TUTTOSCIENZE 10 marzo 99


Microcosmo surgelato Alghe blu dove la vita sembrava impossibile
Autore: GRISANTI CLAUDIA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: PRISCU JOHN, PSENNER ROLAND, SATTLER BIRGIT
LUOGHI: ITALIA

STOPPIE gialle bruciate dal sole, terreno arido e polveroso. Un panorama consueto d'estate, quando il sole picchia forte e la pioggia è solo un lontano ricordo. Sembra un ambiente lontanissimo dai freddi ghiacci antartici, eppure gli organismi che vivono al gelo del Polo Sud devono affrontare lo stesso problema delle zone aride: la mancanza di acqua liquida. Tuttavia la vita riesce a sorprenderci, prosperando negli ambienti più inospitali. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista americana ««Science»», esiste nei gelidi ghiacci antartici una piccola comunità di alghe e di microorganismi che sopravvive alle bassissime temperature polari. I ricercatori americani, guidati da John C. Priscu, si sono spinti fino al lago Bonney nella McMurdo Dry Valleys in Antartide. Giunti lì, gli scienziati hanno prelevato una carota di ghiaccio dallo spesso strato che ricopre perennemente il lago. Lo strato può essere spesso anche 6 metri e non si scioglie mai del tutto. Analizzando la ««carota»» i ricercatori hanno scoperto che a circa 2 metri dalla superficie c'è una zona dove avviene la fotosintesi, un indizio sicuro della presenza di organismi viventi. Il fatto è molto sorprendente, perché non sembra possibile la presenza di acqua liquida nel ghiaccio e quindi la vita. In realtà esiste nello spesso strato di ghiaccio una zona stabile, composta da sabbia e ghiaia, che rende possibile durante l'estate antartica, da novembre a febbraio, la presenza di acqua liquida a 0°C. I ricercatori hanno verificato che attorno alle particelle di detriti riesce a sciogliersi fino al 40 per cento del ghiaccio. Questa fascia ospita un piccolo universo vivente, isolato dall'esterno da invalicabili pareti di ghiaccio in cui la vita non si può sviluppare. Proprio come un'oasi nel deserto, il piccolo universo racchiuso nel ghiaccio è del tutto autosufficiente e produce tutto quello di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, prelevando dall'esterno anidride carbonica, azoto, energia solare e ovviamente acqua. La comunità contiene organismi fotosintetici, le alghe blu-verdi, che sfruttano l'energia solare per produrre materiale organico a partire dall'anidride carbonica e svolgono la stessa funzione delle piante dei nostri climi. Altri batteri, i fissatori dell'azoto, prelevano dall'atmosfera un altro componente indispensabile alla vita, l'azoto, sotto forma di NO2 e lo rendono disponibile per tutta la comunità. Non mancano poi i batteri eterotrofi che hanno un ruolo simile a quello degli animali e ci sono anche delle alghe eucariotiche. Le specie presenti in questa comunità sono particolari, del tutto diverse da quelle che vivono nel lago sottostante, da cui sono separate in perpetuo da uno spesso strato di ghiaccio. E' proprio questo isolamento che rende la comunità così caratteristica. Secondo Roland Psenner e Birgit Sattler, due ricercatori dell'Università di Innsbruck in Austria, l'esempio descritto da Priscu rappresenta ««la comunità più estrema che si possa immaginare, sia per i fattori chimico-fisici, sia per gli organismi coinvolti»». I due ricercatori austriaci studiano da molto tempo i ghiacci dei laghi alpini, che rassomigliano ai ghiacci antartici, anche se non presentano delle condizioni di vita così estreme. Lo strato di ghiaccio che ricopre i laghi è infatti più sottile, l'estate dura di più ed è più calda. Gli autori della ricerca sperano che la comunità biologica da loro descritta serva anche come modello di studio per un'ipotetica vita extraterrestre nei ghiacci di Marte. L'origine della vita terrestre è ancora un mistero, ma secondo un'ipotesi, assolutamente non provata, la vita potrebbe essersi originata nei freddi oceani di Marte, raffreddatisi rapidamente e diventati poi ghiaccio. In qualche modo la vita sarebbe stata poi ««esportata»» sulla Terra. Ipotesi molto fantasiose. Di sicuro per ora c'è una straordinaria comunità microbiologica che vive nell'inospitale Antartide. Claudia Grisanti


GEOFISICA Antartide, l'archivio del clima Scoperto un grande lago sotto i ghiacci australi
Autore: CONTI ALDO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA GEOFISICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. LE PRINCIPALI BASI SCIENTIFICHE PER LA RICERCA IN ANTARTIDE

NON appartenendo a nessuna nazione grazie a un trattato firmato nel 1961, l'Antartide è un paradiso per gli scienziati, che possono compiervi ricerche altrove impossibili. Lo stesso patto sancisce di fatto la trasformazione del continente antartico in un enorme laboratorio, impedendo lo sfruttamento delle risorse naturali (che sembrano non trascurabili). In un'epoca in cui si parla molto di cambiamenti climatici globali, l'Antartide assume un ruolo fondamentale. In questo continente sono concentrati il 90 per cento dei ghiacci e il 70 per cento dell'acqua disponibile sul pianeta. Se da una parte questo può portare a delle preoccupazioni (se si sciogliessero completamente i ghiacci antartici, infatti, il livello degli oceani aumenterebbe di 70 metri, sommergendo buona parte delle città costiere: addio Venezia), dall'altra offre anche una spia per capire che cosa sta avvenendo. I ghiacci antartici hanno uno spessore medio di 2200 metri e in alcuni casi, si sono accumulati in tempi estremamente lunghi, fino a un milione di anni. L'accumulo è molto lento poiché, nonostante la grande massa di acqua presente in Antartide, il continente è uno dei luoghi più aridi del pianeta, con una precipitazione media di 4 millimetri mensili, inferiore anche a quella del deserto del Sahara. In questi ghiacci è racchiusa una registrazione di inestimabile valore di quanto è successo al clima del pianeta. L'analisi delle carote di ghiaccio prelevate in Antartide fornisce un'idea ben precisa della temperatura a cui il ghiaccio si è formato: questa infatti influisce fortemente sulla composizione isotopica dell'acqua, facendo sì che le percentuali dei vari isotopi dell'ossigeno e dell'idrogeno siano diverse. Ma non solo: nel ghiaccio rimangono anche intrappolate piccole bolle di aria, che permettono di studiare anche la composizione dell'atmosfera in relazione alla temperatura media del periodo, ed anche piccole particelle di polvere, che possono essere correlate così ad eventuali eruzioni vulcaniche, che grande effetto hanno sul clima terrestre. In un momento in cui l'uomo è veramente molto vicino ad avere la possibilità di modificare il clima terrestre, cosa che sta probabilmente già avvenendo, anche se non volontariamente, la comprensione di quanto avvenuto in passato si presenta quanto mai importante. Una delle scoperte più interessanti è stata fatta però solo due anni fa: studiando il ghiaccio in profondità, mediante onde sismiche, alcuni scienziati russi si sono accorti che, al di sotto della base Vostok, ad una profondità superiore a 2000 metri, è presente un vero e proprio lago di notevoli dimensioni: circa 200 chilometri di lunghezza per 40 di larghezza, con una profondità di 500 metri; recenti misure suggeriscono anche la presenza di circa 50 metri di sedimenti, che potrebbero essere legati a qualche attività biologica. Alcune trivellazioni si sono spinte fino a poche decine di metri dal lago, in attesa di mettere a punto qualche metodo che permetta di prelevare dei campioni senza influenzare il lago stesso. In realtà, anche prima di conoscere l'esistenza del lago, solo per caso, e per fortuna, le trivellazioni furono fermate a poche centinaia di metri dallo stesso; l'apertura incontrollata del lago avrebbe infatti portato a una contaminazione delle acque e dell'eventuale aria in essa intrappolata, con grave perdita di informazioni scientifiche. Ma non solo. Anche se non è ancora stata chiarita l'origine di questo lago, una spiegazione prevede che il peso del ghiaccio schiacci il lago in una depressione, mantenendolo liquido per pressione nonostante le temperature estremamente basse; in questo caso, le acque del lago sarebbero sotto pressione e, quindi, una trivellazione avrebbe potuto mettere in pericolo i macchinari e probabilmente anche gli uomini impegnati nei lavori. Le trivellazioni sono state ora fermate a breve distanza proprio per mettere a punto tecniche che permettano l'apertura del lago senza rischi e senza contaminazioni del suo ambiente, probabilmente rimasto intatto per centinaia di migliaia di anni. Secondo le stime, i campioni di ghiaccio prelevati appena al di sopra del lago, dovrebbero essere vecchi almeno di 420.000 anni, mentre il lago stesso potrebbe risalire a circa mezzo milione di anni fa. Di recente questi campioni di ghiaccio sono stati analizzati in uno dei laboratori della Nasa grazie a una cooperazione internazionale per cercare forme di vita congelate. I risultati sono stati sorprendenti. Non solo si sono trovate tracce di funghi, lieviti e altri batteri, ma essi presentano anche, in molti casi, un aspetto estremamente esotico tanto da portare all'attribuzione di curiosi nomignoli. Molti di questi ««oggetti»» sono talmente strani che aspettano ancora di essere classificati. Nell'immediato futuro, si tenterà anche di riportare in vita alcuni di questi organismi, per vedere se essi sono in grado di sopravvivere per tempi tanto lunghi intrappolati nei ghiacci. La cosa non è impossibile: i lieviti, ad esempio, se portati a basse temperature, entrano in uno stato di ««animazione sospesa»», in cui la cellula interrompe tutte le sue attività, ma non muore ed è in grado di riprendere non appena la temperatura ridiventa propizia. In alcuni casi, organismi trovati nei ghiacci antartici sono già stati riportati in vita, ma si trattava di campioni decisamente più recenti. Le stranezze di questi organismi non si limitano però all'aspetto; alcuni cianobatteri prelevati ad una profondità di 1240 metri, presentano un contenuto di antimonio, un metallo pesante estremamente tossico, molto elevato. Il contenuto di questo metallo presenta delle fluttuazioni in funzione della profondità del campione, fluttuazioni che è impossibile, per ora, spiegare. L'attesa per l'apertura del lago è ora grande e non solo per l'interesse dei campioni in se, ma per molti altri motivi, ad essi collegati. La presenza di batteri ancora vivi a queste profondità (eventualmente anche attivi, nel lago) ha implicazioni riguardanti l'intero sistema solare; la situazione del lago Vostok non dovrebbe essere infatti molto diversa da quella di Europa, una delle lune di Giove, dove si pensa che esistano veri e propri oceani al di sotto del ghiaccio superficiale. L'Antartide potrebbe rivelarsi un buon laboratorio per studiare le condizioni presenti altrove, non solo su Europa, ma, ad esempio, anche ai poli di Marte e sulle comete. Aldo Conti Università di Milano


Un primato degli italiani al Polo Sud
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO IDROGRAFICO DELLA MARINA
LUOGHI: ITALIA

DOPO cinque mesi di ricerche scientifiche nelle basi di Terra Nova e Dome C, con l'arrivo della nave ««Italica»» a Lyttelton (Nuova Zelanda) si è conclusa in questi giorni la quattordicesima spedizione italiana in Antartide, organizzata come in passato dall'Enea (Ente per le nuove tecnologie, l'energia e l'ambiente) insieme con il Cnr. L'««Italica»» è riuscita a compiere una campagna oceanografica nel Mare di Ross nonostante il pericolo costituito dagli iceberg e dai venti catabatici, che soffiano a più di 100 chilometri l'ora. A bordo c'erano 26 ricercatori, impegnati in attività di cartografia, geologia marina, sedimentologia, biogeochimica e oceanografia. Tra i principali temi di ricerca della campagna oceanografica c'erano le misure dei gas a effetto serra, effettuate con continuità durante tutta la navigazione dall'Italia all'Antartide, con particolare attenzione alle concentrazioni di ozono stratosferico, monossido di carbonio e anidride carbonica. Il risultato è che le concentrazioni di anidride carbonica appaiono in aumento a tutte le latitudini. Un primato assoluto è stato conseguito ancorando strumenti per lo studio dei processi di sedimentazione a più di 4000 metri di profondità in pieno Oceano Meridionale: i sedimenti raccolti verranno esaminati in Italia nell'ambito degli studi sulle variazioni climatiche con lo scopo di ritrovare eventuali tracce lasciate dalle calotte polari nelle loro precedenti espansioni durante le ere glaciali. L'Istituto Idrografico della Marina ha inoltre effettuato rilievi del fondale della baia di Terra Nova con lo scopo di rendervi più sicura la navigazione.


SCIENZE FISICHE ASTRONOMIA La culla degli asteroidi-killer L'origine dei pianetini che minacciano la Terra
Autore: ZAPPALA' VINCENZO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: MIGLIORINI FABIO
ORGANIZZAZIONI: ALENIA SPAZIO
LUOGHI: ITALIA

GLI ultimi tasselli stanno finalmente completando il puzzle dell'origine ed evoluzione degli asteroidi in grado di intersecare le orbite dei pianeti terrestri (da Mercurio a Marte) e quindi di causare impatti più o meno catastrofici con la Terra. E' relativamente facile che oggetti di dimensioni diverse impattino uno contro l'altro causando la loro più o meno completa distruzione. Ciò che resta è un insiemne di frammenti (pochi grandi e moltissimi più piccoli) che vengono dispersi attorno all'orbita originale. Quando alcuni di questi frammenti vengono immessi nelle risonanze, ossia in regioni dove le perturbazioni dei pianeti maggiori (soprattutto Giove) raggiungono valori molto grandi, le orbite dei frammenti aumentano in modo inesorabile la loro eccentricità (in parole povere le traiettorie si ««allungano»» ) e sono in grado di intersecare quelle dei pianeti interni. Da un punto di vista qualitativo tutto quadrava abbastanza e il meccanismo ipotizzato sembrava avere la giusta efficacia per produrre un flusso continuo di asteroidi pericolosi. Tuttavia, molte cose non erano ancora state analizzate in dettaglio e soprattutto non da un punto di vista quantitativo. Con il progetto internazionale Gaptec, che si prefiggeva di effettuare un'analisi dell'evoluzione dinamica dei frammenti immessi in diverse risonanze su tempi di 100-200 milioni d'anni, sono arrivate le prime sorprese. Se da un lato veniva confermato il ruolo delle risonanze nel meccanismo di trasporto, dall'altro, e con notevole sorpresa, veniva aumentata di molto l'efficacia di tutto ciò. In parole semplici ci si è accorti che la vita media di un oggetto coinvolto in questo processo era molto più corta di quanto aspettato: le risonanze sono risultate un mezzo di trasporto fin troppo rapido! In pochi milioni di anni l'eccentricità può arrivare fino a valori prossimi ad uno e il destino dell'oggetto essere quello di cadere nel Sole. Per le risonanze più efficienti tutto ciò può avvenire in pochi milioni di anni. Tuttavia, durante questa evoluzione orbitale, gli oggetti entrati nelle risonanze incrociano le orbite dei pianeti interni e può capitare che non solo vi sia un incrocio orbitale, ma un vero e proprio ««incontro»» con il pianeta interno. A volte si arriva all'impatto; molto più spesso il pianeta, data la sua vicinanza, perturba fortemente l'orbita dell'oggetto e lo fa ««uscire»» dalla risonanza. A questo punto il movimento dell'asteroide è impredicibile: può continuare a girare in prossimità del pianeta e cadervi sopra prima o poi; può essere ««catturato»» da un altro pianeta; può essere ricatturato in una risonanza e finire poi sul Sole; può infine essere cacciato al di fuori del sistema solare. I tempi di ««morte»» in questo modo si allungano un poco e qualche oggetto può sopravvivere più a lungo di altri. In ogni caso questo tipo di evoluzione dinamica ««caotica»» non può durare molto a lungo. Purtroppo, avere tempi ristretti vuole dire che, per mantenere una popolazione costante di oggetti ««caotici»» tra i pianeti interni così numerosa come quella osservata, l'impresa risulta assai difficile. Il numero di frammenti che vengono costantemente immessi all'interno delle risonanze a causa delle collisioni non sembra riuscire a tenere dietro al processo di evoluzione dinamica. Studi statistici fatti su questi due processi (collisionale e dinamico) hanno mostrato che la produzione di frammenti ««risonanti»» può mantenere un serbatoio costante di oggetti caotici tra i pianeti interni solo per oggetti molto piccoli, probabilmente non superiori a qualche centinaia di metri. Per quelli più grandi sarebbe impossibile. Abbiamo quindi bisogno di un ««serbatoio»» molto più grande e che comprenda anche oggetti di notevoli dimensioni. Dove trovarlo? Ecco che Marte diventa il nocciolo di tutta la questione. Il ruolo di Marte, date le sue dimensioni ridotte, è sempre stato considerato secondario nel riuscire ad ««estrarre»» oggetti dalle risonanze principali ed inserirli in orbite interne. La velocità con cui le orbite degli asteroidi evolvono mentre sono all'interno delle risonanze principali è tale che il pianeta rosso, con la sua modesta gravità, non riesce ad avere il tempo di perturbare le orbite e fare uscire gli asteroidi dalle risonanze. Cosa che invece riesce molto meglio a pianeti più massicci come la Terra e Venere. Tuttavia esistono, tra gli asteroidi della fascia principale, quasi 2000 oggetti conosciuti, tra cui molti con diametri superiori ai 5-10 km e qualcuno addirittura di 40-50 km, che hanno orbite tali da intersecare quella di Marte. Questi oggetti sembrano del tutto normali, ossia stanno in regioni a prima vista stabili. Fino a poco tempo fa si pensava che la loro vita fosse abbastanza tranquilla e che solo su tempi scala dell'ordine delle centinaia di milioni di anni qualcuno di loro avrebbe potuto evolvere, a causa dei passaggi ravvicinati con il pianeta rosso, verso orbite caotiche tra i pianeti più interni. I risultati di una ricerca franco-italiana hanno invece mostrato come questo gran numero di oggetti (relativamente grandi) venga debolmente ma costantemente perturbato da Marte fino ad essere inserito nelle risonanze più vicine e produrre quindi oggetti caotici come quelli visti precedentemente. I tempi di ««attesa»» per essere inseriti nelle risonanze sono variabili, ma dell'ordine di solo venti milioni di anni. In poche parole, Marte tiene in stato di ««pre-allarme»» una popolazione molto numerosa e di tanto in tanto, ma con flusso pressoché costante, li costringe ad entrare nelle zone caotiche e seguire il loro destino di potenziali impattori. Con la popolazione fornita in questo modo da Marte i conti sembrano tornare perfettamente. Si riesce a spiegare il flusso continuo di oggetti caotici e la presenza di asteroidi con diametri superiori ai 2-3 km e - potenzialmente - fino ai 40-50 km. Resta ancora aperto un punto: bisogna anche essere in grado di rifornire continuamente Marte di oggetti che il pianeta potrà poi ««distribuire»» con i suoi tempi scala all'interno delle risonanze. Senza questo rifornimento Marte, prima o poi, non avrà più materiale e disposizione. Anche questo punto è in via di soluzione e, se le ipotesi attuali verranno confermate, getterà una luce del tutto nuova sulla stabilità dell'intera fascia asteroidale. Questi studi, almeno per la parte italiana, sono inseriti nel contesto del progetto Impact, promosso dalla Regione Piemonte e gestito dall'Alenia Spazio di Torino in collaborazione con l'Osservatorio di Torino. Vorrei chiudere ricordando un giovane ricercatore, Fabio Migliorini, scomparso a 26 anni durante un'ascensione in montagna. Proprio Fabio ebbe per primo l'intuizione del ruolo fondamentale di Marte e ci spinse a iniziare questa proficua collaborazione in cui, fin che ne ebbe la possibilità, giocò un ruolo fondamentale. Vincenzo Zappalà Osservatorio di Torino


SCIENZE FISICHE ORBITE I meccanismi della risonanza
LUOGHI: ITALIA

SI dice che un oggetto celeste si trova in risonanza con un certo pianeta (Giove è il più importante a questo riguardo) quando il rapporto tra il periodo orbitale del pianeta e quello dell'oggetto preso in considerazione (nel nostro caso un asteroide) è uguale al rapporto tra numeri interi piccoli, come ad esempio 3/1, 2/1, 5/2, 7/3, e così via. Per esempio la risonanza 3/1 con Giove significa che, ogni volta che Giove ha compiuto una rivoluzione intorno al Sole, l'oggetto che si trova in tale risonanza ne ha compiute esattamente tre. Ovviamente questo vuole dire che la stessa configurazione spaziale Sole-oggetto-Giove si ripropone in modo periodico. Ma, cosa più importante per noi, ciò comporta anche la conseguenza che le perturbazioni causate da Giove sull'orbita dell'asteroide continuano a ripetersi con scadenze di tempo molto brevi (dell'ordine di qualche decina di anni al massimo). L'effetto finale del sommarsi di queste spinte gravitazionali è un rapido e caotico (imprevedibile) cambiamento dei parametri orbitali, e e soprattutto dell'eccentricità.


SCIENZE FISICHE DIBATTITO La replica dei medici omeopati
ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
NOMI: CITRO MASSIMO, RODRIGUEZ ALMA
LUOGHI: ITALIA

IN seguito al provvedimento della Corte Costituzionale che, a tutela della salute dei cittadini, ha vietato l'uso della qualifica di ««medico omeopata»» in quanto tale specializzazione non esiste nella formazione post-universitaria, abbiamo pubblicato due articoli - uno di Ezio Giacobini e uno di Silvio Garattini - nei quali si analizzava la mancanza di riscontri basati sul metodo scientifico circa la validità dei rimedi omeopatici. Naturalmente la questione ha toccato grossi interessi sia economici sia ««culturali»» e abbiamo ricevuto molte reazioni: di appoggio alla linea razionale assunta da ««Tuttoscienze»» ma anche di attacco da parte di chi pratica l'omeopatia. A molti interventi Giacobini e Garattini hanno risposto direttamente: non avendo spazio per ospitarli tutti, pubblichiamo qualche stralcio dei due più rappresentativi. ««Il testo del professor Garattini recita così: ''Possiamo affermare senza tema di smentite che i rimedi omeopatici contengono tutti la stessa cosa: tanti nomi spesso difficili da interpretare hanno in comune il nulla. In mancanza di principi attivi, la parola farmaco non è dunque appropriatà'. Il Professore certo non ignora la vasta letteratura scientifica, sia teorica sia sperimentale, prodotta nell'ultimo decennio sul tema dell'acqua come registratore naturale di frequenze. L'acqua è in apparenza una sostanza semplice, ma nella sua realtà fisica è fra le pìù complesse in natura. Siamo soltanto agli inizi di un cammino di conoscenza e il Professore sa bene quanto sia sempre stato difficile il cammino della Scienza nelle sue inevitabilmente critiche fasi di trasizione, quali l'individuazione di nuovi orizzonti cognitivi o la necessità di cambiamenti di paradigma. (... ) Il discorso si farebbe lungo se toccassi anche il tema dell'efficacia terapeutica dei rimedi omeopatici quando sono appropriati e ben dosati. Posso solo aggiungere la mia piccola esperienza personale, sostenendo la loro efficacia anche oltre l'effetto placebo, che è, come si sa, presente anche nella farmacologia chimica tradizionale, tanto che molti farmacologi considerano farmaco il placebo stesso. (...) Non me ne voglia il professor Garattini, ma la realtà della fisica dell'acqua è ben più seria e complessa di come la si vuol far apparire attraverso certi articoli»». Dr. Massimo Citro Torino ««Sono, da medico che pratica la Medicina Omeopatica, perfettamente d'accordo con Garattini quando dice che i rimedi omeopatici non sono farmaci. Non lo sono perché 1) non contengono, ad alte diluizioni, principi attivi in senso stretto; 2) non sono i principi attivi in senso farmacologico i motori della guarigione; 3) sono stati sperimentati non su pazienti malati ma sull'uomo sano secondo il procedimento omeopatico per cui il simile si cura con il simile; 4) sono comprovati sull'organismo malato e non sulla malattia. (... ) Vorrei chiarire che ai pazienti che richiedono un consulto chiediamo il consenso informato; ma non solo, teniamo a precisare che nel rimedio non c'è sostanza rintracciabile; inoltre proprio perché desideriamo che vi sia informazione, la più precisa possibile, organizziamo periodicamente conferenze pubbliche gratuite per tutti coloro che mostrano interesse per questa disciplina. E questo lo facciamo anche perché il paziente deve conoscere il modo in cui il consulto omeopatico viene eseguito e cosa avviene dopo l'assunzione del rimedio. Le persone, soprattutto con l'omeopatia, hanno libertà di scelta e possibilità di discernimento, perché nessuno le obbliga a seguire questa medicina. Infine, per quel che riguarda l'associazione di rimedi omeopatici e farmaci convenzionali, somministriamo un unico rimedio alla volta e non cocktail di farmaci, evitando l'introduzione nell'organismo di altri farmaci che con i loro effetti iatrogeni possono creare blocchi alla forza mediatrice della natura.»» Dr. Alma Rodriguez, Napoli Presidente della Libera Università Internazionale di Medicina Omeopatica


SCIENZE FISICHE FISICA Il neutrino? E' un trasformista Dal Giappone la prima prova della sua oscillazione
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: FISICA
NOMI: BELLETTINI GIORGIO, TRUC FABIO
ORGANIZZAZIONI: FERMILAB
LUOGHI: ITALIA, AO, ITALIA, LA THUILE
TABELLE: C.

SONO stati ancora i neutrini - questo evanescente ma tenace ponte che unisce l'estremamente piccolo e l'estremamente grande, le particelle elementari e l'universo intero - i protagonisti delle ««Rencontres de Physique»» edizione 1999, importante appuntamento scientifico (quest'anno dal 1° al 6 marzo) organizzato, ormai da molti anni, con il sostegno della Regione Valle d'Aosta. Nello scenario delle montagne di La Thuile, presenti un centinaio di fisici, con rappresentanze provenienti dagli Stati Uniti e e dal Giappone, i neutrini hanno monopolizzato la prima giornata delle ««Rencontres»» e una tavola rotonda tenutasi giovedì scorso, ma il tema ha continuato a serpeggiare per tutta la settimana e ha ispirato sia il dibattito degli astrofisici e dei cosmologi sia il confronto tra i fisici delle particelle elementari. La novità è che finalmente un esperimento realizzato in Giappone avrebbe portato prove convincenti della trasformazione dei neutrini da un tipo a un altro, fenomeno che implica pure l'esistenza di una massa del neutrino, per quanto minima (mentre per molto tempo si è ritenuto che avesse massa uguale a zero). La trappola per catturare i neutrini costruita dai Giapponesi consiste in un serbatoio di 50 mila tonnellate di acqua spiate da 13 mila sensibilissimi rivelatori di luce (fototubi). Della enorme massa d'acqua, la parte veramente utile come trappola ha una massa di 35 mila tonnellate; il resto, tenuto sotto controllo da duemila fototubi, serve a garantire che ciò che si osserva non è dovuto a fenomeni radioattivi di disturbo provenienti da altre sorgenti. I neutrini osservati (in media uno al giorno sui miliardi di miliardi in transito...) derivano da muoni prodotti nell'atmosfera dai raggi cosmici. Ciò che si osserva è un numero maggiore di neutrini provenienti dall'alto rispetto a quelli provenienti dal basso che hanno attraversato il globo terrestre. Poiché la Terra per i neutrini è pressoché trasparente, se ne deduce che nel tragitto (circa 12.700 mila chilometri), alcuni neutrini muonici si sono trasformati in neutrini della particella Tau (analoga al muone ma più massiccia, così come il muone è analogo all'elettrone ma circa 500 volte più pesante). ««I dati di questo esperimento, chiamato Superkamiokande, sono molto chiari - dice il fisico Fabio Truc -. Yoshika Itow ha mostrato un'ottima coincidenza tra ciò che si osserva e ciò che ci si poteva attendere se i neutrini muonici oscillano»». Giorgio Bellettini, del Fermilab, concorda, ma con più cautela: ««I giapponesi hanno dimostrato che alcuni neutrini muonici scompaiono. Non hanno però dimostrato la loro riapparizione sotto forma di neutrini Tau. Questa sarebbe la vera prova cruciale»». Se si accettando i dati giapponesi, il neutrino possiede dunque una massa. Ma irrisoria: circa 5 centesimi di elettronvolt, mentre l'elettrone, la particella più leggera, ha una massa di mezzo milione di elettronvolt. Questi neutrini non sono dunque abbastanza pesanti per ««chiudere»» l'universo invertendo l'espansione iniziata con il Big Bang. A quando la soluzione finale dell'enigma neutrini? ««Occorrono - dice Bellettini - altri dati. In Giappone entro la fine di questo mese incomincerà l'esperimento K2K: una sorgente di neutrini verrà sparata a 250 chilometri di distanza sul rivelatore di Superkamiokande. Senza dubbio, quindi, i giapponesi sono in forte vantaggio nella corsa alla comprensione dei neutrini. Gli americani preparano un esperimento simile. Spareranno neutrini sulla distanza di 750 chilometri dal Fermilab, vicino a Chicago, ad un laboratorio sotterraneo nel Minnesota: questo esperimento sarà pronto nel 2002-2004. Anche in Europa si pensa di inviare un fascio di neutrini per 750 chilometri dal Cern di Ginevra al Laboratorio del Gran Sasso. Ma occorrono 600 miliardi... »». Piero Bianucci


SCIENZE DELLA VITA BIOINDICATORI Una spia per l'ambiente Rilevano ogni tipo di sostanze tossiche
Autore: MANGIAROTTI GIORGIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

UN mese fa a Roma l'Associazione nazionale per la protezione dell'ambiente ha organizzato un congresso per passare in rassegna i vari organismi viventi (piante vascolari, muschi, licheni...) finora utilizzati per rilevare sostanze tossiche nell'aria. Due mesi fa a Brno si è svolto un simposio internazionale su nuovi biotest per il monitoraggio della tossicità ambientale, con 500 ricercatori giunti da tutto il mondo. I mezzi per queste valutazioni sono di due tipi. Il primo consiste nell'analizzare chimicamente un campione di acqua, di aria, di terreno, e misurare la concentrazione di sostanze tossiche presenti nel campione. Il secondo consiste nell'esporre in un ambiente un organismo vivente e valutare il danno fisiologico che questo subisce. Il primo approccio ha il vantaggio di poter stabilire quale sostanza tossica è presente, ed in quale concentrazione. Tuttavia se il laboratorista cerca 30 sostanze tossiche, e quella che inquina l'ambiente è la 31^, l'ambiente risulterà perfettamente pulito. Inoltre l'evidenziare la presenza di una determinata sostanza potenzialmente tossica per l'uomo o gli animali non permette di concludere che quell'ambiente è nocivo: dipende dal modo in cui l'uomo e gli animali sono in contatto con quell'ambiente, se il loro corpo assorbe quella sostanza, se la modifica o l'elimina rapidamente o l'accumula. I bioindicatori hanno il vantaggio di rilevare la tossicità di un ambiente indipendentemente da quale sostanza la determini. Inoltre l'effetto nocivo dell'ambiente su un organismo vivente è più indicativo delle conseguenze che esso può avere sull'ecosistema (cioè sull'equilibrio tra gli organismi che vivono in una comunità) e sulla salute dell'uomo. Il limite è che i bioindicatori non ci dicono quale sostanza tossica è presente; inoltre nessun bioindicatore può essere usato per tutti i tipi di ambiente (ho citato piante vascolari, muschi e licheni per l'aria; molti tipi di piante sono usate anche per il terreno; pesci e crostacei e alcuni batteri vanno bene per l'acqua). Oggi si tende a fondere i due approcci: prima si determina quali sono i punti inquinati con i bioindicatori, poi si passa all'analisi chimica. Esiste un bioindicatore che supera i limiti di entrambi gli approcci. Il Dictyostelium è un microrganismo eucariote (le cui cellule hanno cioè un nucleo, come le nostre, a differenza dei batteri; la sua biologia molecolare è quindi relativamente simile a quella degli organismi superiori). Le caratteristiche del suo ciclo vitale ne fanno uno dei sistemi ideali per lo studio della biologia molecolare dello sviluppo. L'organismo vive sul terreno, ed è unicellulare quando si trova in condizioni di poter crescere: le singole cellule fagocitano batteri, ingrossano e si duplicano. Quando i batteri vengono a mancare, la prima cellula che ha fame rilascia cAMP, che va a stimolare le cellule vicine a rilasciare cAMP, e così via. Si formano allora cordate di cellule che muovono verso la prima cellula che ha dato il segnale di allarme. Circa 100.000 cellule aggregano assieme, gli aggregati assumono forme diverse e nel giro di 20 ore danno origine a dei corpi fruttiferi, costituiti da uno stelo, alto 3 mm, formato da 20. 000 cellule morte, che sorregge il sorocarpo, una pallina fatta di polisaccaridi contenente 80.000 spore. Se la pallina rotola qualche centimetro più in là, dove ci siano dei batteri, le spore germinano e l'organismo riprende a crescer come unicellulare. Nel corso dello sviluppo differenziano solo due tipi di cellule, le pre-spore e le prestelo. Studiare i meccanismi molecolari che portano un tipo di cellula a differenziarsi in due è evidentemente più facile che studiare la differenziazione delle centinaia di tipi cellulari esistenti nell'uomo. Ho clonato i primi geni specifici per lo sviluppo del Dictyostelium (cioè espressi solo durante lo sviluppo, e non in crescita), nel 1979, quando lavoravo all'M.I.T. di Cambridge. Mettendo assieme i miei dati e quelli di due altri ricercatori del laboratorio, avevamo calcolato che le cellule pre-spora esprimono circa 3000 nuovi geni e quelle pre-stelo circa 500, il tutto nelle seconde 10 ore dello sviluppo. Il primo gruppo di geni è regolato a livello della stabilità degli Rna messaggeri (ho impiegato 20 anni a dimostrare come), il secondo gruppo è regolato a livello di trascrizione, ed altri hanno scoperto alcuni dei meccanismi di questo secondo tipo di controllo. Ho sempre pensato che l'espressione di un numero così elevato di geni in poche ore, e l'impiego di una grande varietà di meccanismi di controllo doveva rendere lo sviluppo un processo delicato, facilmente bloccabile da qualunque sostanza tossica. Ma solo due anni fa mi sono deciso a provare questa idea. Mi sono fatto dare dal gruppo dal Dipartimento di medicina preventiva e di microbiologia e dall'Arpa (Agenzia regionale protezione ambiente) di Grugliasco soluzioni di sostanze tossiche, già tarate con i due bioindicatori più usati, il Microtox e la Daphnia magna. Queste sostanze sono risultate quasi tutte 10-50 volte più nocive sullo sviluppo del Dictyostelium. Venti campioni di acque di lago, di fiume, affluenti ed effluenti di depuratori, discariche sono risultati 20-100 volte più tossici per il Dictyostelium. Su 10 campioni di terreno, tutti risultati negativi all'analisi chimica delle sostanze estratte, 8 non hanno consentito lo sviluppo del Dictyostelium. Ho esposto cellule di Dictyostelium in punti strategici di Torino, e lo sviluppo è risultato altamente condizionato dall'intensità del traffico. Con la tecnica che avevo introdotto nel '79 per isolare i geni dello sviluppo ho isolato una ventina di geni la cui espressione è sensibile solo ad una sostanza tossica, e non alle altre. Ho fuso gli elementi regolatori di questi geni con il gene della beta-galattosidasi, un enzima prodotto dal batterio E.coli, capace di scindere il lattoso, ma anche un composto chiamato X-gal, che diventa blu. Ora ho una ventina di ceppi trasformati con ciascuno di questi geni: se il ceppo contenente Ep1 produce corpi fruttiferi bianchi e non blu in presenza di X-gal, vuol dire che è presente del piombo; Ep2 segnala la presenza di cadmio, Ep3 di anilina, e così via. Il Dictyostelium ingegnerizzato è un bioindicatore di eccezionale sensibilità, adatto all'acqua, al terreno, all'aria, ed è l'unico che può dire qual è la sostanza tossica presente (ovviamente il lavoro va completato, occorre isolare centinaia di geni specifici). Spero che esso possa rappresentare un nuovo scudo per proteggere il benessere dell'uomo e dei suoi amici, piante ed animali. Giorgio Mangiarotti Università di Torino


SCIENZE DELLA VITA IGIENE Alimenti, i rischi e i controlli
Autore: ARIOTTI RICCARDO, BURI MARCO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE
LUOGHI: ITALIA

NEI processi di lavorazione, produzione, stoccaggio, conservazione e distribuzione degli alimenti possono esserci momenti critici che mettono a rischio la qualità igienica del prodotto. Haccp è una sigla che significa analisi dei rischi e controllo dei punti critici nelle fasi della manipolazione dell'alimento. D'ora in poi sarà un concetto molto importante sul piano economico e sociale perché interesserà tutti i settori di produzione di cibi e bevande, distribuzione, vendita al dettaglio e ristorazione collettiva. E' stato introdotto dal D.L. 155/97, acquisito dal governo italiano a seguito della pubblicazione come legge della Comunità europea. In pratica, l'Haccp è un sistema preventivo di controllo finalizzato a garantire la sicurezza per i consumatori previa l'identificazione dei rischi ai quali si può andare incontro nelle fasi di lavorazione dei cibi e l'instaurazione di un monitoraggio continuativo. Coinvolgerà infatti una parte della gestione della qualità degli alimenti, ma, non essendo il suo compito specifico, potrà servire alla miglior pianificazione di prodotti già in corso, allo sviluppo di nuovi preparati, all'efficace controllo delle materie prime ed ingredienti di cibi e bevande. Un sistema simile è stato utilizzato per la prima volta trent'anni fa dai tecnici della Nasa per verificare il cibo somministrato agli astronauti in una missione spaziale, dovendo evitare inquinamenti e perdite di igienicità degli alimenti in situazioni ambientali estreme. Oggi la Food and Drug Administration sta applicando i medesimi schemi per ispezionare le derrate alimentari sul mercato americano. Tutto questo è ciò che si propone l'Haccp in chi lo vuole applicare: principalmente un nuovo metodo di porsi nella scelta dei propri obiettivi produttivi. Esso impone, infatti, che prima di effettuare una produzione di qualunque genere, si analizzino i rischi in cui si può incorrere nelle varie fasi per evitare possibili contaminazioni delle sostanze utilizzate o trasformate. Facciamo un esempio: quali possono essere i rischi in cui potremmo incorrere preparandoci un bel piatto di funghi? Un primo rischio sarebbe di usare funghi velenosi. Può essere, ma non solo. Tra i porcini che abbiamo raccolto ce ne possono essere alcuni infestati da larve di ditteri o lepidotteri, ed anche questi come quelli velenosi debbono essere scartati. Altro problema potrebbe essere la contaminazione con vari inquinanti (terra, pioggia o deiezioni animali) che se non trattati con accurata pulizia e lavaggio, potrebbero comportare il rischio di assunzione di batteri patogeni, specie se consumati crudi. Analizzati quindi i rischi in cui potremmo incorrere ««producendo»» il nostro piatto dovremo identificare i punti critici dove questi problemi possono presentarsi. Riconoscendoli e controllandoli si potranno evitare le eventuali problematiche negative a valle, o peggio un accumulo di processi sbagliati in varie fasi successive della lavorazione. Un altro esempio classico da verificare e controllare è la conservazione in frigorifero. La nostra materia prima può essere contaminata da germi se non conservata correttamente alla temperatura da 0 a +4C. I batteri, innocui se presenti in piccole quantità, con l'aumento della temperatura si moltiplicano e a concentrazioni elevate sono causa di molte tossinfezioni. Il decreto 155 introduce anche il concetto di corretta prassi igienica, per coloro che non si sentono in grado di eseguire la Haccp sulla loro produzione, attraverso l'istituzione di una figura all'interno dell'azienda che sia garante della completa applicazione delle norme. I vantaggi possono essere notevoli: dall'applicabilità sull'intera catena alimentare, alla riduzione dei costi aziendali in caso di intossicazione da cibo. Per i consumatori potrà aumentare la fiducia sulla sicurezza dei vari prodotti e un approccio comune più aperto e chiaro sui problemi della sicurezza in campo igienico-alimentare. Marco Buri Riccardo Ariotti


SCIENZE DELLA VITA E' TEMPO DI FIORITURA La primavera dell'aloe Spettacolare sulle coste mediterranee
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA, ITALIA

I litorali italiani offrono in questo periodo uno spettacolo affascinante e che merita di venire osservato almeno una volta nella vita: sono le superbe fioriture delle Aloe che connotano il paesaggio insieme ai Cereus e alle Euforbie che si innalzano svettanti simili a candelabri, e talvolta ai grossi coni sferici, irti di spine, degli Echinocactus. Piante a portamento per lo più arboreo variamente ramificato (anche se esistono specie quasi prive di caule e munite di un piccolo ciuffo di foglie basali), le Aloe hanno foglie strette, lunghe, appuntite, pungenti, spesso fortemente spinose ai bordi, raccolte in rosette attorno alla radice. Da questa si innalza verso il cielo un lungo scapo fiorifero che porta infiorescenze (racemi) ricchi di fiori distanziati o appressati, per lo più di colore arancione, o rossi. I semi assai numerosi sono curiosi in quanto appiattiti e alati. A prima vista queste piante possono venire scambiate con le agavi, in quanto queste (cioè le agavi) appartengono ad una diversa famiglia, quella delle Agavacee e posseggono la caratteristica di morire non appena è avvenuta la fioritura. A lungo l'Aloe ha fatto parte della immensa famiglia delle Liliacee (quella di cui fanno parte il giglio, il colchico, il mughetto, per citare solo piante da tutti conosciute ed amate), quindi nel 1992 è stata giustamente creata una nuova famiglia, quella delle Aloacee, di cui da allora fa parte. Sembra siano stati i Fenici ad introdurre tale pianta, ben nota agli antichi naturalisti e medici, da Dioscoride a Galeno, al senese Mattioli che ne fa una ampia trattazione nei suoi Discorsi. Il nome Aloe deriverebbe da als, alos=sale, termine che ricorderebbe l'amarezza del succo di queste piante (molti adulti, bambini negli Anni 50, ricorderanno ancora la tortura inflitta a chi aveva l'abitudine di mangiucchiarsi le unghie che venivano ricoperte dal liquido assai poco invitante dell'aloe). L'etimologia fa riferimento anche al fatto di crescere in terreni assai ricchi di sali e di tollerare ambienti salmastri. Nell'ambito del genere Aloe sono incluse circa duecento specie provenienti dal Sud Africa, dal Madagascar, dalle Canarie, alcune delle quali si sono acclimatate nel bacino del Mediterraneo e lungo le coste italiane, tanto da fare ormai parte del paesaggio, come d'altra parte è accaduto per il fico d'India in Sicilia, originario del Sud America. Alcune specie di Aloe sono utilizzate in farmacia, altre nell'industria tessile, mentre la maggior parte trova attualmente largo impiego nel giardino, nel parco. Amari, tonici, eupeptici, colagoghi, purganti vengono ottenuti da alcuni composti presenti nelle foglie. Ultimamente un grande interesse ha suscitato l'Aloe vera - con foglie che formano rosette poco numerose, maculate di bianco con margini aculeati; i fiori sono portati in densi racemi penduli con brattee di colore giallo e rosso e stami assai sporgenti - in quanto sembra abbia qualche principio che potrebbe avere effetti positivi nella cura di alcuni tipi di cancro. Tuttavia l'argomento è allo studio soprattutto in Israele. In India dall'Aloe perfoliata si ricavano fibre per tessere una stoffa impiegata solo localmente. Le finalità ornamentali - a volte alcune specie, quelle di taglia contenuta, sono presenti anche in appartamento - sono dovute al loro portamento vagamente scultoreo, all'aspetto un poco rigido che fa sì che si ritenga che ben si addicano alle moderne architetture come è accaduto ad alberi come l'Araucaria araucana. Una specie di Aloe merita di essere citata in quanto ha ricevuto un premio speciale essendo stata dichiarata pianta da giardino eccellente ed è l'Aloe aristata, introdotto nel mitico giardino botanico di Kew all'inizio del 1800. E' una pianta priva di stelo, dotata di un lento accrescimento, facile da coltivare, fiorisce regolarmente nella tarda primavera, è facile da propagare in quanto si usano piccoli getti laterali portati da stoloni (come quelli che tutti conoscono in quanto si formano sui tuberi delle patate) che staccati dalla pianta madre originano in breve tempo una nuova pianta. Tollera temperature fino a 2° C purché il terreno sia asciutto. Originaria del Natal e del Lesotho in Sud Africa, è stata rinvenuta in differenti habitat: lungo le pendici delle montagne che d'inverno possono essere innevate, ma anche in zone completamente desertiche come il deserto del Karoo in cui la si ritrova all'ombra di radi cespugli sparsi qua e là, accontentandosi delle scarse gocce di acqua che si formano al di sotto delle rocce. Allo stato spontaneo il portamento della pianta è differente da quello che si presenta in coltivazione dove si assicurano apporti di acqua regolari: infatti le foglie si arrotolano conferendo alla pianta l'aspetto di una grande palla per ridurre la traspirazione dalla superficie fogliare. Elena Accati Università di Torino


SCIENZE A SCUOLA LA LEZIONE / LINGUISTICA Una lingua aulica e arcaica La parlata d'oc è ancora ben viva dalle Alpi piemontesi ai Pirenei
Autore: QUAGLIA LUCA

ARGOMENTI: ANTROPOLOGIA ETNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. I CONFINI LINGUISTICI DELL'OCCITANIA

DA qualche anno, anche al di fuori degli ambienti specialistici, si è cominciato a parlare di lingua occitana, grazie soprattutto al fatto che qualcuno si è accorto che nelle vallate alpine del Piemonte occidentale e meridionale, dalle valli monregalesi alla valle di Oulx, si parlano dialetti rurali della lingua d'oc, talvolta ancora assai arcaici e conservativi. Ma nelle valli si parla la lingua d'oc, l'Occitano, l'occitanico, la lingua dei trovatori, o il Provenzale? Molti chiedono un chiarimento, poiché si è creata una certa confusione definendo la lingua parlata nelle valli e nel Sud della Francia in modi differenti. Posto che non utilizzo i termini sottodialetto, dialetto e lingua se non per indicare i gradi di appartenenza di un linguaggio a un certo gruppo o sottogruppo linguistico, ossia in senso classificatorio e non, come è uso tra i non specialisti, in senso qualitativo, penso sia opportuno iniziare con un'analisi sintetica delle denominazioni comuni alla lingua d'oc prese a una ad una. ««Lingua d'oc»» è un modo classico usato per designare l'Occitano come lingua in cui il corrispondente dell'italiano ««sì»» è ««òc»». Questa particella affermativa deriva dal pronome dimostrativo latino ««hoc» ». In antico francese, dall'unione dei pronomi latini hoc e illum, si ebbe oil, ora oui. Con la voce Occitano si intende la lingua d'oc in generale. E' un termine d'uso abbastanza recente, nelle aree di lingua d'oc ormai accettato dalla maggior parte degli studiosi, fuorché da alcuni letterati della Provenza che vedono in questo vocabolo un ideale nazionalista antifrancese a loro odiosissimo e quasi un'offesa diretta ai propri sentimenti d'amor patrio. Si deve sapere, a questo proposito, che, per molti Provenzali, la Francia è la patria, mentre la Provenza rappresenta la patria, un corrispondente della patria cita di alcuni gruppi piemontesisti. Il termine occitano presenta comunque il grande vantaggio di non ingenerare confusioni tra ciò che designa un dialetto particolare e ciò che invece si riferisce ad un insieme di maggior vastità. In tal modo, con provenzale si designa sempre e solo un particolare dialetto dell'insieme linguistico occitano: quello di tipo sud-occitano suddiviso nei sottodialetti rodanese, marittimo, interno e nizzardo. Più avanti vedremo di dare una succinta descrizione sulle suddivisioni dialettali della lingua d'oc. ««Occitanico»», invece, da molti considerato un po' amorfo e troppo diplomaticamente asettico, è la diretta traduzione dell'««occitanien»» dei francesi. In Occitania è avvertito anche come termine di poca considerazione, quasi un insulto. L'Occitano è la lingua degli Occitani, nazione negata e colonizzata dai Francesi; l'Occitanico un insieme linguistico basato su un fondo comune di un popolo poco definibile, e, quindi, ottimamente integrato nella ««nazione»» francese. In Italia sta prendendo piede, accosto allo speculare e non sospetto occitanico, termine che designa quanto concerne la ««lingua d'oil»». Il termine più in auge, però, è provenzale. Esso è utilizzato non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo, soprattutto tra gli studiosi meno giovani. attenzione, c'èE' qualcosa che non funziona, manca qualcosa?una denominazione che da noi è stata usata fin dai primi tempi, anche se, come abbiamo visto, difetta di precisione. Nelle università di tutto il mondo, comunque, si seguono corsi di provenzalistica, non di occitanistica, e molti studi portano nel titolo l'attribuzione provenzale. Abbiamo così le varie grammatiche di lingua provenzale o edizioni di canzonieri provenzali, o, al limite, occitanici. La scelta di questo vocabolo è dovuta alla maggior vicinanza geografica della Provenza all'Italia e alla Germania e ai relativi maggiori traffici di questi Paesi con quella regione. I catalani, in parte per gli stessi motivi, parlano spesso di lingua e di poesia limosina: in un certo senso con maggior ragione, tenendo conto che i primi e i più famosi trovatori scrissero soprattutto nei dialetti del Nord-Ovest dell'Occitania, spesso in dialetto limosino, mentre coloro che utilizzarono il Provenzale propriamente detto furono in numero assai minore. L'uso accademico, storico, è questo. Mi pare quindi esagerato il volerlo sradicare. A nulla servono, comunque, le polemiche che, oltretutto, sovente ottengono il solo risultato d'inasprire gli animi facendo sì che ognuno si attesti pervicacemente sulle proprie convinzioni, chiudendosi ad ogni costruttivo confronto. Spesso, per designare le parlate d'oc si usa anche l'espressione ««lingua dei trovatori»». Essa è applicata alle parlate delle nostre valli da molti occitanisti al fine di chiarire che il loro parlare è una lingua e non un patois, e che questa lingua è la stessa usata da quei grandi cantori medievali che resero famosa la favella occitana in tutta l'Europa. Lo Janinet di turno, dunque, con fierezza, vi dirà : ««Nousautres parlen la lengo d'i troubadour!»». Alcuni, uditi gli accenti non proprio curtensi, potrebbero pensare che si tratti di una ««sparata»» non rispondente, se non in minima parte, alla realtà. Eppure la lingua è veramente la stessa. E' il registro che cambia. Il linguaggio naturale delle vallate, così com'è ora sulle labbra degl'incolti, rappresenta il registro basso del dialetto alpino occitano, dialetto che, un tempo, conobbe ogni registro linguistico, come ci attestano molti documenti di un passato neppur troppo lontano. I dialetti usati dai trovatori, invece, rappresentavano il registro alto, colto, aristocratico di quella lingua. I montanari, definiscono il loro linguaggio ««nòsta mòda»» . Che, alla lettera, significa ««nostra maniera»», ossia, il modo di parlare che si è sempre usato tra noi, con una connotazione un po' autodenigratoria, indotta dall'essere da secoli oggetto del disprezzo delle genti ««urbane»». ««Nòsta mòda»», in molte zone pronunciata con velarizzazione di finale, ci tramanda invece termini pre-latini attinenti alle cose dell'allevamento e dell'agricoltura, scomparsi altrove, di grandissimo interesse per i linguisti. Luca Quaglia


SCIENZE A SCUOLA L'ESPERIMENTO Giocare con il blu di metilene Usato anche per colorare gli agenti infettivi della malaria
Autore: FOCHI GIANNI

ARGOMENTI: CHIMICA
NOMI: CARO HEINRICH, CELLI ANGELO, EHRLICH PAUL, GUARNIERI GIUSEPPE
LUOGHI: ITALIA

UNA bottiglia di vetro incolore, tappata e piena a metà d'un liquido pure incolore (acqua, in apparenza). Il mago con gesti decisi, l'agita bene: il liquido diventa azzurro. La bottiglia torna sul tavolo, e lo spettacolo prosegue con altre magie. Passata una decina di minuti, il liquido nella bottiglia è tornato incolore. Guardino, signore e signori: nuova agitazione vigorosa e l'azzurro ricompare. La magia può essere ripetuta alcune volte. Questo gioco non figura nei libri sui trucchi dei prestigiatori. Lo si trova invece nell'opuscolo ««La magia della chimica»» e nel volume ««Il luna park della chimica»». Il primo, distribuito gratis dalla Tramontana (via A. Mario, 65 - 20149 Milano; tramontana@tramontana.it), contiene una raccolta d'esperimenti istruttivi e divertenti insieme, che due chimici dell'università di Palermo, Roberto Zingales e Antonio Floriano (flor&mbox.unipa.it), compiono da qualche anno sotto gli occhi attentissimi degli studenti delle scuole medie superiori in varie città d'Italia (http://unipa.it/~cclchimica/MAGIA/foto.htm). ««Il luna park della chimica»», volume di oltre 300 pagine, è la traduzione (Zanichelli) di un'opera dei tedeschi Roesky e Moeckel. Vi si trovano le ricette e le spiegazioni scientifiche di 123 esperimenti spettacolari, fra i quali quello di cui stiamo parlando. Per la preparazione si può ricorrere a una bottiglia col tappo a tenuta, oppure a qualche recipiente da laboratorio: una beuta o un pallone da un litro, col collo smerigliato che s'adatti a un tappo di plastica. Vi si mettono mezzo litro d'acqua distillata e 13 grammi d'idrossido di potassio (detto anche potassa caustica) oppure 9,3 grammi d'idrossido di sodio (soda caustica). Attenzione: per maneggiare le sostanze del laboratorio chimico ci vuole una persona qualificata. Si agita bene a recipiente scoperto: gl'idrossidi di sodio o potassio, sciogliendosi, liberano molto calore, e in un ambiente chiuso potrebbe svilupparsi una pressione pericolosa. Quando tutto il solido è sciolto, si mette il tappo e si lascia raffreddare. Poi s'aggiungono 10 grammi di glucosio e 8 centimetri cubi d'una soluzione di blu di metilene all'1% in peso. Alla fine si ritappa e s'agita di nuovo fino ad avere un liquido azzurro, che poi lentamente si scolora. Il blu di metilene, colorante sintetizzato nel 1876 dal tedesco Heinrich Caro, si rivelò subito adatto a mettere in evidenza nuclei di cellule vegetali, microrganismi e cellule nervose per l'osservazione al microscopio. Due italiani, Angelo Celli e Giuseppe Guarnieri, scoprirono nel 1890 la sua attitudine a colorare gli agenti infettivi della malaria. Il tedesco Paul Ehrlich ebbe allora l'idea di usare coloranti selettivi per uccidere i parassiti senza danneggiare l'organismo umano. L'anno seguente riuscì a dimostrare che aveva ragione: somministrò il blu di metilene a due malati di malaria, e le febbri periodiche cessarono. Dopo una settimana, dal sangue dei due pazienti gli agenti patogeni erano spariti. Incoraggiato, Ehrlich proseguì; coniò il termine chemioterapia e scoprì che un altro colorante poteva combattere la malattia del sonno, uccidendo i protozoi del genere Trypanosoma, trasmessi dalla mosca tze-tze. Nel 1908 ebbe il premio Nobel per la medicina e due anni dopo divenne famoso in tutto il mondo per il Salvarsan, un composto dell'arsenico che curava la sifilide. Quanto agl'impieghi terapeutici del blu di metilene, esso è tuttora usato come disinfettante delle vie urinarie. Il blu del gioco di prestigio è dovuto alla forma ossidata del colorante, prodotta dall'ossigeno dell'aria presente nella bottiglia. Se questa viene scossa, si accelera la penetrazione del gas nel liquido e quindi la sua reazione col blu di metilene. Da fermo l'ossigeno si diffonde troppo lentamente nella soluzione; prevale allora un altro processo: nell'ambiente reso basico dall'idrossido, il colorante trasferisce l'ossidazione sul glucosio, trasformandolo, nel tempo di qualche minuto, in una miscela complicata di sali organici. Nel far ciò, naturalmente perde il colore, che riapparirà se la bottiglia viene agitata un'altra volta. L'effetto chimico netto è la reazione fra ossigeno e glucosio, mediata dal colorante. Poiché esso non viene consumato, ma al contrario si rigenera subito (se, agitando la soluzione, la riforniamo d'ossigeno), il suo ruolo è soltanto quello di catalizzatore, cioè di acceleratore: in sua assenza ossigeno e glucosio reagirebbero con una lentezza estrema. Gianni Fochi Scuola Normale di Pisa


IN BREVE E' la «Settimana del cervello»
ARGOMENTI: BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, (TO), EUROPA, ITALIA, TORINO

Dal 15 al 21 marzo negli Stati Uniti e in Europa si celebra la Settimana del Cervello organizzata dalla European Dana Alliance for Brain. A Torino il 17 marzo, Teatro Nuovo, ore 16, tre conferenze divulgative sul cervello. Tel. 011-670.77.84.


IN BREVE Infotecnologie di scena a Chamonix
LUOGHI: ITALIA, CHAMONIX, EUROPA, FRANCIA

Dal 22 al 26 marzo si terrà a Chamonix (Francia) la ventesima edizione delle «Journèes Internationales» dedicate alle tecnologie. Quest'anno l'attenzione sarà specialmente centrata sull'infotecnologia e sulla didattica. Per altre informazioni: 0033.450.531.748.


IN BREVE Ozonoterapia: convegno a Verona
LUOGHI: ITALIA, (VR), EUROPA, ITALIA, VERONA

Dall'11 al 13 marzo si svolge a Verona, all'Auditorium Glaxo, via Fleming 4, il congresso mondiale «Ossigeno e ozonoterapia, Tertium Millennium». Informazioni: 035/299.573. Tra gli invitati stranieri: C.E.Cross e L.Packer (Usa), F.Hernandes e S.Menendez (Cuba). Presiede il comitato scientifico V.Bocci, docente di fisiologia all'Università di Siena. Secondo quanto scrive il mensile della Società Scientifica di Ossigeno-Ozono Terapia (la sede a Bergamo, telefono 035/29.95.73) la cura - utile per numerose patologie - stata anche testata con successo su pazienti affetti da insufficienza erettile, con scomparsa o attenuazione dei segni di maldistribuzione microcircolatoria.


IN BREVE La memoria e i telefonini
ARGOMENTI: ELETTRONICA, BIOLOGIA
NOMI: PREECE ALAN
LUOGHI: ITALIA

Alan Preece, dell'Università di Bristol, ha diffuso nei giorni scorsi un comunicato a proposito degli articoli di stampa riguardanti le sue ricerche sugli effetti dei telefoni cellulari sulla memoria, dichiarando che i dati forniti sono «sostanzialmente inesatti».




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