ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA, BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NEL nostro cervello esiste una sorta di orologio: il nucleo soprachiasmatico; una delle sue principali funzioni è regolare il ritmo sonno-veglia; per svolgerla, si avvale della mediazione delle variazioni della temperatura corporea. Sembra di snocciolare un trito slogan ecologico quando si afferma che la società con la sua frenesia, le sue sregolatezze, una tecnologia esasperata ha alterato i nostri ritmi naturali. La scienza però fornisce conferme sempre più convincenti che questa preoccupazione è fondata. Uno degli aspetti della bio-psicologia più studiati riguarda i disturbi del sonno. Di quante ore di sonno abbiamo bisogno? Come deve essere il sonno per ristorarci? Quand'è il momento di andare a letto? Sono tutte percezioni che abbiamo perso e che, di conguenza hanno portato ad un deteriorioramento della qualità della vita. Hauri e Olmstead sulla rivista ««Sleep»», hanno pubblicato gli esiti di un'indagine in cui hanno rilevato che mentre in chi dorme bene la sensazione di addormentarsi quasi coincide con la registrazione elettroencefalografica del sopravvenire del sonno, negli insonni questa sincronia è sfasata. Per qualcuno ciò può dipendere dalla necessità di accumulare una maggiore stanchezza. Di sicuro è un problema dei depressi cronici. O almeno è questa la spiegazione che danno due ricercatori, Borbely e Wirz-Justice su ««Human Neurobiology»», commentando l'effetto che la deprivazione di sonno ha sui melanconici. Mentre sugli individui comuni non dormire provoca fiacchezza, irritabilità, rallentamento dei riflessi e dei processi mentali, in chi soffre di depressione si osserva un anomalo invigorimento. Secondo i due studiosi, i depressi hanno un effetto della sonnolenza (detto Processo S), più lento degli altri; stando svegli più a lungo, riescono quindi a godere poi di un profondo sonno rigeneratore. E' il nostro orologio biologico, situato nel nucleo soprachiasmatico, una struttura del cervello, a determinare l'alternarsi del ciclo circadiano di veglia-sonno. Questa regione non si limita a regolare il momento di andare a letto o di svegliarsi, ma orchestra diverse funzioni biologiche: il rilascio dell'ormone della crescita, la funzionalità del sistema cardiovascolare, il livello del cortisolo (un ormone legato alla vigilanza), la tolleranza al dolore e altri. Il parametro più legato al ritmo circadiano è la variazione della temperatura corporea. Proprio la temperatura si è rivelata determinante nel cadenzare le fasi del sonno.Una ricerca condotta da Vandenheuvel e pubblicata sulla rivista ««Journal of Sleep Research»», ha posto il suggello su quanto abbozzato in precedenti studi: esiste una stretta relazione tra diminuzione della temperatura del corpo e inizio del sonno. Esaminando 14 maschi e adulti, dopo un periodo di adattamento al laboratorio, si è constatato come la temperatura del corpo si abbassi notevolmente con l'inizio del sonno, mentre aumenta il calore a livello delle estremità. La sensazione di sonnolenza aveva fatto il suo esordio nei soggetti circa un'ora prima dell'addormentamento. Anche il declino del calore corporeo comincia prima. Studiando dei soggetti in età matura, Campbell e Brougton hanno riferito su ««Chronobiology International»» che questi individui tendevano a prendere la decisione di coricarsi circa 40 minuti prima di addormentarsi; in corrispondenza con una brusca accelerazione del calo di temperatura. Sentire il bisogno di andare a dormire corrisponde in chi non ha problemi di sonno al momento in cui la temperatura comincia a diminuire e quel momento è di norma piuttosto lontano dal periodo della giornata in cui si è più attivi e energici. Chi ha disturbi del sonno, hanno provato Morris e altri scienziati, invece va a letto quando ancora si trova in una condizione di vigilanza: è comprensibile allora che abbia necessità di più tempo per prendere sonno e che lamenti risvegli frequenti o levate precoci. Secondo Morris ciò è dovuto al fatto che questi individui hanno portato in avanti le lancette del loro orologio interno, scombinando quindi tutti i ritmi normali. Un'ulteriore scoperta di alcuni ricercatori capitanati da Sasaki ha fornito altre conoscenze sul legame tra sonno e temperatura. Nel loro esperimento l'interruzione del sonno provocava, alla sua ripresa, lo sviluppo di sogni. Inoltre, la temperatura subiva un improvviso abbassamento e rimaneva bassa per le due ore consecutive. Secondo questi studiosi è proprio la diminuzione del calore corporeo a fornire il substrato fisiologico perché si verifichi il sonno REM (quello in cui si sogna). In genere il picco minimo della temperatura si produce a metà del periodo si sonno; circa 4 ore dopo l'addormentamento. Questo valore compare suppergiù a 12 ore dal momento in cui la temperatura ha raggiunto il livello massimo. La riduzione della temperatura avviene in qualunque momento si vada a dormire; è quanto affermano su ««Sleep»», Gilberg e Akerstedt; precisando che solo in due orari questo non accade: alle 7 di mattina e alle 19. Gli stessi studiosi hanno constatato che, per contro, un innalzamento del calore è accompagnato dal risveglio. Finché la temperatura rimane bassa, il sonno viene mantenuto. Partendo da questa osservazione, i due ricercatori hanno stabilito che anche la durata del sonno è in relazione alle modificazioni termiche. Dumont, dell'Università di Montreal, ha notato che le fluttuazioni della temperatura corporea subiscono una variazione in rapporto alle stagioni. D'estate si va a letto più tardi e ci si alza prima. Questo cambiamento riflette un analogo spostamento in avanti dell'orologio interno. In sostanza, il corpo si raffredda più tardi di notte e si scalda prima all'alba. Questo slittamento sembra sia dovuto al fatto che il ««cronometro»» è sensibile alla luce sia solare che artificiale, per cui si è esposti ad un maggior numero di ore ««assolate»» e il sole sorge quasi un'ora e mezzo prima che d'inverno. Si pensi anche al rapporto che tutto ciò può avere con il periodico alternarsi dell'ora legale e solare. Al di là delle abitudini, anche una predisposizione innata può influire su temperatura e sonno; si tratta della tendenza ad essere mattinieri, cioè ad essere lucidi e attivi al mattino, oppure nottambuli, cioè a caricarsi con il passare delle ore. Kerkohof ha osservato che i mattinieri mostrano un più rapido calo della temperatura dopo il sonno, un addormentamento quasi subitaneo e un maggiore durata del sonno. Inoltre, chi è più energico all'alba, ha una più sonnolenza la sera.L'appartenere all'una all'altra categoria può comportare problemi quando il lavoro è a rotazione. Iskra Golec, su ««Ergonomics»», lo ha messo in evidenza attestando, sulla base di alcune ricerche, che il turnista ideale non ha una netta predilezione per la mattina o il pomeriggio; anzi, mostra una spiccata flessibilità riguardo il momento di andare a letto ed è capace di far fronte alla sonnolenza in modo efficace.C'è però chi sembra sempre assonnato e intorpidito sia alle prime luci del giorno sia a tarda sera. Verrebbe da pensare che questi individui siano sempre in debito di sonno o che abbiano un orologio sempre sfasato. Harrison e Horne con un'indagine, pubblicata su ««Neurophysiologie Clinique»», hanno sfatato questa credenza. Chi appare sonnolento, il più delle volte manifesta invece un buon sonno e non lamenta sonnolenza durante il giorno. Oltretutto, sembra che costoro abbiano la capacità di rilassarsi e ritemprarsi con sonnellini diurni di breve durata. Marco Pacori
ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA, BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TUTTI conosciamo persone che sostengono di potersi svegliare al mattino senza l'aiuto di una sveglia. Sono generalmente persone con abitudini di sonno regolari (si addormentano e si svegliano sempre alla stessa ora). Tuttavia varrebbe la pena di fare un esperimento su noi stessi (non consigliabile nei giorni di lavoro), ovviamente dopo aver assestato il sonno su basi regolari: diciamo dopo una settimana di preparazione andando sempre a letto, poniamo, alle 23 e svegliandoci (con una sveglia) alle 7 del mattino. Dopo questo periodo possiamo tentare per tre mattine di seguito di svegliarci spontaneamente, senza l'aiuto della sveglia, alla stessa ora. Molti di noi si stupirebbero non solo del successo dell'esperimento ma della precisione dell'ora della sveglia (più o meno 5 minuti di errore). Con questo esperimento avremmo dimostrato due fenomeni, la presenza di una sveglia interna al nostro cervello caricabile e la sua precisione. Avremmo inoltre imparato che il sonno è un meccanismo preciso e delicato. Noi però facciamo tutto il possibile per danneggiarlo o addirittura distruggerlo con le cattive abitudini. Un gruppo di ricercatori della clinica neuroendocrinologica e del dipartimento di medicina interna dell'Università di Lubecca ha cercato di svelare il mistero dello svegliarino umano utilizzando 15 soggetti sani dall'età media di 25 anni con ritmi regolari di sonno e veglia esaminandoli per tre notti nel laboratorio del sonno. Oltre alla registrazione continua dell'Eeg (elettroencefalogramma), un rivelatore preciso non solo dei periodi di sonno ma anche della loro profondità, venivano prelevati dei campioni di sangue ogni quindici minuti. Si spegneva la luce a mezzanotte dopo che i soggetti erano stati avvertiti che sarebbero stati svegliati o alle 6 (sonno corto) o alle 9 (sonno lungo) del mattino seguente. In una delle notti a sonno lungo vennero svegliati come annunciato precisamente alle 9 di mattina ma nella notte successiva vennero ingannati e svegliati già alle 6 invece che alle 9 con il pretesto di un problema tecnico. Dopo la sveglia i soggetti rimasero ancora a letto per tre ore. Intervistati alla fine del sonno, tutti meno uno rivelarono di essersi aspettati una sveglia all'ora acccordata (ore 9) e non alle 6 del mattino. Quali indicatori della regolazione circadiana (cioè di quasi un giorno) del sonno si erano misurati nel sangue due ormoni prodotti rispettivamente dall'ipofisi (l'adrenocorticotropina) e dalla ghiandola surrenale (il cortisolo). Questi ormoni vengono immessi nel sangue come risposta ormonale a uno stress o in previsione di una situazione stressante. Si voleva così esaminare la possibilità di un eventuale aumento della secrezione dei due ormoni come segnale inconscio di uno stress imminente (dovrò svegliarmi tra poco). Come al solito il livello dei due ormoni aumentò gradualmente durante il sonno e rimase uguale nei vari soggetti fino alle 4,30 del mattino. Da questo punto in poi le cose cambiarono a seconda delle condizioni sperimentali. Nei soggetti avvertiti di una sveglia alle 6 si notava un notevole aumento della corticotropina a partire dall'ora precedente la presunta sveglia. La reazione ormonale inconscia non era invece presente nei soggetti svegliati ««per errore»» alle 6 ma che si aspettavano di dormire fino alle 9. Nè era presente in quelli non svegliati alle 6 ma preparati per un risveglio alle 9. E' interessante notare che dei due ormoni solo la corticotropina era aumentata, non il cortisolo. Al mattino al momento della sveglia si notava invece un aumento di entrambi gli ormoni da stress. L'aumento di un ormone secreto dall'ipofisi (ghiandola che è sotto controllo di quella parte del cervello chiamata ipotalamo che è a sua volta influenzata dall'orologio interno) misurato in anticipo all'ora della sveglia è significativo. Esso indica che la sola aspettativa di doverci svegliare ad una certa ora è sufficiente per produrre una situazione inconscia di stress che si esprime durante il sonno. Ciò provoca una reazione ormonale analoga a quella che si registra nel corso di una situazione cosciente nello stato di veglia. Lo stesso aumento della corticotropina faciliterebbe l'atto della sveglia e spiegherebbe il fenomeno di arresto automatico del sonno in chi si è proposto molte ore prima di svegliarsi ad una data ora. In soggetti giovani e sani la sveglia automatica può essere regolata facilmente e rapidamente (basta qualche giorno di allenamento). Nei più anziani o in chi (molti tra noi) ha guastato l'orologio interno, l'operazione risulterà più difficile se non impossibile. A questi consigliamo per sicurezza di continuare a usare lo svegliarino. Ezio Giacobini
ARGOMENTI: METROLOGIA
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, TO, TORINO
POCHI giorni fa dalla Gran Bretagna è stato lanciato un nuovo monito contro l'inquinamento elettromagnetico: usare il telefonino più di 10 minuti al giorno farebbe perdere la memoria. Senza entrare nel merito della questione (l'autore della ricerca si è dissociato dalle informazioni diffuse dai giornali dicendo che erano completamente distorte), come si fa a misurare il rischio? Quali strumenti verranno utilizzati per andare a caccia di onde elettromagnetiche fuori legge? Come dovranno essere tarati? E a quali campioni tutti dovranno fare riferimento? Di questi e di altri problemi simili si è discusso a Torino tra il 25 e il 27 febbraio, durante il diciottesimo congresso della SIT (la Società italiana taratura) che ha visto riunito l'intero sistema nazionale degli operatori delle misure: aziende, università, laboratori pubblici e privati, enti preposti al collaudo e alla certificazione. E non si tratta di pochi addetti ai lavori: ««Il settore delle misure contribuisce a oltre il 5% del prodotto nazionale lordo»», spiega Sergio Sartori, presidente del comitato organizzatore, una vita spesa a occuparsi di misure di precisione all'Istituto di Metrologia G. Colonnetti di Torino. ««In alcuni settori dell'industria, dell'agricoltura e dei servizi, la precisione di una misura contribuisce alla qualità del prodotto finale con un incremento in fatto di valore aggiunto che varia tra il 5 e il 25% del valore originale del prodotto»». La metrologia tocca tutti gli aspetti della nostra vita. Dalla corretta misurazione dei contatori metrici dipendono le bollette di acqua, gas e luce (e solo in Italia esistono, ignorati dai più, quasi cento milioni di contatori). Dalla precisione dei ««nasi elettronici»» che sorvegliano l'atmosfera delle nostre città possono dipendere provvedimenti di limitazione al traffico; allo stesso modo altre misurazioni ambientali (salubrità delle acque, fumi delle ciminiere...) possono incidere profondamente sulle decisioni degli amministratori. Oppure pensate alla delicatezza dei controlli alimentari eseguiti dalle Arpa o dal Nucleo antisofisticazione dei Carabinieri. C'è poi il settore degli esami medici: ogni laboratorio che fa analisi (in Italia sono poco meno di 100 mila e rappresentano circa il 6% della spesa sanitaria nazionale) deve avere strumentazioni perfettamente in ordine, tarate e ri-tarate periodicamente su campioni stabili e costanti. ««Trent'anni fa negli Stati Uniti la misura del colesterolo era assai più approssimativa di oggi - racconta Sartori - e circa il 36% dei pazienti veniva valutato in base ad analisi sbagliate e dunque subiva una terapia sottostimata o sovrastimata. Con un investimento di due miliardi di lire sui laboratori di analisi, i loro strumenti e il loro personale, gli Usa ridussero drasticamente questo margine di errore (oggi è poco superiore al 10 per cento), risparmiando quasi 100 miliardi di lire solo di farmaci prima sprecati»». Se anche noi migliorassimo di un fattore 3 la misurazione del colesterolo il ministero della Sanità potrebbe risparmiare circa 40 miliardi l'anno. E per affrontare le sfide del futuro, come la misura dell'inquinamento elettromagnetico o le analisi per trovare nei cibi eventuali componenti alimentari che hanno subito manipolazioni genetiche, a Torino la SIT ha lanciato il progetto ««Metrologia 2000»». Dopo questa edizione di rodaggio gli operatori della metrologia si troveranno a cadenza biennale per fare il punto sulla qualità delle misure. Non solo, l'appuntamento italiano entrerà a far parte di una federazione di analoghi congressi europei, perché l'unità europea passa anche attraverso l'unità delle misure (in Europa esistono tuttora ben 4 diversi tipi di prese elettriche). Infine, a Torino, è stata annunciata anche la nascita di una nuova rivista. Si chiamerà ««Tutto-misure»», il primo numero uscirà a fine aprile (nel 2000 dovrebbe raggiungere una cadenza bimestrale) con l'obiettivo di essere l'organo di collegamento tra tutti coloro che in Italia si occupano di misure. Al direttore, Sergio Sartori, e all'editore, Augusta-Edizioni Mortarino, gli auguri di ««Tuttoscienze»». Andrea Vico
LUOGHI: ITALIA
IL capitolo più complesso di tutta l'arte applicata è quello dedicato alla sedia. La sedia in acciaio sembra essere esteticamente inaccettabile. Ma l'acciaio può essere meravigliosamente decorato in smalto e niello, così da reggere il confronto coi più pregiati lavori di intarsio veneziano. I prezzi delle sedie in smalto e niello non saranno certamente superiori a quelli delle sedie intagliate a mano, per le quali si pagano spesso e volentieri anche quattro o cinquecento marchi. Le decorazioni in smalto sono talmente a buon mercato che le sedie con smalti si potranno certamente produrre a non più di cento marchi il pezzo. Certo, bisognerà rinunziare all'idea di un'industria che produca in serie sedie tutte uguali. Da un'industria con ambizioni artistiche si può ben pretendere che non smerci dei pezzi tra loro identici e tutti costruiti secondo il medesimo schema»». Quando Paul Scheerbart pubblicò nel 1914 la sua ««Architettura di vetro»» si trovava di fronte ad una società che avrebbe anche potuto tramutarsi in un ««palazzo di cristallo»» oppure in uno ««zoo di vetro»». Gli eventi che accaddero di lì a pochi giorni ««sconvolsero il mondo»». La sedia, che aveva trovato nei legni curvati della viennese ditta Thonet nuove forme, non avrebbe mai immaginato di vedersi sconvolgere modelli e paradigmi: perdere le gambe, divenire tubolare, subire kafkiane metamorfosi. Josef Albens, Piero Bottoni, HinrichHeinrich? Bredendieck, Marcel Breuer, Achille Castiglioni, Joe Colombo, DDL, Gino Levi Montalcini, Giuseppe Pagano, Mart Stam, Mies van der Rohe... & C. ci hanno insegnato a riflettere. Vittorio Marchis Politecnico di Torino
ARGOMENTI: FISICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: CIUFOLINI IGNAZIO
ORGANIZZAZIONI: NASA
LUOGHI: ITALIA
UNA delle parole chiave della fantascienza di tutti i tempi è ««antigravità»». A quanto pare ora bisognerà abituarsi a vedere questo vocabolo su documenti di ben altro genere: i fogli che costituiscono il controllatissimo bilancio Nasa. L'ente spaziale americano ha infatti appena stanziato circa seicentomila dollari per la realizzazione di un esperimento che, almeno questa è l'ipotesi, dovrebbe provare la possibilità di alterare la forza gravitazionale. Una dimostrazione del genere non si limiterebbe solo ad aprire le vie dello spazio all'esplorazione umana, ma manderebbe a rotoli buona parte della fisica come oggi la conosciamo. Tirandosi addosso non poche critiche dalla comunità scientifica, l'ipotesi che la Nasa sta inseguendo è basata su un discusso esperimento condotto nel 1992 da Eugene Podklentov, un fisico russo all'epoca appartenente all'Università di Tampere, in Finlandia. In un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Physica, Podklentov sostenne di aver casualmente riscontrato una diminuzione della forza di gravità al di sopra di una complicata apparecchiatura che lui e altri scienziati stavano sottoponendo a certi test. Il componente più importante dello strumento era un disco composto da un materiale ceramico superconduttore (nel quale la resistenza elettrica è inesistente). Il disco, sollevato nel vuoto grazie all'azione di un forte campo magnetico, fu fatto ruotare a circa cinquemila giri al minuto e quindi fu sottoposto all'azione di un campo elettromagnetico ad alta frequenza. A questo punto, secondo la descrizione di Podklentov, le apparecchiature mostrarono una diminuzione del peso di alcuni oggetti situati al di sopra del disco, diminuzione che si sarebbe aggirata attorno al 2%. Inoltre lo scienziato misurò la pressione atmosferica sopra il macchinario, e anche quella sembrava diminuire. In realtà la storia è incredibilmente complicata, con particolari più simili a un giallo che ad una ricerca scientifica. Per esempio si racconta che un secondo articolo di Podklentov sullo stesso argomento doveva essere pubblicato ma fu ritirato dall'autore stesso, inspiegabilmente, mentre un suo collaboratore negò addirittura di aver partecipato all'esperimento. Questo è lo scenario nel quale la Nasa si sta ora muovendo, appoggiata unicamente da pochi altri scienziati secondo i quali la cosa sarebbe in teoria possibile. Come nel caso di Ning Li, una ricercatrice americana che, ancora prima di Podklentov, sostenne la possibilità di una ««interferenza»» dei materiali superconduttori con la gravità. In ogni caso, ora ci si prepara a costruire sul serio un apparecchio simile a quello usato dallo scienziato russo nel 1992. Gran parte dei seicentomila dollari stanziati andranno infatti ad una azienda specializzata che dovrà costruire un disco superconduttore di trenta centimetri di diametro. Inutile sottolineare la implicazione che avrebbe una scoperta del genere. Uno schermo anti gravitazionale permetterebbe di spedire enormi astronavi in orbita come se fossero aerei di carta, senza contare le ricadute generali sulla tecnologia. Però il sentimento prevalente tra gli scienziati rimane un profondo scetticismo. ««Dal punto di vista della Relatività generale di Einstein - dice Ignazio Ciufolini, dell'Università La Sapienza di Roma - l'effetto ipotizzato è impossibile. La gravitazione, infatti, è integrata nella geometria stessa dello spazio-tempo, quindi si tratta di qualcosa di fondamentalmente diverso rispetto a forze come quelle elettromagnetiche. Parlare di schermo gravitazionale, significa letteralmente voler distruggere la teoria della Relatività einsteniana, che però ha già avuto numerosissime prove sperimentali concrete. C'è poi una cosa che mi lascia proprio stupito. Si dice di una diminuzione gravitazionale del 2%, una quantità enorme rispetto agli effetti che siamo abituati ad osservare nell'ambito della Relatività generale. Quindi posso solo pensare a una interpretazione non corretta dell'esperimento»». Da molte parti si è paragonato il caso dell'antigravità ««finlandese»» alla ormai celebre bufala della fusione fredda. Stavolta, però, i giochi li fa una struttura di prestigio come la Nasa, e pochi mesi saranno sufficienti per sapere se si sono messi veramente a sognare troppo. Americo Bonanni
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, VE, VENEZIA
LA vita d'oggi e di domani, con gli enormi problemi pratici che presenta, propone alla scienza e alla tecnologia grandi sfide. Si tratta quasi sempre di problemi a molte facce; il metodo che gli scienziati hanno seguito finora per comprenderne l'essenza è stato quello d'isolare una faccia per volta dalle sue interazioni con le altre, e suddividerla ancora fino a poter studiare un sistema il più limitato possibile. Questo metodo ha dato risultati notevoli, ma oggi in molti campi ci s'imbatte in limiti invalicabili, così che molti ritengono necessaria una strategia nuova. La situazione è paragonabile, in un certo senso, allo scontro che ha avuto e ha luogo nella biologia fra il riduzionismo, che spera di capire l'organismo vivente semplicemente sommando il funzionamento delle sue varie parti, e la concezione olistica, che invece lo vede come un tutt'uno. Favorevole alla linea di rinnovamento, un vasto gruppo di scienziati ha dato vita a un istituto con base a Venezia, il CISC (Centro Internazionale per i Sistemi Complessi), che è il primo ente del genere in Europa, affiancandosi a quello esistente negli Stati Uniti a Santa Fè. La dirigenza è d'alto livello. Presidente è il tedesco Hermann Haken, professore di fisica a Stoccarda e padre della sinergetica (disciplina che studia le sinergie, ossia gli effetti combinati). Vicepresidente è Camillo Dejak, professore di chimica fisica a Venezia, mentre alla direzione è stato nominato Nasam Rahman, chimico teorico nato in India e professore all'università di Trieste. Quest'ultimo sarà assistito dal matematico Sergio Invernizzi, professore anch'egli a Trieste. C'è poi in formazione un comitato esecutivo composto di sette membri, fra cui il francese Jean-Marie Lehn, premio Nobel per la chimica nel 1987, docente a Strasburgo e al College de France, e Tito Arecchi dell'università di Firenze. I dirigenti stanno preparando una lista di ricercatori ben noti (circa cinquanta) per nominarli membri con compiti speciali: formuleranno proposte per le attività future e, dopo un quinquennio di rodaggio, saranno loro a eleggere il comitato esecutivo e le cariche più alte. I promotori del CISC hanno preso contatto con parlamentari di diversi partiti politici, perché il ministero della ricerca scientifica proponga una legge istitutiva: il nuovo ente vuole insomma un riconoscimento ufficiale da parte dello stato italiano. Tuttavia (notizia senz'altro gradita al contribuente) ciò non influirà sul finanziamento dei progetti, per i quali non si farà ricorso a nessun bilancio nazionale. L'obiettivo è infatti quello di raccogliere fondi da enti di varia natura: hanno mostrato interesse, fra gli altri, Lufthansa, Toyota, Ford, Enel, Telespazio, Pirelli e Illy. Con la Banca Mondiale sono in corso negoziati per un finanziamento di cento milioni di dollari, che servirà ad avviare il primo programma a lunga scadenza e d'ampio respiro. Si tratterà dell'esame più esteso e sistematico che sia mai stato fatto sul delta comune di Gange e Bramaputra, che molti vedono minacciato dall'innalzamento del livello marino in seguito alla crescita dell'effetto serra e ai cambiamenti climatici conseguenti. Il lavoro sarà coordinato da Dejak, che metterà a frutto la sua esperienza dei problemi della laguna veneta. La previsione dei vari effetti su quei territori asiatici, che in parte potrebbero venire sommersi, in parte alterati dall'avvicinarsi del mare, richiederà ovviamente il contributo di molte discipline: climatologia, oceanografia, chimica, fisica, biologia, zoologia, botanica, agronomia, matematica. Tra gli altri progetti del CISC, un gruppo triestino di chimica inorganica guidato da Mauro Graziani lavorerà alla soluzione del problema dell'ambiente urbano, studiando miglioramenti ai catalizzatori che nelle marmitte degli autoveicoli devono depurare i gas di scarico dalle sostanze inquinanti (monossido di carbonio, idrocarburi incombusti, ossidi d'azoto). In un altro progetto, Rahman e Invernizzi indagheranno la velocità di corrosione del ferro in ambiente acido, applicando la teoria matematica dei sistemi caotici. Gianni Fochi Scuola Normale di Pisa
ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, TO, TORINO
LA possibilità di dimettere un paziente dopo un intervento chirurgico nella stessa giornata, allungandone tutt'al più la degenza con il pernottamento, è una realtà consolidata soprattutto negli Stati Uniti, ma si sta imponendo anche da noi. A fare il punto sulle prospettive della day-surgery (termine inglese che identifica il modo nuovo di gestire un paziente) sono stati gli oltre mille specialisti convenuti a Torino nelle recenti Giornate nazionali di day-surgery. Le applicazioni riguardano vari settori chirurgici: dall'ortopedia all'urologia, dalla chirurgia maxillo-facciale e plastica alla ginecologia e all'otorinolaringoiatria. Già ampiamente collaudata in ambito oculistico, flebologico, proctologico e cardiologico, la day-surgery ha raggiunto nella terapia dell'ernia inguinale la punta di massimo successo. Ciò grazie agli anestetici locali e alle innovazioni tecnologiche legate allo sviluppo di metodiche riparative protesiche. Ma il campo di azione della chirurgia di giornata si è spinto oltre le iniziali previsioni di utilizzo coinvolgendo oggi anche nuove tecniche come la laparoscopia. La vera novità è che la day-surgery è ormai tra gli strumenti a disposizione della chirurgia oncologica e dell'oncologia in generale in quanto rappresenta una realistica opportunità diagnostico-terapeutica per più tipi di tumore. Un esempio è rappresentato dalla possibilità di inserire nei vasi venosi particolari cateteri che vengono poi collegati a piccoli serbatoi contenenti chemioterapici e alloggiati in una tasca confezionata nel sottocute del malato neoplastico. Vengono utilizzati per la chemioterapia sistemica nel caso ad esempio di tumori del tubo gastroenterico o della mammella. Recentemente anche cateteri arteriosi (inseriti prevalentemente nell'arteria epatica) sono utilizzati per la chemioterapia loco-regionale nel caso di tumori primitivi del fegato o di metastasi epatiche da neoplasie intestinali. Questi interventi sono effettuati in anestesia locale e in regime di chirurgia di giorno. Sono così allineati agli standard internazionali poiché non solo sono paragonabili quanto a risultati al ricovero ordinario, ma si dimostrano anche più facilmente tollerabili dai pazienti per il minor stress psicologico legato all'ospedalizzazione. Per le neoplasie della mammella, la scarsa significatività al dolore con l'anestesia locale e delle complicanze post-operatorie, indica come la day-surgery possa essere applicata con sicurezza oltre che per patologie benigne anche per quelle impegnative quali il cancro del seno. La dimissione dopo un breve ricovero offre alla malata un senso di sicurezza perché poter tornare alla propria abitazione rafforza il concetto di guarigione, consente di umanizzare le cure e intensifica il rapporto tra medico e paziente. Se si tiene conto che il carcinoma mammario rappresenta da solo il 25% di tutte le neoplasie del sesso femminile, è intuibile come l'obiettivo degli oncologi sia la diagnosi precoce, cioè l'identificazione di lesioni nodulari di piccole dimensioni (inferiori al centimetro), in genere non palpabili all'esame clinico. Una diagnosi tempestiva consente di intervenire in una fase in cui il tumore è potenzialmente curabile. La precocità diagnostica risulta ancora più importante se si tiene conto della lenta crescita delle neoplasie mammarie e se ci si basa sul principio che la progressione tumorale si manifesta sia con un aumento della massa che della aggressività biologica. Quando non vi è ancora la diffusione della lesione ai linfonodi regionali, la sopravvivenza a 5 anni tocca l'80-90% dei casi. Il largo impiego della mammografia e dell'ecografia (sia come screening di massa in donne asintomatiche, che come indagine routinaria in quelle asintomatiche o sintomatiche a rischio) ha portato la frequente osservazione di quelle lesioni non palpabili accennate prima (minimal breast cancer). Ne deriva la necessità di definire clinicamente la malattia che spesso la citologia con l'agoaspirazione disattende. Oggi è possibile effettuare con facilità prelievi di tessuto mammario per l'esame istologico mediante biopsie ecoguidate eseguite con particolari aghi o sonde in regime di chirurgia di giorno. Ma questa disciplina ha limiti che non vanno oltrepassati. La Federazione italiana di day-surgery e la Società italiana di chirurgia ambulatoriale e di day-surgery svolgono una funzione promozionale ma anche di controllo. Sono stati così sanciti i confini clinici, tecnici e medico-legali di questa chirurgia, fissando le indicazioni di comportamento (linee guida) che i chirurghi devono accettare e rispettare. Solo l'applicazione corretta di una procedura innovativa come la day-surgery può realmente tradursi in un beneficio per il paziente e per la comunità. Tommaso G. Lubrano
ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
IL sistema ospedaliero del servizio sanitario nazionale è soggetto, di anno in anno, a un aumento dei costi. Le ragioni sono molte e alcune, come il prolungamento della vita media della popolazione, sono, ad un tempo, un obiettivo primario del miglioramento del prodotto salute e una diretta causa della dilatazione delle spese per l'incremento delle persone ad elevato rischio di malattia. Il progresso della ricerca medica che si concretizza in un crescente aumento di prestazioni molto utili per la salute, spesso salvavita, ma ad elevato contenuto scientifico e tecnologico, come le terapie innovative e i trapianti, comporta, anch'esso, un inevitabile aumento dei costi e degli investimenti. E' indubbio che queste cause dell'aumento delle spese sanitarie sono da affrontare tenendo conto del loro alto contenuto civile. Ne consegue che un possibile programma inteso a frenare il continuo aumento delle spese deve tagliare quei costi che sono effettivamente riducibili, e invece mantenere disponibilità economiche sufficienti per continuare nel miglioramento della salute pubblica. L'obiettivo potrebbe essere realizzato razionalizzando le attività e i sistemi gestionali degli ospedali, evitando gli sprechi e annullando i ricoveri non strettamente necessari. Un prima valutazione da fare riguarda l'analisi dell'effetto Drg (raggruppamenti omogenei di diagnosi) sui costi della gestione ospedaliera. Questa nuova modalità di pagamento delle prestazioni ospedaliere da parte del sistema sanitario, ha sostituito quello tradizionale basato sui rimborsi delle rette di degenza. Uno studio esauriente delle conseguenze gestionali di questa rivoluzione tariffaria, avvenuta contestualmente alla trasformazione degli ospedali in ««aziende»», è certamente prematura. Tuttavia, le prime segnalazioni, apparse recentemente su un quotidiano milanese e frutto di una elaborazione di pubblicazioni ufficiali della Regione Lombardia, sono disastrose. Risulterebbe, infatti, che per molte patologie e per i parti cesarei sono aumentate enormemente e inesplicabilmente le ««complicazioni»» , che taluni interventi di urgenza, come le tracheotomie e operazioni di altro tipo sono improvvisamente raddoppiati nel passaggio al nuovo sistema tariffario e che vi sarebbe un notevole aumento della domanda di prestazioni sanitarie ospedaliere, senza un corrispettivo aumento nè della mortalità nè delle nascite. Speriamo che una valutazione più approfondita ed estesa a livello nazionale smentisca o almeno ridimensioni gli incrementi ad un livello compatibile con il progresso delle tecnologie mediche. Se così non fosse, occorrerebbe riscrivere gli attuali modelli gestionali dell'assistenza pubblica e non soltanto di quella ospedaliera, riprendendo alcune considerazioni già espresse alcuni anni or sono, quando si erano individuate alcune cause di inefficienza e di sprechi dovute alla mancanza di ««incentivi»» idonei a frenare la domanda di prestazioni sanitarie. Infatti, i sistemi attuali di gestione, sia sul territorio sia negli ospedali, non hanno sistemi di controllo e procedure che consentano freni automatici alla spinta ad aumentare incessantemente le prestazioni. Le eccedenze dei ricoveri sono in parte dovute al fatto che i medici operanti sul territorio non hanno ««incentivi»» ad assistere a domicilio i loro pazienti per le patologie per le quali il ricovero ospedaliero non è ineluttabilmente richiesto. In altri Paesi europei questi incentivi sono determinati dai ««fondi malattia»», gestiti dalle corporazioni dei medici stessi, con i quali vengono retribuite le attività territoriali e concordate con gli ospedali le rette da rifondere. Le corporazioni stesse, conoscendo il ««plafond»» concordato periodicamente con la pubblica sanità, sono stimolate ad effettuare un controllo interno sui costi delle varie prestazioni. Nei nostri ospedali non ci sono mai stati incentivi volti soltanto al miglioramento qualitativo del prodotto: la gestione ospedaliera attuale può ancora essere letta come una spinta ad aumentare e ad amplificare la domanda di interventi e di atti medici. In nessun settore del servizio sanitario esistono procedure e sistemi di controllo che stabiliscano, dove è possibile, una retroazione automatica, che funga da freno alla dilatazione delle spese (feedback negativo): esiste soltanto un incessante ««feedback positivo»» che spinge inesorabilmente a un aumento delle spese, con il rischio di tentazioni che potrebbero superare i limiti del lecito. Felice Gavosto Università di Torino
ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
A SSASSINI innocenti, li ha chiamati l'etologa Jane van Lawick-Goodall che ha studiato per quattro anni i licaoni (Lycaon pictus) nella loro patria, l'Africa a sud del Sahara. Ed è una definizione che calza a pennello. A vederli, non hanno certo un bell'aspetto, con quel loro mantello spelacchiato chiazzato di bianco, nero e giallo. Si direbbe non abbiano nessuna cura dell'igiene personale. Sbranata una preda, se ne vanno in giro imbrattati di sangue, invece di ripulirsi il pelo a leccate. Ovvio che li si chiami ««assassini»». Ma per loro, come del resto per tutti i carnivori, preda significa cibo. Sbranano la gazzella o lo gnu perché hanno fame. Li mangiano ancora vivi perché non hanno abbastanza forza per ucciderli spezzando loro le vertebre cervicali come fanno i leoni. Si debbono accontentare di divorare le vittime a morsi, facendole morire magari dissanguate. D'altra parte i licaoni, attaccando gli erbivori più deboli o malati e i cuccioli delle specie troppo prolifiche, sono un magnifico fattore di equilibrio ecologico. Le ricerche degli etologi, da Jane van Lawick-Goodall a John Hew Fanshawe, da Scott Creel, a Joshua R. Ginsberg, ci hanno svelato aspetti impensabili della loro vita sociale. Oggi sappiamo che i licaoni raggiungono il più alto vertice della socialità tra i mammiferi. Quello che conta è il gruppo (da 2 a 4O individui), sempre solidale e compatto. Dormono accatastati l'uno sull'altro per riscaldarsi a vicenda nel freddo pungente delle notti africane. Insieme vanno a caccia, insieme attaccano e sbranano la preda. Un solo individuo non riuscirebbe ad aver ragione di animali di grossa taglia. Ci riesce invece il gruppo, con un'azione coordinata e intelligente. I licaoni vanno a caccia due volte al giorno, all'alba e al crepuscolo. Dopo la dormita notturna, il primo che apre gli occhi e sente un languorino allo stomaco dà la sveglia ai compagni. Una strana sveglia a base di leccate e di mordicchiamenti che sembrano baci. Quelle leccate e quei morsi sono il più efficace eccitante per svegliarli definitivamente. Si parte. Il sole si tinge di rosa all'orizzonte. I canidi si dispongono in fila indiana, lanciando gridolini di gioia. E via, al trotto sostenuto. Hanno una resistenza straordinaria. Possono percorrere decine di chilometri al giorno e sono capaci di mantenere una velocità abbastanza elevata: 55 chilometri all'ora per un paio di chilometri, toccando anche punte di 65 chilometri orari quando sono lanciati all'inseguimento di un branco. Scorgono la preda da lontano con la loro vista acuta. Ma hanno anche olfatto e udito finissimi. Non giocano sul fattore sorpresa. Appena giungono abbastanza vicini, si aprono a ventaglio, puntando su bersagli diversi, ma tenendosi costantemente d'occhio l'un l'altro. Fa da segnale la punta della coda bianco candida, inconfondibile anche nel polverone sollevato da un branco di erbivori in fuga. L'obiettivo dell'azione collettiva è quello d'isolare un cucciolo ancora malfermo sulle zampette o un adulto più gracile e meno veloce che stenta a tenere il passo con gli altri. Quando ci riescono, in un attimo gli sono d'attorno. E il pasto ha inizio. E' qui, nel momento culminante della battuta di caccia, che si manifesta l'alto grado di socialità dei licaoni. Nessun arrembaggio intorno alla preda, nessun alterco per disputarsi questo o quel boccone. Sembra che esista un codice di buona creanza che tutti rispettano. Precedenza assoluta ai giovani e ai più deboli. Nessun adulto sogna di mettersi in competizione con loro. Semmai pensa a tenere a bada le iene che occhieggiano da lontano il bottino e in molti casi riescono a sottrarlo ai licaoni. Ognuno mangia educatamente la sua parte e al termine del banchetto tutti ritornano alla tana. Ed è proprio nella tana che si assiste a uno straordinario comportamento altruistico. Anche coloro che non hanno partecipato alla caccia, le femmine che allattano, i cuccioli, gli individui malati o feriti hanno diritto alla loro razione di pasto. E la pretendono. I piccoli specialmente, che guaiscono come cagnolini, si strofinano contro il muso degli adulti e cercano d'introdurre la testa nella loro bocca. E i reduci dalla caccia non si fanno pregare. Ciascuno di loro rigurgita una parte del cibo ingerito a beneficio dei postulanti. Nessuno rimane a bocca asciutta. Le prede più comuni dei licaoni sono gazzelle di Thompson, gazzelle di Grant, impala o piccoli di gnu. Ma il branco, specie se numeroso, si fa audace e attacca anche animali molto più grossi come zebre, gnu adulti o giraffe. In questi casi la cooperazione è d'obbligo. Alcuni licaoni tengono fermi l'animale azzannandolo chi al muso, chi alle zampe, chi alla coda, mentre gli altri incominciano a sbranarlo. Ognuno sa esattamente qual'è il suo compito, come se si fossero messi preventivamente d'accordo. Il licaone è un marito fedele. La femmina partorisce una sola volta all'anno, durante la stagione delle piogge, proprio nell'epoca in cui vengono al mondo moltissimi erbivori. E ne partorisce un bel numero, da 6 a 11. I parti delle femmine sono pressoché simultanei. Una simultaneità che giova alla sopravvivenza di un branco nomade per eccellenza come quello dei licaoni. Guai se i piccoli nascessero in epoche diverse e il branco fosse costretto a sostare ripetutamente. Sostare significa accontentarsi di di quello che offre il territorio e finire per sfruttarlo al massimo. I licaoni hanno bisogno invece di percorrere sempre nuovi spazi in cerca di nuove prede. Anche l'allattamento è un fatto comunitario. Le femmine ricche di latte non fanno nessuna differenza tra i figli propri e quelli altrui: sfamano gli uni e gli altri. I cuccioli appartengono all'intera società. Purtroppo i licaoni sono in allarmante declino. Negli ultimi tre decenni sono scomparsi da 25 dei 39 paesi africani in cui vivevano. Oggi solo 6 paesi del Continente Nero contano una popolazione di oltre lOO licaoni. La causa principale del loro declino numerico è la perdita dell'habitat. La popolazione umana cresce e invade spazi sempre più ampi, frammentando in isole separate tra loro il territorio dei licaoni. Oggi li si trova numerosi solo nell'Africa del Sud. Ma anche qui sono vittime di una caccia spietata. Agli occhi degli uomini hanno una grave colpa. Quando la fauna selvatica scarseggia, il licaone rimedia il pranzo aggredendo qualche capo di bestiame domestico. E questo cambio di menu gli costa la vita. Isabella Lattes Coifmann
ARGOMENTI: DIDATTICA
NOMI: JOHNSON DAVID, VIANELLO RENZO
LUOGHI: ITALIA, ITALIA
IN (piccolo) gruppo si impara meglio. Anche in Italia, il cooperative learning (apprendimento cooperativo) coinvolge sempre più gli insegnanti e gli studenti, con risultati ritenuti estremamente significativi da molti ricercatori. E aiuta a raggiungere obiettivi importanti: innalzare il livello di tutti gli allievi; costruire relazioni positive tra gli alunni, essenziali per creare una comunità di apprendimento in cui la diversità venga rispettata e apprezzata; fornire agli studenti le esperienze di cui hanno bisogno per un sano sviluppo. Per la scuola italiana è un evento di rilievo. L'insegnamento tradizionale, con lezioni frontali rivolte a tutta la classe e con la sola ««mediazione»» dell'insegnante, ha mostrato tutti i suoi limiti; e il ricorso sempre più ampio al metodo cooperativo, non solo rende maggiormente efficace l'apprendimento, ma colloca il nostro sistema formativo in un vasto movimento di ricerca internazionale. Attualmente, i principali gruppi di lavoro sul cooperative learning sono quelli di David e Roger Johnson all'Università di Minnesota; quello di Slavin alla Johns Hopkins University di Baltimora e quello di Shlomo e Yeal Sharan all'Università di Tel Aviv. In Italia, operano da anni su questo fronte Giorgio Chiari (Trento), Mario Comoglio (Roma) e Patrizio Tressoldi (Padova). La bibliografia più significativa in lingua italiana è pubblicata dalle edizioni Erickson, dalla Las di Roma e, più recentemente, dalle edizioni Gruppo Abele. Osserva David Johnson: ««L'efficacia dell'apprendimento cooperativo è stata ampiamente dimostrata dalla ricerca scientifica. Tutti gli studenti, indipendentemente dalla loro situazione di partenza, lavorano di più e raggiungono risultati migliori, memorizzando meglio e più a lungo. Passano persino più tempo sul compito e sviluppano livelli superiori di ragionamento e capacità di pensiero critico. Inoltre, nel piccolo gruppo, si creano spirito di squadra e rapporti d'amicizia e sostegno reciproco. Infine, negli studenti aumentano autostima e immagine di sè»». Risultati importanti, in un contesto come quello scolastico in cui il clima di lavoro è tradizionalmente competitivo, con alcuni allievi che vengono sollecitati a dimostrare di essere i migliori e altri che sono scoraggiati dal confronto coi compagni. L'apprendimento cooperativo costringe i docenti a stabilire, invece, un duplice obiettivo: ciò che gli studenti devono imparare, ma anche le ««abilità sociali»» da raggiungere. Per coordinare gli sforzi, gli allievi devono conoscersi e fidarsi gli uni degli altri; comunicare fra loro con chiarezza e precisione; accettarsi e sostenersi a vicenda; imparare a risolvere i conflitti in maniera costruttiva. Cooperative learning come ««palestra»» per la vita. Shlomo e Yeal Sharan hanno approfondito un metodo particolare di apprendimento cooperativo: il group investigation, ovvero la ««ricerca di gruppo» » in classe. ««Così gli studenti lavorano in modo collaborativo in piccoli gruppi per esaminare, fare esperienza e capire il loro argomento di studio»», spiega Yeal Sharan che sarà in Italia dal 26 al 28 marzo prossimi, per partecipare a Torino all'importante congresso promosso dal Cnis, il Coordinamento nazionale insegnanti specializzati e per la ricerca sull'handicap, presieduto dallo psicologo Renzo Vianello. E aggiunge che il loro metodo sconvolge positivamente lo stesso ruolo degli insegnanti, spesso ««ancora orientati - come sottolinea Giorgio Chiari - a riempire i 'vasi vuotì delle menti dei loro allievi, piuttosto che ad aiutarli e riflettere e a prendere coscienza dei propri processi di pensiero»». Mario Tortello
ARGOMENTI: DIDATTICA, AGRICOLTURA
NOMI: FAGANELLO FLAVIO, LANZINGER MICHELE, NEGRA OSVALDO
ORGANIZZAZIONI: MUSEO TRIDENTINO DI SCIENZE NATURALI
LUOGHI: ITALIA
LA comunicazione tra l'uomo e gli animali non è un sogno irrealizzabile come molti pensano, anzi ««parliamo»» agli altri animali molto più spesso di quanto non immaginiamo. Gli agricoltori, anche senza nozioni di tipo etologico e senza l'anello di re Salomone, che consentiva al leggendario re di dialogare con tutti gli animali, da quando hanno iniziato a dover difendere i propri campi coltivati da quelli che consideravano animali nocivi, hanno sviluppato un linguaggio comune, una sorta di esperanto, per poter ««parlare»» o meglio ««minacciare»» gli animali indesiderati. Perciò, anche se non motivato certo da scopi scientifici o da empatia, il contadino ha creato dei canali di comunicazione che partendo dall'uomo arrivano diretti ad altri animali. Ognuno di noi passeggiando in campagna avrà sicuramente visto un esempio di tale sforzo comunicativo interspecifico: chi non ha avuto un incontro con quei buffi, o alle volte terrifici, pupazzi chiamati spaventapasseri? A questi silenziosi soldati arruolati dall'uomo per difendere i propri campi, il Museo Tridentino di Scienze Naturali di Trento (tel.0461/270.311), ha dedicato una mostra fotografica di Flavio Faganello a cura del direttore del Museo Michele Lanzinger. In occasione di questa mostra, Osvaldo Negra, biologo del museo trentino, ha compiuto un'attenta analisi delle svariate caratteristiche e dei meccanismi coinvolti nell'uso degli spaventapasseri. Iniziamo con il capire perché lo spaventapasseri funziona, che cosa induce l'animale, in genere uccelli, a non avvicinarsi. Se ci pensiamo bene nessun classico spaventapasseri ha mai arrecato danno agli uccelli, quell'omone di vestiti vecchi e stracci non potrebbe far male ad una mosca. E allora perché gli uccelli se ne tengono alla larga? ««Banalizzando un po' - sostiene Negra - si potrebbe rispondere che ciò avviene perché lo spaventapasseri è innocuo, ma l'uomo no, o, parafrasando un celebre western, lo spaventapasseri perdona, l'uomo no; ed in questo senso con la chiave di lettura etologica, lo spaventapasseri è assimilabile a un caso di mimetismo batesiano, in cui una specie inerme (lo spaventapasseri, appunto) si avvantaggia nelle proprie funzioni dalla somiglianza con un'altra, il modello (l'uomo), armata o protetta da un qualche accorgimento di difesa-offesa. Il piano d'azione dello spaventapasseri - continua il biologo - è quello della deterrenza, che è di universale diffusione nel regno animale, in quanto per ogni specie la ricettività a situazioni potenzialmente pericolose è di elevatissimo valore di sopravvivenza. Questa deterrenza è legata chiaramente all'esistenza della caccia nel mondo contadino. Non a caso gli spaventapasseri sono presenti in tutte quelle culture in cui più o meno occasionalmente l'uomo imbraccia il fucile, garante remoto della temibilità del manichino»». Gli etologi sanno bene che per non provocare l'assuefazione a un dato stimolo, ripetutamente mostrato, bisogna che allo stimolo venga periodicamente associata una conseguenza, in questo caso, negativa. All'efficacia degli spaventapasseri viene incontro la pratica della caccia, e infatti durante il periodo di apertura della caccia, l'autunno, questi surrogati di uomini sono particolarmente temuti. In Paesi al di fuori dell'Europa dove gli uccelli non sono sottoposti alla pressione venatoria lo spaventapasseri verrebbe utilizzato come posatoio, e probabilmente verrebbe ««licenziato»» dal contadino in pochi giorni. Oltre al fenomeno della deterrenza entra in azione anche la neofobia, o paura delle cose nuove. Così, se il nostro spaventapasseri viene ripetutamente spostato o cambiato di forma la sua efficacia è rinforzata e il risultato sarà sempre più soddisfacente per il contadino. Negra ha inoltre creato una originale ««sistematica»» degli spaventapasseri raggruppandoli a seconda del tipo di paura che suscitano nei vari animali. Esistono chiaramente gli spauracchi a figura antropomorfa, considerati i padri di tutti gli spaventapasseri. Poi esistono gli spauracchi che simulano attività umane: in questo caso l'animale percepisce la presenza dell'uomo solo basandosi sulla presenza delle ««tracce»» del temuto predatore. Questo è il caso dell'utilizzo del maglio o di certi marchingegni che con l'aiuto del vento o dell'acqua ricreano il rumore dell'attività umana. Un'altra categoria di spaventapasseri è quella dei fantocci a forma di predatori. L'uomo, questa volta, si avvale della paura che provoca negli uccelli non la sua figura, ma quella di altri animali. Così sono nati gli spauracchi costituiti da sagome alate con testa corta e corpo allungato, caratteristica silhouette di tutti i rapaci. Un tipo di spaventapasseri, che sembra essere solo una crudeltà oltre ad avere un'efficacia assai ridotta, è quello che si potrebbe chiamare memento mori, ossia ««ricordati che morirai»». Questo infatti vorrebbe probabilmente essere il macabro messaggio di tutti quegli spauracchi costituiti da carcasse, spesso brutalizzate, impalate o crocifisse, di animali della stessa specie che si intende allontanare, messe ben in vista nei campi. L'efficacia di questi spauracchi barbari e legalmente perseguibili è tutta da dimostrare; in realtà gli animali hanno grosse difficoltà ad associare un conspecifico morto con la zona da evitare. Altri spaventapasseri in senso lato sono tutti quegli oggetti, dai giocattoli alle fasce bicolori dei lavori stradali, messi nei campi e che suscitano la già citata neofobia. Tra gli spaventapasseri più ««evoluti»» ci sono quelli legati ai richiami d'allarme o le cosiddette ««grida di angoscia»». Questi tipi di spaventapasseri, largamente utilizzati anche nelle città, per esempio per allontanare lo storno (Sturnus vulgaris), consistono in diffusori acustici di suoni striduli precedentemente registrati, emessi da varie specie di uccelli all'avvicinarsi di un predatore o quando ormai stanno agonizzando tra le zampe del predatore stesso. E' ovvio che i conspecifici sentendo tali suoni si tengano lontani dal campo, luogo del ««crimine»». Ultima classe di spaventapasseri è quella dei fattori stressanti, la cui efficacia si basa sul diffuso e assai adattativo comportamento di evitamento, da parte dell'animale, di zone dove percepisce la situazione di stress. Questa, come la classe precedente, è già potremmo dire l'evoluzione tecnologica del fantoccio di paglia e stracci. Infatti appartengono a questo gruppo dei sofisticati emettitori di ultrasuoni che, per risonanza, provocano dolorose vibrazioni ossee al livello intracranico nelle specie bersaglio. La loro efficacia è però limitata all'emissione di questi suoni e l'indesiderato può ricomparire al termine della stimolazione dolorifica. Monica Mazzotto
Si sono aperte domenica all'Accademia dei Lincei le celebrazioni per il bicentenario della pila di Alessandro Volta, che si svolgeranno a Roma e a Como con numerose manifestazioni. La pila aprì la strada alla produzione pratica di elettricità e alla scoperta della prima particella subatomica, l'elettrone. Il primo ad apprezzare e a premiare l'invenzione della pila fu Napoleone. E quando lo scienziato comasco chiese all'imperatore di poter andare in pensione la risposta fu: «I vecchi soldati non abbandonano il campo».
Si aprirà domenica nel castello visconteo di Pavia la mostra «Il museo di Lazzaro Spallanzani (1771-1799). Una camera delle meraviglie tra l'arcadia e Linneo. Resterà aperta fino al 28 giugno. Per altre informazioni: tel. 0382-338.53.
Nell'ambito della «Settimana della scienza» attualmente in corso segnaliamo a Genova la mostra «Imparagiocando dalla scuola» (tel. 010-659.8745); le conferenze dell'Astris a Roma con particolare attenzione alla meridiana di Santa Maria degli Angeli (tel. 0335-6333.707); e le iniziative del Sistema museale dell'Università di Bologna.
Per un piccolo ma deprecabile errore tipografico, nell'articolo di Vittorio Marchis dedicato, sull'ultimo numero di «Tuttoscienze», alla «Settimana della scienza», si leggeva «Sono utili i piagnistei nei confronti degli enti locali...». All'opposto, la frase deve invece essere letta, in coerenza con il contesto dell'articolo, «Sono inutili i piagnistei....». Anche «Lasciando le statistiche ai navigatori...» va letto: «Lasciamo le statistiche ai navigatori». Chiediamo scusa all'autore e ai lettori.
OGNI anno nella sua corsa intorno al Sole la Terra spazza 200 mila tonnellate di detriti interplanetari. In gran parte sono granelli di polvere intorno al millesimo di millimetro, ma talvolta si tratta di oggetti più massicci: lo 0,02 per cento del materiale raccolto dalla Terra è costituito da frammenti con massa superiore ai 100 grammi. Quando questi sassi, talvolta metallici, arrivano al suolo, abbiamo le meteoriti. Su questo tema mancava un libro in italiano. De Agostini ha rimediato facendo tradurre un saggio francese, frutto della collaborazione di vari specialisti: astronomi, fisici, geologi, chimici. Il volume è stato italianizzato con dati sulla cinquantina di meteoriti trovate nel nostro Paese negli ultimi 2000 anni. L'ultima è caduta a Fermo nel 1996.
Puntualmente l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana ha pubblicato il secondo volume dell'opera «Frontiere della vita», sotto la direzione di Baltimore, Dulbecco, Jacob e Rita Levi Montalcini. Alcuni mesi fa abbiamo presentato il primo volume, dedicato alla transizione dalla materia inanimata alle forme viv+enti. Questa volta temi centrali sono la cellula e le difese dell'organismo. Tra gli autori, Edoardo Boncinelli, Paolo Comoglio e Antonio Lanzavecchia.
Costruendo la matematica l'uomo ha scoperto molte famiglie di numeri: ad esempio i numeri primi (quelli divisibili solo per se stessi), i numeri irrazionali (ma rispetto a quale razionalità?), i numeri immaginari (che tuttavia sono ben reali...), i numeri trascendenti e così via. Questo libro, ricco di aneddoti e di curiosità, ci introduce nelle varie famiglie. Senza mai perdere di vista gli aspetti curiosi e giocosi che permeano la matematica (non scolastica).
Le fragole sono ricche di vitamina C. La crusca è la sostanza alimentare più ricca di magnesio (420 milligrammi per 100 grammi) seguita dal cioccolato amaro, dalla farina di soia e dalle mandorle. L'aragosta ha il maggior contenuto di iodio mentre per il fosforo vince il formaggio grana. Sono alcuni tra le migliaia di dati che il medico alimentarista Renzo Pellati ha accumulato nella sua fortunata guida «Tutti i cibi dalla A alla Z», ora in edizione economica con molti aggiornamenti. In effetti si incomincia con la voce Abbacchio e si finisce con Zuppa, ma ci sono anche utili capitoli sui fabbisogni dell'organismo, dieta corretta e sugli errori alimentari.
Il titolo è provocatorio: «Dalla scienza al mito». Ma il percorso non dovrebbe essere l'opposto? Ne discutono in questo volumetto curato da Ugo Lucio Businaro e C. Cesarano, un tecnico, un pittore, un progettista, un manager e un ricercatore. All'origine, un simposio tenutosi a San Miniato nell'ottobre 1996.
Nella collana «I grandi della scienza» varata da Enrico Bellone, una bella biografia scientifica che Umberto Bottazzini ha dedicato alla figura Henri Poincarè (1854-1912). Laureato in ingegneria mineraria, il grande matematico francese ha fornito alla fisica moderna strumenti di lavoro essenziali, giungendo a porre le premesse anche dei recenti studi sui sistemi caotici.
Con il filo conduttore rappresentato da una carrellata di casi (clinici ma anche quotidianamente «normali»), lo psichiatra Giacomo Dacquino guida il lettore verso una migliore conoscenza di sè che gioverà ai suoi rapporti con le altre persone, in vista di una vita più serena e appagante.