TUTTOSCIENZE 17 febbraio 99


SCIENZE DELLA VITA.IL PIRACUCU, GRANDE PESCE AMAZZONICO Un gigante in pericolo Cacciato dagli indios, in Brasile è quasi scomparso
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, AMERICA, BRASILE

SE domandate a un indigeno brasiliano cosa ne pensa del piracucu, si girerà il dito su una guancia oppure vi farà uno schiocco con la lingua, poco elegante, ma molto significativo, per farvi capire che il solo sentirlo nominare gli fa venire l'acquolina in bocca. I bianchi invece non la pensano affatto allo stesso modo. Al nostro palato la carne del piracucu ha un sapore saponoso e rancido che ce la rende piuttosto sgradevole. Tutta questione di gusti, naturalmente. Ma è fin troppo evidente che la tesi degli indigeni prevale, prova ne sia la caccia spietata di cui i piracucu sono fatti oggetto. Per catturare il piracucu, detto anche Arapaima, viene usato generalmente l'arpione. I cacciatori si mettono in agguato nelle canoe su uno sbarramento, spesso artificiale, che rende più angusti gli accessi dal fiume principale alle diramazioni secondarie. E' una posizione strategica che consente di arpionare facilmente i grossi pesci. Di conseguenza è facile intuire che la situazione degli Arapaima sia assai poco rosea. Si riscontra in natura una progressiva rarefazione della specie, ormai scomparsa da vaste zone del suo habitat primitivo. L'eccessivo sfruttamento cui è stato sottoposto questo pesce ha portato non solo alla sua scomparsa da vaste zone, nel Rio delle Amazzoni in particolare, ma anche alla diminuzione delle dimensioni medie degli individui. Piracucu è il nomignolo che i brasiliani hanno affibbiato allo Arapaima, anzi per essere esatti, all'Arapaima gigas. In Perù questo pesce viene chiamato addirittura con un terzo nome: ««Paiche»» . Ma nulla è più appropriato di quell'appellativo di gigas (gigante) della denominazione latina, visto che sono abbastanza comuni gli esemplari lunghi un paio di metri e ogni tanto si catturano piracucu lunghi quasi cinque metri e pesanti alcune centinaia di chilogrammi. Dopo lo storione del Baltico, l'Arapaima è il pesce d'acqua dolce più grande del mondo. Oltre che imponente, l'Arapaima è un pesce bellissimo. Lo ricoprono grosse squame verdi oliva e la regione posteriore del corpo (su cui sono inserite la pinna anale, quella dorsale, e le pinne pettorali spostate verso la parte inferiore) presenta una colorazione che si fa via via più rossastra verso la coda, finché nel peduncolo caudale diventa di un acceso colore rosso cremisi. L'abbiamo visto recentemente il piracucu in uno di quegli splendidi documentari naturalistici nella trasmissione Superquark di Piero Angela. L'abbiamo visto nuotare serpeggiando con movimenti agili e sinuosi. E proprio i movimenti del corpo mettevano in risalto il luccicchio delle innumerevoli macchiette azzurre, rosse, violacee, di cui è cosparsa la sua pelle. Uno spettacolo davvero straordinario.La sua patria è il bacino del Rio delle Amazzoni, ma lo si trova anche nei corsi d'acqua delle Guiane. La mole cospicua non si può dire appesantisca il piracucu, o Arapaima che dir si voglia. Lo dimostra l'eleganza con cui si muove nell'acqua. In ottobre o novembre questi grossi pesci cercano una pozza d'acqua limpida, poco profonda, dal fondo sabbioso e qui scavano con le pinne un vero e proprio nido di dimensioni piuttosto notevoli. E' una depressione del diametro di circa mezzo metro, profonda una quindicina di centimetri o anche più. La femmina vi depone le uova. E sembra, a quanto risulta dalle ricerche sin qui compiute, che sia il maschio a prenderne cura. Provvede a trasportarle, ove occorra, da un luogo all'altro, prendendole delicatamente in bocca. Ed è sempre il maschio che sorveglia i piccoli con zelo, non appena questi sono sgusciati dalle uova. Quando i figlioletti sono in grado di nuotare, vengono guidati all'intorno dal padre, sopra al cui capo si muovono, curiosamente raccolti in schiera compatta. E' probabile che una secrezione prodotta da particolari ghiandole cefaliche paterne abbia una funzione nella cura e nell'assistenza della prole. E' una misteriosa sostanza che si diffonde nell'acqua e serve a mantenere il contatto tra padre e figli, anche a notevole distanza. Grazie a questo fluido chimico, il padre riesce a ricongiungersi ai figlioletti dopo una separazione. Oltre a possedere strani nomi, mole smisurata e spiccato senso paterno, gli Arapaima presentano un'altra interessante caratteristica. Mentre la maggior parte dei pesci si accontenta di respirare l'ossigeno sciolto nell'acqua, servendosi delle branchie, gli organi respiratori propri degli organismi acquatici, i piracucu, in caso di emergenza, quando cioè si trovano in un corso d'acqua povero di ossigeno, sono capaci di respirare anche aria atmosferica. In tal caso funge da polmone la vescica natatoria, quella sorta di grosso sacco, presente se non in tutti per lo meno in buona parte dei pesci, che normalmente, grazie ai gas che contiene, fa da organo idrostatico. Consente cioè all'animale di spostarsi in senso verticale. Nell'Arapaima la vescica natatoria occupa una grande area sopra la cavità addominale, comunica con l'esofago mediante un condotto aperto e possiede pareti riccamente vascolarizzate. Nel deglutire l'aria atmosferica, il piracucu produce un rumore abbastanza forte che si può percepire anche a distanza. E' uno di quei tali suoni che smentiscono la leggenda del mutismo dei pesci. Questo gigante, voracissimo divoratore di pesci più piccoli di lui, abita i corsi d'acqua ricchi di vegetazione acquatica. Le prede trovano immediata sepoltura nella sua ampia bocca tappezzata letteralmente di denti impiantati perfino sulla lingua e sul palato. Ma poi, dopo aver fatto gran strage di prede, il piracucu diventa preda a sua volta del cacciatore più temibile, l'uomo. Il quale taglia la sua carne in lunghe listerelle sottili, le fa essiccare al sole e poi la immette in rotoli sui mercati ittici, insieme con le ossa, con le belle squame cangianti e, merce particolarmente apprezzata, con l'osso linguale, considerato dagli indigeni come una insuperabile raspa atta a limare il legno. Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE DELLA VITA. CONTRO L'EMICRANIA La guerra dei triptani In arrivo una nuova classe di farmaci
Autore: PINESSI LORENZO

NOMI: DIAMOND SEYMOUR
LUOGHI: ITALIA

PER una volta parliamo di una guerra che non provocherà morti ma che migliorerà la qualità di vita di molte persone. E' la ««triptan war»», la guerra dei triptani. Protagoniste di questa guerra sono una mezza dozzina di multinazionali farmaceutiche che sono scese sul campo di battaglia con ricercatori e laboratori per produrre nuovi farmaci contro l'emicrania; i ««triptani»» sono le munizioni, una nuova classe di farmaci per questa patologia. L'emicrania è una malattia che colpisce circa 25 milioni di nordamericani e 5 milioni di italiani. Secondo Seymour Diamond, il neurologo americano fondatore della Diamond Headache Clinic di Chicago, i pazienti emicranici costituiscono ««il gruppo di pazienti probabilmente più incompreso, mal diagnosticato e malcurato della medicina moderna»». E' pertanto facilmente comprensibile come un siffatto, enorme gruppo di pazienti, ««malcompreso e malcurato»», rappresenti non solo un serio problema medico ma, altresì, un ««mercato»» particolarmente interessante. La crisi emicranica, l'aspetto principale della malattia, presenta una notevole variabilità clinica: a volte può presentarsi con una lieve cefalea pulsante, della durata di poche ore, altre volte, spesso, si manifesta con una cefalea di notevole intensità, invalidante, accompagnata da nausea, vomito ed impossibilità a sopportare la luce e i rumori. Il paziente, per un periodo che può giungere sino ai 3 giorni, deve mettersi a letto, in una stanza buia, non può alimentarsi, perde importanti occasioni lavorative o sociali o di svago. In passato, le principali ««armi»» per combattere le crisi emicraniche erano i farmaci antinfiammatori non steroidei (aspirina e derivati) e l'ergotamina. I primi sono efficaci nella crisi di entità lieve o media ma non servono nelle crisi più forti e spesso sono gastrolesivi. Assunti ad alti dosaggi possono provocare danni renali e, specie in combinazione con altri prodotti, favoriscono la cronicizzazione, tutt'altro che rara, dell'emicrania. L'ergotamina è farmaco derivato da un fungo che parassita la segale (««segale cornuta»») e presenta un potente effetto vasocostrittore. L'ergotamina ed i suoi derivati (come la diidroergotamina o Dhe, oggi disponibile anche per spray nasale) sono farmaci efficaci anche nelle crisi emicraniche gravi; tuttavia, presentano numerosi effetti collaterali che molti pazienti non tollerano e possono dare luogo a fenomeni di abuso e di dipendenza. Nella seconda metà degli Anni 80 i ricercatori della Glaxo Wellcome, una delle multinazionali del farmaco, percorsero una via del tutto nuova per la messa a punto di un farmaco antiemicranico. Cercarono cioè di sintetizzare un farmaco che assomigliasse nella formula e nel meccanismo di azione alla serotonina, senza peraltro averne tutti gli effetti, ma solo quelli ««utili»» per bloccare la crisi dolorosa emicranica. Sappiamo infatti che la serotonina (o 5-Ht) è un neurotrasmettitore che svolge un ruolo fondamentale nel corso della crisi emicranica. Questa sostanza ricopre un ruolo chiave nella trasmissione dello stimolo doloroso nel cervello, a livello del sistema trigeminale, e regola il calibro delle arterie craniche ed extracraniche. A partire dalla struttura della serotonina venne dunque messo a punto un farmaco, il sumatriptan, che ««copia»» l'azione del neurotrasmettitore legandosi ad alcuni dei suoi recettori (detti 5-Ht1B e 5-Ht1D). Questo farmaco, nonostante il prezzo elevato e la presenza talora di alcuni effetti collaterali, quali un senso di oppressione al torace e la mancanza di respiro, è divenuto in pochi anni il farmaco di prima scelta nel trattamento della crisi emicranica. Nel 1996 la vendita del sumatriptan in tutto il mondo ha raggiunto il tetto di 840 milioni di dollari. Tale commercializzazione ha, ovviamente, destato l'interesse di numerose altre industrie farmaceutiche inglesi ed americane. La stessa Glaxo-Wellcome ha dovuto ««correre ai ripari»» mettendo in cantiere un nuovo farmaco per proseguire i successi del sumatriptan, e proprio da tale concorrenza scientifica e commerciale nasce la ricerca che porta alla sintesi dei cosiddetti triptani di seconda generazione. La ««guerra»» tra le diverse case farmaceutiche è ora basata sulla produzione di triptani più potenti, più selettivi per i recettori serotoninergici cerebrali e con una durata d'azione più lunga rispetto al sumatriptan. Questo farmaco, infatti, passa con difficoltà la barriera ematoencefalica (raggiungendo in basse concentrazioni il cervello) e, una volta assunto, esercita il suo effetto solo per poche ore (ha una breve ««emivita»»), tanto che a volte i pazienti si lamentano della ripresa della sintomatologia dolorosa già 3-4 ore dopo la sua assunzione. I nuovi farmaci triptanici (zolmitriptan, eletriptan, rizatriptan, naratriptan, frovatriptan) sono in procinto di fare il loro ingresso in Italia. Il primo è già in commercio da mesi, i restanti saranno immessi sul mercato al massimo nel 2000. Il loro costo è relativamente contenuto mentre l'efficacia e la tollerabilità sembrerebbero significativamente superiori. Sono iniziati, in particolare nei Paesi anglosassoni, i primi studi comparativi tra i diversi triptani. Ad ogni buon conto, medici, neurologi e, soprattutto, i pazienti emicranici avranno a disposizione nuove armi per combattere questa malattia cronica ed invalidante. Lorenzo Pinessi Direttore Centro Cefalee Università di Torino


SCIENZE DELLA VITA. ONANO NEL LAZIO In paese tornano le lenticchie Ripristinati 45 ettari di coltivazioni storiche
Autore: MARTINENGO MARQUET ROBERTO

ARGOMENTI: BOTANICA, ALIMENTAZIONE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

QUALCHE settimana fa su queste pagine Elena Accati ha descritto fasti e decadenza della lenticchia. In uno dei più noti paesi produttori, in Italia, di questa leguminosa, si lotta però contro la decadenza di questa coltivazione e si tenta di riportarla in auge. Il paese è Onano (Vt),1200 abitanti, ai confini del Lazio con Toscana e Umbria. Onano produceva, ai primi del Novecento, la migliore lenticchia italiana; ciò non per sentito dire, ma dimostrato da attestati, premi e medaglie d'oro alle esposizioni universali di Roma e Buenos Aires del 1910 e di Londra e Parigi del 1911. Il decadere della coltivazione della lenticchia, dovuto a una serie di concause politiche, tecniche ma soprattutto economiche, ha portato danno all'immagine produttiva della comunità e rischiato di vanificare una reputazione agricola saldamente acquisita. Partendo dal principio che ««piccolo è bello»» e quindi più facile da far funzionare in un paese di così modeste dimensioni, il giovane sindaco di Onano, Giovanni Giuliani, ha tentato - con successo - di rilanciare la coltivazione della lenticchia, anche perché appartenevano ormai al passato le altre due cose per cui Onano era famosa, cioè l'origine della famiglia Pacelli (Pio XII) e l'aver dato i natali a Lina Cavalieri, la donna più bella del mondo ai primi del Novecento. L'occasione è venuta dall'impulso che organizzazioni regionali, sovraregionali e sovrannazionali (talvolta funzionano) hanno dato alla Comunità Montana dell'Alta Tuscia laziale, organizzazione sovracomunale di sette Comuni dell'Alto Lazio, anticamente noto come Tuscia. Nel 1998 sono stati rimessi a coltura della lenticchia 45 ettari di terreno agricolo non utilizzati per la più remunerativa ed imperante coltura della patata perché poco irrigui. Una ventina di famiglie di agricoltori ha fruito di un rimborso di un milione e 200 mila lire per ettaro, il che ha fatto diventare economicamente interessante la coltivazione della lenticchia. Questa infatti, dato l'alto pregio, si è potuta commercializzare - confezionata in sacchetti da mezzo chilo - a 8 mila lire al chilo, prezzo molto più alto di quello praticato su prodotti provenienti dal Sud America e dall'Asia, più scadenti e sospetti di uso di diserbanti e pesticidi. R. Martinengo Marquet


SCIENZE DELLA VITA. BIOTECNOLOGIE Se la polenta è manipolata... Il problema dell'etichetta sui prodotti
Autore: A_VI

ARGOMENTI: BIOLOGIA
NOMI: ANKLAM ELKE
LUOGHI: ITALIA

POCHI giorni fa, su richiesta del Parlamento, il nostro governo ha aderito al ricorso dell'Olanda contro la direttiva europea sui ««brevetti per le invenzioni biotecnologiche»». Dai resoconti di alcuni cronisti ci si poteva fare l'idea di un'Europa manchevole e distratta in fatto di biotecnologie. Certo, gli Stati Uniti, il Giappone e (nel più assoluto silenzio) la Cina sono più avanti di noi e i governi di quei Paesi già da tempo hanno capito l'importanza strategica di quel settore. Ed è pur vero che la ricerca pubblica in alcuni settori del biotech è praticamente inesistente. Ma qualche ritardo non vuol dire indifferenza. L'Unione europea segue con attenzione l'evolversi delle ricerche sulle biotecnologie. Non solo già da tempo è stato deciso di etichettare i prodotti contenenti ingredienti frutto di manipolazioni genetiche (scelta decisamente poco apprezzata negli Usa), ma ci si è anche posti il problema di come smascherare eventuali truffe. Quando l'etichetta ««Gmo free»» (ovvero ««Non contiene organismi geneticamente modificati»») diventerà esecutiva, come si fa a controllarne la veridicità, si è chiesta la Commissione europea per la ricerca scientifica e l'innovazione teconologica. E il Centro di ricerca europeo di Ispra (Varese), incaricato di mettere a punto un sistema di indagine per scoprire nei cibi l'eventuale presenza di organismi geneticamente modificati, proprio poche settimane fa ha presentato i primi risultati. ««Grazie alla collaborazione di 29 laboratori europei, di 13 diversi Paesi»», ci spiega Elke Anklam, a capo dell'Unità prodotti alimentari dell'Istituto per la salute e la protezione del consumatore di Ispra e responsabile di questo esperimento, ««abbiamo messo a punto due test, uno specifico per il mais e uno per la soia. Tramite una tecnica diagnostica ormai collaudatissima, la Pcr (reazione polimerasica a catena), riusciamo a leggere il Dna di una farina di mais o di un olio di soia per capire se c'è la presenza di soia o mais geneticamente modificati»». Per la soia sono stati raggiunti ottimi risultati. Con il metodo perfezionato a Ispra (e applicabile da qualunque laboratorio, pubblico o privato, che ne faccia richiesta) si arriva a scovare anche lo 0,5 per cento di materiale geneticamente modificato. Per il mais per ora la soglia minima è intorno al 2 per cento. L'Unione europea deve ora approvare questo metodo dal punto di vista ««politico»» e inserirlo nei protocolli ufficiali di indagine che verranno eseguiti in tutta Europa durante i controlli sul cibo e sulla veridicità delle etichette ««Gmo free»».


SCIENZE A SCUOLA. LA LEZIONE/ MATEMATICA I quasicristalli Giocare con le tessere di Penrose
Autore: PEIRETTI FEDERICO

ARGOMENTI: MATEMATICA
NOMI: PENROSE ROGER
LUOGHI: ITALIA

UN gioco, un divertente puzzle le cui tessere ricoprono il piano componendo affascinanti disegni sempre diversi, ha permesso di chiarire la struttura cristallina, cioè la disposizione degli atomi, di un gruppo di sostanze, chiamate quasicristalli, che sfidavano le leggi classiche della cristallografia. Il puzzle è risultato il modello di riferimento di queste sostanze e la conferma sperimentale viene ora dal lavoro di un gruppo di fisici, pubblicato su uno degli ultimi numeri della rivista scientifica Nature. Per capire che cosa siano i quasicristalli e il ruolo avuto dal puzzle nella loro definizione, partiamo dal gioco, proposto nel 1974 da Roger Penrose, fisico e matematico dell'Università di Oxford, autore di un grande best seller della divulgazione scientifica, ««La mente nuova dell'imperatore»», che tratta di meccanica quantistica e Intelligenza Artificiale. Martin Gardner lo ha definito ««un libro meraviglioso per profani intelligenti»». Le tessere di Penrose (TuttoScienze, 11 agosto 1993), ricoprono il piano in modo non-periodico, compongono cioè una ««tassellatura non periodica»», nella quale è impossibile individuare un motivo che si ripeta poi regolarmente. Esistono molti modelli di tessere non-periodiche, ma le più famose sono la ««punta»» e l'««aquilone»» e i due rombi, il ««largo»» e il ««sottile»», che si costruiscono seguendo le indicazioni di figura. Per divertirci a comporre tassellature non periodiche, possiamo procurarci un certo numero di queste tessere, almeno un centinaio, con l'aiuto di una fotocopiatrice o, più semplicemente, possiamo collegarci ad uno degli indirizzi riportati più avanti, dove troveremo tutte le tessere virtuali necessarie per il nostro gioco. Le tassellature non-periodiche hanno trovato, come dicevamo, un'importante applicazione nei quasicristalli. Ricordiamo soltanto che generalmente i corpi solidi si presentano allo stato amorfo, con gli atomi disposti in modo casuale e disordinato, come il vetro, oppure allo stato cristallino, come il sale da cucina, con gli atomi disposti in ordine geometrico su reticoli tridimensionali, costituiti da miliardi di celle tutte uguali, ognuna delle quali in genere non è più grande di un decimilionesimo di centimetro. Regole geometriche, stabilite 150 anni fa, consentono di definire forme e proprietà dei cristalli. Una di tali regole afferma che le uniche simmetrie di rotazione permesse per una struttura cristallina sono quelle binaria, ternaria, quaternaria e senaria, tali cioè che la struttura del cristallo torna a coincidere con se stessa, dopo una rotazione di mezzo giro oppure dopo un terzo, un quarto, un sesto di giro. Ora le strutture delle tassellature non-periodiche riportate in figura, come si può osservare, hanno ««quasi»» una simmetria quinaria. Si possono cioè trovare dei movimenti che portano la struttura ««quasi»» a coincidere con se stessa: ««Non occorre che ci preoccupiamo qui del preciso significato di questa affermazione - dice Penrose, presentando le tassellature non-periodiche nel suo libro ««La mente nuova dell'imperatore»» - l'unico punto che ci interessa è che, se si avesse una sostanza in cui gli atomi fossero disposti ai vertici della forma, questa ci apparirebbe una struttura cristallina, e nondimeno presenterebbe una simmetria quinaria proibita!»». Nel 1984, dieci anni dopo la scoperta del gioco, Daniel Schechtman, un fisico israeliano, scoprì l'impossibile: una lega di alluminio e manganese che presentava una simmetria quinaria. Fino ad oggi sono state scoperte più di cento sostanze simili, per la maggior parte leghe dell'alluminio, battezzate quasicristalli. Nello stesso periodo in cui Schechtman scopriva i quasicristalli, Paul Steinhard, docente di matematica alla Princeton University, avanzava l'ipotesi che gli atomi di una sostanza potessero costruire strutture non-periodiche simili alle tassellature di Penrose. Strutture che avrebbero potuto giustificare la simmetria quinaria dei quasicristalli. Al posto dei due rombi di Penrose, Steinhard propose di usare due romboidi che riempivano completamente lo spazio tridimensionale. Successivamente, una matematica tedesca, Petra Gummelt, suggerì di utilizzare un'unica tessera decagonale al posto dei due rombi. Una tessera che compone ancora tassellature non-periodiche, ma soltanto se vengono consentite sovrapposizioni. Ora arriva la conferma di questo modello matematico per i quasicristalli. Steinhard, su Nature, annuncia la verifica sperimentale di questa ipotesi: la tassellatura ottenuta con le tessere decagonali, in parte sovrapposte, coincide perfettamente con la figura di diffrazione ai raggi X di un quasicristallo, studiato in Giappone dal Centro Nazionale delle Ricerche sui Metalli: una lega di alluminio, nichel e cobalto la cui formula è Al72Ni20Co8. ««Con una miglior comprensione del processo di formazione dei quasicristalli - afferma Steinhard - e un miglior controllo della loro struttura e della loro composizione chimica, sarà possibile scoprire nuove applicazioni di questi materiali che risultano più duri dei cristalli e con una maggiore resistività elettrica alle basse temperature»». Quello che all'origine non era che un semplice gioco è diventato il fondamento di un'importante ricerca scientifica. E questo conferma ancora una volta che la matematica non è che un gioco. Ma un gioco importante, perché è quello della natura. Alcuni indirizzi per approfondire l'argomento su Internet: http://www.nr.infi.net/~drmatrix/math.htm L'articolo di Martin Gardner, pubblicato nel 1977 da Scientific American, sulle tassellature non-periodiche. http://www.geocities. com/SiliconValley/Pines/1684/Penrose.html Un applet di ShuXiang Zeng, per costruire ogni tipo di tassellatura non-periodica, con tessere virtuali di tutti i colori. http://www.aie. nl/~geert/java/public/Penrose.html Un applet di Geert-Jan Opdorp per tassellare automaticamente il piano in modo non-periodico, data una configurazione iniziale. http://dept.physics.upenn. edu/~www/astro-cosmo/walker/walker.html Una saggio divulgativo di Paul Steinhardt sulle tassellature e i quasicristalli. http://www. cmp.caltech.edu/~lifshitz/quasicrystals.html Una chiara ed esauriente introduzione alla teoria dei quasicristalli. Federico Peiretti


POLEMICA Plutone degradato al rango di asteroide? ««E' un falso problema, storicamente rimane un pianeta a tutti gli effetti»»
Autore: ZAPPALA' VINCENZO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

SI è diffusa a macchia d'olio la notizia che il pianeta Plutone verrà ««degradato»» al rango di asteroide. La reazione di molti scienziati e dell'opinione pubblica (specie americana) è stata a dir poco vivace. Ma che cosa c'è di vero? Il caso sta scappando di mano agli scienziati e rischia di diventare uno dei tanti spunti scandalistici su cui speculare travisando la realtà dei fatti. Come presidente di una delle commissioni dell'Unione Astronomica Internazionale coinvolte nella contesa (Corpi minori del Sistema Solare) ho potuto seguire la vicenda fin dall'inizio e penso quindi di essere in grado di descrivere i fatti nel modo più realistico possibile e, di conseguenza, di riportarli alle giuste proporzioni. Per comprendere le motivazioni che hanno innescato il caso Plutone è bene richiamare alcuni fatti già ben noti alla maggioranza degli appassionati di astronomia. Plutone è sicuramente un pianeta anomalo. Le sue dimensioni sono piccole (meno della metà di qualsiasi altro pianeta); ha un'orbita molto più inclinata e la sua eccentricità lo porta a penetrare all'interno dell'orbita di Nettuno; si trova subito dopo i giganti gassosi (Giove, Saturno, Urano e Nettuno), ma si presenta come corpo solido e ghiacciato; possiede infine un satellite enormemente grande rispetto alle sue dimensioni. Tutto ciò già da molto tempo ha fatto pensare che Plutone potesse essere una specie di intruso tra i pianeti, forse un satellite di Urano o Nettuno espulso da una catastrofe planetaria. Ma nel 1992 Plutone subiva un ulteriore attacco: la scoperta di un altro oggetto trans-neptuniano dava il via in breve tempo all'identificazione di una vera e propria cintura di corpi ghiacciati situati al di là dell'ultimo pianeta conosciuto: la famosa Cintura di Edgeworth-Kuiper, ipotizzata negli Anni 50, che riveste un ruolo fondamentale per il rifornimento continuo di comete a corto e medio periodo. A questo punto Plutone trovava una collocazione perfetta: analogamente a Cerere per gli asteroidi, il nono pianeta poteva essere considerato il membro maggiore di un'enorme popolazione di piccoli pianeti orbitanti al di là di Nettuno. Va inoltre ricordato che, per la loro distanza ed eccentricità, non è impossibile che altri oggetti transneptuniani anche più grandi di Plutone vengano scoperti in un prossimo futuro. Benché questi dati sembrassero giustificare una nuova visione di Plutone, nessuno scienziato ha mai realmente posto in dubbio la posizione ««storica»» ormai raggiunta dal nostro compagno planetario. Si poneva invece un problema pratico di catalogazione. Era infatti ormai tempo che si desse un numero definitivo agli oggetti della Edgeworth-Kuiper Belt (Ekb). Brian Marsden, direttore del Minor Planet Center e responsabile del continuo aggiornamento della lista dei corpi minori, ha avvertito i colleghi che gli asteroidi stavano avvicinandosi al numero 10 mila. Se si voleva cominciare a classificare gli oggetti Ekb tra questi ultimi, poteva essere una buona idea dare al primo di essi il numero 10.000, un modo come un altro per sottolineare la loro importanza e diversità. Ma chi era il primo Ekb? Sembra essere a tutti gli effetti Plutone, ed ecco quindi innescato il meccanismo che tanto rumore ha sollevato. In realtà l'idea era di lasciare a Plutone una doppia identità. Quella ««storica»» di pianeta e quella ««tecnica»» di Ekb. La cosa non è nuova: altri oggetti sono classificati sia come comete sia come asteroidi. Ma Plutone era troppo importante per non sollevare scalpore. Personalmente sono sempre stato abbastanza contrario a classificare gli oggetti Ekb tra gli asteroidi. Li vedrei meglio o tra le comete o come gruppo a sè stante. Tuttavia non ho mai pensato che si volesse declassare Plutone solo perché si cercava di dargli una classificazione scientificamente più corretta dal punto di vista tecnico. Il suo valore ««storico»» non è stato mai messo in dubbio e tanto furore da parte di altri colleghi e dei mass media mi sembra del tutto ingiustificato. Sono certo che il nono pianeta non corre rischi: l'eventuale aggiunta di un numero su cataloghi riservati ai ricercatori (qualora venisse approvata, ma ne dubito) non scalfirebbe minimamente la sua ormai assodata ««reputazione»». Concludendo, non facciamo di Plutone un caso scandalistico o filosofico, nè tanto meno razzistico. Lasciamo che rimanga quell'oggetto (pianeta, pianetino o cometa che sia) di estremo interesse che è stato fino ad oggi. Vincenzo Zappalà Osservatorio Astronomico di Torino


ASTRONOMIA L'acchiappacomete A caccia di polvere nello spazio
Autore: DI MARTINO MARIO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA

LE comete sono piccoli corpi composti da una mistura di ghiacci (prevalentemente ghiaccio d'acqua), polveri e molecole organiche. In genere hanno orbite molto allungate che le portano vicino al Sole per poi ricondurle nelle regioni più remote del Sistema Solare, dove trascorrono la maggior parte del loro periodo orbitale. Quando una cometa si avvicina a meno di 700 milioni di chilometri dal Sole, la superficie del nucleo inizia a scaldarsi e i ghiacci a sublimare. Questo processo produce una grande quantità di gas che, grazie alla debolissima gravità del nucleo stesso, si diffondono nello spazio circostante trascinando con sè anche le particelle solide non volatili che compongono il nucleo. Si forma così un'estesa atmosfera (chioma), che sotto l'azione del vento solare, il continuo flusso di particelle subatomiche emesse dal Sole, viene allungata generando la tipica coda. Le comete contengono molti degli ingredienti originali da cui circa quattro miliardi e mezzo di anni fa si sono formati i pianeti, oltre a materiale organico che è stato alla base dello sviluppo della vita. Per questo un obiettivo degli scienziati planetari è quello di prelevare e riportare a terra dei campioni di materia cometaria. Con il lancio, avvenuto il 7 febbraio, della sonda Stardust (Polvere di stelle), l'atteso momento finalmente si avvicina: per la prima volta del materiale extraterrestre prelevato al di là dell'orbita lunare verrà portato a terra. Stardust è la quarta missione del programma Discovery ed è stata realizzata in un tempo record di meno di due anni, fu selezionata infatti nell'autunno 1995 e la sua realizzazione iniziò nel gennaio 1996. Obiettivo della sonda è la cometa periodica Wild 2, ma durante il suo lungo viaggio raccoglierà anche dei campioni di polvere interstellare. Recentemente infatti la sonda Ulisse ha scoperto un flusso di particelle solide microscopiche che attraversa il nostro sistema planetario provenendo dalla spazio interstellare. Anche se esistono diverse teorie sulla costituzione di questi minuscoli granuli di polvere, l'unico modo per conoscere la loro struttura e composizione chimica è quello di poterli analizzare in laboratorio. Stardust, dopo un viaggio di quasi quattro miliardi di chilometri, raggiungerà la Wild 2 agli inizi del gennaio 2004 e si tufferà nella coda della cometa per catturare, tramite un originale e semplice sistema, particelle di polvere e di materiali volatili (una quantità che in tutto non supererà i 40 milligrammi) emessi dal nucleo cometario. Si prevede che i campioni raccolti saranno per la maggior parte di dimensioni estremamente piccole (meno di un micron, cioè meno di un millesimo di millimetro) e potranno essere studiati in maniera adeguata in laboratorio solo utilizzando strumenti sofisticatissimi. Per catturare le particelle cometarie intatte, l'incontro con la cometà avverrà a bassa velocità relativa (6,1 km al secondo) - quasi 11 volte inferiore a quella del flyby della sonda Giotto con la cometa di Halley - e, con l'ausilio delle telecamere di bordo, il sistema di navigazione autonomo farà in modo di far passare la sonda a una distanza dal nucleo cometario inferiore ai 150 chilometri. Ciò permetterà di raccogliere campioni freschi da poco emessi e di riprendere immagini dettagliatissime del nucleo, le cui dimensioni sono stimate in circa 4 chilometri. Il passaggio di Stardust attraverso la chioma della cometa Wild 2 durerà 10 ore e per evitare che le particelle solide iperveloci possano danneggiare gli strumenti di bordo, le parti più sensibili della sonda sono state protette con speciali schermi su cui è applicato uno strumento, il Dust Flux Monitor, che effettuerà il conteggio dei grani di polvere che lo colpiranno e determinerà la massa di queste particelle solide. Il flyby avverrà dalla parte illuminata del nucleo cometario, a una distanza dal Sole di 280 milioni di chilometri, poco più di tre mesi dopo il passaggio della Wild 2 al perielio (minima distanza dal Sole). Il periodo di massima attività dovrebbe quindi essere stato superato, per cui si spera che ciò renda relativamente sicuro il flyby ravvicinato. Elemento essenziale della sonda è l'Aerogel Dust Collector. Si tratta di un disco di forma grosso modo circolare, con una superficie di 1000 cm quadrati, orientata perpendicolarmente al moto della sonda. I due lati di questo disco sono costituiti da cellule modulari in alluminio in cui sono incapsulati dei blocchi spessi pochi centimetri di una straordinaria sostanza ultraleggera denominata aerogel. La faccia rivolta in direzione del moto della sonda raccoglierà i grani di polvere cometaria, mentre quella orientata in direzione opposta servirà a catturare particelle di polvere interstellare durante il viaggio di crociera. L'aerogel è un composto completamente inerte a base di silicio, scoperto verso la fine degli Anni 30, i cui elementi individuali hanno dimensioni dell'ordine del milionesimo di millimetro e sono legati tra di loro in una struttura dendridica estremamente porosa: basti pensare che il 99,8 per cento del suo volume è rappresentato da vuoti. Soprannominato anche fumo congelato, questo strano materiale, oltre alla capacità di catturare particelle iperveloci, ha molte proprietà eccezionali: valori molto bassi di conducibilità termica e di indice di rifrazione, alta resistenza alle sollecitazioni del volo spaziale ed estrema leggerezza (è il materiale solido più leggero esistente: la sua densità è di poco superiore a quella dell'aria). Quando una particella iperveloce colpisce l'aerogel, essa penetra rallentando la sua velocità e generando una traccia a forma di cono molto allungato con la base in corrispondenza del punto di impatto. Grazie all'elevata trasparenza dell'aerogel la particella catturata può essere facilmente individuata con un microscopio. Altro componente essenziale di Stardust è la capsula di rientro, al cui interno verrà fatto ripiegare il collettore di polvere dopo il flyby con la Wild 2 e che, sganciata dalla sonda quando questa ritornerà in prossimità del nostro pianeta, riporterà a terra i campioni di cometa e polvere cosmica. Si tratta di un contenitore del diametro di circa un metro a forma di conchiglia dotato di uno scudo termico, per proteggerlo dalle altissime temperature causate dal rientro nell'atmosfera terrestre e che fungerà da freno aerodinamico, e di un sistema di paracadute che rallenterà la capsula nella fase finale dalla discesa, che, se tutto andrà come programmato, avverrà il 15 gennaio 2006 nel deserto salato dello Utah. E' una missione molto complessa, ma non più di altre che sono state coronate da successo, come la Mars Pathfinder; sono molte quindi le speranze che anche in questo caso tutto proceda per il meglio. I risultati che si potranno ottenere serviranno forse a dare una risposta decisiva ai molti interrogativi ancora aperti sulla natura e l'origine delle comete, questi oggetti primordiali presumibilmente formatisi nelle regioni esterne della nebulosa protoplanetaria, dove le temperature sono rimaste abbastanza basse da lasciare inalterato nel tempo il materiale di cui sono formate. Di importanza non inferiore saranno i dati che potremo raccogliere sulla polvere interstellare. Oggi le uniche conoscenze che si hanno su questa materia sono indirette. La raccolta di anche poche particelle fornirebbe una storica opportunità di esaminarle direttamente dalla materia solida che si è formata al di fuori del Sistema Solare. A bordo di Stardust sono imbarcati due microchip in cui sono stati registrati più di 330.000 nomi di persone raccolti via Internet da tutte le parti del mondo. Una volta riportati a terra dopo il loro lungo viaggio interplanetario, saranno conservati nel museo dell'Istituto Smithsonian. Mario Di Martino Osservatorio Astronomico di Torino


SCIENZE FISICHE. TELECOMUNICAZIONI La tv ad alta definizione abita qui Il Giappone acquista i documentari d'arte in Italia
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: COMUNICAZIONI
LUOGHI: ITALIA

CHE fine ha fatto la tv digitale in alta definizione? Dopo il gran parlare sulla fine degli Anni 80, dopo le prime trasmissioni sperimentali del Centro di Ricerche Rai di Torino per i Mondiali di Calcio del 1990 (replicate in Spagna per le Olimpiadi di Barcellona), dopo i miliardi spesi nel progetto Eureka per la definizione di uno standard europeo (l'Hd-Mac, ormai dato per morto), nessuno ha fatto più nulla e sofisticati macchinari prendono polvere in qualche magazzino. Un'opportunità perduta, ma non per cattiva volontà. I tecnici europei (e in particolare quelli della Rai) avevano fatto un ottimo lavoro e lo standard a 1250 linee per 50 quadri al secondo era decisamente interessante. La differenza con il Pal (che trasmette a 600 linee) era più che evidente, dato che le immagini in alta definizione avevano una nitidezza quasi 6 volte superiore perché dai 120 mila pixel degli standard Pal/Secam si passava agli oltre 700 mila dell'Hd-Mac. Ma si trattava di una tecnologia prematura, tant'è che anche gli Stati Uniti, che nel 1992 avevano addirittura lanciato una gara d'appalto per un sistema chiavi in mano di tv ad alta definizione (e nel 1998, prevedevano a Washington, ogni famiglia americana avrebbe trovato nei negozi a un prezzo accessibile i nuovi televisori per l'alta definizione) hanno lasciato perdere tutto. Solo i giapponesi ci hanno creduto. La Sony fu la prima a realizzare la tv ad alta definizione (in sigla hdtv, high definition television): nel 1986, in collaborazione con l'Nhk (la tivù di Stato nipponica), presentò il sistema Muse con scansione a 1125 linee/60 quadri al secondo. E in Giappone esiste l'unico canale televisivo che da quasi una decina d'anni trasmette programmi in alta definizione. Si chiama Canal HiVision, ha 600 mila seguaci ed è gestito da un pool di broadcaster privati e pubblici. L'Nhk assicura ogni giorno 18 ore di programmi, il resto spetta ai privati. Ma per alimentare questo canale di nicchia che trasmette 24 ore su 24 hanno bisogno di programmi che, nessuno l'avrebbe mai pensato, vengono a cercare anche in Italia. Perché a Torino esiste uno degli unici due Centri di produzione per tv ad alta definizione tuttora in attività (l'altro è tedesco). E' gestito dalla Euphon, società di servizi per la comunicazione e il broadcasting che da circa una decina d'anni è uno dei preziosi partner dell'Nhk per le trasmissioni in alta definizione. ««Per il Giappone abbiamo già realizzato una cinquantina di titoli»» , spiega Giancarlo Rocchietti, amministratore delegato di Euphon, ««tutti documentari sui grandi artisti italiani, sui giardini delle dimore storiche, sugli antichi mestieri e sull'artigianato. Alcuni hanno anche avuto riconoscimenti internazionali. L'arte è il tema più richiesto in primo luogo perché i giapponesi sono innamorati dell'Italia. Poi perché è un soggetto che permette di sfruttare al massimo i vantaggi dell'alta definizione»». Nata quarant'anni fa come laboratorio di registrazioni sonore e incisione dischi, oggi la Euphon è un gruppo con 150 dipendenti e 4 sedi in Italia. Dalla duplicazione in serie di videocassette alla realizzazione di programmi per la business television (gestisce il canale satellitare Diretta Auto che la Fiat utilizza per comunicare con i propri concessionari nel mondo), dai videodischi interattivi ai megaschermi mobili Sony Jumbotron, dai teatri di posa (8, per un totale di 10 mila mq) alle riprese in esterni con regie mobili capaci di gestire fino a 20 telecamere, la Euphon fa dell'avanguardia tecnologica una propria bandiera. ««Ma l'alta definizione non è solo destinata agli impallinati e agli appassionati»», precisa Rocchietti. ««Anche l'industria può trarne vantaggio. In certi momenti della progettazione di un'auto come di un vestito, la qualità delle immagini, le sfumature dei colori, la nitidezza dei particolari diventa un elemento determinante»». Spesso un progetto è rallentato perché una volta realizzato il prototipo ci si rende conto che alcuni dettagli sulla carta erano diversi. E questo è dovuto alla imprecisione dei monitor usati per il Cad: per quanto di qualità, le schede video di oggi producono immagini inferiori a quelle ottenibili con l'hdtv. A tutto vantaggio del ««time to market»». Ecco perché, visto che avevamo accumulato una discreta esperienza, gli studi sull'alta definizione devono essere ripresi al più presto. Ma come farlo capire a chi di dovere, visto che qui da noi ci si preoccupa solo del numero di canali, terrestri o da satellite, e tutto ruota intorno ai diritti tv del calcio? Andrea Vico


SCIENZE FISICHE. OSSERVATORIO AMERICANO La scuola deve rivalutare la fisica Il Nobel Lederman: è indispensabile per capire tutte le altre scienze
Autore: LUCENTINI MAURO

ARGOMENTI: FISICA, DIDATTICA
NOMI: LEDERMAN LEON
LUOGHI: ITALIA

COME materia di studio, la fisica è sempre stata un po' la cenerentola delle scienze: in molti Paesi europei è accoppiata alla matematica ma finisce regolarmente in posizione subordinata; in America è generalmente relegata al terzo e ultimo anno di studio nelle medie superiori, mentre gli anni precedenti sono dedicati prima di tutto alla biologia, poi alla chimica. Adesso negli Stati Uniti si va però diffondendo un movimento iniziato otto anni fa da un premio Nobel della fisica, Leon Lederman dell'Università di Chicago, che insorge contro questo stato di cose e cerca di dare alla fisica una posizione di priorità assoluta. La tesi di Lederman, difficilmente confutabile, è che quasi tutta l'impalcatura pedagogica attualmente adoperata per lo studio delle scienze è un'eredità di nozioni ottocentesche che hanno fatto abbondantemente il loro tempo. Per esempio la priorità tradizionalmente accordata alla biologia risale al fatto che questa materia, di carattere soprattutto descrittivo, era un tempo più facile delle altre e largamente autonoma rispetto alle altre. La chimica, d'altro lato, era stata sempre considerata un po' la madre della fisica, data l'evoluzione del pensiero e della scienza sperimentale dagli alchimisti in poi. Ma nessuna di queste premesse ha oggi fondamento. La biologia è diventata non la più facile, ma la più difficile delle scienze, cosa del resto comprensibile trattandosi della scienza della vita: lungi dall'essere semplicemente descrittiva è profondamente analitica, ed essa è divenuta virtualmente inacessibile se non attraverso le porte della biochimica e della biologia molecolare. Sia l'una che l'altra richiedono nozioni di fisica e di chimica che lo studente ai suoi esordi non possiede. Quanto alla chimica, anch'essa, perlomeno nel quadro che ne abbiamo oggi, è divenuta scarsamente comprensibile quando si ignorano le basi molecolari e atomiche su cui tutti i processi chimici sono fondati. Conclusione di Lederman: i ragazzi debbono dedicare un primo intero anno alla fisica, limitando inizialmente il relativo linguaggio matematico alle modeste nozioni d'algebra già acquisite e accentuando invece il lato sperimentale e concettuale. Il programma caldeggiato da Lederman e dai suoi seguaci si concentra sulle ««grandi idee»»: le leggi del movimento, la conservazione dell'energia, la struttura dell'atomo e della materia, la rispondenza tra fisica nucleare e astrofisica. Nel secondo anno, lo studente passa alla chimica, con accento speciale sulla biochimica. Nel terzo anno finalmente viene abbordata la biologia: solo in base alle nozioni acquisite nei due anni precedenti lo studente è ora in grado di capire la posizione fondamentale della cellula, le leggi della vita e della genetica, le complesse transazioni fisiologiche degli organismi. Il movimento di Lederman, praticamente ignorato nei primi anni, adesso sta attirando crescente attenzione. Da quando è incominciato, ha condotto negli Stati Uniti - dove non esistono programmi obbligatori con validità nazionale - ad un rivoluzionamento dei programmi in un centinaio di scuole: questo numero rappresenta ancora un'infima minoranza del totale, ma va rapidamente aumentando. Cosa più importante, le scuole che si sono già convertite (mettendo la fisica al primo anno, la biologia all'ultimo) segnalano quasi tutte un successo del loro esperimento. Tutte parlano di un miglioramento della formazione dei ragazzi, di un maggior loro interesse per le materie scientifiche e di un aumento delle carriere scientifiche dopo la fine della scuola. A titolo d'esempio viene indicata una scuola media del New Jersey che fu una delle prime ad adottare i nuovi programmi nel 1990-91, e dove nell'ultimo anno prima della conversione gli studenti che una volta finite le medie aveva continuato in sede più avanzata lo studio delle scienze erano stati 38. Negli anni successivi questo numero è andato lentamente aumentando. Alla fine dell'anno scolastico 1997-98, 226 ragazzi della scuola, dove il numero complessivo degli studenti era rimasto invariato, hanno scelto di continuare gli studi sul binario scientifico. Mauro Lucentini


SCIENZE FISICHE. CHIMICA Vecchia plastica, una miniera Una nuova tecnologia per il riciclaggio
Autore: FOCHI GIANNI

ARGOMENTI: CHIMICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. I rifiuti in Italia

LA matematica - si sa - non è un'opinione, e anche il riciclaggio potrebbe finalmente smettere d'esserlo. Finora c'è chi l'ha visto come l'unica strada per risolvere il problema dei rifiuti, e chi invece come una via costosa e forse neppure ecologica. Tutti vogliono la raccolta differenziata, ma qualcuno soltanto per rendere più semplice ed efficiente lo smaltimento: perché mescolare carta, plastica o stracci col vetro, che non brucia e quindi negl'inceneritori fa da peso morto, assorbendo energia? Teniamo dunque separati i materiali di scarto; ma per alcuni di essi il riciclaggio trova difficoltà insormontabili nella presenza inevitabile di sostanze estranee o nei costi esorbitanti: rimane insomma una velleità, forse anche controproducente, perché graverebbe il bilancio ambientale con forti consumi energetici e con l'uso di reagenti e solventi inquinanti. Per la plastica ora s'apre tuttavia la speranza d'un vantaggio economico, che in avvenire potrebbe far perdere punti all'incenerimento. Da tempo, come spiega su Internet l'Associazione italiana dei produttori di materie plastiche (www.plastica.it), o come si può leggere sull'ultimo numero di ««Ecos»», rivista dell'Eni, il riciclaggio chimico mira a scomporre le macromolecole nelle unità da cui erano state formate, in modo da poterle poi ««rimontare»» e ottenere materiali rinnovati ma analoghi a quelli di partenza; oppure i rifiuti vengono tramutati in carburanti o materie prime per altre sintesi industriali. Un guaio è che spesso questi prodotti vengono a costare molto più dei loro analoghi, ottenibili direttamente dal petrolio per semplice estrazione o trasformazione chimica. L'alternativa di triturare la plastica di scarto, per rifonderla o mescolarla a plastica nuova, produce in molti casi materiale assai meno pregiato dell'originario, che dunque trova sbocchi limitati: gli anglosassoni parlano di downcycling (da down, giù, e recycling, riciclaggio). Per queste ragioni, la plastica riciclata è ancora poca: la Comunità Europea, riferendosi agli imballaggi, indica per il 2001 un obiettivo del 15 per cento, e intanto rende onore all'Austria, che è già al 18 per cento; in coda, al di sotto del 5 per cento, si trovano Irlanda, Grecia e Portogallo; all'Italia, (8%) va un voto provvisorio di sufficienza. Ma ecco arrivare nelle biblioteche specializzate un fascicolo dell'autorevole rivista tedesca Angewandte Chemie, dove due chimici dell'università statale della Pennsylvania, Anne Pifer e Ayusman Sen, illustrano i risultati dei loro esperimenti su campioni di materiali plastici vari: polistirene espanso (imballaggi o isolamenti termici), polietilene e polipropilene (sacchetti, pellicole da imballaggio, recipienti, tubi, isolanti per cavi elettrici, paraurti). Si mette la plastica, alla pressione d'una quarantina d'atmosfere, a contatto con tre gas che vengono mescolati direttamente nel reattore: nell'ordine, monossido d'azoto (3-7 per cento), azoto (73-76%) e infine ossigeno (17-24%). A questo punto il tutto viene tenuto sedici ore alla temperatura di 170 gradi. I prodotti variano secondo il materiale di partenza e il dosaggio dei tre gas. Dal polistirene si possono ottenere gli acidi benzoico e nitrobenzoico, dal polietilene biacidi a catena lineare (da quattro a sette atomi di carbonio): sostanze da cui, attraverso una serie di processi industriali, derivano colle per pannelli truciolari, detergenti, insetticidi, coloranti, fibre tessili poliammidiche (nailon) e poliesteri. Il bello è che il metodo di Pifer e Sen rappresenta una via particolarmente a buon mercato per quelle materie prime. Se verrà sviluppato industrialmente, l'ecologia e l'economia potranno finalmente andare d'accordo. Gianni Fochi Scuola Normale Superiore, Pisa


IN BREVE Qualità dell'aria convegno a Torino
ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Si terrà il 26 febbraio a Torino nel Parco scientifico tecnologico di via Livorno 60 il convegno ««La qualità dell'aria»», organizzato con la collaborazione dell'Università di Torino. Tema principale: micro e macroinquinanti nell'atmosfera urbana. Per avere ulteriori informazioni: 011 861.38.74.


IN BREVE Lanciati quattro Globalstar
LUOGHI: ITALIA

Altri quattro satelliti Globalstar per il servizio di telefonia cellulare su scala planetaria sono entrati felicemente in orbita il 9 febbraio dalla base spaziale di Baikonur. I satelliti di questo sistema concorrente di ««Iridium»» salgono così a 12. L'entrata in servizio è prevista per la fine di quest'anno. In totale la costellazione satellitare Globalstar comprenderà 48 navicelle, tutte realizzate dall'Alenia Aerospazio.


IN BREVE La dieta della mamma
ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE
LUOGHI: ITALIA

Lo sviluppo del neonato e la sua protezione immunologica dipendono essenzialmente dall'alimentazione. Occorre quindi grande attenzione sia nel periodo della gravidanza, durante il quale l'alimentazione materna condiziona lo sviluppo del feto, sia nel periodo successivo. In un workshop organizzato da Plasmon a Milano si è fatto il punto sulle più recenti acquisizioni nutrizionali in proposito. Fondamentali sono gli apporti di calcio, ferro, acido folico e acido decosa-esa-enoico (DHA). In particolare, l'acido folico è importante per la moltiplicazione cellulare di tutti i tessuti e per il corretto sviluppo del sistema nervoso centrale del feto. Previene infatti eventuali malformazioni del tubo neuronale (spina bifida).


IN BREVE Expoeducation a Bari in aprile
LUOGHI: ITALIA

Durante la Fiera del Levante, dal 15 al 18 aprile, con Tecnorama, il salone delle tecnologie per l'informazione, Bari sarà il punto d'incontro per 200 operatori del settore provenienti da tutto il mondo. In parallelo si terrà Expoeducation 99, una manifestazione cui parteciperanno 160 università del Mediterraneo, un bacino demografico di 200 milioni di persone che saliranno a 300 milioni nel 2020, per tre quarti al di sotto dei 25 anni.


IN BREVE Radiazioni a Mururoa
ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

L'Aiea, agenzia internazionale per l'energia atomica, organismo dell'Onu con sede a Vienna, ha concluso uno studio sulla radioattività nelle isole della Polinesia francese, dove, nel sottosuolo dell'atollo di Muroroa, la Francia ha effettuato i suoi ultimi test di armi nucleari. I risultati indicano che non si è avuto alcun aumento significativo del fondo di radioattività naturale: l'incremento è stato infatti di sette millesimi di millisievert all'anno su un fondo compreso tra 1 e 10 millisievert.


IN BREVE Spazio, spazi e categorie mentali
ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA

Si terrà a Milano, il 18 e 19 marzo 1999, organizzato dalla Fondazione Carlo Erba, la conferenza internazionale ««Space or spaces as paradigms of mental categories»». Tra i partecipanti, gli astronomi Piero Benvenuti e George Coyne, lo scrittore Vincenzo Consolo, il fisico Pasquale Tucci, il compositore Fabio Vacchi, l'architetto Mario Gregotti, il filosofo belga Michel Meyer e il sociologo Ugo Fabietti. L'obiettivo di questa iniziativa è quello di promuovere un più attivo scambio tra cultura scientifica e cultura umanistica. Per ulteriori informazioni telefonare allo 02 7060.2231.


SCIENZE DELLA VITA.IL PIRACUCU, GRANDE PESCE AMAZZONICO Un gigante in pericolo Cacciato dagli indios, in Brasile è quasi scomparso
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, AMERICA, BRASILE

SE domandate a un indigeno brasiliano cosa ne pensa del piracucu, si girerà il dito su una guancia oppure vi farà uno schiocco con la lingua, poco elegante, ma molto significativo, per farvi capire che il solo sentirlo nominare gli fa venire l'acquolina in bocca. I bianchi invece non la pensano affatto allo stesso modo. Al nostro palato la carne del piracucu ha un sapore saponoso e rancido che ce la rende piuttosto sgradevole. Tutta questione di gusti, naturalmente. Ma è fin troppo evidente che la tesi degli indigeni prevale, prova ne sia la caccia spietata di cui i piracucu sono fatti oggetto. Per catturare il piracucu, detto anche Arapaima, viene usato generalmente l'arpione. I cacciatori si mettono in agguato nelle canoe su uno sbarramento, spesso artificiale, che rende più angusti gli accessi dal fiume principale alle diramazioni secondarie. E' una posizione strategica che consente di arpionare facilmente i grossi pesci. Di conseguenza è facile intuire che la situazione degli Arapaima sia assai poco rosea. Si riscontra in natura una progressiva rarefazione della specie, ormai scomparsa da vaste zone del suo habitat primitivo. L'eccessivo sfruttamento cui è stato sottoposto questo pesce ha portato non solo alla sua scomparsa da vaste zone, nel Rio delle Amazzoni in particolare, ma anche alla diminuzione delle dimensioni medie degli individui. Piracucu è il nomignolo che i brasiliani hanno affibbiato allo Arapaima, anzi per essere esatti, all'Arapaima gigas. In Perù questo pesce viene chiamato addirittura con un terzo nome: ««Paiche»» . Ma nulla è più appropriato di quell'appellativo di gigas (gigante) della denominazione latina, visto che sono abbastanza comuni gli esemplari lunghi un paio di metri e ogni tanto si catturano piracucu lunghi quasi cinque metri e pesanti alcune centinaia di chilogrammi. Dopo lo storione del Baltico, l'Arapaima è il pesce d'acqua dolce più grande del mondo. Oltre che imponente, l'Arapaima è un pesce bellissimo. Lo ricoprono grosse squame verdi oliva e la regione posteriore del corpo (su cui sono inserite la pinna anale, quella dorsale, e le pinne pettorali spostate verso la parte inferiore) presenta una colorazione che si fa via via più rossastra verso la coda, finché nel peduncolo caudale diventa di un acceso colore rosso cremisi. L'abbiamo visto recentemente il piracucu in uno di quegli splendidi documentari naturalistici nella trasmissione Superquark di Piero Angela. L'abbiamo visto nuotare serpeggiando con movimenti agili e sinuosi. E proprio i movimenti del corpo mettevano in risalto il luccicchio delle innumerevoli macchiette azzurre, rosse, violacee, di cui è cosparsa la sua pelle. Uno spettacolo davvero straordinario.La sua patria è il bacino del Rio delle Amazzoni, ma lo si trova anche nei corsi d'acqua delle Guiane. La mole cospicua non si può dire appesantisca il piracucu, o Arapaima che dir si voglia. Lo dimostra l'eleganza con cui si muove nell'acqua. In ottobre o novembre questi grossi pesci cercano una pozza d'acqua limpida, poco profonda, dal fondo sabbioso e qui scavano con le pinne un vero e proprio nido di dimensioni piuttosto notevoli. E' una depressione del diametro di circa mezzo metro, profonda una quindicina di centimetri o anche più. La femmina vi depone le uova. E sembra, a quanto risulta dalle ricerche sin qui compiute, che sia il maschio a prenderne cura. Provvede a trasportarle, ove occorra, da un luogo all'altro, prendendole delicatamente in bocca. Ed è sempre il maschio che sorveglia i piccoli con zelo, non appena questi sono sgusciati dalle uova. Quando i figlioletti sono in grado di nuotare, vengono guidati all'intorno dal padre, sopra al cui capo si muovono, curiosamente raccolti in schiera compatta. E' probabile che una secrezione prodotta da particolari ghiandole cefaliche paterne abbia una funzione nella cura e nell'assistenza della prole. E' una misteriosa sostanza che si diffonde nell'acqua e serve a mantenere il contatto tra padre e figli, anche a notevole distanza. Grazie a questo fluido chimico, il padre riesce a ricongiungersi ai figlioletti dopo una separazione. Oltre a possedere strani nomi, mole smisurata e spiccato senso paterno, gli Arapaima presentano un'altra interessante caratteristica. Mentre la maggior parte dei pesci si accontenta di respirare l'ossigeno sciolto nell'acqua, servendosi delle branchie, gli organi respiratori propri degli organismi acquatici, i piracucu, in caso di emergenza, quando cioè si trovano in un corso d'acqua povero di ossigeno, sono capaci di respirare anche aria atmosferica. In tal caso funge da polmone la vescica natatoria, quella sorta di grosso sacco, presente se non in tutti per lo meno in buona parte dei pesci, che normalmente, grazie ai gas che contiene, fa da organo idrostatico. Consente cioè all'animale di spostarsi in senso verticale. Nell'Arapaima la vescica natatoria occupa una grande area sopra la cavità addominale, comunica con l'esofago mediante un condotto aperto e possiede pareti riccamente vascolarizzate. Nel deglutire l'aria atmosferica, il piracucu produce un rumore abbastanza forte che si può percepire anche a distanza. E' uno di quei tali suoni che smentiscono la leggenda del mutismo dei pesci. Questo gigante, voracissimo divoratore di pesci più piccoli di lui, abita i corsi d'acqua ricchi di vegetazione acquatica. Le prede trovano immediata sepoltura nella sua ampia bocca tappezzata letteralmente di denti impiantati perfino sulla lingua e sul palato. Ma poi, dopo aver fatto gran strage di prede, il piracucu diventa preda a sua volta del cacciatore più temibile, l'uomo. Il quale taglia la sua carne in lunghe listerelle sottili, le fa essiccare al sole e poi la immette in rotoli sui mercati ittici, insieme con le ossa, con le belle squame cangianti e, merce particolarmente apprezzata, con l'osso linguale, considerato dagli indigeni come una insuperabile raspa atta a limare il legno. Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE DELLA VITA. CONTRO L'EMICRANIA La guerra dei triptani In arrivo una nuova classe di farmaci
Autore: PINESSI LORENZO

NOMI: DIAMOND SEYMOUR
LUOGHI: ITALIA

PER una volta parliamo di una guerra che non provocherà morti ma che migliorerà la qualità di vita di molte persone. E' la ««triptan war»», la guerra dei triptani. Protagoniste di questa guerra sono una mezza dozzina di multinazionali farmaceutiche che sono scese sul campo di battaglia con ricercatori e laboratori per produrre nuovi farmaci contro l'emicrania; i ««triptani»» sono le munizioni, una nuova classe di farmaci per questa patologia. L'emicrania è una malattia che colpisce circa 25 milioni di nordamericani e 5 milioni di italiani. Secondo Seymour Diamond, il neurologo americano fondatore della Diamond Headache Clinic di Chicago, i pazienti emicranici costituiscono ««il gruppo di pazienti probabilmente più incompreso, mal diagnosticato e malcurato della medicina moderna»». E' pertanto facilmente comprensibile come un siffatto, enorme gruppo di pazienti, ««malcompreso e malcurato»», rappresenti non solo un serio problema medico ma, altresì, un ««mercato»» particolarmente interessante. La crisi emicranica, l'aspetto principale della malattia, presenta una notevole variabilità clinica: a volte può presentarsi con una lieve cefalea pulsante, della durata di poche ore, altre volte, spesso, si manifesta con una cefalea di notevole intensità, invalidante, accompagnata da nausea, vomito ed impossibilità a sopportare la luce e i rumori. Il paziente, per un periodo che può giungere sino ai 3 giorni, deve mettersi a letto, in una stanza buia, non può alimentarsi, perde importanti occasioni lavorative o sociali o di svago. In passato, le principali ««armi»» per combattere le crisi emicraniche erano i farmaci antinfiammatori non steroidei (aspirina e derivati) e l'ergotamina. I primi sono efficaci nella crisi di entità lieve o media ma non servono nelle crisi più forti e spesso sono gastrolesivi. Assunti ad alti dosaggi possono provocare danni renali e, specie in combinazione con altri prodotti, favoriscono la cronicizzazione, tutt'altro che rara, dell'emicrania. L'ergotamina è farmaco derivato da un fungo che parassita la segale (««segale cornuta»») e presenta un potente effetto vasocostrittore. L'ergotamina ed i suoi derivati (come la diidroergotamina o Dhe, oggi disponibile anche per spray nasale) sono farmaci efficaci anche nelle crisi emicraniche gravi; tuttavia, presentano numerosi effetti collaterali che molti pazienti non tollerano e possono dare luogo a fenomeni di abuso e di dipendenza. Nella seconda metà degli Anni 80 i ricercatori della Glaxo Wellcome, una delle multinazionali del farmaco, percorsero una via del tutto nuova per la messa a punto di un farmaco antiemicranico. Cercarono cioè di sintetizzare un farmaco che assomigliasse nella formula e nel meccanismo di azione alla serotonina, senza peraltro averne tutti gli effetti, ma solo quelli ««utili»» per bloccare la crisi dolorosa emicranica. Sappiamo infatti che la serotonina (o 5-Ht) è un neurotrasmettitore che svolge un ruolo fondamentale nel corso della crisi emicranica. Questa sostanza ricopre un ruolo chiave nella trasmissione dello stimolo doloroso nel cervello, a livello del sistema trigeminale, e regola il calibro delle arterie craniche ed extracraniche. A partire dalla struttura della serotonina venne dunque messo a punto un farmaco, il sumatriptan, che ««copia»» l'azione del neurotrasmettitore legandosi ad alcuni dei suoi recettori (detti 5-Ht1B e 5-Ht1D). Questo farmaco, nonostante il prezzo elevato e la presenza talora di alcuni effetti collaterali, quali un senso di oppressione al torace e la mancanza di respiro, è divenuto in pochi anni il farmaco di prima scelta nel trattamento della crisi emicranica. Nel 1996 la vendita del sumatriptan in tutto il mondo ha raggiunto il tetto di 840 milioni di dollari. Tale commercializzazione ha, ovviamente, destato l'interesse di numerose altre industrie farmaceutiche inglesi ed americane. La stessa Glaxo-Wellcome ha dovuto ««correre ai ripari»» mettendo in cantiere un nuovo farmaco per proseguire i successi del sumatriptan, e proprio da tale concorrenza scientifica e commerciale nasce la ricerca che porta alla sintesi dei cosiddetti triptani di seconda generazione. La ««guerra»» tra le diverse case farmaceutiche è ora basata sulla produzione di triptani più potenti, più selettivi per i recettori serotoninergici cerebrali e con una durata d'azione più lunga rispetto al sumatriptan. Questo farmaco, infatti, passa con difficoltà la barriera ematoencefalica (raggiungendo in basse concentrazioni il cervello) e, una volta assunto, esercita il suo effetto solo per poche ore (ha una breve ««emivita»»), tanto che a volte i pazienti si lamentano della ripresa della sintomatologia dolorosa già 3-4 ore dopo la sua assunzione. I nuovi farmaci triptanici (zolmitriptan, eletriptan, rizatriptan, naratriptan, frovatriptan) sono in procinto di fare il loro ingresso in Italia. Il primo è già in commercio da mesi, i restanti saranno immessi sul mercato al massimo nel 2000. Il loro costo è relativamente contenuto mentre l'efficacia e la tollerabilità sembrerebbero significativamente superiori. Sono iniziati, in particolare nei Paesi anglosassoni, i primi studi comparativi tra i diversi triptani. Ad ogni buon conto, medici, neurologi e, soprattutto, i pazienti emicranici avranno a disposizione nuove armi per combattere questa malattia cronica ed invalidante. Lorenzo Pinessi Direttore Centro Cefalee Università di Torino


SCIENZE DELLA VITA. ONANO NEL LAZIO In paese tornano le lenticchie Ripristinati 45 ettari di coltivazioni storiche
Autore: MARTINENGO MARQUET ROBERTO

ARGOMENTI: BOTANICA, ALIMENTAZIONE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

QUALCHE settimana fa su queste pagine Elena Accati ha descritto fasti e decadenza della lenticchia. In uno dei più noti paesi produttori, in Italia, di questa leguminosa, si lotta però contro la decadenza di questa coltivazione e si tenta di riportarla in auge. Il paese è Onano (Vt),1200 abitanti, ai confini del Lazio con Toscana e Umbria. Onano produceva, ai primi del Novecento, la migliore lenticchia italiana; ciò non per sentito dire, ma dimostrato da attestati, premi e medaglie d'oro alle esposizioni universali di Roma e Buenos Aires del 1910 e di Londra e Parigi del 1911. Il decadere della coltivazione della lenticchia, dovuto a una serie di concause politiche, tecniche ma soprattutto economiche, ha portato danno all'immagine produttiva della comunità e rischiato di vanificare una reputazione agricola saldamente acquisita. Partendo dal principio che ««piccolo è bello»» e quindi più facile da far funzionare in un paese di così modeste dimensioni, il giovane sindaco di Onano, Giovanni Giuliani, ha tentato - con successo - di rilanciare la coltivazione della lenticchia, anche perché appartenevano ormai al passato le altre due cose per cui Onano era famosa, cioè l'origine della famiglia Pacelli (Pio XII) e l'aver dato i natali a Lina Cavalieri, la donna più bella del mondo ai primi del Novecento. L'occasione è venuta dall'impulso che organizzazioni regionali, sovraregionali e sovrannazionali (talvolta funzionano) hanno dato alla Comunità Montana dell'Alta Tuscia laziale, organizzazione sovracomunale di sette Comuni dell'Alto Lazio, anticamente noto come Tuscia. Nel 1998 sono stati rimessi a coltura della lenticchia 45 ettari di terreno agricolo non utilizzati per la più remunerativa ed imperante coltura della patata perché poco irrigui. Una ventina di famiglie di agricoltori ha fruito di un rimborso di un milione e 200 mila lire per ettaro, il che ha fatto diventare economicamente interessante la coltivazione della lenticchia. Questa infatti, dato l'alto pregio, si è potuta commercializzare - confezionata in sacchetti da mezzo chilo - a 8 mila lire al chilo, prezzo molto più alto di quello praticato su prodotti provenienti dal Sud America e dall'Asia, più scadenti e sospetti di uso di diserbanti e pesticidi. R. Martinengo Marquet


SCIENZE DELLA VITA. BIOTECNOLOGIE Se la polenta è manipolata... Il problema dell'etichetta sui prodotti
Autore: A_VI

ARGOMENTI: BIOLOGIA
NOMI: ANKLAM ELKE
LUOGHI: ITALIA

POCHI giorni fa, su richiesta del Parlamento, il nostro governo ha aderito al ricorso dell'Olanda contro la direttiva europea sui ««brevetti per le invenzioni biotecnologiche»». Dai resoconti di alcuni cronisti ci si poteva fare l'idea di un'Europa manchevole e distratta in fatto di biotecnologie. Certo, gli Stati Uniti, il Giappone e (nel più assoluto silenzio) la Cina sono più avanti di noi e i governi di quei Paesi già da tempo hanno capito l'importanza strategica di quel settore. Ed è pur vero che la ricerca pubblica in alcuni settori del biotech è praticamente inesistente. Ma qualche ritardo non vuol dire indifferenza. L'Unione europea segue con attenzione l'evolversi delle ricerche sulle biotecnologie. Non solo già da tempo è stato deciso di etichettare i prodotti contenenti ingredienti frutto di manipolazioni genetiche (scelta decisamente poco apprezzata negli Usa), ma ci si è anche posti il problema di come smascherare eventuali truffe. Quando l'etichetta ««Gmo free»» (ovvero ««Non contiene organismi geneticamente modificati»») diventerà esecutiva, come si fa a controllarne la veridicità, si è chiesta la Commissione europea per la ricerca scientifica e l'innovazione teconologica. E il Centro di ricerca europeo di Ispra (Varese), incaricato di mettere a punto un sistema di indagine per scoprire nei cibi l'eventuale presenza di organismi geneticamente modificati, proprio poche settimane fa ha presentato i primi risultati. ««Grazie alla collaborazione di 29 laboratori europei, di 13 diversi Paesi»», ci spiega Elke Anklam, a capo dell'Unità prodotti alimentari dell'Istituto per la salute e la protezione del consumatore di Ispra e responsabile di questo esperimento, ««abbiamo messo a punto due test, uno specifico per il mais e uno per la soia. Tramite una tecnica diagnostica ormai collaudatissima, la Pcr (reazione polimerasica a catena), riusciamo a leggere il Dna di una farina di mais o di un olio di soia per capire se c'è la presenza di soia o mais geneticamente modificati»». Per la soia sono stati raggiunti ottimi risultati. Con il metodo perfezionato a Ispra (e applicabile da qualunque laboratorio, pubblico o privato, che ne faccia richiesta) si arriva a scovare anche lo 0,5 per cento di materiale geneticamente modificato. Per il mais per ora la soglia minima è intorno al 2 per cento. L'Unione europea deve ora approvare questo metodo dal punto di vista ««politico»» e inserirlo nei protocolli ufficiali di indagine che verranno eseguiti in tutta Europa durante i controlli sul cibo e sulla veridicità delle etichette ««Gmo free»».


SCIENZE A SCUOLA. LA LEZIONE/ MATEMATICA I quasicristalli Giocare con le tessere di Penrose
Autore: PEIRETTI FEDERICO

ARGOMENTI: MATEMATICA
NOMI: PENROSE ROGER
LUOGHI: ITALIA

UN gioco, un divertente puzzle le cui tessere ricoprono il piano componendo affascinanti disegni sempre diversi, ha permesso di chiarire la struttura cristallina, cioè la disposizione degli atomi, di un gruppo di sostanze, chiamate quasicristalli, che sfidavano le leggi classiche della cristallografia. Il puzzle è risultato il modello di riferimento di queste sostanze e la conferma sperimentale viene ora dal lavoro di un gruppo di fisici, pubblicato su uno degli ultimi numeri della rivista scientifica Nature. Per capire che cosa siano i quasicristalli e il ruolo avuto dal puzzle nella loro definizione, partiamo dal gioco, proposto nel 1974 da Roger Penrose, fisico e matematico dell'Università di Oxford, autore di un grande best seller della divulgazione scientifica, ««La mente nuova dell'imperatore»», che tratta di meccanica quantistica e Intelligenza Artificiale. Martin Gardner lo ha definito ««un libro meraviglioso per profani intelligenti»». Le tessere di Penrose (TuttoScienze, 11 agosto 1993), ricoprono il piano in modo non-periodico, compongono cioè una ««tassellatura non periodica»», nella quale è impossibile individuare un motivo che si ripeta poi regolarmente. Esistono molti modelli di tessere non-periodiche, ma le più famose sono la ««punta»» e l'««aquilone»» e i due rombi, il ««largo»» e il ««sottile»», che si costruiscono seguendo le indicazioni di figura. Per divertirci a comporre tassellature non periodiche, possiamo procurarci un certo numero di queste tessere, almeno un centinaio, con l'aiuto di una fotocopiatrice o, più semplicemente, possiamo collegarci ad uno degli indirizzi riportati più avanti, dove troveremo tutte le tessere virtuali necessarie per il nostro gioco. Le tassellature non-periodiche hanno trovato, come dicevamo, un'importante applicazione nei quasicristalli. Ricordiamo soltanto che generalmente i corpi solidi si presentano allo stato amorfo, con gli atomi disposti in modo casuale e disordinato, come il vetro, oppure allo stato cristallino, come il sale da cucina, con gli atomi disposti in ordine geometrico su reticoli tridimensionali, costituiti da miliardi di celle tutte uguali, ognuna delle quali in genere non è più grande di un decimilionesimo di centimetro. Regole geometriche, stabilite 150 anni fa, consentono di definire forme e proprietà dei cristalli. Una di tali regole afferma che le uniche simmetrie di rotazione permesse per una struttura cristallina sono quelle binaria, ternaria, quaternaria e senaria, tali cioè che la struttura del cristallo torna a coincidere con se stessa, dopo una rotazione di mezzo giro oppure dopo un terzo, un quarto, un sesto di giro. Ora le strutture delle tassellature non-periodiche riportate in figura, come si può osservare, hanno ««quasi»» una simmetria quinaria. Si possono cioè trovare dei movimenti che portano la struttura ««quasi»» a coincidere con se stessa: ««Non occorre che ci preoccupiamo qui del preciso significato di questa affermazione - dice Penrose, presentando le tassellature non-periodiche nel suo libro ««La mente nuova dell'imperatore»» - l'unico punto che ci interessa è che, se si avesse una sostanza in cui gli atomi fossero disposti ai vertici della forma, questa ci apparirebbe una struttura cristallina, e nondimeno presenterebbe una simmetria quinaria proibita!»». Nel 1984, dieci anni dopo la scoperta del gioco, Daniel Schechtman, un fisico israeliano, scoprì l'impossibile: una lega di alluminio e manganese che presentava una simmetria quinaria. Fino ad oggi sono state scoperte più di cento sostanze simili, per la maggior parte leghe dell'alluminio, battezzate quasicristalli. Nello stesso periodo in cui Schechtman scopriva i quasicristalli, Paul Steinhard, docente di matematica alla Princeton University, avanzava l'ipotesi che gli atomi di una sostanza potessero costruire strutture non-periodiche simili alle tassellature di Penrose. Strutture che avrebbero potuto giustificare la simmetria quinaria dei quasicristalli. Al posto dei due rombi di Penrose, Steinhard propose di usare due romboidi che riempivano completamente lo spazio tridimensionale. Successivamente, una matematica tedesca, Petra Gummelt, suggerì di utilizzare un'unica tessera decagonale al posto dei due rombi. Una tessera che compone ancora tassellature non-periodiche, ma soltanto se vengono consentite sovrapposizioni. Ora arriva la conferma di questo modello matematico per i quasicristalli. Steinhard, su Nature, annuncia la verifica sperimentale di questa ipotesi: la tassellatura ottenuta con le tessere decagonali, in parte sovrapposte, coincide perfettamente con la figura di diffrazione ai raggi X di un quasicristallo, studiato in Giappone dal Centro Nazionale delle Ricerche sui Metalli: una lega di alluminio, nichel e cobalto la cui formula è Al72Ni20Co8. ««Con una miglior comprensione del processo di formazione dei quasicristalli - afferma Steinhard - e un miglior controllo della loro struttura e della loro composizione chimica, sarà possibile scoprire nuove applicazioni di questi materiali che risultano più duri dei cristalli e con una maggiore resistività elettrica alle basse temperature»». Quello che all'origine non era che un semplice gioco è diventato il fondamento di un'importante ricerca scientifica. E questo conferma ancora una volta che la matematica non è che un gioco. Ma un gioco importante, perché è quello della natura. Alcuni indirizzi per approfondire l'argomento su Internet: http://www.nr.infi.net/~drmatrix/math.htm L'articolo di Martin Gardner, pubblicato nel 1977 da Scientific American, sulle tassellature non-periodiche. http://www.geocities. com/SiliconValley/Pines/1684/Penrose.html Un applet di ShuXiang Zeng, per costruire ogni tipo di tassellatura non-periodica, con tessere virtuali di tutti i colori. http://www.aie. nl/~geert/java/public/Penrose.html Un applet di Geert-Jan Opdorp per tassellare automaticamente il piano in modo non-periodico, data una configurazione iniziale. http://dept.physics.upenn. edu/~www/astro-cosmo/walker/walker.html Una saggio divulgativo di Paul Steinhardt sulle tassellature e i quasicristalli. http://www. cmp.caltech.edu/~lifshitz/quasicrystals.html Una chiara ed esauriente introduzione alla teoria dei quasicristalli. Federico Peiretti


POLEMICA Plutone degradato al rango di asteroide? ««E' un falso problema, storicamente rimane un pianeta a tutti gli effetti»»
Autore: ZAPPALA' VINCENZO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

SI è diffusa a macchia d'olio la notizia che il pianeta Plutone verrà ««degradato»» al rango di asteroide. La reazione di molti scienziati e dell'opinione pubblica (specie americana) è stata a dir poco vivace. Ma che cosa c'è di vero? Il caso sta scappando di mano agli scienziati e rischia di diventare uno dei tanti spunti scandalistici su cui speculare travisando la realtà dei fatti. Come presidente di una delle commissioni dell'Unione Astronomica Internazionale coinvolte nella contesa (Corpi minori del Sistema Solare) ho potuto seguire la vicenda fin dall'inizio e penso quindi di essere in grado di descrivere i fatti nel modo più realistico possibile e, di conseguenza, di riportarli alle giuste proporzioni. Per comprendere le motivazioni che hanno innescato il caso Plutone è bene richiamare alcuni fatti già ben noti alla maggioranza degli appassionati di astronomia. Plutone è sicuramente un pianeta anomalo. Le sue dimensioni sono piccole (meno della metà di qualsiasi altro pianeta); ha un'orbita molto più inclinata e la sua eccentricità lo porta a penetrare all'interno dell'orbita di Nettuno; si trova subito dopo i giganti gassosi (Giove, Saturno, Urano e Nettuno), ma si presenta come corpo solido e ghiacciato; possiede infine un satellite enormemente grande rispetto alle sue dimensioni. Tutto ciò già da molto tempo ha fatto pensare che Plutone potesse essere una specie di intruso tra i pianeti, forse un satellite di Urano o Nettuno espulso da una catastrofe planetaria. Ma nel 1992 Plutone subiva un ulteriore attacco: la scoperta di un altro oggetto trans-neptuniano dava il via in breve tempo all'identificazione di una vera e propria cintura di corpi ghiacciati situati al di là dell'ultimo pianeta conosciuto: la famosa Cintura di Edgeworth-Kuiper, ipotizzata negli Anni 50, che riveste un ruolo fondamentale per il rifornimento continuo di comete a corto e medio periodo. A questo punto Plutone trovava una collocazione perfetta: analogamente a Cerere per gli asteroidi, il nono pianeta poteva essere considerato il membro maggiore di un'enorme popolazione di piccoli pianeti orbitanti al di là di Nettuno. Va inoltre ricordato che, per la loro distanza ed eccentricità, non è impossibile che altri oggetti transneptuniani anche più grandi di Plutone vengano scoperti in un prossimo futuro. Benché questi dati sembrassero giustificare una nuova visione di Plutone, nessuno scienziato ha mai realmente posto in dubbio la posizione ««storica»» ormai raggiunta dal nostro compagno planetario. Si poneva invece un problema pratico di catalogazione. Era infatti ormai tempo che si desse un numero definitivo agli oggetti della Edgeworth-Kuiper Belt (Ekb). Brian Marsden, direttore del Minor Planet Center e responsabile del continuo aggiornamento della lista dei corpi minori, ha avvertito i colleghi che gli asteroidi stavano avvicinandosi al numero 10 mila. Se si voleva cominciare a classificare gli oggetti Ekb tra questi ultimi, poteva essere una buona idea dare al primo di essi il numero 10.000, un modo come un altro per sottolineare la loro importanza e diversità. Ma chi era il primo Ekb? Sembra essere a tutti gli effetti Plutone, ed ecco quindi innescato il meccanismo che tanto rumore ha sollevato. In realtà l'idea era di lasciare a Plutone una doppia identità. Quella ««storica»» di pianeta e quella ««tecnica»» di Ekb. La cosa non è nuova: altri oggetti sono classificati sia come comete sia come asteroidi. Ma Plutone era troppo importante per non sollevare scalpore. Personalmente sono sempre stato abbastanza contrario a classificare gli oggetti Ekb tra gli asteroidi. Li vedrei meglio o tra le comete o come gruppo a sè stante. Tuttavia non ho mai pensato che si volesse declassare Plutone solo perché si cercava di dargli una classificazione scientificamente più corretta dal punto di vista tecnico. Il suo valore ««storico»» non è stato mai messo in dubbio e tanto furore da parte di altri colleghi e dei mass media mi sembra del tutto ingiustificato. Sono certo che il nono pianeta non corre rischi: l'eventuale aggiunta di un numero su cataloghi riservati ai ricercatori (qualora venisse approvata, ma ne dubito) non scalfirebbe minimamente la sua ormai assodata ««reputazione»». Concludendo, non facciamo di Plutone un caso scandalistico o filosofico, nè tanto meno razzistico. Lasciamo che rimanga quell'oggetto (pianeta, pianetino o cometa che sia) di estremo interesse che è stato fino ad oggi. Vincenzo Zappalà Osservatorio Astronomico di Torino


ASTRONOMIA L'acchiappacomete A caccia di polvere nello spazio
Autore: DI MARTINO MARIO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

LE comete sono piccoli corpi composti da una mistura di ghiacci (prevalentemente ghiaccio d'acqua), polveri e molecole organiche. In genere hanno orbite molto allungate che le portano vicino al Sole per poi ricondurle nelle regioni più remote del Sistema Solare, dove trascorrono la maggior parte del loro periodo orbitale. Quando una cometa si avvicina a meno di 700 milioni di chilometri dal Sole, la superficie del nucleo inizia a scaldarsi e i ghiacci a sublimare. Questo processo produce una grande quantità di gas che, grazie alla debolissima gravità del nucleo stesso, si diffondono nello spazio circostante trascinando con sè anche le particelle solide non volatili che compongono il nucleo. Si forma così un'estesa atmosfera (chioma), che sotto l'azione del vento solare, il continuo flusso di particelle subatomiche emesse dal Sole, viene allungata generando la tipica coda. Le comete contengono molti degli ingredienti originali da cui circa quattro miliardi e mezzo di anni fa si sono formati i pianeti, oltre a materiale organico che è stato alla base dello sviluppo della vita. Per questo un obiettivo degli scienziati planetari è quello di prelevare e riportare a terra dei campioni di materia cometaria. Con il lancio, avvenuto il 7 febbraio, della sonda Stardust (Polvere di stelle), l'atteso momento finalmente si avvicina: per la prima volta del materiale extraterrestre prelevato al di là dell'orbita lunare verrà portato a terra. Stardust è la quarta missione del programma Discovery ed è stata realizzata in un tempo record di meno di due anni, fu selezionata infatti nell'autunno 1995 e la sua realizzazione iniziò nel gennaio 1996. Obiettivo della sonda è la cometa periodica Wild 2, ma durante il suo lungo viaggio raccoglierà anche dei campioni di polvere interstellare. Recentemente infatti la sonda Ulisse ha scoperto un flusso di particelle solide microscopiche che attraversa il nostro sistema planetario provenendo dalla spazio interstellare. Anche se esistono diverse teorie sulla costituzione di questi minuscoli granuli di polvere, l'unico modo per conoscere la loro struttura e composizione chimica è quello di poterli analizzare in laboratorio. Stardust, dopo un viaggio di quasi quattro miliardi di chilometri, raggiungerà la Wild 2 agli inizi del gennaio 2004 e si tufferà nella coda della cometa per catturare, tramite un originale e semplice sistema, particelle di polvere e di materiali volatili (una quantità che in tutto non supererà i 40 milligrammi) emessi dal nucleo cometario. Si prevede che i campioni raccolti saranno per la maggior parte di dimensioni estremamente piccole (meno di un micron, cioè meno di un millesimo di millimetro) e potranno essere studiati in maniera adeguata in laboratorio solo utilizzando strumenti sofisticatissimi. Per catturare le particelle cometarie intatte, l'incontro con la cometà avverrà a bassa velocità relativa (6,1 km al secondo) - quasi 11 volte inferiore a quella del flyby della sonda Giotto con la cometa di Halley - e, con l'ausilio delle telecamere di bordo, il sistema di navigazione autonomo farà in modo di far passare la sonda a una distanza dal nucleo cometario inferiore ai 150 chilometri. Ciò permetterà di raccogliere campioni freschi da poco emessi e di riprendere immagini dettagliatissime del nucleo, le cui dimensioni sono stimate in circa 4 chilometri. Il passaggio di Stardust attraverso la chioma della cometa Wild 2 durerà 10 ore e per evitare che le particelle solide iperveloci possano danneggiare gli strumenti di bordo, le parti più sensibili della sonda sono state protette con speciali schermi su cui è applicato uno strumento, il Dust Flux Monitor, che effettuerà il conteggio dei grani di polvere che lo colpiranno e determinerà la massa di queste particelle solide. Il flyby avverrà dalla parte illuminata del nucleo cometario, a una distanza dal Sole di 280 milioni di chilometri, poco più di tre mesi dopo il passaggio della Wild 2 al perielio (minima distanza dal Sole). Il periodo di massima attività dovrebbe quindi essere stato superato, per cui si spera che ciò renda relativamente sicuro il flyby ravvicinato. Elemento essenziale della sonda è l'Aerogel Dust Collector. Si tratta di un disco di forma grosso modo circolare, con una superficie di 1000 cm quadrati, orientata perpendicolarmente al moto della sonda. I due lati di questo disco sono costituiti da cellule modulari in alluminio in cui sono incapsulati dei blocchi spessi pochi centimetri di una straordinaria sostanza ultraleggera denominata aerogel. La faccia rivolta in direzione del moto della sonda raccoglierà i grani di polvere cometaria, mentre quella orientata in direzione opposta servirà a catturare particelle di polvere interstellare durante il viaggio di crociera. L'aerogel è un composto completamente inerte a base di silicio, scoperto verso la fine degli Anni 30, i cui elementi individuali hanno dimensioni dell'ordine del milionesimo di millimetro e sono legati tra di loro in una struttura dendridica estremamente porosa: basti pensare che il 99,8 per cento del suo volume è rappresentato da vuoti. Soprannominato anche fumo congelato, questo strano materiale, oltre alla capacità di catturare particelle iperveloci, ha molte proprietà eccezionali: valori molto bassi di conducibilità termica e di indice di rifrazione, alta resistenza alle sollecitazioni del volo spaziale ed estrema leggerezza (è il materiale solido più leggero esistente: la sua densità è di poco superiore a quella dell'aria). Quando una particella iperveloce colpisce l'aerogel, essa penetra rallentando la sua velocità e generando una traccia a forma di cono molto allungato con la base in corrispondenza del punto di impatto. Grazie all'elevata trasparenza dell'aerogel la particella catturata può essere facilmente individuata con un microscopio. Altro componente essenziale di Stardust è la capsula di rientro, al cui interno verrà fatto ripiegare il collettore di polvere dopo il flyby con la Wild 2 e che, sganciata dalla sonda quando questa ritornerà in prossimità del nostro pianeta, riporterà a terra i campioni di cometa e polvere cosmica. Si tratta di un contenitore del diametro di circa un metro a forma di conchiglia dotato di uno scudo termico, per proteggerlo dalle altissime temperature causate dal rientro nell'atmosfera terrestre e che fungerà da freno aerodinamico, e di un sistema di paracadute che rallenterà la capsula nella fase finale dalla discesa, che, se tutto andrà come programmato, avverrà il 15 gennaio 2006 nel deserto salato dello Utah. E' una missione molto complessa, ma non più di altre che sono state coronate da successo, come la Mars Pathfinder; sono molte quindi le speranze che anche in questo caso tutto proceda per il meglio. I risultati che si potranno ottenere serviranno forse a dare una risposta decisiva ai molti interrogativi ancora aperti sulla natura e l'origine delle comete, questi oggetti primordiali presumibilmente formatisi nelle regioni esterne della nebulosa protoplanetaria, dove le temperature sono rimaste abbastanza basse da lasciare inalterato nel tempo il materiale di cui sono formate. Di importanza non inferiore saranno i dati che potremo raccogliere sulla polvere interstellare. Oggi le uniche conoscenze che si hanno su questa materia sono indirette. La raccolta di anche poche particelle fornirebbe una storica opportunità di esaminarle direttamente dalla materia solida che si è formata al di fuori del Sistema Solare. A bordo di Stardust sono imbarcati due microchip in cui sono stati registrati più di 330.000 nomi di persone raccolti via Internet da tutte le parti del mondo. Una volta riportati a terra dopo il loro lungo viaggio interplanetario, saranno conservati nel museo dell'Istituto Smithsonian. Mario Di Martino Osservatorio Astronomico di Torino


SCIENZE FISICHE. TELECOMUNICAZIONI La tv ad alta definizione abita qui Il Giappone acquista i documentari d'arte in Italia
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: COMUNICAZIONI
LUOGHI: ITALIA

CHE fine ha fatto la tv digitale in alta definizione? Dopo il gran parlare sulla fine degli Anni 80, dopo le prime trasmissioni sperimentali del Centro di Ricerche Rai di Torino per i Mondiali di Calcio del 1990 (replicate in Spagna per le Olimpiadi di Barcellona), dopo i miliardi spesi nel progetto Eureka per la definizione di uno standard europeo (l'Hd-Mac, ormai dato per morto), nessuno ha fatto più nulla e sofisticati macchinari prendono polvere in qualche magazzino. Un'opportunità perduta, ma non per cattiva volontà. I tecnici europei (e in particolare quelli della Rai) avevano fatto un ottimo lavoro e lo standard a 1250 linee per 50 quadri al secondo era decisamente interessante. La differenza con il Pal (che trasmette a 600 linee) era più che evidente, dato che le immagini in alta definizione avevano una nitidezza quasi 6 volte superiore perché dai 120 mila pixel degli standard Pal/Secam si passava agli oltre 700 mila dell'Hd-Mac. Ma si trattava di una tecnologia prematura, tant'è che anche gli Stati Uniti, che nel 1992 avevano addirittura lanciato una gara d'appalto per un sistema chiavi in mano di tv ad alta definizione (e nel 1998, prevedevano a Washington, ogni famiglia americana avrebbe trovato nei negozi a un prezzo accessibile i nuovi televisori per l'alta definizione) hanno lasciato perdere tutto. Solo i giapponesi ci hanno creduto. La Sony fu la prima a realizzare la tv ad alta definizione (in sigla hdtv, high definition television): nel 1986, in collaborazione con l'Nhk (la tivù di Stato nipponica), presentò il sistema Muse con scansione a 1125 linee/60 quadri al secondo. E in Giappone esiste l'unico canale televisivo che da quasi una decina d'anni trasmette programmi in alta definizione. Si chiama Canal HiVision, ha 600 mila seguaci ed è gestito da un pool di broadcaster privati e pubblici. L'Nhk assicura ogni giorno 18 ore di programmi, il resto spetta ai privati. Ma per alimentare questo canale di nicchia che trasmette 24 ore su 24 hanno bisogno di programmi che, nessuno l'avrebbe mai pensato, vengono a cercare anche in Italia. Perché a Torino esiste uno degli unici due Centri di produzione per tv ad alta definizione tuttora in attività (l'altro è tedesco). E' gestito dalla Euphon, società di servizi per la comunicazione e il broadcasting che da circa una decina d'anni è uno dei preziosi partner dell'Nhk per le trasmissioni in alta definizione. ««Per il Giappone abbiamo già realizzato una cinquantina di titoli»» , spiega Giancarlo Rocchietti, amministratore delegato di Euphon, ««tutti documentari sui grandi artisti italiani, sui giardini delle dimore storiche, sugli antichi mestieri e sull'artigianato. Alcuni hanno anche avuto riconoscimenti internazionali. L'arte è il tema più richiesto in primo luogo perché i giapponesi sono innamorati dell'Italia. Poi perché è un soggetto che permette di sfruttare al massimo i vantaggi dell'alta definizione»». Nata quarant'anni fa come laboratorio di registrazioni sonore e incisione dischi, oggi la Euphon è un gruppo con 150 dipendenti e 4 sedi in Italia. Dalla duplicazione in serie di videocassette alla realizzazione di programmi per la business television (gestisce il canale satellitare Diretta Auto che la Fiat utilizza per comunicare con i propri concessionari nel mondo), dai videodischi interattivi ai megaschermi mobili Sony Jumbotron, dai teatri di posa (8, per un totale di 10 mila mq) alle riprese in esterni con regie mobili capaci di gestire fino a 20 telecamere, la Euphon fa dell'avanguardia tecnologica una propria bandiera. ««Ma l'alta definizione non è solo destinata agli impallinati e agli appassionati»», precisa Rocchietti. ««Anche l'industria può trarne vantaggio. In certi momenti della progettazione di un'auto come di un vestito, la qualità delle immagini, le sfumature dei colori, la nitidezza dei particolari diventa un elemento determinante»». Spesso un progetto è rallentato perché una volta realizzato il prototipo ci si rende conto che alcuni dettagli sulla carta erano diversi. E questo è dovuto alla imprecisione dei monitor usati per il Cad: per quanto di qualità, le schede video di oggi producono immagini inferiori a quelle ottenibili con l'hdtv. A tutto vantaggio del ««time to market»». Ecco perché, visto che avevamo accumulato una discreta esperienza, gli studi sull'alta definizione devono essere ripresi al più presto. Ma come farlo capire a chi di dovere, visto che qui da noi ci si preoccupa solo del numero di canali, terrestri o da satellite, e tutto ruota intorno ai diritti tv del calcio? Andrea Vico


SCIENZE FISICHE. OSSERVATORIO AMERICANO La scuola deve rivalutare la fisica Il Nobel Lederman: è indispensabile per capire tutte le altre scienze
Autore: LUCENTINI MAURO

ARGOMENTI: FISICA, DIDATTICA
NOMI: LEDERMAN LEON
LUOGHI: ITALIA

COME materia di studio, la fisica è sempre stata un po' la cenerentola delle scienze: in molti Paesi europei è accoppiata alla matematica ma finisce regolarmente in posizione subordinata; in America è generalmente relegata al terzo e ultimo anno di studio nelle medie superiori, mentre gli anni precedenti sono dedicati prima di tutto alla biologia, poi alla chimica. Adesso negli Stati Uniti si va però diffondendo un movimento iniziato otto anni fa da un premio Nobel della fisica, Leon Lederman dell'Università di Chicago, che insorge contro questo stato di cose e cerca di dare alla fisica una posizione di priorità assoluta. La tesi di Lederman, difficilmente confutabile, è che quasi tutta l'impalcatura pedagogica attualmente adoperata per lo studio delle scienze è un'eredità di nozioni ottocentesche che hanno fatto abbondantemente il loro tempo. Per esempio la priorità tradizionalmente accordata alla biologia risale al fatto che questa materia, di carattere soprattutto descrittivo, era un tempo più facile delle altre e largamente autonoma rispetto alle altre. La chimica, d'altro lato, era stata sempre considerata un po' la madre della fisica, data l'evoluzione del pensiero e della scienza sperimentale dagli alchimisti in poi. Ma nessuna di queste premesse ha oggi fondamento. La biologia è diventata non la più facile, ma la più difficile delle scienze, cosa del resto comprensibile trattandosi della scienza della vita: lungi dall'essere semplicemente descrittiva è profondamente analitica, ed essa è divenuta virtualmente inacessibile se non attraverso le porte della biochimica e della biologia molecolare. Sia l'una che l'altra richiedono nozioni di fisica e di chimica che lo studente ai suoi esordi non possiede. Quanto alla chimica, anch'essa, perlomeno nel quadro che ne abbiamo oggi, è divenuta scarsamente comprensibile quando si ignorano le basi molecolari e atomiche su cui tutti i processi chimici sono fondati. Conclusione di Lederman: i ragazzi debbono dedicare un primo intero anno alla fisica, limitando inizialmente il relativo linguaggio matematico alle modeste nozioni d'algebra già acquisite e accentuando invece il lato sperimentale e concettuale. Il programma caldeggiato da Lederman e dai suoi seguaci si concentra sulle ««grandi idee»»: le leggi del movimento, la conservazione dell'energia, la struttura dell'atomo e della materia, la rispondenza tra fisica nucleare e astrofisica. Nel secondo anno, lo studente passa alla chimica, con accento speciale sulla biochimica. Nel terzo anno finalmente viene abbordata la biologia: solo in base alle nozioni acquisite nei due anni precedenti lo studente è ora in grado di capire la posizione fondamentale della cellula, le leggi della vita e della genetica, le complesse transazioni fisiologiche degli organismi. Il movimento di Lederman, praticamente ignorato nei primi anni, adesso sta attirando crescente attenzione. Da quando è incominciato, ha condotto negli Stati Uniti - dove non esistono programmi obbligatori con validità nazionale - ad un rivoluzionamento dei programmi in un centinaio di scuole: questo numero rappresenta ancora un'infima minoranza del totale, ma va rapidamente aumentando. Cosa più importante, le scuole che si sono già convertite (mettendo la fisica al primo anno, la biologia all'ultimo) segnalano quasi tutte un successo del loro esperimento. Tutte parlano di un miglioramento della formazione dei ragazzi, di un maggior loro interesse per le materie scientifiche e di un aumento delle carriere scientifiche dopo la fine della scuola. A titolo d'esempio viene indicata una scuola media del New Jersey che fu una delle prime ad adottare i nuovi programmi nel 1990-91, e dove nell'ultimo anno prima della conversione gli studenti che una volta finite le medie aveva continuato in sede più avanzata lo studio delle scienze erano stati 38. Negli anni successivi questo numero è andato lentamente aumentando. Alla fine dell'anno scolastico 1997-98, 226 ragazzi della scuola, dove il numero complessivo degli studenti era rimasto invariato, hanno scelto di continuare gli studi sul binario scientifico. Mauro Lucentini


SCIENZE FISICHE. CHIMICA Vecchia plastica, una miniera Una nuova tecnologia per il riciclaggio
Autore: FOCHI GIANNI

ARGOMENTI: CHIMICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. I rifiuti in Italia

LA matematica - si sa - non è un'opinione, e anche il riciclaggio potrebbe finalmente smettere d'esserlo. Finora c'è chi l'ha visto come l'unica strada per risolvere il problema dei rifiuti, e chi invece come una via costosa e forse neppure ecologica. Tutti vogliono la raccolta differenziata, ma qualcuno soltanto per rendere più semplice ed efficiente lo smaltimento: perché mescolare carta, plastica o stracci col vetro, che non brucia e quindi negl'inceneritori fa da peso morto, assorbendo energia? Teniamo dunque separati i materiali di scarto; ma per alcuni di essi il riciclaggio trova difficoltà insormontabili nella presenza inevitabile di sostanze estranee o nei costi esorbitanti: rimane insomma una velleità, forse anche controproducente, perché graverebbe il bilancio ambientale con forti consumi energetici e con l'uso di reagenti e solventi inquinanti. Per la plastica ora s'apre tuttavia la speranza d'un vantaggio economico, che in avvenire potrebbe far perdere punti all'incenerimento. Da tempo, come spiega su Internet l'Associazione italiana dei produttori di materie plastiche (www.plastica.it), o come si può leggere sull'ultimo numero di ««Ecos»», rivista dell'Eni, il riciclaggio chimico mira a scomporre le macromolecole nelle unità da cui erano state formate, in modo da poterle poi ««rimontare»» e ottenere materiali rinnovati ma analoghi a quelli di partenza; oppure i rifiuti vengono tramutati in carburanti o materie prime per altre sintesi industriali. Un guaio è che spesso questi prodotti vengono a costare molto più dei loro analoghi, ottenibili direttamente dal petrolio per semplice estrazione o trasformazione chimica. L'alternativa di triturare la plastica di scarto, per rifonderla o mescolarla a plastica nuova, produce in molti casi materiale assai meno pregiato dell'originario, che dunque trova sbocchi limitati: gli anglosassoni parlano di downcycling (da down, giù, e recycling, riciclaggio). Per queste ragioni, la plastica riciclata è ancora poca: la Comunità Europea, riferendosi agli imballaggi, indica per il 2001 un obiettivo del 15 per cento, e intanto rende onore all'Austria, che è già al 18 per cento; in coda, al di sotto del 5 per cento, si trovano Irlanda, Grecia e Portogallo; all'Italia, (8%) va un voto provvisorio di sufficienza. Ma ecco arrivare nelle biblioteche specializzate un fascicolo dell'autorevole rivista tedesca Angewandte Chemie, dove due chimici dell'università statale della Pennsylvania, Anne Pifer e Ayusman Sen, illustrano i risultati dei loro esperimenti su campioni di materiali plastici vari: polistirene espanso (imballaggi o isolamenti termici), polietilene e polipropilene (sacchetti, pellicole da imballaggio, recipienti, tubi, isolanti per cavi elettrici, paraurti). Si mette la plastica, alla pressione d'una quarantina d'atmosfere, a contatto con tre gas che vengono mescolati direttamente nel reattore: nell'ordine, monossido d'azoto (3-7 per cento), azoto (73-76%) e infine ossigeno (17-24%). A questo punto il tutto viene tenuto sedici ore alla temperatura di 170 gradi. I prodotti variano secondo il materiale di partenza e il dosaggio dei tre gas. Dal polistirene si possono ottenere gli acidi benzoico e nitrobenzoico, dal polietilene biacidi a catena lineare (da quattro a sette atomi di carbonio): sostanze da cui, attraverso una serie di processi industriali, derivano colle per pannelli truciolari, detergenti, insetticidi, coloranti, fibre tessili poliammidiche (nailon) e poliesteri. Il bello è che il metodo di Pifer e Sen rappresenta una via particolarmente a buon mercato per quelle materie prime. Se verrà sviluppato industrialmente, l'ecologia e l'economia potranno finalmente andare d'accordo. Gianni Fochi Scuola Normale Superiore, Pisa


IN BREVE Qualità dell'aria convegno a Torino
ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Si terrà il 26 febbraio a Torino nel Parco scientifico tecnologico di via Livorno 60 il convegno ««La qualità dell'aria»», organizzato con la collaborazione dell'Università di Torino. Tema principale: micro e macroinquinanti nell'atmosfera urbana. Per avere ulteriori informazioni: 011 861.38.74.


IN BREVE Lanciati quattro Globalstar
LUOGHI: ITALIA

Altri quattro satelliti Globalstar per il servizio di telefonia cellulare su scala planetaria sono entrati felicemente in orbita il 9 febbraio dalla base spaziale di Baikonur. I satelliti di questo sistema concorrente di ««Iridium»» salgono così a 12. L'entrata in servizio è prevista per la fine di quest'anno. In totale la costellazione satellitare Globalstar comprenderà 48 navicelle, tutte realizzate dall'Alenia Aerospazio.


IN BREVE La dieta della mamma
ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE
LUOGHI: ITALIA

Lo sviluppo del neonato e la sua protezione immunologica dipendono essenzialmente dall'alimentazione. Occorre quindi grande attenzione sia nel periodo della gravidanza, durante il quale l'alimentazione materna condiziona lo sviluppo del feto, sia nel periodo successivo. In un workshop organizzato da Plasmon a Milano si è fatto il punto sulle più recenti acquisizioni nutrizionali in proposito. Fondamentali sono gli apporti di calcio, ferro, acido folico e acido decosa-esa-enoico (DHA). In particolare, l'acido folico è importante per la moltiplicazione cellulare di tutti i tessuti e per il corretto sviluppo del sistema nervoso centrale del feto. Previene infatti eventuali malformazioni del tubo neuronale (spina bifida).


IN BREVE Expoeducation a Bari in aprile
LUOGHI: ITALIA

Durante la Fiera del Levante, dal 15 al 18 aprile, con Tecnorama, il salone delle tecnologie per l'informazione, Bari sarà il punto d'incontro per 200 operatori del settore provenienti da tutto il mondo. In parallelo si terrà Expoeducation 99, una manifestazione cui parteciperanno 160 università del Mediterraneo, un bacino demografico di 200 milioni di persone che saliranno a 300 milioni nel 2020, per tre quarti al di sotto dei 25 anni.


IN BREVE Radiazioni a Mururoa
ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

L'Aiea, agenzia internazionale per l'energia atomica, organismo dell'Onu con sede a Vienna, ha concluso uno studio sulla radioattività nelle isole della Polinesia francese, dove, nel sottosuolo dell'atollo di Muroroa, la Francia ha effettuato i suoi ultimi test di armi nucleari. I risultati indicano che non si è avuto alcun aumento significativo del fondo di radioattività naturale: l'incremento è stato infatti di sette millesimi di millisievert all'anno su un fondo compreso tra 1 e 10 millisievert.


IN BREVE Spazio, spazi e categorie mentali
ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA

Si terrà a Milano, il 18 e 19 marzo 1999, organizzato dalla Fondazione Carlo Erba, la conferenza internazionale ««Space or spaces as paradigms of mental categories»». Tra i partecipanti, gli astronomi Piero Benvenuti e George Coyne, lo scrittore Vincenzo Consolo, il fisico Pasquale Tucci, il compositore Fabio Vacchi, l'architetto Mario Gregotti, il filosofo belga Michel Meyer e il sociologo Ugo Fabietti. L'obiettivo di questa iniziativa è quello di promuovere un più attivo scambio tra cultura scientifica e cultura umanistica. Per ulteriori informazioni telefonare allo 02 7060.2231.




La Stampa Sommario Registrazioni Tornén Maldobrìe Lia I3LGP Scrivi Inizio