farina affiancando gli aerei alle carrozzerie per auto), le Officine di Savigliano costruirono i bombardieri ««Caproni CA 33»»; nel 1916 la SIT (Società Italiana Transaerea) allestì un grande stabilimento in corso Peschiera per la costruzione su licenza di Bleriot, Farman e Voisin, e nello stesso anno Ottorino Pomilio, fondò i grandi stabilimenti di corso Francia dai quali durante il conflitto uscirono ben 1200 aerei; in questi stabilimenti, passati successivamente all'Ansaldo, alla Fiat e poi all'Alenia oggi si lavora all'Eurofighter, l'aereo-computer, e a parti importanti della stazione spaziale internazionale. La Fiat entrò nella produzione dei velivoli con i Farman francesi ma ben presto, dopo aver costituito la SIA (Società Italiana di Aviazione) lavorò su progetti propri in un grande stabilimento a Mirafiori raggiungendo, all'inizio del 1918, la fantastica cadenza di 7-8 aerei il giorno. Torinese è anche la prima linea aerea italiana, la Trieste-Venezia-Pavia-Torino creata dalla Sisa, società triestina degli armatori Cosulich. Inaugurata il 1° aprile 1906, era servita da idrovolanti che ammaravano sul Po tra i ponti Isabella e Umberto. Verso la fine del conflitto era arrivato alla Sia un nuovo progettista, l'ingegner Celestino Rosatelli; il suo regno in quella che divenne poi la Fiat Aviazione e che nel 1926 acquisì dall'Ansaldo gli stabilimenti ex-Pomilio di corso Francia, durò vent'anni, durante i quali uscì a getto continuo una serie di caccia dalle caratteristici inconfondibili, biplani estremamente maneggevoli firmati con la sigla CR, come il CR1, il CR 20, il CR 30, il CR 32 dalle eccezionali capacità acrobatiche, e infine nel 1939, il CR 42 Falco, di cui furono prodotti 1781 esemplari; dal suo carnet vanno ancora citati almeno il BR 20 bimotore da bombardamento, e un elegante bimotore per 9 passeggeri, il Fiat APR 2, che operò sotto le insegne della Avio Linee Italiane, compagnia posseduta dalla stessa Fiat, e che con i suoi 410 chilometri l'ora fu uno dei più veloci aerei di linea del momento. Prima dello scoppio della guerra esordì in Fiat Aviazione un altro progettista di genio, Giuseppa Gabrielli, arrivato nel '30 e subito impegnato dal senatore Giovanni Agnelli, convinto dell'avvenire del trasporto aereo civile, nella costruzione di velivoli passeggeri, dal piccolo G 2 da 6 asseggeri al G 18, (18 erano i posti) al G 12 (14 posti); ma si annuncia la guerra e Gabrielli firma anche due caccia che diventranno molto popolari tra i piloti, il G 50 del '35 e il G 55, realizzato nel che è pronto nel '42. Il dopoguerra per l'industria aeronautica fu particolarmente difficile a causa delle pesanti limitazioni imposte dal trattato di pace; la Fiat dovette limitarsi agli addestratori, il G 46, il G 49 e il G 59. La svolta avvenne quando l'Italia ottenne di costruire su licenza il reattore inglese Vampire e quello americano F 86 K. Un'esperienza che consentì a Gabrielli di arrivare al clamoroso exploit del G 91, il caccia a reazione che vinse il concorso della Nato e fu adottato, oltre che dall'Italia, anche da Germania e Portogallo. Seguiranno l'F 104 prodotto su licenza Usa e il geniale biturbina da trasporto G 222. Nel '70 la Fiat, riservandosi il settore motori, aveva ceduto all'Aeritalia il settore aerei con lo stabilimento di corso Marche con il piccolo nucleo di ingegneri spaziali guidato dal professor Ernesto Vallerani, che avrebbe poi dato vita all'attuale Alenia Spazio. E siano ai nostri giorni, alle collaborazioni internazionali, al Tornado, all'Amx e all'Eurofigther. Una storia che continua. Vittorio Ravizza


SCIENZE FISICHE Lavoro in fabbrica, le tre rivoluzioni Officina artigiana, linea di montaggio e robot
AUTORE: RAVIZZA PAOLA
ARGOMENTI: TECNOLOGIA
NOMI: AGNELLI GIOVANNI
ORGANIZZAZIONI: FIAT
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, TO, TORINO
NOTE: I CENTO ANNI DELLA FIAT INDUSTRIA, AUTO, DIPENDENTI, LAVORO, STORIA

BASTAVANO sette tram per portare a casa tutti gli operai della Fiat: così un pioniere degli stabilimenti di corso Dante sintetizzava la forza lavoro dell'azienda torinese nel 1900. La Fiat degli esordi è diretta con piglio militaresco e strutturata in modo gerarchico. Vi lavorano 150 artigiani scelti per abilità manuale e competenze specifiche. Nelle officine di corso Dante, la logistica è approssimativa: nello stesso comparto si trovano i telai industriali e quelli delle vetture da corsa; i pezzi da assemblare fanno lunghi viaggi su carrelli per andare da un capo all'altro dello stabilimento. Frammenti di questa officina artigianale, e poi della catena di montaggio e della fabbrica robotizzata sono ricostruiti lungo il percorso della mostra ««Fiat, 100 anni di industria»» (Torino, via Chiabrera 20), che oltre al prodotto documenta anche un secolo di sistemi di produzione. Razionalizzare il flusso di lavoro è l'imperativo che domina il mondo industriale degli Anni Venti. Lo fa suo il senatore Agnelli, che apre le porte della Fiat alle regole scientifiche del taylorismo e del fordismo. ««Move the metal»» diceva Henry Ford. ««Mantenere ogni cosa in movimento e portare il lavoro alla maestranza non la maestranza al lavoro»». Su questi presupposti incomincia l'era della linea di montaggio e della meccanizzazione del lavoro, e con essa la riorganizzazione degli spazi in officina. I cambiamenti sono tali che è necessario costruire uno stabilimento nuovo, più razionale e ripartito a seconda delle lavorazioni. Nasce il Lingotto. E' inaugurato nel 1916, ha cinque piani e una pista sul tetto. Marinetti lo definisce ««la prima invenzione costruttiva futurista»». La lavorazione delle parti dell'auto è divisa per piano e ogni reparto è identificato con un numero e una lettera. La meccanizzazione delle operazioni in fabbrica dilaga: il lavoro si semplifica e l'azienda non cerca più artigiani, ma semplici operai. Alla fine degli Anni Trenta, lo stabilimento produce quasi trecento auto al giorno, una quantità che non sta più dietro alle richieste del mercato. L'auto di massa è alle porte. Per poterla costruire ci vuole uno stabilimento più grande. Mirafiori arriva nel 1939. E' una grande fabbrica organizzata sul principio del coordinamento delle linee di montaggio. Tra gli Anni Cinquanta e Sessanta accoglie le prime automazioni: linee di montaggio ad alta cadenza, lavorazioni a trasferta, cioè impianti composti da più macchine utensili disposte in sequenza, convogliatori chilometrici che trasportano i pezzi alle linee. La struttura e il flusso del lavoro non sono più verticali ma orizzontali. I robot arrivano dieci anni dopo e cambieranno la fisionomia della fabbrica perché introducono il concetto di automazione flessibile. Sono macchine che si muovono secondo la sequenza calcolata nei programmi di istruzioni e manipolano gli oggetti attraverso un braccio meccanico. Uno di essi, il Robogate (un impianto costituito da numerosi robot che assemblano la scocca), è entrato nella storia grazie alla sua capacità di lavorare in sequenza diversi tipi di vetture. Oggi, la maggior parte delle industrie automobilistiche utilizza il Robogate, prodotto da Comau. Ne esistono in tutto 160. Il Lam (lavorazione asincrona motori, una serie di postazioni di lavoro servite da carrelli filoguidati che trasportano i materiali), ha rappresentato un passo avanti rispetto alla linea di montaggio: ciascun operaio lavora in modo indipendente, senza l'assillo dei tempi e, quindi, con minor stress e più attenzione alla qualità. L'automazione spinta degli Anni 80 costituisce un capitolo a sè. Negli stabilimenti di Cassino e Termoli si sono visti i progressi ottenuti con la tecnologia d'avanguardia, ma anche i suoi limiti; il robot non sarà mai flessibile e adattabile quanto l'essere umano. L'attuale fabbrica integrata ha messo a frutto la lezione dell'automazione spinta, ma ha posto al centro della produzione l'uomo, mentre ha lasciato ai robot i lavori più pericolosi, più faticosi e ripetitivi. L'ultima frontiera industriale è costituita dalla fabbrica a rete: la ««casa madre»» gestisce piccole strutture disseminate nel resto del mondo che realizzano i diversi componenti dell'auto. L'assemblaggio, invece, è fatto solo in determinati centri disposti nelle aree nelle quali sarà commercializzato il prodotto. La fabbrica di domani, oltre che ««ad alta concentrazione di cervelli»» (come ha detto Roberto Testore, amministratore delegato di Fiat Auto) sarà gestita in modo più analitico, con impianti di produzione più competitivi e meglio organizzati grazie all'apporto dell'informatica che consente di visualizzare l'informazione. E per essa varrà un solo slogan: fabbrica senza carta. Paola Ravizza


SCIENZE DELLA VITA DOMANI LA DECISIONE Tutti gli islandesi in un'unica banca dati? Se passerà il sì, le informazioni saranno vendute all'industria farmaceutica
Autore: ROMEO GUIDO

ARGOMENTI: GENETICA
NOMI: STEFANSSON KARL
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ISLANDA

IL prossimo 17 giugno si decide la sorte di uno dei più vasti e controversi studi genetici mai concepiti da una ditta privata. In quella data scadono i sei mesi concessi ai 272.000 cittadini islandesi per manifestare il loro rifiuto ad essere inclusi in una banca dati nazionale che comprenderà tutti i loro dati genetici, genealogici e clinici. Artefice del progetto è l'islandese Kari Stefansson, 49 anni, ricercatore a Harvard e all'Università di Chicago fin dal 1996 e oggi presidente della deCODE Genetics (www. decode.is). Fondata deCODE, questo scienziato-manager ha negoziato un ricco contratto con Hoffmann-La Roche che nei prossimi 5 anni investitirà fino a 200 milioni di dollari nel progetto e ha venduto l'impensabile ai suoi compatrioti: il comfort economico e sanitario grazie allo sfruttamento commerciale dei loro geni. Se per i genetisti le isole sono giacimenti prodigiosi, figuriamoci l'Islanda dove la popolazione discende da un unico piccolo gruppo arrivato sull'isola quasi 11 secoli fa e i registri clinici in perfetto ordine da quasi un secolo sono l'orgoglio nazionale. Il database, in cui le informazioni dei registri clinici e genealogici già esistenti saranno incrociate con le informazioni genetiche raccolte da Stefansson, si annuncia perciò come una risorsa di grande valore per le case farmaceutiche interessate a identificare rapidamente nuovi geni e a sviluppare farmaci per malattie molto comuni tra cui cancro, schizofrenia, infarto e diabete. In virtù della legge approvata lo scorso 17 dicembre dai parlamentari islandesi (www.database.is) dopo 9 mesi di accesissimo dibattito pubblico, a deCODE sono garantiti la gestione e lo sfruttamento esclusivo di questa banca dati senza precedenti per dodici anni. Per un sistema di silenzio-assenso simile a quello previsto dalla legge sui trapianti in Italia, l'inclusione nell'archivio è automatica e agli islandesi sono stati concessi sei mesi per manifestare una volontà contraria. ««Fino ad oggi»» osserva Stefansson, a Sestri Levante alla metà di maggio per partecipare al Genetics Open Day organizzato dalla Fondazione Europea per la Genetica e Fondazione Sigma Tau, ««solo l'1,2% dei miei concittadini ha chiesto di non inserire i suoi dati e l'ultimo sondaggio dava quasi il 90% dell'opinione pubblica a nostro favore»» . Nonostante il consenso popolare, Stefansson si è però inimicato gran parte della comunità scientifica islandese e internazionale. L'associazione Mannvernd (««Protezione dell'uomo»», www.mannvernd. is) creata lo scorso ottobre per contrastare la crescente popolarità di deCODE, raggruppa il 70% dei medici islandesi che ricevono giornalmente messaggi di sostegno da parte di colleghi di tutto il mondo. Al progetto si contestano la scarsa sicurezza del sistema di criptaggio impiegato per proteggere l'identità dei cittadini, le violazioni dei diritti dell'uomo (il sistema di inclusione nel database calpesterebbe il principio di consenso informato) e il rischio di una discriminazione una volta identificate particolari predisposizioni genetiche nella popolazione islandese. Rischio non inverosimile, visto che deCODE è una società privata, destinata perciò a monopolizzare le informazioni raccolte in Islanda per venderle sul mercato mondiale. Alle critiche, Stefansson ribatte combattivo che ««sono una semplificazione intollerabile. Questo progetto mira allo sviluppo di nuove conoscenze e nessuno ha il diritto di limitare la creazione di un nuovo sapere. I limiti saranno semmai da porre sulle possibili applicazioni. Inoltre le libertà individuali non saranno diminuite, ma piuttosto completate perché ognuno potrà finalmente conoscere le proprie predisposizioni alle malattie e controllare meglio la propria vita»». Tra pochi giorni quello che i suoi avversari definiscono ««il primo monopolio genetico del pianeta»» si farà e con il consenso di gran parte degli islandesi, che, su un'isola dove le risorse principali sono la pesca e l'energia geotermica, più che alla privacy o alle ricadute scientifiche, guardano forse alla moltiplicazione dei posti di lavoro specializzati (la sola deCODE ne conta già 250, destinati a raddoppiare nei prossimi 5 anni) e all'aumento del gettito fiscale che lo sviluppo del settore delle biotecnologie potrà portare al paese. Guido Romeo Istituto ««Negri»» Sud


SCIENZE DELLA VITA COCCINELLE: CENTO SPECIE IN ITALIA Le gallinelle del Signore Utilissime per la lotta biologica in agricoltura
Autore: GROMIS DI TRANA CATERINA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

L'ASSOCIAZIONE di idee tra la coccinella e il prato viene immediata: il prato naturale con i ranuncoli, le margherite, le erbe profumate e la coccinella che si arrampica decisa sugli steli dell'erba nuova, e si prende in mano perché piace a tutti, cosa rara per un insetto. Grandi e piccini amano guardarla mentre cammina fino in cima a un dito, e godere di quell'istante di stupore quando si ferma per un attimo come interdetta, prima di aprire la corazza colorata, distendere le ali trasparenti e partire. Le ali appena distese e ben stirate sembrano sgualcirsi mentre si richiudono sul dorso sotto le elitre, e invece si ripiegano, secondo linee prestabilite e precise. In Italia le specie di coccinellidi sono più di cento, per lo più belle, colorate di rosso o di giallo, con gli inconfondibili pallini neri che servono a volte per distinguerle tra loro e a volte per nominarle (Coccinella septempunctata, Subcoccinella vigintiquatuorpunctata, Adalia bipunctata). I colori non sono un vezzo gratuito: hanno una funzione aposematica, cioè servono per mettere in guardia i nemici, per avvertirli del gusto cattivo se azzardano un assaggino. Quando sono molestate possono produrre dalle giunture delle zampe gocce di emolinfa: così se al predatore non è bastata la tanatosi (cioè il fingersi morte, prima difesa per distogliere l'attenzione altrui), e se ha il coraggio di mangiare lo stesso l'animaletto troppo colorato che emette un liquido interno giallastro e con un odore sgradevole, pagherà la sua ingordigia con nausea e vomito, perché l'emolinfa delle coccinelle ha proprietà emetiche. E la prossima volta se ne ricorderà, assocerà il mal di stomaco ai colori vivaci tappezzati di puntini neri e starà alla larga. Nell'Ottocento lo zoologo Figuier scriveva così: ««L'ultima tribù dei Coleotteri si compone delle Coccinelle. Questi insettini, globulosi, lisci, rossi e gialli con puntini neri, sono per noi utilissimi perché liberano gli alberi dai gorgolioni»». Infatti moltissimi tra i coccinellidi si nutrono sia sotto forma di larve che da adulti di insetti, soprattutto afidi e cocciniglie, o di altri antropodi come acari e isopodi. Le coccinelle nemiche dei ««gorgolioni»» allora possono essere utili all'agricoltura nella lotta contro gli insetti nocivi, perché depongono uova isolate o in piccoli gruppi vicino a una fonte di cibo, per esempio una colonia di afidi. E così assicurano la sopravvivenza delle larve. Da adulte, rotonde e apparentemente goffe, sono invece mobili e rapide, ottime cacciatrici, oltre che molto prolifiche. Le femmine di certe specie possono deporre oltre mille uova per volta più volte nell'anno. Oltre agli afidifagi si conoscono anche coccinellidi fitofagi (mangiatori di vegetali), micetofagi (di funghi), pollinofagi (pollini), carpofagi (frutta) glicifagi (zuccheri)e addirittura coprofagi (sterco). In questo scioglilingua di preferenze alimentari ci sono anche gli adelfofagi (mangiano i propri fratelli, sono cannibali). Ma i più stuzzicanti rimangono i predatori di afidi e di cocciniglie, che permettono di sognare l'intervento della natura per combattere quello che oggi è sconfitto quasi sempre dall'artificio della chimica. Le coccinelle in un prato brulicante di fiori, pollini, profumi, o in un campo di grano non trattato, pieno di papaveri e fiordalisi, sono l'immagine dell'ecosistema naturale, rustico, resistente. All'opposto c'è il campo coltivato, monotono e instabile, dove la diversità delle specie animali e vegetali è molto ridotta e dove gli organismi dannosi sono adattati a sopravvivere in condizioni di povertà ecologica. I pesticidi sono usati per mantenere un equilibrio artificiale e producono un momentaneo rimedio, seguito dal peggiorare della situazione per il vortice senza fine di interventi necessari. La guerra chimica inizia contro un solo nemico e lo stermina: una specie scompare ma un'altra è in agguato, pronta a riempire lo spazio rimasto libero. E allora bisogna usare altri insetticidi per questa e poi altri per un'altra ancora che ne prende il posto e così via, in un crescendo di veleni. Chi grida ««dalli all'untore»» contro gli agricoltori soggiogati dalla chimica rifletta e sia comprensivo: è tutt'altro che facile scegliere la lotta biologica. Il successo non è mai scontato, perché qualunque metodo usato deve tenere conto della mutevolezza delle stagioni, della pioggia o della siccità, del caldo, del vento, e di tutti quei capricci della natura che, con le sue bizze affascinanti per chi non ne è coinvolto, può mandare all'aria con un soffio il paziente lavoro di molti mesi. L'uso possibile delle coccinelle contro gli afidi per avere una natura pulita le rende attuali, modernamente amabili, già predilette tra tanti insetti dei prati fin dal Medioevo, quando nessuno pensava all'ecologia. Saranno i colori, l'aspetto gradevole, o la confidenza innocua verso l'uomo, certo è che vederle sopportare, indifferenti agli ostacoli, il dispetto del monello che le prende in mano, e continuare impassibili per la loro strada, ha ispirato filastrocche e ritornelli in quantità, sempre brevi, giusto il tempo di sosta in punta al dito. Da Ancona uno dei più simpatici: ««Mariòla, Mariòla/chi t'ha fatto la camigiòla?/Me l'ha fatta la mamma mia/Pia el vòlo e fugge via!»». Per non parlare dei soprannomi, diversi da una zona all'altra della stessa regione: Galìnna de Nussggnùr a Torino, Galìnna d'la Madona ad Asti, Galìnna dal Paradìs a Vercelli. E altrove: 'Allinèll de ssant Pètre a Campobasso, Galinùte dal Ssignòr a Udine, Gaddinèddu di lu Ssignùri a Palermo... mille nomi come preghiere per le coccinelle, riferiti ai Santi e al Paradiso, e alla religiosità semplice che gode le meraviglie della Creazione anche in uno scampolo di prato. Caterina Gromis di Trana


SCIENZE DELLA VITA IL BENESSERE NEGLI ALLEVAMENTI Vita da bestie, ma non bestiale Evitare gli stress è anche un buon affare
Autore: BURI MARCO

ARGOMENTI: ETOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: ANIMALI, ALLEVAMENTI, ZOOTECNIA, ZOOLOGIA

UN tempo era comune pensare che la salute, cioè lo ««star bene»» di un animale in allevamento intensivo corrispondesse solo alla sua produttività legata principalmente alla mancanza di patologie cliniche. Questo, oggi, può essere smentito e analizzato in modo più chiaro. Esistono patologie sia fisiche che comportamentali dipendenti dalla costrizione di un alto numero di animali in spazi ristretti, modi violenti di trattarli o trasportarli, alimentazione sbagliata compreso l'atto stesso della macellazione. Queste cause fanno soffrire l'animale, che si ribella a ««condizioni incompatibili con la sua natura»» manifestando reazioni anomale del comportamento o vere e proprie malattie. In che modo riusciamo a capire che esiste un'alterazione dell'omeostasi psico-fisica, cioè dell'equilibrio riferito al benessere con la formazione di stress in un animale allevato in un modo intensivo? Gli agenti stressanti possono derivare da alterazioni fisiologiche e psicologiche. Indicatori di stress su cui basarsi sono la definizione e la quantificazione del termine ««benessere»» con le sue conseguenze. E' ovvio che bisogna definire il concetto di partenza di questa parola: se intesa verso la pura produzione o se rivolta anche al rispetto delle necessità fisiologiche e comportamentali dell'animale. Dando per scontato che la nostra società non può di colpo fare a meno delle proteine di origine animale, lo scopo potrebbe essere di unire i due intenti. Si è visto, comunque, che tendere a un miglior adattamento delle specie allevate con il sistema intensivo, permette loro di raggiungere uno stato di benessere maggiore e quindi anche un miglioramento economico in termini di qualità e quantità del prodotto. Si può tendere, cioè, ad adattare le strutture e il lavoro di produzione dell'allevamento tenendo conto delle caratteristiche bio-etologiche specifiche dell'animale. L'adattamento a questa alterata forma di vita passa attraverso la via genetica, con tempi lunghissimi ed esito generalmente irreversibile, quella fisiologia con risultati in tempi medi e con risposta reversibile o irreversibile a seconda dei casi ed infine quella comportamentale più breve e generalmente reversibile. Dobbiamo basarci sugli ««indicatori»» del benessere animale anche se questi sono a volte complicati da valutare per le differenze tra specie e per l'oggettiva difficoltà della messa a fuoco da parte della ricerca scientifica. La conoscenza e l'applicazione dei parametri etologici delle singole specie ha aumentato la conoscenza verso bisogni primari e naturali dei soggetti allevati; prima ci si rivolgeva solo alla cura di patologie cliniche accertate, ora ci si avvia anche verso la consapevolezza dell'importanza che può avere la mano dell'uomo responsabile della cura e del mantenimento. Gli etogrammi di specie studiano i comportamenti dell'animale di fronte a situazioni tipo, come la cura della prole, l'alimentazione, l'habitat, l'accoppiamento, le capacità adattive, l'influenza dell'uomo ed altre ancora. Alcuni fattori di stress accertati sono lo spazio mancante, stimoli ambientali negativi come mancanza di luce o inquinamento eccessivo, svezzamento precoce od alterato, formazione di gruppi con animali non adatti tra loro. Modificazioni dell'etogramma naturale sono, a volte, la risposta a questi fattori di stress, e mettono in evidenza comportamenti alterati come le stereotipie. Queste sono azioni ripetute uguali nel tempo e apparentemente prive di significato biologico o funzionale; sono spie di malessere psicologico od organico e di disadattamento ambientale. Esempi di stereotipie possono essere le alterazioni del gusto come il masticare e il leccare le cose intorno; i movimenti in circolo con scuotimenti di testa ed arti ed ancora vari tipi di ticchio aerofagico. Proprio questi disturbi vengono letti come resistenza agli agenti stressanti o come forzature dei soggetti per adattarsi agli stessi condizionamenti negativi. Le tabelle etologiche si riferiscono ovviamente al comportamento della specie nel suo ambito naturale per dare il riferimento dell'assoluto benessere. Ma quando, alcune specie allevate da centinaia di anni non hanno più avuto un'evoluzione libera non è possibile avere punti di riferimento naturali credibili. Questi animali costretti alla domesticazione e alla selezione forzata possono adattare comportamenti nuovi e diversi da una generazione all'altra; hanno perso ormai la forza genetica naturale e non sarebbero in grado di sopravvivere liberi. La storia racconta come sia stata controversa la relazione uomo - animale e ancor oggi, sia legalmente che dal punto di vista etico-morale, continua la battaglia. La prima associazione animalista nacque in Gran Bretagna nel 1824, la Royal Society for the Prevention of Cruelty Against Animal; ne seguì una in Francia nel 1845 e in Italia nel 1874 a Roma. Gli aspetti emotivi delle persone sensibili al problema prevalgono su quelli razionali e a volte il concetto di benessere rischia di non essere corretto a scapito degli animali stessi. L'informazione parziale e non sufficientemente scientifica tende ad umanizzarli, attribuendo loro necessità e sensibilità non esatte. Ad esempio certe specie di uccelli o altre da pelliccia non soffrono, come comunemente si pensa, l'isolamento dai loro simili perché questa è la loro condizione in natura. La convivenza forzata porta loro stress, malattie ed aumento dell'aggressività. La zoofilia segue parametri soggettivi e più umanizzanti, mentre il conservazionismo si occupa degli animali selvatici e di allevamento controllando scientificamente la loro evoluzione in un contesto sempre più inficiato dall'uomo. Marco Buri


SCIENZE FISICHE UNO SFIORERA' LA TERRA NEL 2027 Asteroidi sotto sorveglianza Necessarie ricerche su scala mondiale
Autore: DI MARTINO MARIO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: MILANI ANDREA
ORGANIZZAZIONI: ESA, NASA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. CRATERI DA IMPATTO METEORITICO

IL 7 agosto 2027 la Terra sarà sfiorata da un piccolo asteroide che potrebbe passare ad appena 32.000 km, meno di un decimo della distanza media Terra-Luna. Scoperto nel gennaio scorso, questo minipianeta a prima vista pareva uno dei tanti oggetti di questo tipo che affollano lo spazio in cui la Terra orbita attorno al Sole. Ma un'accurata analisi del suo moto orbitale, fatta da Andrea Milani dell'Università di Pisa, ha mostrato che 1999 AN10, così è stato denominato questo asteroide di dimensioni intorno al chilometro, in un futuro non tanto lontano avrà una serie di incontri molto ravvicinati con il nostro pianeta. I calcoli mostrano che un impatto con la Terra non può avvenire nel 2027, ma un passaggio a così breve distanza potrebbe perturbare l'orbita di 1999 AN10 e portarlo in rotta di collisione con il nostro pianeta nel 2039. Quando si verificano questi incontri tra un oggetto di grande massa come un pianeta e un corpo al confronto di minuscole dimensioni, come un asteroide od un nucleo cometario, il percorso orbitale successivo di questi piccoli oggetti non è più predicibile con esattezza. Il problema del rischio d'impatto di asteroidi e comete sulla Terra non tocca solo la ristretta cerchia degli scienziati. Il governo americano poche settimane fa ha triplicato i finanziamenti alla Nasa dedicati alla ricerca e allo studio di oggetti cosmici potenzialmente pericolosi per il nostro pianeta, portandoli da 3,5 a 10,5 milioni di dollari all'anno. Invece l'Europa, benché esistano ricercatori che non hanno niente da invidiare agli statunitensi, e nonostante una raccomandazione fatta agli Stati membri dal Consiglio europeo nel 1996 perché finanziassero questo tipo di ricerca, finora ha fatto ben poco. Nei giorni scorsi si è tenuto a Torino il Workshop ««Impact»» (Impact Monitoring Programs for Asteroid and Comet Threat), organizzato dall'Osservatorio di Torino e dalla Regione Piemonte, sponsor Nasa, Esa, l'International Astronomical Union, Agenzia Spaziale Italiana, Spaceguard Foundation e Alenia Aerospazio: si è fatto il punto sullo stato delle ricerche relative ai cosiddetti ««Near Earth Objects»» (Neo), cioè asteroidi e comete le cui orbite sono prossime a quella terrestre e che quindi costituiscono un potenziale pericolo. Nel corso dei lavori, a cui hanno partecipato i maggiori specialisti mondiali di questa branca dell'astronomia, si è anche discusso di come coordinare questo tipo di ricerche su scala mondiale e sono state redatte raccomandazioni che verranno inviate agli organi politici e scientifici da cui dipende il finanziamento delle ricerche sui Neo. La possibilità che un asteroide o cometa entri in collisione con la Terra è estremamente piccola, ma non è uguale a zero. Lo dimostrano i numerosi crateri da impatto (oltre 150) presenti sulle terre emerse del nostro pianeta. La collisione di un corpo delle dimensioni dell'ordine del chilometro, la cui velocità relativa con la Terra può essere compresa tra circa 10 e 70 chilometri al secondo, avrebbe conseguenze devastanti su scala globale e causare la morte di centinaia di milioni di persone. Le moderne tecniche di calcolo orbitale e gli strumenti di cui disponiamo, come prova il caso di 1999 AN10, permettono di prevedere l'evoluzione dinamica futura degli oggetti di questo tipo una volta che siano stati scoperti, ma il problema sta appunto qui. Si stima che la popolazione di asteroidi con orbite prossime a quella della Terra e con dimensioni uguali o superiori al chilometro conti circa 2000 oggetti, ma ad oggi ne abbiamo scoperti soltanto il 10%, senza considerare quelli più piccoli, il cui numero sale vertiginosamente al diminuire delle dimensioni. Si stima che gli asteroidi ««Earth crossing»» più grandi di 100 metri siano circa 150.000. Anche l'impatto di oggetti così piccoli potrebbe avere gravi conseguenze, basti pensare che l'evento di Tunguska, verificatosi 91 anni fa nel centro della Siberia, fu causato dall'esplosione in quota di un oggetto cosmico di qualche decina di metri e la devastazione provocata dall'onda d'urto interessò più di 2000 km quadri di taiga siberiana (un'area superiore a quella di Torino e del suo hinterland). Il primo obiettivo di cui devono farsi carico gli astronomi è quello di individuare nel minor tempo possibile la maggior parte di Neo di maggiori dimensioni. Nagli Stati Uniti sono già stati avviati quattro programmi di ricerca che nel giro di una decina di anni si prefiggono di scoprire più del 90% degli oggetti di diametro superiore al chilometro potenzialmente pericolosi per il nostro pianeta. Uno di questi, Linear, che, gestito dalla Us Air Force, dispone di un telescopio di appena 1 metro di apertura e di strumenti di piano focale dell'ultima generazione, ha quasi quintuplicato il tasso di scoperta di questi oggetti, portandolo da poco più di una decina all'anno a più di 50. Cosa fa l'Europa? Al momento praticamente niente, anche se con minimo sforzo potrebbe fare tanto. Ad esempio, all'Osservatorio australe europeo in Cile esistono telescopi adatti per dare la caccia ad asteroidi e comete, che lavorano soltanto per poche notti all'anno. Con poca spesa sarebbe possibile automatizzarli e dotarli degli strumenti per partecipare in maniera concorrenziale ai programmi di ricerca già esistenti. Questi strumenti hanno l'enorme vantaggio di trovarsi nell'emisfero australe, dove al momento non esiste nessuna struttura dedicata in maniera sistematica a questo tipo di ricerca, e potrebbero tenere sotto controllo quel 35% della volta celeste che non può essere coperto dai telescopi dell'emisfero settentrionale. Tornando a 1999 An10, quando ai primi di agosto 2027 sfiorerà la Terra a una velocità relativa di circa 26 Km/s (poco meno di 95.000 Km ora), sarà dapprima visibile nell'emisfero australe e aumentando rapidamente la sua luminosità si dirigerà verso Nord. Al momento del suo massimo avvicinamento si muoverà di moto apparente pari ad oltre 10 gradi all'ora ed essendo più brillante della quarta magnititudine sarà visibile ad occhio nudo. Mario Di Martino Osservatorio Astronomico di Torino


SCIENZE FISICHE MARINA DI RAVENNA Gozzi e galeoni, ma solo a remi Dal 18 al 20 giugno regata di imbarcazioni storiche
AUTORE: CABIATI IRENE
ARGOMENTI: TRASPORTI
ORGANIZZAZIONI: FAI, YACHT DIGEST
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, RAVENNA
TABELLE: D. Progetto di un gozzo
NOTE: IMBARCAZIONI, MARE, MANIFESTAZIONI

A Marina di Ravenna, dal 18 al 20 giugno si svolge il primo raduno italiano di barche a remi tradizionali a sedile fisso: di fiume, lago, palude e mare lunghe da 2 a 12 metri. Alcune sfileranno come esemplari d'antiquariato, altre si sfideranno nel palio di domenica. I raduni di barche d'epoca in Italia sono riservati a specialisti o finalizzati a manifestazioni agonistiche e non sono molto conosciuti. In altri Paesi, come la Francia, sono fenomeni popolari dove la festa marinara è anche punto di riferimento per collezionisti, storici, amanti della tradizione. Lo sa bene il direttore di Yacht Digest la rivista italiana dedicata alle barche d'epoca (a vela e a motore) e alla storia e alla cultura navale. Come promotore dell'inziativa che si svolgerà nel nuovo porto di Ravenna, dice: ««I raduni remieri hanno avuto origine nel Medioevo come eventi competitivi e quasi politici fra località rivierasche. Con questa manifestazione vogliamo creare un'occasione d'incontro non soltanto per chi fa le regate che talvolta alimentano un tifo simile al Palio dei Siena. E' anche un omaggio a coloro che sanno mantenere viva una tradizione. E sarà, infine, anche un momento ideale per rispolverare altri aspetti della vita legata all'acqua: la pesca, i canti di lavoro, le competizioni marinare a terra»». Ogni scafo, ovviamente, ha sue caratteristiche costruttive che si sono evolute e modificate in fuzione delle condizioni ambientali e del tipo di utilizzo a cui erano destinate: il lavoro (la pesca, il trasporto di persone o merci) o il diporto. Cambiano i profili tecnici, le essenze con cui sono costruiti, il numero dei remi, il modo con cui si usa il remo e la posizione del vogatore (seduto o in piedi, rivolto a poppa o a prua). Alcuni sono rarissimi esemplari sopravissuti all'avvento della vetroresina e dei motori, altri sono ancora attivissimi soprattutto nella laguna veneta e dintorni. Al raduno del 20 giugno, oltre ai galeoni dei palii remieri di Pisa e Venezia sfileranno esemplari di lariana, batela; bissona; gondolino da regata; mascareta; mussin; puparin e i barcè del Ticino. Fra le più conosciute, i galeoni che corrono le Regate storiche delle Repubbliche marinare: 11 metri - otto rematori con timoniere -, sono costruite in fasciame sovrapposto di pino. Copiato da feluche settecentesche, erano barche di rappresentanza. Oggi il loro passaggio anima il clamore dei tifosi. Altra barca ««popolare»» è il gozzo di fattura ligure la cui forma e dimensione varia da Levante a Ponente. La leggenda vuole che le gare a remi siano nate proprio sui gozzi, come competizione fra i marinari sbarcati da velieri alla fonda, che, dopo mesi di navigazione, non vedevano l'ora di toccare terra. Oppure dalla sfrenata concorrenza dei pescatori di acciughe in gara per raggiungere la riva per primi e imporre il prezzo del pescato. Il battel chiamato anche lucìa (in omaggio all'eroina manzoniana), risale al XVI secolo: fatto in castagno e con il fondo piatto era destinato alla pesca e al trasporto di merci. Successivamente le famiglie patrizie lo adottarono come barca da diporto e per costruirlo usarono essenze più nobili come il larice e mogano. Le venete a fondo piatto riprendono le linee delle mascarete veneziane: una volta erano di legno, oggi di alluminio, e sono protagoniste di palii sul Po fra Cremona e Piacenza. Il raduno di barche remiere di Ravenna ha anche suscitato l'interesse del Fai che ha dato il patrocinio per la manifestazione. Di qui si lancia anche una sfida interessante. Come annuncia Riccardo Villarosa: ««Vorremmo catalogare gli scafi italiani in maniera scientifica. Stiamo cercando aiuto economico per allestire un sito Internet, uno sportello che accolga le informazioni utili: caratteristiche tecniche, disegni, storia ed eventi legati all'attività di lavoro o diporto»». Una catalogo del prezioso museo vivente delle barche remiere di tradizione. Irene Cabiati


SCIENZE FISICHE PER NATANTI, BOE, MOLI Anche vernici siliconiche contro le incrostazioni
Autore: BUONCRISTIANI ANNA

ARGOMENTI: CHIMICA
NOMI: GERACI SEBASTIANO, ROMAIRONE VITTORIO
ORGANIZZAZIONI: CNR
LUOGHI: ITALIA, GE, GENOVA, ITALIA
NOTE: TRASPORTI, NAVALI

ARRIVA l'estate: è ora di varare le barche, che durante la stagione invernale erano state tirate in secco, per essere ripulite dalle incrostazioni cresciute durante la permanenza in acqua. Esse, note con il termine inglese fouling, creano parecchi guai non solo a imbarcazioni e navi, ma anche ad altre strutture sommerse: appesantiscono boe, ostruiscono prese e scarichi d'acqua, fanno perdere sensibilità ai sonar. Inoltre, provocando lo scrostamento delle vernici, accelerano la corrosione degli scafi metallici. Sono formate da organismi animali e vegetali; all'inizio, su una superficie pulita da poco messa in acqua, s'insediano organismi microscopici come batteri, funghi e alghe. Essi hanno un effetto 'pionierè, cioè formano una pellicola, conosciuta come film primario o slime (fanghiglia in inglese), su cui si attaccano altre specie che vi trovano nutrimento: poriferi, celenterati, briozoi, crostacei e molluschi. Riuscendo talvolta persino a dimezzare la velocità di un'imbarcazione e ad aumentare anche del quaranta per cento il consumo di carburante, il fenomeno fouling preoccupa la nautica, non ultimo il settore militare: in guerra una flotta deve essere veloce e non è pensabile trarla in secco ogni tre o quattro mesi per ripulire le chiglie. Anche la protezione di strutture fisse (boe, cavi, moli, condotte) chiede all'industria prodotti efficaci nella lotta agli organismi incrostanti. Si ricorre così a vernici antivegetative, che agiscono producendo intorno alla struttura sommersa una concentrazione di veleni relativamente bassa, ma sufficiente a scacciare o uccidere gli ospiti indesiderati. Queste sostanze non potranno mai essere perfettamente innocue per l'ambiente, ma neanche un aumentato consumo di carburante lo è. Negli anni Settanta si crearono pitture a base di composti organostannici (in cui esistono legami chimici stagno-carbonio), ma, dopo che erano state usate per qualche anno, nelle zone con notevole traffico marittimo si notarono malformazioni negli allevamenti di molluschi. Tollerate ora solo per scafi superiori ai venticinque metri, il veto totale alla loro applicazione è stato anticipato dal gennaio 2008 a quello del 2003. Questa decisione destò scalpore quando l'anno scorso fu presa dall'Organizzazione Internazionale Marittima, ma venne giustificata col fatto che già ora sono disponibli alternative chimiche. Per esempio la statunitense Rohm and Haas ha messo a punto il biocida Sea-Nine 211. A base di isotiazolone, attivo su una gran quantità di incrostanti, esso si degrada rapidamente nell'acqua di mare trasformandosi in prodotti centomila volte meno tossici di quelli provenienti dagli organostannici. In un recente convegno, Vittorio Romairone dell'Istituto per la Corrosione Marina dei Metalli del CNR di Genova ha elencato altre soluzioni. Tra queste, le pitture autoleviganti all'acrilato di rame sono frutto di ricerca giapponese, inglese, ma anche italiana (facoltà d'ingegneria dell'Università de L'Aquila). Composti di rame che fungono da biocidi sono contenuti in una matrice polimerica, che evita il loro contatto con la carena (se questa è d'acciaio o d'alluminio, il rame la corroderebbe per effetto elettrochimico), mentre li rilascia lentamente nell'acqua di mare, perché questa disgrega la matrice stessa. Nello stesso tempo, la superficie esterna si rinnova di continuo, impedendo la formazione d'incrostazioni (donde il termine autolevigante). Le vernici a matrice insolubile con ossido rameoso rilasciano invece il biocida attraverso i loro pori, per cui in mare viene immesso solo il veleno e non residui di pittura. Inoltre sono vantaggiose perché al carenaggio lo strato vecchio può essere utilizzato come base per il nuovo, risolvendo così il problema dello smaltimento delle scorie da parte dei cantieri. Forse però le protezioni del futuro saranno quelle siliconiche. Esse creano una superficie liscia, sdrucciolevole, che non permette l'attacco del fouling. Ottime sotto il profilo ambientale, perché non rilasciano sostanze in mare, per ora sono poco competitive perché troppo costose. Sono allo studio anche sostanze naturali che inibiscono l'attacco degli incrostanti. Tra gli altri, Sebastiano Geraci e Marco Faimali, anch'essi del CNR di Genova, hanno saggiato il comportamento di estratti di spugne ed alghe sulle larve dei balani, crostacei cirripedi altamente incrostanti noti anche come denti di cane, ricavando risultati molto promettenti. Anna Buoncristiani




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