TUTTOSCIENZE 31 marzo 99


CELEBRAZIONI A GINEVRA Rubbia: che cosa farò da grande Il premio Nobel per la fisica compie oggi 65 anni e va in pensione : al Cern lo hanno festeggiato con una giornata di studi ad altissimo livello, ma lui pensa ai suoi nuovi progetti nel campo dell'energia
AUTORE: BUONO STEFANO
ARGOMENTI: FISICA, RICERCA SCIENTIFICA
PERSONE: RUBBIA CARLO
NOMI: RUBBIA CARLO
ORGANIZZAZIONI: CERN
LUOGHI: ITALIA

Il 16 marzo il Cern ha festeggiato il sessantacinquesimo compleanno di Carlo Rubbia e il suo ««pensionamento»» dal Cern. ««Tuttoscienze» » è lieto di ospitare quest'articolo oggi, mercoledì 31 marzo, vero giorno del compleanno del Nobel, con i migliori auguri della redazione. ARIA di festa al Cern, il Centro europeo di ricerche nucleari con sede a Ginevra, per un seminario in onore del Premio Nobel Carlo Rubbia, giunto al suo sessantacinquesimo compleanno. Il Cern è solito rendere tributo in questo particolare anniversario a coloro che ne hanno fatto la storia. Ma il caso di Rubbia è veramente unico non solo perché è uno dei tre Nobel che il Cern ha prodotto, ma anche per il fatto che ne è stato direttore per cinque anni, durante i quali ha gettato le fondamenta del progetto LHC (Large Hadron Collider), l'acceleratore di protoni più potente del mondo che permetterà di precisare il ««Modello Standard»», cioè la teoria, che spiega i segreti delle particelle elementari, i ««mattoni»» fondamentali della materia. Sfilano nomi illustri: da quelli più conosciuti come, Wal Fitch o George Charpak (rispettivamente premi Nobel per la fisica nel 1980 e 1992) a quelli meno noti al pubblico non specializzato, come Luciano Maiani, attuale direttore del Cern, o Gerard 't Hooft, illustre teorico anch'egli padre del modello standard, Klaus Winter, Alan Atsbury, Arthur Kerman. Attraverso i loro racconti si è ricostruita la vita scientifica di un uomo che già a 24 anni Marcello Conversi, relatore della tesi di laurea di Rubbia, con grande intuito aveva definito ««il nuovo Enrico Fermi della fisica italiana»». E' una fortuna per la scienza che Rubbia non abbia seguito il consiglio del padre, ingegnere telefonico, di seguire le sue orme, ma si sia dedicato alla fisica dopo aver vinto, alla Scuola Normale di Pisa, una borsa di studio che era obbligato ad ««arrotondare»» giocando a poker. Il Cern vede Rubbia protagonista già subito la laurea. Neppure una prestigiosa cattedra ad Harvard lo allontana da Ginevra più di un paio di giorni alla settimana per ben 10 anni, un ritmo che avrebbe stroncato qualsiasi fibra ma che per lui è un fatto naturale. Quegli anni di lavoro culminano nel 1983 con la scoperta dei bosoni W e Z, l'allora Sacro Graal della fisica delle particelle, che gli vale il premio Nobel, assieme al fisico olandese Simon van der Meer, l'anno dopo (battendo anche in questo caso un record di velocità fra il momento della scoperta e quello dell'assegnazione del premio). Nel 1993, alla fine del suo mandato come direttore generale, Rubbia intuisce che la tecnologia degli acceleratori è talmente matura da poter essere applicata alla risoluzione di problemi come il bisogno di energia, la lotta all'effetto serra e la necessità di eliminare i residui radioattivi ereditati dalla tecnologia nucleare e dalla guerra fredda. Inventa una macchina, l'Amplificatore di Energia, che è una vera e propria rivoluzione in questo campo ma che in pochi anni riesce a trasformare in una realtà praticamente industriale. E non è finita: l'ingresso in un campo della ricerca per lui nuovo gli fa mettere a punto un sistema per la produzione di radioisotopi ad uso medico e persino un motore a razzo ad americio adatto ai viaggi interplanetari. Si può comprendere dunque come, festeggiando i 65 anni, Rubbia sia l'unico a non parlare del passato, ma del futuro: non smettere mai di guardare avanti è il segreto della sua eterna giovinezza. Mentre il Modello Standard sembra mettere la parola fine ad avventurosi anni di scoperta, Rubbia ricorda che nuove ed entusiasmanti frontiere della conoscenza si stanno delineando, a partire dal cielo sopra di noi, e incoraggia i giovani ad avventurarsi in questo dominio ancora inesplorato della fisica moderna. Le ultime teorie cosmologiche ci mostrano che le stelle rappresentano solo lo 0,5 per cento della materia di cui è costituito l'Universo. L'uomo - dice Rubbia - vive così una terza grossa delusione: dopo aver capito di non essere al centro dell'universo con la rivoluzione copernicana e di essere solamente l'ultimo anello di una lunga catena evolutiva con Darwin, ora scopre che la materia di cui è costituito è solo una piccola frazione di ciò di cui l'universo è fatto. Ma allora da che cosa è costituito il resto? Gli esperimenti più recenti ci hanno mostrato che i neutrini, attuali candidati a questo ruolo, non sono sufficienti a colmare il vuoto. I teorici si sono allora sbizzarriti ad inventare nuove teorie e particelle dai nomi stravaganti come axioni e neutralini. Saranno la conoscenza dell'infinitamente piccolo e la ricerca di laboratorio, dominio del Cern, a rispondere ad un quesito così affascinante e fondamentale? Stefano Buono Cern, Ginevra


RICERCA ITALIANA Piattaforma volante alimentata a Sole e fuel cell
Autore: RIOLFO GIANCARLO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA
NOMI: PENT MARIO, ROMEO GIULIO
ORGANIZZAZIONI: ALENIA SPAZIO, NASA
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, TO, TORINO

QUALCHE settimana fa Tuttoscienze ha presentato il Centurion, un aereo ad energia solare della Nasa, un velivolo automatico capace di restare per mesi in volo nella stratosfera e di svolgere molti compiti oggi affidati ai satelliti. Anche in Europa c'è chi lavora a un programma analogo, ma con mezzi assai più modesti. Con un finanziamento dell'Agenzia Spaziale Italiana di 291 milioni (un'inezia rispetto ai milioni di dollari stanziati dalla Nasa), un gruppo di docenti, ricercatori e studenti del Politecnico di Torino ha progettato una piattaforma automatica in grado di volare per lunghi periodi di tempo a una quota di 17-20 mila metri, sfruttando la luce del Sole. Lo studio, che ha coinvolto i Dipartimenti di Ingegneria aeronautica e spaziale, di Elettronica e di Ingegneria elettrica industriale, è durato tre anni. Oltre alla configurazione aerodinamica del velivolo, denominato Heliplat (Helios Platform), sono stati definiti il sistema propulsivo, quello di controllo e le possibili applicazioni pratiche, che vanno dalla ricerca sull'atmosfera alla sorveglianza del territorio e delle coste, alle telecomunicazioni. ««Con quattro piattaforme di questo tipo - spiega Giulio Romeo, del Dipartimento di Ingegneria aeronautica e spaziale - sarebbe possibile realizzare un sistema di sorveglianza antincendio che copra tutta la Penisola. Oppure stabilire una rete di telefonia mobile priva delle zone d'ombra che affliggono i sistemi cellulari. Un altro uso potrebbe essere il ripristino delle comunicazioni in caso di calamità naturale»». Se verrà costruito, Heliplat avrà un'apertura alare di 72 metri e un peso di appena 600 kg. La struttura sarà interamente in materiali compositi, mentre la propulsione verrà affidata a sei motori elettrici, alimentati di giorno dai pannelli fotovoltaici collocati sul dorso dell'ala e dello stabilizzatore, di notte da pile a combustibile, che producono elettricità dalla trasformazione di ossigeno e idrogeno in acqua. Al pari dei velivoli allo studio negli Usa, una parte dell'energia fornita dai pannelli fotovoltaici servirà a rigenerare le batterie, ricavando nuovamente ossigeno e idrogeno dall'acqua mediante elettrolisi. Per dimostrare la validità del progetto, l'èquipe del Politecnico ha iniziato la costruzione di un dimostratore tecnologico: Heliplane, un velivolo pilotato ad energia solare, con due motori elettrici, dalle forme che ricordano quelle di un aliante. Il trave della fusoliera, in carbonio, ha dimostrato caratteristiche eccezionali. Con un peso di appena 8 kg, sopporta un carico di una tonnellata. ««Ora - prosegue Romeo - abbiamo iniziato con gli studenti l'assemblaggio dell'ala, lunga 21 metri. I tronconi, anch'essi in carbonio, sono stati realizzati grazie alla collaborazione dell'Istituto Tecnico Grassi e dell'Alenia Spazio, che ha messo a disposizione la sua autoclave. Contemporaneamente, il gruppo di Francesco Profumo ha sviluppato motori elettrici leggeri e ad elevato rendimento, nonché un sistema elettronico capace di controllare il funzionamento dei propulsori, fuel cell, batterie e passo delle eliche. Un gruppo guidato da Mario Pent sta sviluppando gli strumenti per le telecomunicazioni»». Terminati i fondi dell'Asi, per proseguire il programma, il Politecnico cerca ora un possibile utilizzatore che finanzi la costruzione di un prototipo volante. Un contributo potrebbe venire dall'Esa, ma per adesso l'Agenzia spaziale europea sembra più interessata ai dirigibili automatici d'alta quota. Giancarlo Riolfo


PER RICERCHE AD ALTA QUOTA I satelliti dei poveri Nuovi palloni stratosferici della Nasa
Autore: BONANNI AMERICO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TRASPORTI
ORGANIZZAZIONI: NASA, ULDB
LUOGHI: ITALIA

NON è detto che per avere un satellite artificiale in orbita attorno alla Terra siano sempre necessari le fiamme e i boati (senza contare i costi) di un lancio spaziale. Speciali palloni stratosferici, che per le loro particolari caratteristiche tecnologiche vengono definiti ««superpressurizzati»», potrebbero svolgere lo stesso compito ad un costo molto minore: la Nasa, prevede di effettuare il primo volo di uno strumento del genere nel dicembre del 2000. La stessa Nasa sviluppa anche, con obiettivi di utilizzazione analoghi, aerei e piattaforme automatici, che potrebbero restare a lungo in quota. E come si può leggere in questa stessa pagina, anche in Italia c'è chi lavora a progetti di questo tipo, cioè a sistemi aerei che potremmo chiamare, senza offesa, ««i satelliti artificiali dei poveri»». Il progetto di pallone stratosferico superpressurizzato della Nasa viene indicato con la sigla ULDB, acronimo inglese che sta per ««Palloni di durata ultra lunga»» e che chiarisce subito la prestazione principale che i tecnici del centro Goddard dell'ente spaziale americano stanno cercando di ottenere. I comuni palloni stratosferici in uso da decenni permettono infatti di svolgere molte ricerche scientifiche, soprattutto in campo atmosferico, ma hanno una limitazione di fondo: rimangono sospesi per un tempo troppo breve, tipicamente da tre a cinque giorni. Quelli promessi dal programma ULDB punteranno invece a missioni di oltre cento giorni, che permetteranno di ottenere almeno cinque ««orbite»» complete attorno al nostro pianeta. Potranno quindi svolgere le funzioni di veri e propri satelliti artificiali. La rapida ricaduta a terra dei palloni stratosferici è un problema direttamente connesso con la tecnologia usata per farli volare. Ciascuno di essi, al momento del decollo, viene riempito di una quantità di elio sufficiente a gonfiarlo solo parzialmente. Via via che sale a quote più elevate, il pallone si gonfia completamente e si stabilizza quindi ad una certa altezza dove la pressione esterna dell'aria e quella interna del gas si equilibrano. A questo punto comincia a farsi sentire l'effetto del Sole, che durante il giorno scalda il pallone aumentando la pressione dell'elio. Ma la struttura del rivestimento è molto delicata e scoppierebbe facilmente. Così una parte del gas viene automaticamente scaricata attraverso una valvola di sicurezza. Una volta scesa la notte, però, c'è il problema opposto, causato dal raffreddamento dell'elio. Il gas perduto durante il giorno non può certo essere recuperato, quindi il pallone si trova ad essere più pesante di prima. Per aggirare il problema ogni pallone viene dotato di un certo numero di zavorre, che vengono gettate una dopo l'altra per alleggerirlo e mantenere l'altitudine stabilita. E' ovvio che dopo pochi cicli giorno-notte finiscono sia l'elio sia delle zavorre, cosa che provoca la ricaduta a terra del velivolo. Tempi più lunghi di permanenza in volo sono stati fino ad ora ottenuti soltanto facendo alzare i palloni dal Polo Nord o dal Polo Sud durante le rispettive stagioni estive, quando il Sole non tramonta mai. Il progetto ULDB prevede una completa rivoluzione dei sistemi attualmente usati. Nel suo caso i palloni vengono costruiti con materiali speciali capaci di reggere senza problemi l'aumento di pressione causato dal riscaldamento solare. Non c'è quindi più bisogno di alcuna valvola di sicurezza, così viene costantemente conservato lo stesso quantitativo di elio rendendo inutili anche le zavorre. Secondo i calcoli del centro di ricerche Goddard (che tiene un sito Internet sull'argomento all'indirizzo: http://www.wff.nasa.gov), un tale pallone, largo oltre 150 metri e alto più di 60, sarà capace di trasportare un carico di circa una tonnellata, si solleverà a 40 chilometri di quota e resterà in volo per quasi quattro mesi. In altri termini la Nasa avrà una navicella piena di strumenti scientifici che navigherà per molto tempo al limite estremo dell'atmosfera terrestre. La disponibilità di questi palloni, oltre al miglioramento degli studi atmosferici, servirà anche all'astronomia. Molti fenomeni cosmici sono stati già studiati grazie ai palloni stratosferici, con risultati analoghi a quelli ottenuti dai satelliti. Ma proprio il fattore tempo, fino ad oggi, è stato un problema costante nelle ricerche astronomiche. ««Per studi che non richiedono specificamente missioni orbitali o interplanetarie - dice Jack Tueller, scienziato del Goddard - i palloni a lunghissima durata permettono di usare strumenti scientifici molto grandi e complessi a costi estremamente più bassi di quelli dei satelliti»». Americo Bonanni


SCIENZE FISICHE SPAZIO Il 28 aprile partirà Meg-Sat
Autore: LO CAMPO ANTONIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: STALIO ROBERTO
ORGANIZZAZIONI: CENTRO MARS, GRUPPO MAGGIORINI, MEGSAT
LUOGHI: ITALIA

I piccoli satelliti costano poco, richiedono poco tempo per la realizzazione e sfruttano tecnologie molto avanzate. Ecco perché anche in Italia vi sono aziende private che pensano seriamente di costruire satelliti in proprio. Ma finora solo una ne ha concretizzato il progetto: il ««Gruppo Meggiorin»» di Brescia, già da tempo leader per la distribuzione della telefonia cellulare Motorola, il prossimo 28 aprile lancerà in orbita con un razzo vettore russo ««Cosmos»» il suo primo micro-satellite sperimentale, il ««MegSat 0»». Il primo di tipo operativo, il ««MegSat 1»» verrà lanciato entro il dicembre del 1999, mentre dal 2000 verranno inviati in orbita uno o due satelliti per anno, a seconda delle richieste commerciali. Questi satelliti non rientrano nella categoria per la telefonia cellulare, ma in quella dei satelliti scientifici per missioni di rilevamento, trasmissione dati ed esperimenti scientifici. Il ««MegSat»» è un parallelepipedo con base di 44 centimetri per 40, e altezza di 55, con superficie ricoperta da celle solari , per una potenza di soli 25 watt, che però verrà compensata da un sistema di ricevitori e trasmettitori ad alto rendimento, in modo da garantire l'invìo di una notevole quantità di dati. I ««MegSat»» rappresentano un'innovazione sia per le tecnologie sia per gli obiettivi che il progetto si propone. Vi sarà la gestione ottimizzata del software, con la possibilità di implementare le risorse disponibili a bordo, e di incrementare la velocità di distribuzione ed elaborazione dei dati inviati a terra. Il controllo terrestre verrà gestito da un centro di controllo che sta sorgendo a Brescia. Tra gli obiettivi scientifici del ««Megsat 1»», lo studio delle aurore boreali, tramite uno strumento progettato Roberto Stalio dell'Università di Trieste e costruito dal Consorzio Carso. Si tratta di uno spettrometro ad incidenza radente che traccerà una mappa delle emissioni ultraviolette ad alta energia generate dalle aurore boreali. Vi sarà anche un esperimento del Centro Mars di Napoli, sotto la guida di Carlo Mirra: riguarderà il comportamento in condizioni di microgravità di alcuni liquidi e la loro possibile miscelazione. La società guidata dall'imprenditore Guido Meggiorin, 53 anni, è nata nel 1969, quindi sotto una stella favorevole, poiché quello fu un anno storico per le imprese spaziali. Si è poi specializzata realizzando ponti radio adottati da forze di polizia, servizi pubblici e aziende private. Al progetto dei ««Megsat»», i cui primi due satelliti sono costati 10 miliardi di lire, è impegnato da tre anni un gruppo di tecnici specializzato nella realizzazione di pannelli solari, hardware e software, dispositivi meccanici, antenne e stazioni di terra. Il primo satellite di prova ««MegSat 0»», quello che verrà lanciato in orbita a 580 chilometri di quota il prossimo aprile, colluderà alcuni sistemi di bordo e i collegamenti con la stazione di terra. Questo primo satellitino peserà la metà rispetto a quelli operativi (circa 25 chilogrammi), e partirà in vetta al razzo ««Cosmos»» come carico secondario di un satellite meteorologico russo. I lanci dei ««MegSat»» avverranno da Kapustin Yar, a nord-ovest del Mar Caspio, dal poligono nato negli anni cinquanta come base per i lanci sovietici di missili intercontinentali dotati di testata nucleare, e successivamente ««convertito»» in un poligono spaziale. Antonio Lo Campo


SCIENZE FISICHE NUOVO RUOLO Geologi tra scienza e sociologia La figura professionale dello studioso della Terra negli ultimi decenni si è profondamente trasformata e oggi potrebbe fornire risposte indispensabili per migliorare la sicurezza e la qualità della vita di intere popolazioni
Autore: TOZZI MARIO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA GEOFISICA
NOMI: FORESE WEZEL CARLO
LUOGHI: ITALIA

OGNI anno centinaia di eventi naturali dalle conseguenze catastrofiche (l'espressione ««calamità naturali»» lascia intravedere una volontà malefica che la natura non ha) producono, in tutto il mondo, danni per centinaia di miliardi di dollari, sconvolgono le economie e i sistemi politici dei Paesi più poveri, uccidono, lasciano il segno nelle coscienze degli uomini. L'instabilità naturale del pianeta Terra - in realtà solo il passaggio fra diversi stati di equilibrio - sta diventando il discrimine ambientale del nuovo millennio: da una parte il Nord del mondo, che reagisce in modo positivo agli eventi e riesce in qualche modo a prevenirne efficacemente gli effetti, dall'altra il Sud, sempre più sull'orlo della rovina fisica del territorio e morale delle popolazioni. Terremoti come quello del Guatemala (1976) o di Città del Messico (1985) sono stati ribattezzati ««terremoti dei poveri»» e allargano quelli che un tempo si sarebbero chiamati divari di classe. Aree vicine alle grandi zone metropolitane della Terra, un tempo scartate perché poco sicure o malsane, diventano improvvisamente appetibili per i milioni di diseredati che cercano di sopravvivere ai limiti delle città e si accalcano attorno a vecchie paludi, sotto possibili frane o in prossimità dei percorsi delle acque alluvionali o delle colate di fango. Così si inurbano (spesso abusivamente) zone pericolose o si crea addirittura il rischio ambientale (c'è rischio solo se c'è la presenza malaccorta dell'uomo), come insegna molto bene anche l'esperienza drammatica di Sarno. In questo quadro il geologo non è più l'esploratore un po' fuori moda che esce ansimante dalle viscere di un vulcano per incamminarsi sulle montagne o scendere di nuovo nelle grotte guidato solo dalla bussola. E non è solo lo scienziato moderno che ha cambiato i connotati al modello della Terra, rivoluzionato dalle fondamenta rispetto a quando la si riteneva una sfera priva di dinamiche interne (la Terra funziona come un'immensa macchina che produce calore fratturando la crosta esterna in una ventina di rigidi zatteroni che interagendo producono terremoti e eruzioni vulcaniche). Nè il geologo non è solo il pensatore che ha obbligato fisici e filosofi a fare i conti con una prospettiva di tempo fondamentalmente differente rispetto al passato. La geologia ha acquisito i connotati di una scienza sociale, che deve districarsi anche tra gli ordinamenti sociali e le anime, oltre che fra le opere dell'uomo. Ciò non deriva solo dallo stato deprecabile del territorio e dalla necessità di preservare meglio le aree antropizzate, è anche una necessità di carattere culturale. Fra le categorie dei cosiddetti tecnici, i geologi sono i più legati alla storia: leggere le pagine di antichi documenti per ricostruire il disegno della mente degli uomini non è poi tanto diverso dall'interpretare le rocce, i fossili e gli altri segni della Terra per rimettere insieme le pagine del racconto del pianeta. Il geologo esercita quella memoria collettiva della Terra di cui gli altri uomini sembrano aver perduto le tracce in un confronto con le loro limitate memorie parziali. Non scordiamo che, se per un uomo un giorno dell'anno solare è fatto di 24 ore, un giorno, nell'anno a cui si può paragonare l'esistenza della Terra dalla sua nascita ad oggi vale oltre 12 milioni di anni e ogni secondo è pari a 140 anni. Di più: ci sono geologi che, studiano certe strutture del pianeta, arrivando a sostenere che la loro evoluzione avrebbe potuto influenzare addirittura gli eventi della storia dell'uomo, come Carlo Forese Wezel nel suo libro Il respiro della Terra (Edizioni Piemme, 1998). Questo tipo di geologo - vicino al misticismo di William Blake, eretico in una scienza che lo è per nascita - arriva a presupporre che eventi come l'origine della scrittura possano esser posti in una qualche relazione con la massima altezza del livello del mare, raggiunta circa 3500 anni fa. Al di là del merito, si tratta comunque di importanti tentativi di uscire fuori dalla sapienza non olistica e di lavorare alla costruzione di un umanesimo scientifico in cui cultura dell'uomo e della natura si riconnettano definitivamente. Mario Tozzi Università di Roma


SCIENZE FISICHE LE OSSERVAZIONI DELLA ««GLOBAL SURVEYOR»» Una Groenlandia su Marte Scoperta una grande quantità di ghiaccio
Autore: DI MARTINO MARIO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, GEOGRAFIA GEOFISICA
ORGANIZZAZIONI: NASA
LUOGHI: ITALIA

MARTE è il pianeta dove le condizioni ambientali sono più prossime a quelle della Terra. Possiede una tenue atmosfera, cicli stagionali e ben evidenti calotte polari, osservate per la prima volta da Giovanni Cassini nel 1666. Questa scoperta fece subito sospettare che sul pianeta rosso fosse presente dell'acqua e da allora iniziarono le speculazioni sulla eventuale esistenza di ««marziani»». Nonostante Marte sia stato il pianeta più esplorato dalle sonde spaziali, sono ancora moltissimi gli interrogativi che rimangono aperti sulla sua struttura geologica, sulla sua evoluzione, sulle condizioni climatiche che vi erano presenti nel passato e in particolare se Marte sia sempre stato secco e freddo come appare oggi. La sonda della Nasa ««Mars Global Surveyor»», collocata su di un'orbita circolare a 400 km, ha iniziato la mappatura tridimensionale ad alta risoluzione del pianeta e sta cominciando a fornire le sue risposte. Surveyor ha già rivelato inattesi dettagli su dimensioni e struttura della calotta polare settentrionale e dalla fine di febbraio è iniziato il lavoro di rilevamento dell'ancora poco conosciuta calotta meridionale. Marte è soggetto a cicli stagionali del tutto simili a quelli terrestri, ma la cui durata, a causa del più lungo periodo orbitale (687 giorni terrestri), è di circa 5 mesi e mezzo. Durante l'estate il calore solare fa sublimare il ghiaccio di anidride carbonica (ghiaccio secco) di una delle due calotte polari mettendo allo scoperto il ghiaccio d'acqua sottostante, che riesce per buona parte a resistere intatto alle più alte temperature estive. Con il sopravvenire dell'inverno e il conseguente abbassamento di temperatura, l'anidride carbonica, che rappresenta il maggior componente della tenue atmosfera marziana, si condensa e precipita sotto forma di ghiaccio nella regione polare trasportando con sè le polveri presenti nell'atmosfera, che l'estate successiva, quando il ghiaccio secco sublimerà, rimarranno depositate. Con l'alternarsi delle stagioni le calotte polari marziane sono perciò soggette a notevoli variazioni di dimensioni. In quella settentrionale si trova la maggiore riserva di sostanze volatili (ghiacci d'acqua e di anidride carbonica) presenti sul pianeta e in essa sono ben evidenti le tracce dei cicli stagionali sotto forma di sottili stratificazioni che consistono in un miscuglio di ghiacci e polveri, la cui analisi potrebbe fornire preziose informazioni sui cambiamenti che con il tempo ha subito il clima marziano, analogamente a come dall'analisi stratigrafica dei ghiacci polari terrestri è possibile risalire alla storia del clima del nostro pianeta. Sono già molte le immagini inviate a terra dalla telecamera di Surveyor che insieme alle misure effettuate dall'altimetro laser, la cui precisione assoluta è di pochi metri, ci hanno fornito una visione completamente nuova della regione polare boreale durante l'estate. La combinazioni delle immagini ad alta risoluzione, in cui si possono distinguere particolari di una decina di metri, con le misure del laser altimetro ha permesso di stabilire che la calotta di ghiaccio estiva ha un diametro di 1200 km e uno spessore massimo di 3 km. Essa appare formata principalmente da ghiaccio d'acqua e ricopre un'area superiore a quella della Spagna. Il suo volume è stato stimato in circa 1.500.000 km cubi, circa la metà del ghiaccio che ricopre la Groenlandia e il 4 per cento del ghiaccio antartico. E' una quantità notevole, ma certo non basta a spiegare la presenza di quelli che sembrano antichi letti di corsi d'acqua che sono visibili su buona parte della superficie di Marte. Queste misure tenderebbero anche ad escludere la teoria secondo la quale la superficie del pianeta in passato fosse in parte ricoperta da un oceano. La calotta polare Nord conterrebbe infatti meno del 10 per cento dell'acqua necessaria a riempire questo antico oceano. D'altra parte l'esistenza di formazioni di ghiaccio d'acqua, assimilabili a vasti terrazzamenti alti alcune centinaia di metri ed estesi per decine di chilometri, presenti in alcune zone periferiche e che sembrano essere i resti di una calotta di più grandi dimensioni, suggerisce che nel corso del tempo buona parte dell'acqua deve essere andata persa. Ma dove sarebbe finita? E' chiaro che nel passato Marte non è sempre stato freddo e desertico come appare adesso. Parte dell'antica acqua quindi, in condizioni di temperatura più alta, sarebbe stata presente in elevate quantità sotto forma di vapore nell'atmosfera e con il tempo si sarebbe dispersa nello spazio grazie alla bassa gravità del pianeta (il 38% di quella terrestre) e a complicate interazioni con il campo magnetico marziano. Un'altra parte potrebbe essere al di sotto della superficie, in forma di ««permafrost»», mentre un'altra riserva assai più piccola di quella che forma la calotta boreale, con ogni probabilità si trova in corrispondenza della regione polare meridionale. Ma la scoperta sorprendente fatta dalla sonda Surveyor è che la calotta polare boreale si trova in una vasta depressione circolare profonda circa 5 km centrata sul polo Nord che, risalendo dolcemente, si estende sino a circa 60 gradi di latitudine. La calotta, a differenza di simili formazioni terrestri, appare tagliata da canyons e avvallamenti profondi anche più di 1 km, che sembrano essere stati prodotti dal vento e dalla sublimazione dei ghiacci. I dati dell'altimetro mostrano inoltre che estese aree della distesa di ghiaccio sono estremamente piatte, con variazioni di altezza non superiori a qualche metro su estensioni di diversi chilometri quadrati. Altre tre missioni, due americane e una giapponese, sono in viaggio verso Marte, mentre una flotta di almeno una decina di sonde verrà lanciata nei prossimi sei anni con l'obiettivo di studiare in dettaglio la superficie e l'atmosfera marziana e di riportare a terra nel 2005 campioni del suolo marziano. Tra queste missioni una, la ««Kitty Hawk»», il cui arrivo a Marte è previsto per il 17 dicembre 2003, giorno del centesimo anniversario del primo volo effettuato dai fratelli Wright, dovrebbe far volare nell'atmosfera marziana un piccolo aereo dall'apertura alare di una decina di metri che, dotato di tutta una serie di strumenti, dovrà effettuare una ricognizione da bassa quota della superficie marziana. Entro pochi anni quindi i misteri che ancora avvolgono l'unico pianeta del sistema solare dove nel lontano passato sono forse esistite condizioni per lo sviluppo della vita potranno essere in buona parte svelati, spianando così la strada della prima missione umana che dovrebbe mettere piede sul pianeta rosso tra una ventina di anni. Mario Di Martino Osservatorio di Torino


SCIENZE DELLA VITA REALTA' VIRTUALE Per battere bulimia e anoressia
Autore: VALERIO GIOVANNI

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, ALIMENTAZIONE, ELETTRONICA
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO AUXOLOGICO , VEBIM
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, MI, MILANO

GUARDANDO le sfilate di moda in televisione, a molte donne sarà capitato di sentirsi i fianchi un po' larghi. Sensazione confermata da un recente studio americano. 76 studentesse sono state sottoposte alla visione di alcuni spot che mostrano il modello socialmente accettato del corpo femminile: longilineo, con fianchi stretti e seno piccolo (come nella pubblicità Dietorelle o Mercedes A). In una prima fase, hanno rilevato gli psicologi americani, le spettatrici si sono identificate nei soggetti del messaggio pubblicitario, percependo così un corpo diverso da quello reale. Poi, lontane dalla tivù, si sono rese conto che la loro corporatura non è quella proposta, e hanno così perso stima di sè. E quando una persona non è più soddisfatta del proprio corpo (o, meglio, dell'immagine che ha del proprio corpo) intraprende una serie di comportamenti per modificarlo, come le diete e l'esercizio fisico. Quando i risultati non rispondono alle aspettative, si abbassa ancora il livello di autostima e aumenta la frustrazione: cause che, secondo gli studiosi, possono portare a numerosi disturbi alimentari. Bulimia e anoressia nascono spesso da una percezione distorta del proprio corpo. Come Moscarda, il protagonista del pirandelliano ««Uno, nessuno e centomila»» che scopre di avere il naso storto, sarà capitato a molti di guardarsi allo specchio e di sentirsi sovrappeso, anche se la bilancia non lo conferma. Per curare questi disturbi della percezione, l'Istituto Auxologico di Milano ha messo a punto un trattamento che sfrutta le tecniche di realtà virtuale. Grazie a guanti con speciali sensori e a caschi in grado di fornire immagini tridimensionali in movimento, il sistema di realtà virtuale consente di entrare in mondi estremamente realistici, siano questi videogame oppure progetti architettonici. Con il sistema di realtà virtuale Vebim (Virtual Environment for Body Image Modification), il paziente viene invece immerso in un percorso che lo aiuta a far coincidere l'immagine soggettiva del proprio corpo con quella oggettiva. Con casco e guanti, entra in un mondo dove varca porte così strette che non lo lascerebbero passare se il suo corpo fosse come lo immagina. Oppure sale su una bilancia, verificando come il cibo modifica davvero il proprio peso. Grazie a questi confronti, anoressici e obesi iniziano a collaborare alle terapie nutrizionali e a seguire diete appropriate. Molte volte capita che il paziente, anche diminuendo di peso, non se ne renda conto. La percezione corretta del proprio corpo attraverso la realtà virtuale può distoglierlo da una dieta sempre più rigida che potrebbe portarlo anche all'anoressia. Finanziato dall'Unione Europea nell'ambito di Vrepar (Virtual Reality Environments for Psycho-Neuro-Physiological Assessment and Rehabilitation), il progetto è cominciato due anni fa all'Istituto ««San Giuseppe»» di Piancavallo, in provincia di Verbania, sotto la direzione di Giuseppe Riva dell'Università di Cagliari, uno dei maggiori esperti italiani di realtà virtuale. Gli ambienti artificiali di Vebim sono stati finora testati su un centinaio di volontari e su 25 obesi, bulimici e anoressici, con risultati incoraggianti. Entro il maggio prossimo la sperimentazione coinvolgerà altri ottanta pazienti, con l'intervento di più specialisti: un medico endocrinologo, un nutrizionista, uno psichiatra e uno psicologo clinico. Il sistema di realtà virtuale può funzionare su un ormai comune computer Pentium II a 400 MHz con 128 Mb di Ram: un'apparecchiatura a basso costo che potrebbe essere diffusa anche tra medici e ospedali. E, chissà, in un futuro prossimo, anche in casa. Per riacquistare la giusta percezione del proprio corpo dopo il bombardamento degli spot televisivi. Giovanni Valerio


SCIENZE DELLA VITA RONDINI DI PRIMAVERA Piano piano, ma arrivano Diminuisconosoprattutto nelle città
Autore: GROMIS DI TRANA CATERINA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI, ETOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, ITALIA

CI siamo, stanno arrivando. Sono le rondini. Non i rondoni, non i balestrucci, ma le rondini, ordine Passeriformi, famiglia Irundinidi, sottofamiglia Irundininae, specie Hirundo rustica. Gli Irundinidi si distinguono da tutti gli altri passeriformi per l'aspetto della siringe, l'organo della voce, che presenta attorno ai bronchi anelli quasi completi di cartilagine. Grazie a questi anelli la rondine canta, cioè ««garrisce»», come si impara alle elementari quando si studiano i versi degli animali: l'elefante barrisce, la cicala frinisce, la rondine garrisce... Il garrire non è granché melodioso come canto, ma la natura non regala tante doti a uno solo: al tordo e all'usignolo il bel canto in primavera, alla rondine la bellezza del volo. In Italia a garrire non è sola: i suoi simili che appartengono allo stesso ordine e che con lei spesso vengono confusi sono la rondine rossiccia (Hirundo daurica), che nidifica solo in Sardegna, Liguria e Toscana, la rondine montana (Ptyonoprogne rupestris), che sceglie per crescere la prole l'aria salubre dell'Arco Alpino e i rilievi dell'Appennino e delle isole, il topino (Riparia riparia) che scava il nido sulle rive argillose o sabbiose dei fiumi, e il balestruccio (Delichon urbica) che con la rondine convive, e da lei si distingue per il groppone bianco anziché nero. Altro sono i rondoni: anche loro sempre in aria saettanti e affusolati, sembrano fratelli delle rondini e invece sono cugini, nemmeno così vicini. Appartengono addirittura ad un altro ordine, gli Apodiformi, ma hanno come le rondini le ali lunghe e appuntite, il becco fatto apposta per cacciare insetti in volo, gli occhi grandi e attenti: è un caso come tanti di convergenza evolutiva, un fenomeno affascinante con cui la natura avvicina creature geneticamente lontane che, adattate allo stesso ambiente, col tempo finiscono per somigliarsi come se condividessero genitori e fratelli. ««San Benedetto la rondine al tetto»», proverbio che provoca allarme, di questi tempi. San Benedetto è stato il 21 marzo,primo giorno di primavera. E le rondini? I cieli dell'Italia del Nord sono ancora freddi e muti. Ma non è il caso di angustiarsi troppo: arrivano sempre, non tutte assieme e non tante come una volta, ma arrivano. A maggio e a giugno punteggiano l'aria di strida, quando più nessuno ci fa caso e sembra dimenticato l'allarme di marzo che lascia come un'eco nella mente, a borbottare che le rondini non tornano più. Certo non tornano nel centro delle città, non come quando al posto delle auto c'erano le carrozze trainate dai cavalli e invece dell'inquinamento da gas di scarico c'era quello da letame. L'ambiente era più rustico e la fauna più svariata, tanti gli insetti e tante le rondini cacciatrici. Oggi le città sono state ripulite da anticaglie come i rifiuti organici per strada, gli insetti se ne sono andati assieme ai cavalli e le rondini hanno ceduto il passo ai piccioni, a cui la fauna minuta ronzante non interessa. Dove sono finite per alimentare le idee dei pessimisti che vedono l'estinzione dappertutto? Sono andate a cercare la stalla col soffitto a volta, il vetro rotto della casa non curata, il vecchio borgo fatiscente, il bestiame al pascolo, gli stradelli con le pozze d'acqua. Nostalgiche dell'atmosfera di campagna di una volta, è qui che tornano più volentieri, fiduciose di ritrovare la finestra sempre aperta e, dietro, il vecchio nido da risistemare. L'istinto gregario le porta, se possono, a costruire vicini i loro nidi e a creare incantevoli villaggi di fango sotto lo stesso tetto. La forma del nido è quella di una mezza sfera cava, lo spessore maggiore è dalla parte dove è assicurata alla parete, e i mattoni sono palline di fango che le rondini raccolgono nel becco e che mescolano con rami, steli, crini. Il cemento è la saliva e l'interno è rivestito con un morbido materasso di piume, fili d'erba e quel che di soffice trovano in giro, per accogliere quattro o cinque uova. Affettuosa è la cura delle prole... ««ella aveva nel becco un insetto, la cena dei suoi rondinini»» e le ultime imbeccate sono per aria, durante i primi voli dei piccoli. Hanno popolazioni fluttuanti e sono necessari molti anni di attenzione prima di sapere se la loro densità è in aumento, in diminuzione o sempre uguale. Si studiano con inanellamenti e ricatture, conteggio di nidi uova e pulli, confronto di dati incrociati sulla mortalità durante la migrazione, sul successo riproduttivo e sulle condizioni di vita nei luoghi di svernamento. Chi ha la pazienza di raccogliere i dati non si scoraggia quando vede la stalla modello con le finestre chiuse in faccia alle rondini, e le vacche là dentro senza insetti attorno, a produrre latte già pastorizzato ancor prima di essere munto. Lo studioso continua a raccogliere dati, alla faccia degli insetticidi che uccidono il cibo delle rondini, perché pensa che loro catturano insetti in volo, quindi vivi, e quindi non ancora, o non del tutto, avvelenati. E non molla nemmeno quando vede asfaltare i sentieri e sparire le pozzanghere, così utili, perché l'acqua da qualche altra parte si troverà. Il vero naturalista è così, pazientissimo e ottimista, e a volte è premiato da risultati che salvano la speranza. Così potrebbe essere per le rondini italiane. La diminuzione di cui tanto si parla riguarda l'Europa del Nord, e tante ne sono le cause, tra cui anche il calo demografico umano (è dal Neolitico che le rondini stanno vicine all'uomo, e risentono della sua presenza scarsa o numerosa). In Italia pochi hanno raccolto dati sufficienti per fare delle stime valide, ma forse la situazione è migliore di quel che sembra e i naturalisti più attenti usano la parola ««fluttuazione»» che è meglio di ««diminuzione»». Forse salvare la speranza vuol dire che ancora i nostri figli e i figli loro capiranno quello che scrive Mario Luzi delle rondini, perché le hanno viste, non solo imma- ginate. Sgorgano L'una dall'altra Esse, traboccano Fuori dal loro primo caldo gruppo, l'una Dopo l'altra, disfano Le loro rapide pattuglie Sbandando sotto la loro impavida veemenza Ed eccole si lanciano, Nero zampillo ricadente, Su, alte nell'aria... Caterina Gromis di Trana


SCIENZE DELLA VITA LOTTERIE Lo Stato biscazziere
ARGOMENTI: GIOCHI
ORGANIZZAZIONI: LOTTO
LUOGHI: ITALIA, ITALIA

Con otto lotterie nazionali, gioco del Lotto e Superenalotto, Totip, Totocalcio e Totogol, Gratta&Vinci e scommesse ippiche, l'Italia è ai primi posti in Europa in fatto di giochi d'azzardo benedetti dallo Stato, per un volume d'affari di quasi 28 mila miliardi (dati ufficiosi del 1998). I giocatori abituali (almeno 2-3 volte la settimana, indipendentemente dal tipo di gioco) sono circa il 4% della popolazione adulta, circa il 30% gioca una volta la settimana mentre quasi il 90% gioca saltuariamente. In confronto a ciò i 4 casinò ufficiali sono poca cosa. Non arrivano a coinvolgere 2 milioni di persone l'anno e hanno un giro d'affari di 700 miliardi. Gli uomini sono 4 volte tanto le donne e, volendo trovare una caratteristica comune, i più a rischio sono gli insoddisfatti, coloro che vorrebbero ««fare il colpaccio»» e cambiare vita.


SCIENZE DELLA VITA PSICHIATRIA E SCOMMESSE Come curare il gioco d'azzardo patologico In Italia, su circa 13 milioni di giocatori abituali, il 3 per cento rischia di diventare dipendente da questa passione Un vizio assimilato a piromania e cleptomania, già classificato in Usa tra le malattie mentali. Un seminario a Firenze
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, GIOCHI
NOMI: GUERRESCHI CESARE, RAVIZZA LUIGI
ORGANIZZAZIONI: SOLVAY PHARMA
LUOGHI: ITALIA, FI, FIRENZE, ITALIA

PROVATE un brivido di eccitazione quando entrate in un casinò o in una sala scommesse? Sentite la necessità di fare puntate sempre più alte per recuperare il denaro perduto? Giocate o scommettete in continuazione per evadere dai problemi di ogni giorno? Mentite ai familiari sul denaro perduto e siete disposti a giocarvi la carriera pur di continuare a giocare? In Italia, sui circa 13 milioni di giocatori abituali, il 2-3% presentano queste caratteristiche e rischiano di diventare giocatori d'azzardo patologici. Nel nostro Paese, il ««non riuscire a trattenersi dal giocare e scommettere»» è considerato poco più di un vizio. In realtà il gioco patologico, il bisogno incontrollato di un tavolo da poker, di una schedina del Totocalcio, di una slot machine o di scommettere alle corse di cavalli è un vero e prorio disturbo psichiatrico, che negli Stati Uniti è studiato fin dagli Anni Sessanta, e che, come tale, è oggi inserito nel Manuale delle malattie mentali (DSM-IV). ««Il gioco d'azzardo patologico appartiene al gruppo dei disturbi del controllo degli impulsi»», spiega Luigi Ravizza, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Torino, ««al pari della piromania, della cleptomania e della tricotillomania, caratterizzati dalla incapacità di resistere a un impulso, alla tentazione di compiere qualcosa di pericoloso per sè o per gli altri»». Inoltre è una patologia più insidiosa di altri disturbi, perché non ha sintomi evidenti: il giocatore non ha l'alito pesante degli alcolisti, non ha problemi di deambulazione o di concentrazione dei tossicodipendenti. Le sue ««crisi di astinenza»» in genere non sono violente e la sua ansia da gioco si placa facilmente: gli basta infilarsi nella prima sala giochi o fare qualunque scommessa. Il gioco patologico è una vera e propria malattia nascosta, tanto più pericolosa per il fatto che in molti Paesi il gioco d'azzardo fa parte della tradizione culturale e nell'iconografia generalmente condivisa il giocatore è esempio di virilità, di freddezza e autocontrollo. Un'immagine vincente. Questo disturbo spesso diviene evidente come causa prima di altre patologie (disturbi d'ansia, disturbi affettivi, abuso di sostanze quali alcol, cocaina o altre droghe sintetiche). Infatti, secondo statistiche americane, circa la metà dei giocatori d'azzardo patologici ha anche l'abitudine di alzare troppo il gomito, mentre il 76% soffre di depressione, il 38% è ipermaniacale e il 28% soffre d'ansia. Dei problemi legati al gioco d'azzardo come patologia si è parlato pochi giorni fa a Firenze, durante un sintetico ma incisivo seminario organizzato dalla Solvay Pharma e significativamente intitolato ««Quando il gioco diventa un'ossessione»». Psichiatri, psicologi e storici sono stati invitati a tracciare un quadro della situazione (in Italia, forse il primo così completo e ufficiale) per far suonare un campanello d'allarme. Non si tratta di criminalizzare alcunché; solo di rendersi conto della situazione, qui da noi recentemente aggravata da questa mania collettiva per il Superenalotto, sostenuta addirittura dallo Stato (sia come nelle vesti di colui che ««gestisce il banco»», sia per il fatto che la Rai trasmette delle trasmissioni fatte apposta per sostenere lotterie e lotto). Quali rimedi? Tra le novità presentate a Firenze ci sono stati i risultati di una terapia farmacologica, che agisce sul sistema serotoninergico tramite preparati che stabilizzano l'umore e hanno affetti antiimpulsivi. Nel 1998 in uno studio pilota in singolo cieco compiuto su 10 giocatori d'azzardo patologici, condotto negli Stati Uniti e durato 8 settimane, il 70% dei pazienti che hanno assunto Fluovoxamina(Fevarin) ha fatto registrare una drastica riduzione del desiderio di scommettere. Su un altro fronte, quello della psicoterapia, a Bolzano da alcuni anni è in corso un interessante programma pilota per il recupero dei giocatori d'azzardo, condotto da Cesare Guerreschi, psicoterapeuta ed esperto di dipendenza da alcol. Il suo lavoro sui giocatori psicologici è iniziato negli Anni Novanta e, dopo un'esperienza al South Oaks Hospital di Amityville (Usa), ha ««importato»» in Italia il metodo utilizzato dagli Anonymous Gamblers. Si ricorre a psicoterapie individuali e collettive, a gruppi di autoaiuto (come per gli alcolisti anonimi), all'assistenza legale e a strumenti di controllo delle attività economiche. A parte casi estremi è meglio puntare sull'orgoglio e stimolare il paziente a un graduale pagamento dei debiti, piuttosto che farli estinguere subito tutti mediante aiuti esterni; a volte la recuperata fiducia in se stessi è la migliore delle medicine. Gli studi sull'efficacia della terapia hanno dimostrato che il rapporto totale costo-benefici per la società è di 1 a 20 e che l'80 per cento dei pazienti riesce a uscire dal tunnel. Ma i familiari del malato giocano un ruolo essenziale perché quasi mai il giocatore patologico fa il primo passo, spesso non riconosce nemmeno il suo problema (per informazioni 167-368300). A parte le sedute di psicoterapia e i gruppi di auto-aiuto, esistono anche altre strategie da mettere in atto per evitare che questa patologia dilaghi indisturbata: ««Si tratta di strategie già adottate negli Usa, che sono i più avanzati sotto questo profilo»», conclude Guerreschi. ««Occorre aprire sportelli a favore dei giocatori compulsivi nei luoghi più a rischio (sale da gioco, sale corse... ), istituire linee d'ascolto telefonico, organizzare programmi di formazione per i medici di base (i più vicini al pubblico, ma anche i meno preparati a riconoscerne i sintomi5) e aprire dei centri per la disintossicazione»». Andrea Vico


SCIENZE A SCUOLA AL POLITECNICO DI TORINO Un docente cibernetico agli esami universitari
Autore: TARTAGLIA ANGELO

ARGOMENTI: DIDATTICA, INFORMATICA, ESAMI, UNIVERSITA'
ORGANIZZAZIONI: POLITECNICO DI TORINO
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, TO, TORINO

GLI esami universitari sono un passaggio essenziale della formazione di uno studente perché dicono a lui e all'istituzione qual è il livello conseguito negli studi. Peccato però che l'esame tradizionale fornisca risultati difficilmente comparabili, anche tra corsi paralleli di ugual nome, e non riesca a dare informazioni oggettive circa la corrispondenza del livello di preparazione certificato, con un qualsiasi standard prefissato dalla facoltà o dal corso di laurea di appartenenza. Si aggiunga che la modalità tradizionale di esame occupa il docente per un tempo rilevante in una attività sostanzialmente ripetitiva e improduttiva. In un corso di base il professore svolge (tra lezioni ed esercitazioni) un centinaio di ore in aula e poi ne dedica anche 130-150 agli esami: questo tempo potrebbe essere destinato, almeno in parte, ad attività formativa diretta. Questi sono i motivi che hanno suggerito di ricorrere, al Politecnico di Torino, a metodi di valutazione automatica integrativa (il diritto dello studente ad avere un interlocutore in carne ed ossa credo sia inalienabile). Il principio utilizzato è molto semplice. Si tratta innanzitutto di preparare una base di domande il più possibile ampia. Le domande vengono classificate per argomento in modo da coprire tutta la materia e suddivise in tre categorie: quelle che richiedono il possesso di nozioni (tipo 1), quelle che implicano capacità deduttive (tipo 2), quelle che comportano il ricorso a formule e calcoli (tipo 3). La macchina propone ad ogni studente una serie di domande scelte a caso, ma in modo tale che il rapporto tra primo, secondo e terzo tipo sia prefissato e la distribuzione per argomenti omogenea. La durata della prova è predeterminata (60 minuti nell'esperimento effettuato), ma non vi sono vincoli per le singole risposte. Appena terminata la prova lo studente ne conosce l'esito in punti conseguiti sul totale disponibile (i tipi di domande corrispondono ai punteggi 1, 2 e 3). Al docente viene fornito un rapporto più completo con le risposte domanda per domanda. La presentazione tridimensionale del risultato consente a colpo d'occhio di individuare quali sono i punti di forza e di debolezza di un candidato, sia per materia sia per conoscenza, capacità logica, capacità pratica. Per ora il colloquio orale con la commissione d'esame rimane obbligatorio; in futuro, quando il metodo sarà ben tarato, lo studente potrebbe scegliere se accettare la valutazione della macchina, convertita in un voto, oppure presentarsi all'orale, nel qual caso vi arriverebbe con il profilo redatto dalla macchina. L'esperimento su 21 volontari è stato soddisfacente: le valutazioni automatiche sono equilibrate, realistiche e, per i casi verificati in commissione d'esame, corrispondenti alla valutazione finale diretta. E' appena il caso di ricordare che una prova svolta nel modo che ho descritto non richiede che l'esaminato (previo accertamento della sua identità) sia nello stesso luogo in cui si trova il server che gestisce l'operazione e quindi apre interessanti prospettive per la teledidattica. Nel prossimo futuro, a parte il perfezionamento di alcuni dettagli tecnico-informatici, oltre ad ampliare la base di domande e raffinare la classificazione per argomenti, si passerà al concatenamento delle domande su due livelli. In concreto la macchina presenterà una domanda, lo studente sceglierà la risposta e a questa seguirà un'ulteriore domanda correlata alla risposta (giusta o sbagliata) data al passo precedente. In prospettiva i livelli di concatenamento saranno anche più di due, ma la complessità informatica cresce molto rapidamente man mano che il loro numero aumenta. La valutazione automatica è importante, ma il suo significato rimane limitato se non viene integrata con forme di apprendimento e addestramento assistiti dal calcolatore. Il Laboratorio per la multimedialità del Politecnico sta lavorando a parecchi progetti per la didattica assistita dal calcolatore e, nell'ambito delle scienze fisiche, un gruppo di docenti del Dipartimento di Fisica, collabora, per un progetto europeo, con l'Università di Provenza a Marsiglia e con l'Università di Barcellona ad una piattaforma informatica per l'autoapprendimento, la valutazione e l'accreditamento delle conoscenze e competenze acquisite nel campo della fisica. Il professor computer, insomma, non rischia la disoccupazione. Angelo Tartaglia Politecnico di Torino


SCIENZE A SCUOLA LA LEZIONE: LA LINGUA D'OC Ma cos'è questo occitano? Fu espressione della raffinata cultura trobadorica
Autore: QUAGLIA LUCA

ARGOMENTI: ANTROPOLOGIA ETNOLOGIA, DIDATTICA, STORIA
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, PIEMONTE
TABELLE: C. I LUOGHI DELL'OCCITANO

IN lingua d'oc si espresse una raffinata civiltà cortese tra l'undecimo e il tredicesimo secolo, in quello che divenne, poi, il sud della Francia. Tale civiltà è detta ««trobadorica»», ossia ««dei trovatori»», personaggi che possiamo paragonare ai nostri cantautori, poiché, sebbene fossero più attenti di questi alla perfezione formale dei testi, componevano versi e musica. La lingua occitana, seppur ridotta a rango di parlata naturale di registro umile, non è svanita nel nulla con la fine dell'età trobadorica, ma in questi ultimi anni i dialetti occitani sono in gran ripresa, e tanto, da essere parlati in convegni e incontri di gran prestigio. ««Parèis que la Lenga Nòstra renasca a novèla vida»», verrebbe da dire, riportata agli antichi splendori! E ciò è ben vero: docenti universitari d'ogni nazione, perfino del Giappone, ormai, comunicano direttamente in Occitano durante gl'incontri di studio! Ma che cos'è questo Occitano? che cos'è questa lingua d'oc o Provenzale? che cos'è questa lingua dei trovatori che abbiamo detto parlarsi in circa quindici vallate del Piemonte? L'Occitano è, innanzitutto, una lingua neolatina del sottogruppo gallo-romanzo, parlata, oltre che in tutto il Midi della Francia, anche in alta Val di Susa, Val Chisone, Val Germanasca - valli in cui le parlate presentano i fenomeni tipici dei dialetti estremo settentrionali del nord-occitano - Val Pèllice, Valle Po, Val Varaita, Val Maira, Val Grana - che possiamo definire anche linguisticamente come centrali, nell'insieme alpino orientale, Valle Stura di Demonte, Val Gesso, entrambe di tipo centro-meridionale, nell'insieme alpino orientale -, Val Vermenagna - di tipo meridionale, nell'insieme alpino orientale - e nelle valli Pèsio (ora fortemente piemontesizzata), Ellero, Corsaglia, e alta Val Tànaro (se riteniamo il Brigasco una parlata occitana), aree periferiche dell'Occitania alpina orientale, in cui si sono conservate, talvolta, forme perdute in tutto il resto del Paese d'oc. La lingua occitana appartiene alla famiglia indeuropea, di cui fanno parte le lingue indiraniche, elleniche, antiche anatoliche, illiriche, baltiche, slave, germaniche, celtiche, italiche, l'Armeno, il Tocari(c)o, l'Albanese, il Venetico, il Latino. Di quest'ultima lingua, l'Occitano è un'evoluzione, come il Francese, lo Spagnolo, il Portoghese, il Catalano, i dialetti padani gallo-romanzi e venetico-romanzi, il Romancio, il Ladino, il Friulano, l'Arpitano - detto anche Franco-provenzale - il Sardo, l'Italiano-settentrionale (Toscano), centrale, meridionale e estremo meridionale (che ho recentemente proposto di denominare Ausonico, considerandolo, peraltro, come gruppo autonomo), il Rumeno e l'estinto Dalmatico. La lingua d'oc può dirsi nata dalla corruzione del Latino parlato dalle popolazioni celtizzate nel sud delle Gallie, frammisto ad elementi italici. Parlo di popolazioni celtizzate poiché, ad oriente i Liguri, ad occidente gl'iberi e i Vasconi furono indeuropeizzati da parte dei Celti, i quali, vinta la resistenza opposta dalla civiltà anària, detta del bicchiere campaniforme, riuscirono, con buona probabilità posteriormente alla colonizzazione della Cisalpina e di alcune zone interne dell'Ibèria, a occupare quella che da loro prese poi il nome di Gallia, introducendovi il primo apporto culturale indeuropeo. Se nel sud della Francia, come da noi, le caratteristiche somatiche descritteci dagli autori classici come peculiari dei popoli barbari non sono comunissime, è perché queste erano proprie di un numero esiguo di appartenenti alle aristocrazie militari dominanti su una massa di genti di vario tipo. E' ormai risaputo che, quando si parla di indeuropeizzazione, si parla solo e sempre in termini linguistici e culturali e mai in termini razziali. La romanizzazione delle Gallie fu in buona parte ««autogena»» e di tipo soprattutto linguistico-culturale, pur se molti ex-legionari, soprattutto appartenenti a tribù italiche, ottennero terre nelle nuove provincie, e ivi si tabilirono. Con l'ultima grande migrazione indeuropea si ebbe una non massiccia nè stabile germanizzazione del futuro territorio occitano ad opera principalmente dei Visigoti. L'Occitano, come qualsiasi altra lingua, è suddiviso in una moltitudine di parlari. Le lingue letterarie sono riconducibili ad alcuni dialetti principali, e in taluni casi ad alcune loro varianti sottodialettali. F. Mistral, premio Nobel della letteratura nel 1904, autore dei celeberrimi ««Mirèio»», ««Calendaou»», ««Pouèmo dòu Rose»» e del ricchissimo vocabolario intitolato ««Tresor dòu Felibrige»», scrisse in provenzale rodanese. F. Gag, autore teatrale di Nizza, scrisse molte sue pècas in provenzale nizzardo. Il poèta cinquecentesco Pèir de Garròs, scrisse in guascone bearnese, che, assieme a quello del Coseran, rappresenta il sottodialetto più tipico, bello e ostico dei Pirenei. Il dialetto che ho recentemente proposto di chiamare ««occitano alpino orientale»» (Occitan alpenc oriental) e i suoi vari sottodialetti parlati nelle valli del Cuneese e del Torinese, fanno parte dell'Occitano settentrionale, insieme ai dialetti e ai sottodialetti del Limosino, dell'Alvernia e di quell'area che dall'Alvernia prende il Vivarese, gran parte del Delfinato e delle aree alpine della Provenza in cui si parlano quei sottodialetti che sarebbe opportuno designare come alpini occidentali, considerando i tratti che li distinguono da quelli delle nostre valli. Servendoci della grafia fonematica proposta dal professor A. Genre, che, pur se assolutamente imperfetta, è di facile utilizzo, non facendo uso di caratteri particolari, possiamo concludere questa succinta panoramica introduttiva , vedendo qualche semplice fatto pìu in dettaglio. Le forme riportate in detta grafia sono tra parentesi quadre. Il sottogruppo occitano settentrionale presenta le velari latine ««g(a)»» e ««k(a)»» palatalizzate, ovvero, aventi preso il suono dolce di ««g»» e ««c»» , di fronte alle vocali ««e»» e ««i»» in Italiano, contrariamente ai dialetti meridionali-Guascone, Linguadòcico e Provenzale propriamente detto, e ai dialetti padani come il Ligure e il Piemontese, che le hanno conservate intatte. In molti sottodialetti occitani settentrionali e alpini, successivamente, le palatali sono divenute delle affricate, ossia hanno preso il suono della ««z»» sorda - quella dell'italiano ««zucchero»» pronunciato correttamente - quando evoluzione di , e di ««z»» sonoro - quella dell'italiano ««zona»» - quando evoluzione di . Avremo, dunque, zone in cui passa a e a , ed altre ancora in cui le velari pan-occitane, dopo il passaggio ad affricate delle palatali, divengono palatali. Un modo empirico, ma abbastanza efficace, ad uso delle genti di lingua gallo-romanza, per pronunciare correttamente la ««z»» sorda o sonora, è quello di considerare se nella loro parlata l'eventuale corrispondente al termine italiano inizia con una sibilante sorda o con una sonora . Es.: it. : piem. = it. : piem. . C'è di che divertirsi, o di che uscire pazzi, a seconda dei punti di vista! Luca Quaglia




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