TUTTOSCIENZE 13 gennaio 99


Dall'agopuntura all'ipnosi Secondo un recente studio Usa i pazienti che scelgono una delle tante forme di terapie alternative, se ne servono in aggiunta a quelle ufficiali. E in genere si tratta di persone con buon livello d'istruzione
Autore: E_GIA

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, SONDAGGIO
LUOGHI: ITALIA, AMERICA, USA

SBAGLIA chi pensa che il paziente che abbandona in parte o totalmente la via della medicina ufficiale per rivolgersi ad una delle molte forme (rilassamento, meditazione, chiroprassi, massaggio, pranoterapia, ipnosi, agopuntura, omeopatia) della medicina alternativa (cioè nè insegnata dalle facoltà di medicina nè generalmente accessibile negli ospedali) sia una persona poco istruita, di livello socio-economico basso e facilmente in preda a forme superstiziose di fiducia su terapie non convenzionali. Sia in Europa che in Usa si tratta spesso di un individuo della classe media, di ambo i sessi, di età compresa tra i 25 e i 50 e con buon livello d'istruzione. Nel 1993 venne intrapreso in Usa uno studio su tale argomento di vaste proporzioni poi pubblicato nel prestigioso New England Journal of Medicine. I risultati confermavano un profilo del genere per il paziente-tipo e indicavano la cifra di 425 milioni di visite all'anno (1990) a vari centri di medicina alternativa, pari o superiore a quella delle visite ai medici di base. Posti di fronte ad un fenomeno di queste proporzioni ed a un aumento anche da noi (non esistono però studi simili in Europa e in Italia) dell'uso di pratiche alternative di cura e al fatto che molti siano disposti a pagarle di propria borsa possiamo porci la domanda: quali sono i fattori socio-culturali e personali, quali lo stato di salute, le credenze, le attitudini e le motivazioni che possono spingere un individuo verso tale scelta? Tre spiegazioni principali si contendono il campo, la mancata di soddisfazione e la percezione di inefficienza riguardo le terapie convenzionali (scarsi risultati, costo troppo alto, troppa tecnologia, troppo impersonali), un bisogno di maggiore contatto personale col medico e l'accento sulla autonomia personale (meno autoritarismo e migliore comunicazione), maggiore controllo sulle decisioni riguardanti la propria salute ed infine l'attrazione verso una filosofia di vita più compatibile coi valori spirituali e religiosi del paziente (fede nelle proprietà di autoguarigione della natura e particolari credenze circa il significato dello stato di salute come stato uguale e opposto alla malattia). Allo scopo di analizzare la validità di queste ipotesi un gruppo di ricercatori della Facoltà di medicina dell'Università di Stanford in California ha esaminato oltre mille individui di ambo i sessi, di varia età (18-64) e origine etnica diversa selezionati a caso tra la popolazione del centro di San Francisco. I risultati dello studio vengono presentati in un recente numero della rivista dell'associazione americana di medicina Jama. Essi dimostrano che i cultori della medicina alternativa si ritrovano maggiormente tra uno strato della popolazione con grado d'istruzione media più elevata ed in peggiori condizioni di salute. Tale gruppo sembra rivolgersi alla medicina non-convenzionale non tanto per motivi di sfiducia verso quella ufficiale quanto per convinzione personale seguendo una specie di credo di vita. Secondo tali individui, che sono probabilmente numerosi anche nella società italiana, le pratiche alternative risultano essere più consone ai propri valori personali ed al proprio orientamento filosofico circa salute e vita. Lo studio dimostra infine che una condizione di sfiducia verso la medicina ufficiale non predice necessariamente l'uso di quella alternativa. Da notare che tra i mille e più intervistati a San Francisco circa il 40% aveva utilizzato qualche forma di medicina alternativa durante l'ultimo anno, però meno del 5 per cento si fidava e ricorreva esclusivamente a questa forma di cure ma l'usava come supplemento. Pare quindi che la stragrande maggioranza dei " non-convenzionali" non usi esclusivamente tale forma di terapia ma invece se ne serva in aggiunta a forme tradizionali di cura allo scopo di aumentarne l'efficacia. Secondo lo studio americano si tratterebbe di un fenomeno culturale e spirituale e come tale trasmissibile da strato a strato sociale e anche da società a società attraverso i mezzi di informazione. Un difetto dello studio americano è la minore rappresentazione dei ceti socio-economicamente più bassi tra i quali agiscono altre motivazioni quali quella economica (specie in Usa dove manca una assistenza sanitaria nazionale), la mancanza di informazione, particolari credenze e superstizioni etnico- religiose. Studi del genere sono importanti allo scopo di comprendere meglio i motivi di sfiducia e di abbandono da parte di una significante porzione della popolazione della medicina ufficiale e lo sfociare verso fenomeni che in Italia possono assumere proporzioni inquietanti (e costose per la comunità) di abbandono di terapie anche efficaci verso protocolli di cura non giustificati nella loro applicazione ai pazienti e basati in gran parte su una mancante conoscenza medica. (e. gia.)


SCIENZE FISICHE. TELELAVORO E' già nata la City of Bits
Autore: RATTI CARLO

ARGOMENTI: INFORMATICA, COMUNICAZIONI, URBANISTICA, ARCHITETTURA
NOMI: HUTTER SERGIO, MITCHELL WILLIAM, DE CARLO GIANCARLO
ORGANIZZAZIONI: INTERNET
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

QUI una volta era tutta città, signora mia! Forse sarà questa - e non la canonica: "Qui una volta era tutta campagna!" - l'esclamazione di circostanza preferita dalle suocere del terzo millennio. Un'autorevole corrente dell'urbanistica contemporanea sostiene infatti che Internet e le nuove tecnologie dell'informazione metteranno presto in crisi città ed agglomerazioni urbane. Una tesi cara per esempio a Sergio Hutter che su Tuttoscienze del 16 dicembre si domandava: "Ma i grattacieli (e le metropoli) servono ancora?". Il tema è stato sviluppato di recente da William Mitchell, Direttore del Dipartimento di Architettura del MIT, in un saggio dal titolo allusivo "City of bits" . Il cui doppio senso in inglese si potrebbe rendere in italiano sia con "Città di bit" (cifre binarie) sia con "Città sminuzzate". Le argomentazioni sono estremamente semplici. Mitchell fa notare che con Internet "le concentrazioni centralizzate di attività vengono sostituite da un gran numero di unità disperse". Rendendo di fatto inutili le strutture urbane tradizionali. Prendiamo un esempio qualsiasi: il monumentale grattacielo del Chicago Tribune, costruito nel 1924. Questo massiccio edificio dall'aspetto neogotico rifletteva nella forma fisica e nell'organizzazione interna il sistema di produzione di un grande quotidiano americano d'inizio secolo. Nel grattacielo, che ospitava la poderosa redazione, entravano le notizie. Dal grattacielo, che conteneva il centro di stampa, uscivano i camion carichi di copie del giornale. I giornalisti dovevano essere "sul posto di lavoro" tutti i giorni - e spesso, per coprire la cronaca, giorno e notte. Oggi non è più così. Molti giornalisti lavorano da casa. Le sedi monumentali dei giornali hanno lasciato il posto a redazioni leggere, spesso distanti centinaia di chilometri e collegate tra loro da cavi e fibre ottiche: la Infobahn, l'autostrada dell'informazione. L'articolo che avete sotto mano, per esempio, è stato scritto in un'uggiosa cittadina inglese. Quindi è stato trasmesso via Internet alla redazione torinese di Tuttoscienze. Infine, dopo la messa in pagina, è stato inviato ad uno dei vari centri di stampa del giornale sparsi per l'Italia, e infine è tornato su Internet nel sito del giornale...In Internet centro e periferia non esistono. La vicinanza fisica non conta. Nello spazio amorfo della rete interessa soltanto la capacità di ricevere e trasmettere informazione: bit. In architettura si possono quindi immaginare nuovi modelli insediativi. Magari recuperando strutture urbane del passato. Un esperimento affascinante, ripreso dall'Architectural Review, si sta svolgendo sull'Appennino ligure. Colletta di Castelbianco, un antico borgo di origine medioevale, era stato abbandonato nell'Ottocento perché isolato dalle principali vie di trasporto e di comunicazione. L'anno prossimo, grazie a un sapiente intervento di restauro che prevede l'uso estensivo delle nuove tecnologie informatiche, sarà di nuovo abitato in forma quasi-permanente. "I residenti - spiega il progettista Giancarlo De Carlo - non saranno turisti. Ma famiglie e individui che, grazie alle possibilità offerte da Internet e dal telelavoro, potranno trascorrere in paese lunghi periodi di tempo". Come dire: dal villaggio globale al villaggio reale. Carlo Ratti Cambridge University


SCIENZE FISICHE. MONTATO SULL'AIR FORCE ONE Il radar di Clinton Un sistema tutto italiano
Autore: LO CAMPO ANTONIO

ARGOMENTI: INDUSTRIA
NOMI: PENAZZI CARLO ALBERTO, QUATTROCCHI LEONARDO
ORGANIZZAZIONI: ALENIA MARCONI SYSTEMS
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, ROMA

RICORDATE il film "Air Force One"? Fu un discreto successo cinematografico e una ricostruzione hollywoodiana sul celebre aereo del Presidente Usa. Questo Jumbo 747 modificato dell'Air Force è riconosciuto per il fatto che deve volare con un grado di sicurezza e controllo non paragonabili con qualsiasi altro velivolo al mondo. Ma forse pochi sanno che l'"Air Force One" vola e viene tenuto sotto controllo grazie a radar progettati e costruiti in Italia, dalla Divisione Sistemi Terrestri dell'Alenia-Marconi Systems. La sua sigla è AN/TPS- 73, ed è un sistema radar facilmente trasportabile, compatto e ad elevata affidabilità, che gli Stati Uniti hanno acquistato dall'Alenia-Marconi per i Marines, nonché per controllare lo spazio aereo durante i voli dell'aereo presidenziale. Questa è un'ulteriore conferma dei passi da gigante fatti dalla nostra tecnologia e le capacità acquisite in questi ultimi anni, che vanno dal settore spaziale a quello aeronautico, e in quelli più specifici, come ad esempio nei radar. "Il radar dell'Air Force One - spiega Carlo Alberto Penazzi, responsabile della Divisione Sistemi Terrestri dell'Alenia- Marconi - è di tipo bidimensionale, noto anche come a fascio largo. Ha la caratteristica di individuare la posizione del velivolo o dell'oggetto, e la propria distanza. In pratica rileva l'oggetto in quota su due coordinate, la direzione e la distanza. In questo settore siamo una delle poche aziende non americane a vendere radar agli Stati Uniti, considerando che i Marines esigono prestazioni eccezionali, totale assenza di guasti e capacità operative in ogni condizione ambientale". Quelli che spiccano sopra i tetti degli edifici di quella che viene anche chiamata "Tiburtina Valley", area tecnologica nei pressi di Roma dove sono gli stabilimenti Alenia, sono oggetti che a prima vista sembrano semplici radar con la loro antenna planare o a forma di conca in movimento rotatorio o ondulatorio. Ma all'interno di essi c'è un raggruppamento di tecnologia avanzata, con centinaia di metri di cavi, monitor, sistemi di aerazione e parti meccaniche in movimento. "Attualmente siamo tra i primi al mondo - sottolinea il responsabile marketing Leonardo Quattrocchi - assieme ad aziende come Lockheed Martin, Westinghouse, Siemens e Hughes. Siamo presenti in 80 Paesi nel mondo con 2200 tipi diversi di radar, da quelli militari terrestri a quelli navali e per sistemi d'arma. I radar italiani sono un po' dappertutto, su aerei, navi, a terra e persino sui satelliti in orbita". Il radar ha la funzione principale di localizzare oggetti d'interesse all'interno di una zona molto estesa, per fornire dati completi dello scenario e dell'ambiente da controllare. Trasmette onde elettromagnetiche verso un oggetto, ad esempio un aereo in quota, e riceve le onde che vengono, di riflesso, rinviate verso di esso. Questi echi vengono poi eleborati dal computer e presentati ad un operatore o ulteriormente elaborati. " Realizziamo anche i radar tridimensionali - precisa Penazzi - che rilevano l'oggetto su tre coordinate: direzione, distanza, e quota. In questa categoria siamo i primi fornitori per la Nato, e siamo stati i primi al mondo a realizzare radar in 3D, come il Rat 31. Poi ci sono i radar per il controllo del traffico civile, che sono importantissimi per la sicurezza dei voli". "Per uso civile - aggiunge Quattrocchi - abbiamo fornito 250 sistemi di controllo del traffico aereo, quasi mille tra radar primari e secondari AtC, duemila stazioni operative di presentazione dati e 50 sistemi aeroportuali". E la differenza tra radar primari e secondari? "Il radar primario è quello conosciuto come il più completo. Dispone di un dispositivo che localizza oggetti o aeromobili che non possiedono alcuno strumento di localizzazione e rilevazione. E' una macchina che può autogestirsi, e che opera in condizioni di ogni-tempo, poiché la sorgente dell'energia è autonoma e il ricevitore autocontenuto. Il radar secondario invece necessita della collaborazione degli strumenti di bordo degli oggetti da controllare. Ha dei rinforzatori di eco che possono allargare l'uso, oltre che alla rilevazione, al dialogo che l'oggetto o il velivolo ha con le stazioni di terra, e spesso viene integrato con i radar primari". E' corretto paragonare i radar a tecnologia sempre più sofisticata, all'occhio umano? "Direi di sì - dice ancora Penazzi - L'occhio ha il nervo ottico, il cervello e capacità di elaborazione che è fondamentale nel processo di acquisizione di informazioni e dati. Il radar segue lo stesso procedimento". Antonio Lo Campo


SCIENZE DELLA VITA. CONTRO I TUMORI L'arma vincente è la survivina?
Autore: FRONTE MARGHERITA

ARGOMENTI: BIOLOGIA
NOMI: MARCHISIO PIER CARLO, ALTIERI DARIO
ORGANIZZAZIONI: NATURE
LUOGHI: ITALIA

LA più potente arma di difesa dei tumori si chiama survivina, una proteina espressa nelle cellule che proliferano e che, in condizioni normali, fa le veci di chi nelle catene di montaggio si occupa del controllo della qualità. Se il prodotto non rispetta gli standard, la survivina permette che si inneschi un processo di autodistruzione, un vero e proprio suicidio cellulare che i biologi chiamano apoptosi e che impedisce all'elemento anomalo di propagarsi. Nei tumori però il controllo si inceppa; le cellule aberranti superano indenni il check-point e continuano a moltiplicarsi come se fossero perfettamente sane. Il singolare meccanismo è stato scoperto da due gruppi di ricercatori guidati da Pier Carlo Marchisio, del Dibit San Raffaele di Milano, e da Dario Altieri, dell'Università di Yale, negli Stati Uniti. Nata un po' per caso e un po' per amicizia, la collaborazione ha portato a un risultato che ha meritato la copertina di Nature, una delle più importanti riviste scientifiche al mondo. Per studiare la survivina gli scienziati si sono serviti di cellule tumorali coltivate in vitro e hanno analizzato l'espressione della proteina in diverse fasi del ciclo cellulare. Praticamente assente nei primi stadi, la molecola raggiunge la massima concentrazione quando la cellula sta per dividersi, ed è proprio in questo momento che i biologi sono riusciti a fotografarla aggrappata alle fibre del fuso mitotico, la struttura che ha il compito di indirizzare i movimenti dei cromosomi in modo che, quando la divisione è completa, questi siano distribuiti equamente fra le due cellule figlie. Non è quindi un caso che la survivina sia espressa maggiormente nei tessuti che si stanno formando, come per esempio quelli embrionali, in cui le cellule si moltiplicano più velocemente. In questo caso infatti il controllo di qualità diventa più critico e l'apoptosi elimina gli elementi anomali permettendo il corretto sviluppo degli organi. Se i cromosomi sono integri la survivina fa da sentinella e tiene lontane le caspasi, che distruggono il fuso e innescano il suicidio cellulare. Se però ci sono dei danni la proteina si distacca e permette alla caspasi 3 di esercitare la sua azione distruttrice. La chiave del corretto funzionamento di questo meccanismo risiede nella quantità di survivina sintetizzata dalla cellula. Infatti, affinché si mantenga il giusto equilibrio in grado di far funzionare il controllo di qualità sui cromosomi, il melius abundare non è una buona regola. Così, mentre le cellule embrionali hanno la giusta concentrazione di survivina, quelle tumorali ne sintetizzano troppa. In questo modo, il giubbotto antiproiettile che la proteina forma attorno alle fibre del fuso mitotico diventa così impenetrabile che il controllo della qualità è inefficace. Anche se a detta degli scienziati è presto per pensare a un farmaco in grado di ripristinare il corretto funzionamento della survivina nelle cellule cancerogene, la scoperta indica un nuovo potenziale bersaglio per le future terapie. Comunque, prima di arrivare a sfruttare il meccanismo per una cura, la presenza di survivina potrà essere impiegata come elemento diagnostico in grado di indicare ai medici se ci si trova di fronte a un tumore maligno. Ma anche altri settori della medicina potrebbero trarre vantaggio dal lavoro degli italiani. L'apoptosi infatti è responsabile della morte delle cellule nervose nelle malattie neurodegenerative, come per esempio il morbo di Alzheimer, ed è implicata nel deterioramento del tessuto che circonda la zona in cui si è verificato un ictus o un infarto miocardico. Al contrario di quanto avverrebbe per i tumori, in questo caso una terapia efficace dovrebbe cercare di limitare i danni della malattia bloccando il suicidio cellulare. Questo potrebbe essere ottenuto, per esempio, stimolando le cellule a produrre più survivina. Margherita Fronte


SCIENZA A SCUOLA. PALEO-OROLOGI La meridiana che funziona ad acqua
Autore: FERRERI WALTER

ARGOMENTI: METROLOGIA
NOMI: SAVOCA EDUARDO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO, (TO)

OGGI che il tempo è scandito da orologi ad altissima precisione, sentire parlare di meridiane o orologi solari può apparire anacronistico. E, in effetti, lo è sotto l'aspetto dell'informazione dell'ora e del fatto che queste soluzioni funzionano solo in presenza del Sole. Ma un orologio solare non si limita ad indicare il tempo; permette pure di rendersi conto di come esso venga misurato in relazione al moto apparente del Sole. Inoltre, col trascorrere dei secoli, esso si è arricchito di un'enorme varietà di versioni, tra le quali questa - davvero originale - che ora adorna il municipio di Settimo Torinese. Progettato da Eduardo Savoca, l'orologio solare di Settimo è ad acqua; cioè l'ora è indicata dall'ombra di uno zampillo che mantiene una buona precisione anche in presenza di un vento moderato. La precisione raggiungibile è nell'ordine dei 3-4 minuti. L'ombra viene proiettata su una fascia d'acciaio nella quale sono indicate le ore. Questa fascia può essere spostata per far coincidere l'ora solare vera con quella civile (che, per motivi pratici, si discosta un po' da quella solare vera); inoltre la successione delle cifre è alterabile di un'ora intera per tener conto dell'orario legale estivo. E' una soluzione molto rara; l'unico caso del genere in Italia secondo il suo progettista. Quasi sempre queste meridiane, dette equatoriali, funzionano grazie a una barra metallica (stilo), come quella presente a Torino in zona Barca. L'amministrazione comunale di Settimo merita un plauso per la lungimiranza dimostrata nell'accettare la proposta del progettista. Uno dei pochi casi in cui una scelta culturale ha avuto il sopravvento. Le dimensioni sono tali da rendere l'opera ben fruibile anche da una certa distanza; ad esempio la fascia equatoriale è su una circonferenza da 2,3 metri di diametro e le cifre sono a grandi caratteri. L'ombra dovuta al getto è abbastanza visibile, ma lo sarebbe ancor di più se, come suggerito dall'ideatore, in luogo dell'acqua vi fosse un liquido colorato, considerando che, tramite una pompa, si ha il ricircolo dell'acqua. Una certa ricerca estetica ha consigliato di realizzare per la fontana una vasca esagonale su struttura portante rivestita in pietra di Luserna fuocata; lo stesso materiale utilizzato per le lastre di rivestimento della base del palazzo municipale. Quasi tutte le meridiane sono impreziosite da motti latini e questa non fa eccezione. Nel tabellone a lato, oltre ad altre indicazioni, tra le quali l'evoluzione degli strumenti connessi alla misurazione del tempo, troviamo la scritta "Aspiciendo senescis", cioè "Mentre mi guardi invecchi". Eduardo Savoca ha anche pensato a un orologio solare didattico e alla portata di tutti. Per costruirla serve una comune bottiglia di materiale plastico trasparente. Sulla sua parete si fa aderire un foglio opportunamente disegnato, mentre all'interno (inserito al centro) trova spazio un filo che ha il compito di proiettare l'ombra su una delle linee che recano indicate le ore. Il filo (stilo) dev'essere teso dal centro del tappo al centro del fondo e orientato parallelamente all'asse terrestre. Per l'adattamento all'ora estiva e alle variazioni legate all'ora civile, basta ruotare la bottiglia: più facile di così! Walter Ferreri


SCIENZE DELLA VITA. STORIA La paura dell'uomo artificiale
Autore: CENTINI MASSIMO

ARGOMENTI: BIOETICA
NOMI: PARACELSO, DESCARTES
LUOGHI: ITALIA

I traguardi raggiunti dalle biotecnologie, dalla genetica e dalla chirurgia hanno aperto una finestra su ataviche paure mai sopite nei confronti del cosiddetto "morbo di Frankenstein": molti si domandano a che cosa porteranno la possibilità di stabilire a priori il sesso del nascituro, ovuli di una certa donna impiantati in un'altra o sempre più sofisticate possibilità di trapianto. Da sempre l'uomo ha cercato di "costruire" un proprio simile, spesso attraverso un iter in cui le prerogative della scienza si mescolano con le illusioni del mito. Una prima testimonianza oggettiva in questo senso ci giunge da Filippo Bombast di Hohenheim, in arte Paracelso (1493- 1541), il filosofo-medico svizzero che tra le sue tante idee innovative ipotizzò la creazione dell'Homunculus. Per la realizzazione della creatura, Paracelso proponeva di lasciare a " putrificare" del seme maschile in un ventre equino e quindi seguirne la maturazione con tutte le cure del caso. Fino a quando "ne nascerà un vero e vivo fanciullo umano provvisto di tutte le membra come un qualsiasi neonato generato da donna". Casi precedenti, se pur condotti con altri mezzi, ci riportano, per esempio, a Pigmalione, Prometeo e altri la cui opera però si concretizza nella mitologia tout court, destinata a suscitare l'invidia degli dei e la loro punizione. Ma anche la finzione letteraria può dirci molte cose sull'atteggiamento mentale antropocentrico nei confronti dell'essere creato. L'uomo artificiale moderno, ha il suo incipit con Der Sandmann di Hoffmann e il Frankenstein della Shelley, e a differenza dei casi del passato non è il prodotto della magia, ma bensì il risultato dell'unione tra l'approccio biologico (Shelley) e quello meccanico (Hoffmann). Dal XVI al XVIII secolo, la scienza ufficiale media alcuni fondamentali contributi per trovare un'applicazione alla "costruzione" dell'uomo, dalla sofisticata tecnica che allora contrassegnava gli automi, macchine antropomorfe che cercavano di imitare l'uomo nelle sue più disparate attività. La medicina dell'epoca, che vedeva accrescere giorno dopo giorno le proprie conoscenze anatomiche, immaginò di avvalersi della meccanica degli automi per la realizzazione e l'applicazione di protesi. La grande richiesta di arti artificiali giungeva dal mondo militare: infatti in quell'epoca era elevatissimo il numero dei soldati che avevano perso braccia e gambe sui campi di battaglia. Alcuni chirurghi elaborarono complicate strutture meccaniche per sostituire gli arti perduti, ma per tutto il XVIII secolo la tecnologia delle protesi non andò oltre il livello teorico e sperimentale. Per Descartes (1596-1650) tra i "diversi corpi che compone la natura", gli animali, non sono altro che delle macchine, quindi, in linea di principio, diviene possibile "costruire" gli animali, purché si giunga ad un indispensabile livello di miniaturizzazione. Nella visione fortemente antropocentrica, la differenza sostanziale stava nelle dimensioni, mentre parevano assolutamente ignorabili gli aspetti di altro ordine e grado. Ancora una volta l'uomo si elevava oltre i limiti del suo stato, certo di possedere gli strumenti, maturati sull'osservazione, per giungere a realizzare un nuovo Golem. Un paio di anni fa le agenzie di tutto il mondo inviarono la notizia del trapianto di teste effettuato sulle scimmie da un neurochirurgo inglese. La notizia fu ripresa, in qualche caso con eccessiva enfasi, dai mass media, che alimentarono un acceso dibattito intorno alla questione. Lo scienziato che aveva condotto l'esperimento non era riuscito a far sopravvivere gli animali oltre una settimana, non potendo riattaccare le terminazioni nervose nel midollo spinale: in questo modo i corpi delle scimmie, tutti macachi, sono rimasti paralizzati, anche se in grado di far affluire sangue nella loro nuova testa. Gli animali, che erano coscienti, hanno mantenuto per qualche tempo un normale ciclo di veglia e di sonno, hanno mangiato e bevuto, seguito con gli occhi i movimenti degli scienziati presenti in laboratorio e reagito alle loro voci, fino a quando sono morti. Massimo Centini


OMEOPATIA sotto accusa La condanna scientifica da due studi americani ed europei
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: CHIMICA, RICERCA SCIENTIFICA, STATISTICHE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

NEI Paesi sviluppati dal 30 al 70 per cento dei pazienti si rivolge alla medicina "alternativa" come mezzo primario di cura o come complemento a terapie riconosciute. Nel mondo il giro di affari " alternativo" è dell'ordine di molte decine di miliardi di dollari all'anno, ed è in crescita. Si è constatato come - paradossalmente - pazienti che si oppongono a un aumento anche modesto del ticket sulle medicine per le quali esiste chiara prova di efficacia clinica siano disposti a sostenere il costo personale anche elevato di sostanze per le quali non esiste evidenza alcuna di un effetto clinico. L'omeopatia è una delle forme più popolari di medicina non convenzionale. Due sono i principi teorici su cui essa si fonda; il primo è quello che dice che una sostanza è attiva se produce gli stessi segni e sintomi in un individuo sano di quelli causati dal disturbo del quale è affetto il paziente. Il secondo è che una sostanza abbia una attività biologica anche se diluita ripetutamente nella sua concentrazione a patto che la soluzione venga agitata ad ogni diluizione. Tale soluzione manterrebbe il proprio effetto perfino quando il grado di diluizione arrivi anche mille volte al di sotto del numero critico di molecole possibile in una soluzione (uno seguito da 23 zeri!). Questo numero fu determinato un secolo fa dal chimico torinese Avogadro e dice che effettivamente non rimangono più molecole della sostanza già presente nella soluzione di partenza. Secondo l'omeopatia la soluzione avrebbe una "memoria" e ricorderebbe "l'effetto biologico della sostanza originale". Entrambe le affermazioni non hanno alcuna giustificazione scientifica nè sperimentale e non sono mai stati presentati dati scientifici a loro sostegno. Al contrario esse violano le leggi fondamentali della chimica e della farmacologia (effetto dose- risposta). Gli effetti clinici dell'omeopatia accertati su una certa percentuale di individui (20- 30 per cento) sono effettivamente "reali" e possono essere riprodotti e spiegati mediante l'effetto placebo. Il 20-30 per cento degli individui di una certa popolazione di pazienti reagisce positivamente (ad esempio all'effetto analgesico di una pillola di zucchero sul mal di testa) e per un tempo limitato (anche di settimane) a delle dosi di farmaci insufficienti a produrre un qualsiasi effetto (misurabile al di sopra del placebo) o addirittura alla somministrazione di sostanze del tutto inefficaci che abbiano le stesse caratteristiche di gusto, colore, odore della sostanza attiva. L'effetto placebo cambia per popolazioni e culture diverse (l'effetto placebo degli italiani per certi farmaci non è eguale a quello degli americani) ed è stato spiegato esaurientemente su basi biologiche dalla neuropsicologia sperimentale non solo nell'uomo ma perfino negli animali. Nell'intento di conoscere se l'effetto dell'omeopatia sia simile o addirittura si identifichi con quello del placebo, un gruppo di cinque centri americani ed europei della Facoltà di Medicina dell'università di Monaco di Baviera (dipartimento di chirurgia), del dipartimento di Salute Pubblica dello Stato del Texas, del dipartimento di Educazione dell'università di Chicago e dell'ufficio di medicina alternativa dell'istituto nazionale di Sanità (Nih) degli Stati Uniti hanno intrapreso uno studio di analisi statistica critica e retrospettiva (detto di metanalisi) di ben 186 pubblicazioni in ogni lingua su dati clinici nel campo dell'omeopatia. Di questi solo 89 riportavano dati paragonabili tra di loro (scelta a caso dei pazienti e controllo doppio-cieco) e adeguati per lo studio di metanalisi. L'omeopatia rappresenta un eccellente caso per analizzare l'effetto della medicina alternativa in quanto si può paragonare usando norme riconosciute valide dalla medicina internazionale una sostanza ritenuta omeopaticamente attiva a "infinite" diluizioni con una riconosciuta inattiva (acqua fresca o pillola di zucchero). Potrebbe in un certo senso trattarsi di una gara di probabilità statistica tra gli effetti di due "sostanze placebo". I risultati dello studio, il maggiore che sia stato mai intrapreso per numero di casi e per tipi diversi di applicazioni terapeutiche (oltre cinquanta comprendenti gastriti, asma, dermatiti, emicrania, disturbi post-menopausa, nevralgie, coliti, artriti, parto) sono stati riportati qualche mese fa nella più nota rivista inglese di medicina, Lancet, e commentati ampiamente dalla stampa medica internazionale. Gli autori concludono che i risultati hanno pochissime applicazioni nel campo medico generale in quanto dimostrano pochissima evidenza che qualsiasi tipo di approccio della medicina omeopatica sia efficace per qualsiasi tipo di disturbo clinico studiato finora. I risultati pongono tuttavia il dubbio sul fatto che gli effetti dell'omeopatia si possano spiegare totalmente come un effetto placebo classico. Una analisi più accurata del problema (auspicata dagli autori) implicherebbe un nuovo studio nel quale vengano considerate anche le specifiche caratteristiche delle popolazioni di pazienti utilizzate (alcune più sensibili che altre alla suggestione forse per un atteggiamento particolarmente positivo già all'inizio della cura), l'affidabilità delle diagnosi riportate dagli studi omeopatici pubblicati, le modalità di applicazione delle terapie omeopatiche (standard usati e modelli), le percentuali e le valutazioni delle risposte cliniche (come siano state misurate). Il costo della nuova ricerca (che verrà forse intrapresa dalla Nih negli Stati Uniti) parrebbe giustificata dalla altissima probabilità che alla fine si possa concludere che la strategia omeopatica non sia di alcun giovamento terapeutico in nessuna malattia. Ci chiediamo se la società, in vista delle crescenti spese della medicina e dei farmaci e anche dei tagli proposti alle spese, possa permettersi di ignorare ulteriormente questo problema e continuare a investire preziose risorse economiche sia individuali sia collettive in modo ingiustificato. Un altro vantaggio di uno studio del genere, come sottolineato dagli stessi autori dell'articolo in Lancet, è lo sviluppo di un modello utilizzabile per la valutazione di altri campi della medicina alternativa e specialmente per delimitare le indicazioni terapeutiche dell'agopuntura, dei rischi tossicologici dell'erboristeria. Ezio Giacobini


SCIENZE DELLA VITA. L'IPPOPOTAMO Pacifico ma infanticida Come molte specie, talvolta uccide i piccoli
Autore: MAZZOTTO MONICA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA
NOMI: LEWINSON REBECCA
LUOGHI: ITALIA

NELLA società umana l'infanticidio è un crimine di inaudita crudeltà. E quando avviene, pensiamo di essere l'unica specie del regno animale capace di simili azioni. Analizzando invece la lunga lista di specie in cui l'infanticidio è una strategia di sopravvivenza, si scopre che esiste almeno una specie infanticida in ogni classe. Quest'elenco recentemente si è ulteriormente allungato grazie alla scoperta di una ricercatrice dell'Università della California, Rebecca Lewison: i suoi studi condotti nei parchi africani della Tanzania hanno mostrato come anche tra gli ippopotami (Hippopotamus amphibius) esistono casi di infanticidio. E' interessante capire le motivazioni che spingono il nostro pacifico erbivoro, a compiere questa violenza. La Lewison analizza le quattro categorie in cui si è soliti dividere i casi di infanticidio in natura, e poi ad esclusione come in tutti i film gialli che si rispettino avendo il colpevole, l'arma ed il cadavere, trova il movente, o almeno suggerisce un'affascinante ipotesi. La prima spiegazione potrebbe essere quella dell'utilizzo del piccolo come risorsa. L'infanticida in questo caso, dopo aver ucciso il piccolo, se ne ciba. Questo comportamento lo troviamo per esempio negli imenotteri sociali: le formiche normalmente si cibano delle uova o delle larve danneggiate, e se affamate attaccano anche quelle sane. Questa spiegazione non può però andare bene per il nostro amico ippopotamo. Lui il piccolo ucciso non lo assaggia nemmeno, è un erbivoro convinto, e abbandona i piccoli corpi senza vita completamente intatti. La seconda ipotesi è quella della manipolazione della progenie da parte dei genitori. In questo caso l'infanticida è uno dei genitori, spesso il più impegnato nelle cure parentali, che in questo modo, sembra strano a dirsi, aumenta le possibilità di tramandare i propri geni. In certi casi una bocca in meno da sfamare può voler dire la sopravvivenza della madre o di parte della cucciolata. Così avviene nella cicogna della Florida (Mycteria americana): che, se il clima è inclemente e non consente una caccia fruttuosa, aumenta le proprie possibilità di sopravvivenza uccidendo i propri piccoli. O ancora nel grizzly (Ursus arctos horribilis): se la femmina di questo imponente orso partorisce un solo piccolo, lo abbandona subito sperando di riaccoppiarsi il prima possibile. Questo comportamento è probabilmente dovuto al fatto che è troppo costoso per mamma orso investire tre anni della sua vita (tale è il periodo di svezzamento) per un solo piccolo, meglio sperare in una nuova cucciolata di almeno due individui. Ma torniamo al nostro ippopotamo; per lui questa spiegazione non è plausibile. Infatti la femmina di questa specie può accoppiarsi solo ogni due anni, perciò in una vita normale di un individuo la possibilità di riprodursi è ridotta ad una decina, o poco più, di volte. In questo caso uccidere un proprio piccolo diminuirebbe la potenzialità riproduttiva della femmina. Inoltre particolare non trascurabile, anzi di importanza fondamentale, tra gli ippopotami gli infanticidi sono i maschi, e di loro si può dire tutto tranne che siano dei padri amorevoli e che sacrifichino del tempo per i propri piccoli. La terza possibile spiegazione è quella della competizione delle risorse. L'individuo, spesso la femmina, che pratica l'infanticidio trae un netto beneficio per se stesso e per i suoi figli eliminando loro eventuali competitori, nello sfruttamento di particolari risorse (cibo, territorio, possibilità di riprodursi). Accade spesso nei canidi come per esempio nel lupo (Canis lu pus). Per dare ai propri piccoli quantità maggiori di cibo, le femmine dominanti non si fanno scrupolo di uccidere i cuccioli delle femmine subordinate. Neanche questa spiegazione è però adattabile al nostro caso. Gli ippopotami possono competere tra loro per la disponibilità dell'acqua o del cibo, ma mai in maniera così vitale. Inoltre, essendo le femmine addette alle cure parentali, dovrebbero essere loro a preoccuparsi dell'avvenire dei figli. Ma come abbiamo già detto sono i maschi i colpevoli. L'ultima spiegazione plausibile è quella basata sulla selezione sessuale. In questo caso si spiega l'infanticidio come una strategia competitiva adottata da un maschio che aumenta le proprie possibilità di accoppiarsi con una femmina uccidendole il piccolo chiaramente avuto da un altro maschio. Questo tipo di infanticidio è assai comune tra i mammiferi. Lo si può osservare, per esempio nella marmotta alpina (Marmo ta marmota), nel cervo nobile (Cervus elaphus), nel topolino delle case (Mus domesticus e Mus musculus), in svariate scimmie, compreso il simpatico scimpanzè (Pan troglodytes) e l'imponente gorilla (Gorilla go rilla), ma forse uno dei casi più noti e studiati è quello dei leoni (Panthera leo) del Parco del Serengeti in Tanzania. Il leone maschio quando riesce a spodestare un altro maschio dominante dal suo harem di femmine, la prima cosa che fa è quella di uccidere i giovani presenti. In questo modo le femmine, senza più piccoli da allattare, rientreranno velocemente in estro e per il nuovo maschio la loro conquista sarà un gioco da ragazzi. Questa volta siamo sulla strada giusta. Anche l'ippopotamo è poliginico e territoriale, ossia un maschio dominante difende una zona in cui vivono più femmine e alcuni maschi subordinati. I dati in possesso della ricercatrice americana mostrano come effettivamente questa sia l'ipotesi più convincente. Il calcolo del tempo che un maschio che adotti questa strategia risparmia rispetto ad uno che invece aspetti fiducioso che la femmina finisca l'allattamento è considerevole: otto mesi. Per noi possono sembrare pochi, ma per la vita nella savana di un impaziente e focoso ippopotamo possono essere tanti, troppi. Altro che testimonial pubblicitario di pannolini per neonati, il nostro "Pippo" sarebbe il perfetto protagonista di un film a fosche tinte! Monica Mazzotto


SCIENZE FISICHE. UN'ANTENNA VIRTUALE Per evitare i cavi aerei
Autore: BERNARDI MARIO

ARGOMENTI: INDUSTRIA, ELICOTTERI
ORGANIZZAZIONI: DASA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, GERMANIA

TRE settembre 1998: un elicottero in avvicinamento all'aeroporto di Padova in condizioni di scarsa visibilità si trova improvvisamente a ridosso di un fascio di cavi dell'alta tensione. Nella improvvisa e brusca manovra di scampo, la macchina va fuori controllo, precipita e un pilota e due passeggeri rimangono feriti. Il caso riporta alla ribalta un problema che da sempre affligge le operazioni elicotteristiche a bassa quota: molti gravi incidenti verificatisi negli ultimi tempi si devono a impatti con ostacoli a sagoma ridotta e in particolare con cavi di elettrodotti e filovie. A questo proposito è importante il fatto che la Dasa (la Divisione aeronautica della Daimler-Benz) sta sperimentando un radar che consente l'avvistamento di questi insidiosi ostacoli da una distanza di sicurezza. Per raggiungere lo scopo occorre un radar ad alta risoluzione, vale a dire un apparato in grado di identificare separatamente punti che si presentano all'osservatore sotto un angolo piccolissimo, e nella fattispecie dei cavi, minore di due decimi di grado. Essendo la risoluzione dei radar ad antenna parabolica inversamente proporzionale alle dimensioni dell'antenna, il grado di risoluzione richiesto per identificare i cavi comporterebbe antenne di diametro e peso incompatibili con l'installazione su un elicottero. Per risolvere il problema la Dasa sta adattando all'elicottero una tecnica particolare in uso per i rilevamenti radar del terreno da aerei e satelliti. E' identificata dall'acronimo Sar - Synthetic Aperture Radar (Radar ad apertura sintetica) - e sfrutta la velocità di avanzamento del mezzo per realizzare una antenna "virtuale" di lunghezza efficace superiore a quella dell'antenna "reale" fissata sulla fiancata dell'aereo o del satellite. In questa applicazione l'antenna reale è una antenna lineare, formata da elementi in serie che emettono in rapidissima sequenza segnali ricevendone gli echi riflessi da bersagli situati lateralmente alla traiettoria di volo. Gli echi dei segnali emessi nel tempuscolo di una scansione (irradiazione in serie dai singoli elementi mentre l'aereo si sposta) vengono elaborati e compressi in un'unica risposta di intensità pari alla somma vettoriale del contributo dei singoli elementi. La distanza percorsa dall'antenna reale nel tempo di scansione esprime la lunghezza "virtuale" dell'antenna radar "ad apertura sintetica" ed è multipla della lunghezza dell'antenna reale con corrispondente aumento del potere di risoluzione. In pratica, di un particolare, visto sotto un piccolissimo angolo, è possibile registrare un migliaio di singole immagini e quindi elaborarle per ricavarne una immagine ad alta risoluzione. Un risultato analogo a quello ottenuto in fotografia usando un obiettivo a piccolissima apertura con un lungo tempo di esposizione. Resta tuttavia il fatto che l'alto grado di risoluzione ottenibile con la tecnica Sar può essere utilizzato solo per vedere oggetti posti di fianco alla traiettoria di volo. Per vedere nella direzione del moto dell'elicottero la Dasa trasferisce la funzione dell'antenna lineare ad un sistema di antenne rotanti interposte tra le pale del rotore. Nel Rosar (l'acronimo identifica la versione rotante del Sar), quattro barre di un metro e mezzo di lunghezza, sistemate tra ciascuna coppia di pale sopra il rotore principale, portano alle estremità dei lobi contenenti delle barrette di ricetrasmissione con funzione analoga a quella degli elementi in serie dell'antenna lineare del Sar. La velocità tangenziale dei lobi d'estremità, per la breve durata in cui si muovono su un arco di circonferenza trasversale alla traiettoria, realizza l'apertura sintetica che, nel caso dell'aereo o del satellite, deriva dalla velocità lungo la linea di volo. Il Rosar consente di individuare un cavo di un centimetro di diametro dalla distanza di due chilometri ed anche in caso di nebbia, neve o pioggia battente dalla distanza di almeno 1300 metri: anche in questo caso, alla velocità dell'elicottero di circa 200 km/ora, ai piloti resta ancora una ventina di secondi per impostare con calma un'azione di scampo. Il successo della ricerca della Dasa poggia sulla disponibilità di calcolatori di altissime prestazioni in grado di effettuare 14 miliardi di operazioni al secondo con elaborazioni che presentano sullo schermo posto davanti ai piloti immagini che differenziano con particolari colori ostacoli di specifica pericolosità quantificandone l'effettiva distanza. Lo sviluppo del Rosar assume particolare importanza oggi che l'impiego dell'elicottero va rapidamente estendendosi agli interventi sanitari d'urgenza. Le missioni di questo tipo, basate sulla tempestività di azione su terreni sconosciuti e spesso assai difficili, con ogni tempo ed a qualsiasi condizione di visibilità, potranno venire rese meno pericolose dall'adozione di questo tipo di radar. Mario Bernardi


SCIENZE DELLA VITA. ZONE A RISCHIO Praterie salmastre e dune costiere In Italia vegetazione alterata e danneggiata
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA, ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

L'ITALIA ha un ricco patrimonio naturalistico poco conosciuto, poco valorizzato e sicuramente poco tutelato. Occorre non soltanto salvaguardare le specie vegetali a rischio di scomparsa, ma anche riconoscere l'habitat che dà luogo a quel particolare tipo di vegetazione. Infatti le specie maggiormente a rischio sono quelle che vegetano negli ambienti più alterati; tra questi vi sono le spiagge sabbiose, che in conseguenza delle installazioni balneari e di inconsulte opere di pulizia vedono asportate assieme ai rifiuti anche le piante, e le aree con acque stagnanti (si è passati da 3 milioni di ettari paludosi a 1 milione nel 1800 a soli 250.000 dei giorni nostri). A questo riguardo sono preziose la Riserva di Castellaro Lagusello e la palude di Busatello (entrambe in Lombardia), il Lago di Ventina (Lazio) e quello di Pantano (Basilicata). L'Italia ha uno sviluppo costiero pari a 7500 Km, ma su ben 3000 km esistono vistosi fenomeni di erosione. Le spiagge sono ambienti inospitali per essere colonizzati dalle piante (venti salsi, carenza di elementi nutritivi, struttura sciolta del substrato, forte insolazione) per cui le piante pioniere ricorrono a particolari adattamenti per riprodursi e sopravvivere. Innanzitutto le cellule devono tollerare elevate concentrazioni saline, grazie alla riduzione degli stomi e delle dimensioni degli spazi intercellulari, la parete cellulare diviene più elastica, il portamento è prostrato favorendo anche l'impollinazione, il colore è quasi sempre glauco in quanto protegge dalle radiazioni eccessive; sono assai diffuse anche la succulenza in modo da consentire la ritenzione dell'acqua e una fitta peluria per limitare la traspirazione. A seconda delle caratteristiche geomorfologiche sono presenti piante differenti: le alofile vere formano le praterie salmastre (molto rarefatte a causa dell'inquinamento) importanti per la stabilizzazione del fondo marino, e la riduzione del moto ondoso diminuendo l'erosione: sulle coste del Tirreno è presente la Poseidonia Oceanica (nonostante il suo nome è endemica del Mediterraneo), forma frutti noti come "olive di mare" e foglie che, trascinate sulla spiaggia dalle onde, costituiscono corpi sferici, le "palle di mare", comuni soprattutto d'inverno lungo la spiaggia quando, essendo deserta, è possibile fare, forse, le più affascinanti, silenziose passeggiate. Vi sono quindi piante che si sviluppano sulla sabbia e costituiscono gli ecosistemi delle dune costiere, infine quelle che crescono nelle fessure della roccia esposte verso il mare. La fitosociologia permette di descrivere le varie associazioni vegetali e di comprendere il dinamismo di un determinato litorale attraverso le successioni delle associazioni che si sviluppano in uno spazio costiero: si valuta indirettamente la qualità di un ambiente attraverso lo studio delle successioni e delle tipologie delle piante presenti e dei rapporti che intercorrono tra le diverse piante. Purtroppo le specie che occupano ad esempio le dune sono state fortemente danneggiate dall'attività umana a causa della pressione turistica e in alcuni luoghi anche per effetto dell'introduzione di specie esotiche non idonee come ad esempio l'Acacia cyanophylla, pianta australiana che ha danneggiato la vegetazione dunale dell'Italia meridionale. L'uomo ha causato anche la diffusione di specie ruderali e nitrofile come l'esotica Nappola delle spiagge (Cenchrus incertus) che, osservata per la prima volta presso Venezia nel 1933, ha assunto proporzioni assai vistose: possiede spine acutissime che si attaccano agli abiti. Il calpestio dei turisti provoca la comparsa di specie resistenti al posto di quelle tipiche: è il caso della gramigna (Cynodon dactylon) e della piantaggine (Plantago coronopus). L'alterazione delle dune ha causato la presenza a volte imponente della Ambrosia che provoca fastidiosi fenomeni allergici a causa del polline disperso dal vento. Tra la duna e la vegetazione della costa esiste una interazione nel senso che la vita dell'una è collegata strettamente a quella dell'altra, quindi proteggere i sistemi dunali significa proteggere l'entroterra. Ben venti sono gli ambienti (biotopi) tra cui querceti e faggete, pinete mediterranee e montane, lariceti, peccete, torbiere, rupi montane e calanchi analizzati in uno studio curato da un gruppo di botanici dell'Università dell'Aquila guidati da Francesco Corbetta (S.O.S. Verde-Edagricole Lire 50 mila) da cui si impara a conoscere l'opera colonizzatrice svolta dalle piante, gli equilibri tra le varie specie e a riconoscere l'azione a volte poco attenta dell'uomo come "il formare pinete artificiali e altri tipi di bosco sulle sabbie in posizione avanzata perché invece di diminuire i processi di erosione, li accelerano poiché tolgono al sistema la necessaria elasticità e non favoriscono l'accumulo della sabbia". L'ecologia - affermava Valerio Giacomini già una ventina di anni or sono - insegnando la solidarietà fra tutti gli essere viventi e il mondo fisico, diventa una "scuola di tutte le solidarietà" che dovrebbe coinvolgere tutti gli uomini. Elena Accati Università di Torino


SCIENZE A SCUOLA. LA LEZIONE / COS'E' LA COSCIENZA Sapere di essere L'uomo, "una realtà estesa"
Autore: ZULLINI ALDO

ARGOMENTI: BIOLOGIA
NOMI: CARTESIO, JAMES WILLIAM
LUOGHI: ITALIA

A Stoccolma nell'inverno del 1650 moriva Cartesio, il fondatore della filosofia moderna. A dire il vero, ben poco di quanto ha insegnato è rimasto nel pensiero attuale. Eppure oggi non possiamo non dirci cartesiani, perché dalle sue idee (e persino dai suoi errori) è nato un modo nuovo di pensare. Filosofando sull'uomo, per esempio, egli cercò di portare un po' di chiarezza sostituendo ai confusi concetti di corpo e anima, quelli di realtà estesa (res extensa) e di realtà pensante (res cogi tans). Il che equivale a dire che la materia è un qualcosa che si estende a occupare un certo spazio, mentre il pensiero (cioè sensazione e coscienza) appartiene a un mondo tutto diverso, immateriale e non-spaziale. Il corpo, essendo fatto di materia (res exten sa), funziona grazie a meccanismi propri, come una macchina, senza bisogno di misteriose " forze vitali". L'uomo, dunque, risultava formato da due tipi radicalmente diversi di realtà e non si capiva bene come la sua parte "estesa" e quella "pensante" potessero stare insieme influenzandosi reciprocamente. Cartesio, con molta superficialità, credette di risolvere il problema ipotizzando che la res cogitans risiedesse in una ghiandola del cervello (nell'epifisi). La biologia moderna non paragona più il corpo a una macchina ma, con Cartesio, vede l'organismo come pura "realtà estesa" soggetta alle leggi naturali. A tali leggi non sfugge quel fenomeno complesso ed elusivo che si chiama coscienza. Già gli immediati successori di Cartesio si erano posti il problema: come può un fatto materiale, per esempio una scottatura, tradursi in un fatto immateriale quale la sensazione e la consapevolezza del dolore? Generazioni di filosofi si sono arrovellati sul problema del "ponte" che dovrebbe collegare il mondo materiale col mondo della coscienza, ma il primo a impostare in modo corretto l'intera questione fu uno scienziato americano, William James (1842-1910), universalmente noto per essere uno dei fondatori della psicologia fisiologica. La grande intuizione di James fu che la coscienza non è affatto una "cosa" che pensa, cioè una sostanza pensante. La coscienza (ciò che chiamiamo io) è, invece, un processo, reso possibile da particolari strutture biologiche. Oggi sappiamo qualcosa di tali strutture. Sappiamo, per esempio, che un pezzetto di corteccia cerebrale grande quanto la capocchia di un fiammifero contiene circa un miliardo di connessioni. Sappiamo anche che un cervello, a differenza di un computer, è una struttura che si costruisce da sola modellandosi, grazie anche ad input ambientali, mediante processi selettivi: le cellule e i collegamenti nervosi che vengono adoperati si salvano, mentre il resto regredisce e scompare. Per esempio, l'evocazione di un dato dalla memoria di un computer si basa su una procedura sempre uguale e, a suo modo, perfetta. Invece l'evocazione di un nostro ricordo coinvolge associazioni ogni volta diverse generando segnali d'uscita simili ma non identici. La memoria cerebrale è inesatta, ma in cambio è capace di generalizzare i contenuti mentali e di reinterpretarli. E tutto ciò è dovuto esclusivamente al diverso tipo di architettura che sta alla base di un computer o, rispettivamente, di un cervello. Da questi e altri dati di fatto sono partite le ricerche di Edelman, neurobiologo americano premio Nobel 1972. In un suo recente libro ("Sulla materia della mente", tradotto in italiano da Adelphi) egli distingue tre livelli di capacità sensoriali lungo la scala evolutiva. Gli animali appartenenti al primo livello, per esempio l'aragosta, sono capaci di apprendere, sono dotati di memoria a lungo termine, ma non sono coscienti di ciò. Gli animali del secondo livello, per esempio il cane, sono dotati anche di una "coscienza primaria". Si tratta, secondo Edelman, di una consapevolezza limitata a un piccolo intervallo di memoria centrato sul presente. Un animale dotato di coscienza primaria vede la stanza così come un raggio di luce la illumina: solo ciò che è all'interno del raggio è nel presente ricordato, il resto è buio. La memoria a lungo termine esiste e modella il comportamento dell'animale, ma esso non ne è consapevole e pertanto non può pianificare il futuro. La coscienza primaria, ad ogni modo, può esserci solo se vi è una corteccia cerebrale. Al terzo livello si collocano gli animali dotati di coscienza di ordine superiore, per esempio gli esseri umani. Costoro dispongono di un modello concettuale del sè, compresa la sua collocazione nel tempo e nello spazio. La coscienza di ordine superiore è in grado di modellare il passato, il presente, il futuro, un sè e un vero e proprio mondo concettuale. La sua esistenza rende possibile la formazione di un linguaggio simbolico complesso. Grazie ad essa l'individuo non solo sa, ma sa di sapere. E' co-scien te, nel senso letterale del termine. Edelman insiste sul fatto che la coscienza (primaria o di ordine superiore che sia) è un prodotto biologico, e quindi non può esistere staccata dal corpo. Non c'è posto, insomma, per teorie sull'immortalità personale o per ipotesi di reincarnazione. Inoltre, dato che la coscienza è un processo, i fenomeni che portano alla sua formazione sono unici per ogni individuo, unici e irripetibili, essendo legati a quel particolare corpo e alla storia particolare di quell'individuo. Non è dunque possibile comprendere la mente prescindendo dalla biologia e ciò è vero sia quando si voglia capire il suo funzionamento, sia quando si voglia spiegare la sua origine. Il fatto stesso che si siano evoluti cervelli capaci di coscienza dimostra che quest'ultima favorisce la sopravvivenza e la riproduzione dell'individuo. Infatti la capacità di comprendere il mondo e se stessi è strettamento legata alla possibilità di programmare il futuro. La coscienza, in altre parole, risulta vantaggiosa anche solo da un punto di vista strettamente evolutivo. Non è un caso che la nostra specie, autocosciente come nessun'altra, sia riuscita a invadere in pochi millenni l'intero pianeta monopolizzandone le risorse e che ora, con i sei miliardi di individui attuali, l'uomo sia l'animale di grandi dimensioni più mumeroso sulla Terra. Il fatto che ciò sia un bene, dal punto di vista ecologico, economico e sociale, è tutto da vedere, ma questo è un altro problema. L'abisso che separa la concezione moderna dell'uomo da quella di Cartesio è enorme. Eppure la sua teoria " sbagliata" è risultata, alla fine, della massima utilità, perché ha suscitato problemi e dibattiti che sono stati il punto di partenza per l'odierno approccio al problema della mente e della coscienza. E' un problema ben lontano dall'essere risolto ma, per lo meno, ora sappiamo quale sia l'approccio da seguire. Aldo Zullini Università di Milano


SCIENZE FISICHE. GRATTACIELI Sono anche grandi opere d'arte
Autore: MARRAZZO MASSIMO

ARGOMENTI: ARCHITETTURA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

Con questo intervento concludiamo il dibattito sull'attualità dei grattacieli -------------------------------------------------------------------- VORREI riprendere il dibattito aperto dal collega Sergio Hutter, nel Tuttoscienze del 16 dicembre, sul ruolo che ancora possono avere i grattacieli. Il grattacielo è una tipologia architettonica e costruttiva che si sviluppa negli Stati Uniti, dopo l'incendio che distrusse nel 1871 l'area centrale di Chicago, il Loop. Nel momento della ricostruzione l'apparato amministrativo non pone regole o vincoli nell'edificazione. In questo modo, mentre nello stesso periodo nelle capitali europee iniziavano i grandi piani di risanamento urbanistico, a Chicago la gestione urbana rimane in mano ai grandi finanzieri e industriali che approfittano della grande richiesta di uffici e dell'alto costo dei terreni nell'area centrale per sfruttare al massimo le aree e pretendono dai progettisti una tipologia che permetta di avere molti piani da affittare come uffici. Questo, assieme alla particolare organizzazione aziendale che prevedeva di concentrare gli uffici, è il motivo di fondo nella scelta di edificare edifici molto alti. Ma in realtà c'è un terzo grande motivo, ed è il prestigio di immagine: il grattacielo è un simbolo del potere economico faticosamente conquistato, e quindi serve al marketing e alla promozione. Infatti decorazioni e forma del grattacielo cambiano nel corso degli anni, al mutare degli interessi dell'opinione pubblica americana nei confronti dell'alta finanza. Ma il grattacielo è stato anche un modo per realizzare e affermare una architettura finalmente americana, quando fino a quel momento non era altro che un miscuglio di stili importati dalla vecchia Europa. In ogni nazione esiste una particolare tipologia architettonica e costruttiva che la caratterizza ed è ridicolo cercare di utilizzarla al di fuori del Paese d'origine; così come sarebbe ridicolo un trullo a Torino o una baita a Cagliari, così si dovrebbe considerare il grattacielo che era, è e sarà un simbolo dell'America. Oggi del grattacielo è rimasta solo la funzione di simbolo del potere e del prestigio, un monumento al denaro e un'eccitante sfida per i progettisti; ed è giusto che si cerchi di farli sempre più alti, altrimenti nessuno ne parlerebbe e quindi si perderebbe la funzione promozionale per il proprietario e per il progettista. Ma questi titani devono rimanere negli Stati Uniti, perché le copie, i rifacimenti, le imitazioni inserite a forza nella cultura di un altro Paese, sono sempre falllimentari. Quanto all'inutilità del grattacielo per uffici, sostituiti dal telelavoro, penso che questa sia un'ottima idea per limitare il traffico nelle grandi città, ma funziona? Si diffonderà? In teoria sembra che funzioni, ma nella pratica gli svantaggi sono superiori ai vantaggi. Il problema più grande è la distrazione che offre l'ambiente casalingo, con la conseguente perdita di rendimento lavorativo. La cosa peggiore che vi possa capitare è mescolare la vita famigliare e il tempo libero con il lavoro. Dopo queste premesse, alla domanda se il grattacielo ha ancora senso rispondo in modo affermativo: primo perché il telelavoro è ancora un'utopia e secondo perché se è giusto definire arte qualcosa che ci piace e provoca emozioni, allora, quando un grattacielo piace e dona emozioni nell'osservarlo in tutta la sua magnificenza, possiamo considerarlo un'opera d'arte. Massimo Marrazzo Architetto


SCIENZE A SCUOLA. L'ESPERIMENTO / IL PRINCIPIO DI BERNOULLI Un bicchiere e una cannuccia Una facile dimostrazione della pressione atmosferica
Autore: MAINA EZIO

ARGOMENTI: DIDATTICA, FISICA
LUOGHI: ITALIA

Occorrente: Un bicchiere, una cannuccia da bibita, un poco d'acqua. Esecuzione. E' preferibile eseguire questa dimostrazione su una superficie lavabile. Attenzione a che non vi siano nelle vicinanze oggetti che possano essere danneggiati da gocce d'acqua. Riempite di acqua il bicchiere, quasi fino al bordo. Dalla cannuccia ricavate due cilindretti di circa cinque centimetri di lunghezza. Immergete l'estremità di uno dei due tubicini nell'acqua, tenendolo in posizione verticale. Lasciatene un tratto di due o tre centimetri sopra la superfice del liquido. Ponete il secondo tubicino, all'altezza dell'estremità superiore del tubicino parzialmente immerso, lasciando qualche centimetro fra le due cannucce. Soffiate con energia nel tubicino orizzontale. L'acqua verrà risucchiata lungo la cannuccia verticale e si formerà un piccolo getto di goccioline d'acqua. Se si solleva progressivamente il tubicino verticale, mantenendone l'estremità inferiore immersa nel liquido, si può notare che quando la distanza fra l'estremità superiore della cannuccia e la superfice dell'acqua supera una certa altezza non si produce più alcun getto. L'altezza massima a cui la colonna d'acqua si può sollevare è proporzionale alla differenza fra la pressione all'interno del tubicino verticale e la pressione atmosferica. A sua volta questa differenza dipende dalla velocità del flusso d'aria che scorre sopra l'estremità superiore del cilindro, cioè dalla velocità del nostro fiato. Su questo fenomeno è basato il tubo di Pitot che permette di misurare la velocità di un aereo rispetto all'aria circostante. Lo stesso principio è alla base del funzionamento degli spruzzatori a pompetta per profumi, della pittura ad aerografo e di molti vaporizzatori per inalazioni. Che cosa succede. La pressione di un gas, cioè la forza per unità di superficie che il gas esercita sulle pareti del proprio contenitore, è l'effetto delle collisioni fra le molecole del gas e quelle che compongono la parete. Se all'interno del contenitore si introduce qualche oggetto è chiaro che esso sarà sottoposto a pressione per gli urti delle molecole del gas con la propria superficie. Le molecole si scontrano anche fra loro e quindi su ciascuna faccia di un volumetto cubico di gas contenuto all'interno del recipiente agiscono forze uguali al prodotto dell'area della faccia stessa per la pressione che vi si esercita. Proviamo ora ad immaginare un gas o un fluido che scorra lungo un percorso orizzontale in modo da poter ignorare gli effetti della gravità. Pensiamo ad un cubetto di gas o di fluido in due istanti molto vicini in modo che nel frattempo il volumetto non modifichi sostanzialmente la sua forma. Se la velocità nei tempi successivi rimane la stessa la somma delle forze che ha agito sul cubetto nel periodo di tempo che separa i due istanti è zero. Per il primo principio della dinamica, infatti, un corpo non sottoposto a forze, o sottoposto a forze la cui somma è nulla, mantiene inalterata la propria velocità. Se invece la sua velocità aumenta le forze che hanno agito nella direzione del moto sono state superiori a quelle che hanno agito in direzione contraria al moto. Le uniche forze che si esercitano in direzione orizzontale, trascurando attriti interni e con le pareti, sono quelle dovute alla pressione che il fluido circostante esercita sulle facce del cubetto. Se la velocità aumenta allora la pressione che agisce sulla faccia anteriore del cubetto, rispetto alla direzione del moto, deve essere maggiore della pressione che agisce sulla faccia posteriore. Di conseguenza la pressione in un fluido o in un gas è più bassa nei punti in cui la velocità è maggiore rispetto alla pressione nei punti in cui il fluido si muove più lentamente. Questo risultato è noto come il Principio di Bernoulli. Mettendo in moto l'aria che circonda l'estremità superiore del tubicino parzialmente immerso, se ne diminuisce la pressione rispetto alla normale pressione atmosferica che agisce sulla superfice libera dell'acqua. La differenza di pressione fra la superfice libera e l'interno del tubo provoca la risalita del liquido. Ezio Maina Università di Torino


SPECIALISTI FUORI LEGGE Una sentenza della Consulta
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

La Corte Costituzionale ha stabilito pochi giorni fa che la medicina omeopatica non può essere considerata tra i titoli di specializzazione, cioè nessun medico potrà definirsi o farsi pubblicità come "omeopata". Decisione destinata a suscitare inevitabili polemiche non solo tra i sanitari, ma tra i circa cinque milioni di italiani che hanno scelto da anni terapie alternative alla medicina ufficiale. La decisione della Consulta ha avuto origine dal caso di un medico di Catania che fece ricorso al Tar, per chiedere l'annullamento del parere negativo dell'Ordine dei Medici circa l'inserimento della dizione "Medicina Omeopatica" nella targhetta del suo studio. I giudici della Corte Costituzionale hanno motivato la sentenza con il fatto che la specializzazione in omeopatia è rilasciata solo da scuole private post universitarie non riconosciute dallo Stato.




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