ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ETOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: PARCO NAZIONALE TAI
LUOGHI: ESTERO, AFRICA, COSTA D'AVORIO
I cercopitechi diana (Cercopithecus diana) che vivono nel Parco Nazionale Tai in Costa d'Avorio sono dei gran furbacchioni. Hanno imparato a distinguere i falsi richiami dei bracconieri che cercano di adescarli, da quelli veri degli animali della giungla. L'ha scoperto Redouan Bshary del Max Plank Institute. Quando un cercopiteco vede o sente un essere umano di solito rimane silenzioso. Ma quando sente la voce di un predatore, ad esempio di un leopardo, si mette a urlare a squarciagola e si stringe ai suoi simili. Lo stesso effetto ha il grido del gufo reale. I bracconieri imitano questi richiami animali per localizzare le scimmie e farle uscire allo scoperto. Ma nelle zone in cui il bracconaggio è molto intenso, i cercopitechi non si lasciano ingannare dai finti richiami dell'uomo. Quel che depone per la loro intelligenza è il fatto che l'inganno viene perpetrato, quando è il caso, anche nei riguardi dei conspecifici. Ad esempio, se un maschio subordinato vuole accoppiarsi con una femmina recettiva, cerca di ingannare il maschio dominante, portando la femmina dietro un cespuglio. Come se si rendesse conto di compiere un'azione illecita che va tenuta nascosta a scanso di spiacevoli conseguenze. Si direbbe che la contestazione giovanile non abbia fatto adepti nelle società dei cercopitechi, che sono imperniate sulla più rigida gerarchia. I giovanissimi sono sottoposti all'autorità materna, i giovani a quella degli adulti, gli adulti a quella degli anziani. Conta soprattutto il tesoro dell'esperienza, che si traduce in saggezza e insegna il giusto modo di comportarsi nelle varie circostanze della vita. Ecco perché quando una banda di cercopitechi decide di compiere un'incursione in una piantagione o in un frutteto per far man bassa di cereali o di frutta, la precede il più anziano della tribù, un vecchio volpone che la sa lunga e sa soprattutto come cavarsela in caso di pericolo. Se non vi sono impedimenti e tutto procede per il meglio, lo scimmiotto in avanscoperta emette uno speciale borbottio che significa presappoco "Via libera, potete avanzare". E allora il grosso della tribù si sposta in avanti, mantenendosi però sempre in posizione difensiva. Sul fronte avanzano i maschi adulti, i difensori più validi, in seconda posizione vengono le femmine con i piccoli attaccati al ventre e da ultimi alcuni giovani maschi vigorosi, che fanno da retroguardia e riparano la banda alle spalle. Una volta arrivati nella piantagione, però, non c'è gerarchia che tenga. Sembra che il motto dei cercopitechi diventi: "Ognuno per sè e Dio per tutti". Grandi e piccoli, vecchi e giovani, maschi e femmine, ciascuno pensa soltanto a rimpinzarsi a crepapelle, approfittando di tutta quella manna che ha a portata di mano. Persino i cuccioli si staccano dalle madri e piluccano quello che possono. Tutto procede a meraviglia fino al momento in cui un qualunque guastafeste non disturba il banchetto delle scimmie. Il primo ad accorgersene è il vecchio capobanda il quale, pur mangiando a quattro palmenti, è sempre con l'orecchio teso ai rumori sospetti. Immediatamente dà l'allarme, lanciando un grido caratteristico. Ed è subito un fuggi fuggi generale. I piccolini tornano ad aggrapparsi impauriti alla pelliccia materna e tutti insieme fuggono velocemente da quell'insidioso spazio aperto verso l'accogliente volta protettrice della foresta. Soltanto nell'intrico di rami della chioma arborea, a una ventina di metri dal suolo, si sentono al sicuro e riprendono la consueta attività, ciarlando pettegoli, azzuffandosi ogni tanto con alte grida, andando a caccia di germogli, d'insetti o magari di uova di uccelli. I cercopitechi si divertono a fare scherzi d'ogni genere anche ad animali di altre specie. Sono capaci ad esempio di lasciarsi cadere dall'alto di un albero sulla schiena di un impala di passaggio, che naturalmente si spaventa moltissimo. Oppure si divertono a molestare gli elefanti stuzzicando le proboscidi. E non hanno alcun timore di avvicinarsi perfino ai turisti. Approfittando di un attimo di distrazione degli uomini, non esitano a rubacchiare cibo dai loro cestini da picnic. Piccoli come gatti, con la lunga coda sottile che li segue nelle evoluzioni, col musino tondo in cui spiccano gli occhietti vivaci, i cercopitechi vivono in gruppi di trenta o quaranta individui. La lunga coda ha indubbiamente una importante funzione di equilibrio, quando gli animali saltano o si arrampicano, ma in molti cercopitechi ha grande importanza anche come segnale e mezzo espressivo. Infatti, nelle specie che hanno la punta della coda bianca, gli animali corrono tenendo la coda sollevata e quella punta bianca costituisce un segnale particolarmente efficace, diventa un mezzo per comunicare con i compagni. Come molte altre scimmie, anche i cercopitechi sono particolarmente vivaci al mattino e nel tardo pomeriggio. Nelle ore centrali della giornata, quando fa più caldo, riposano. E spesso questa pausa viene utilizzata oer il " grooming" la pulizia reciproca del pelo, che rinsalda i legami sociali. Ciascun gruppo occupa un territorio ben circoscritto. Guai se alcuni sconfinano nel territorio di una tribù vicina. Scoppiano allora baruffe sanguinose con morsi e graffi, in un concerto di grida assordanti. Ma anche qui, nell'habitat praticamente inaccessibile della volta arborea, può capitare che piombi qualche nemico dal cielo. Se un rapace riesce a ghermire un cercopiteco, i compagni non lo abbandonano al suo destino, ma lottano strenuamente per strapparlo alle grinfie dell'uccello da preda, dando prova di un coraggio leonino. Non minore coraggio dimostrano le madri, quando ritengono che la vita di un figlioletto sia in pericolo. Sono capaci allora di veri e propri atti di eroismo. Se poi i piccoli, allegri e pazzerelloni come sono, si mettono nei guai o combinano qualche malanno, la madre non manca di redarguirli severamente. E se, imprudenti, si allontanano troppo, mamma cercopiteco li acchiappa per la coda e li sculaccia di santa ragione, con un sistema deprecato dai moderni pedagoghi, ma sempre valido! Isabella Lattes Coifmann
ARGOMENTI: ECOLOGIA, PROGETTO, AMBIENTE
NOMI: ONORE GIOVANNI, PANSA ANGELO
LUOGHI: ESTERO, BRASILE
TABELLE: C.
I missionari nel Terzo Mondo non sono più impegnati solo nel salvamento di anime, ma hanno cominciato a difendere la natura in collaborazione con i laici. Una goccia nel mare dei disastri ambientali mondiali, ma un buon esempio concreto invece che chiacchiere, convegni, tavole rotonde, summit. In questa linea di azione concreta spiccano due personaggi: Giovanni Onore, originario di Costigliole d'Asti, missionario laico e da dieci docente di biologia all'Università Cattolica di Quito (Ecuador), e padre Angelo Pansa, lombardo, saveriano, che opera da vent'anni in Brasile nella regione del Mato Grosso, territorio degli indios Xavantes, area del Parabubure. Le due iniziative fanno parte dei progetti della associazione senza scopo di lucro Bioforest (presidente Gabriele Centazzo, telefono 0434/51.79.11, fax 0434/51.79.33), "per la rigenerazione degli ambienti naturali", promossa da un'azienda di Pordenone, la Valcucine, insieme al Premio Letterario Gambrinus " Giuseppe Mazzotti" di San Polo di Piave. In Ecuador è in corso l'Operazione Otonga, dal nome dato alla foresta da salvare, una " cloud forest", cioè foresta tra le nuvole, un ambiente arboreo andino perennemente in ombra, tra i 1800 e 2000 metri, a circa 90 chilometri dalla capitale - ai margini delle province di Pichinca e Cotopaxi, nell'estremo Nord-Ovest amazzonico - raggiungibile solo in fuoristrada e poi in un paio d'ore a piedi o a dorso di mulo. Finora sono stati acquistati 700 ettari, e presto si dovrebbe arrivare a mille, un grande polmone verde, un patrimonio di biodiversità senza prezzo. Il nome Otonga tra l'altro, è quello di giganteschi vermi grigi- azzurri, lunghi fino a un metro e mezzo, del diametro di un serpente, animali a metà tra i lombrichi e anfibi, che scavano profonde gallerie nel terreno; nell'Amazzonia venezuelana gli indios li mangiano. "In pochi anni di ricerche - dice il professor Giovanni Onore - abbiamo scoperto una nuova specie di mantide, la Calopteromantis otongae, un nuovo scarabeo, una cetonia chiamata Jansoniella otongae, una rana marsupiale arboricola a rischio d'estinzione, mentre un numero imprecisato di varietà botaniche, è ancora sconosciuto. Il problema è riuscire a studiare quello che c'è prima che l'habitat venga distrutto. Abbiamo compiuto stage con universitari di Quito, che hanno fatto tesi per esempio sulla lotta biologica ai parassiti, e sono state assegnate borse di studio a giovani della zona per educarli al rispetto di casa loro, attraverso lo studio delle varie discipline naturalistiche. Mentre stiamo lottando per capovolgere l'atteggiamento degli indios, che continuano nelle abitudini di deforestare per ottenere terreni agricoli, e quindi si meravigliano quando noi come associazione gli offriamo di comprare lembi di foresta a cifre superiori rispetto ai terreni spogli". Nella zona è stato realizzato un grande vivaio, una stazione biologica, si è proceduto alla raccolta di semi di specie botaniche autoctone, mentre è in programma la costituzione di una fondazione che sarà riconosciuta dallo Stato ecuadoregno. I mille ettari protetti consentiranno il congiungimento con i tremila ettari della riserva naturale "La Florestal", formando un vasto corridoio unico. "Anche se - aggiunge Giovanni Onore - il governo è poco sensibile al problema ambientale, i molti parchi nazionali non sono sorvegliati, hanno solo alcune paline, che vengono semplicemente spostate dopo qualche aggressione o incendi". Oltre che studenti locali, la stazione è stata visitata da un gruppo di studenti della facoltà di Agronomia Tropicale dell'Università di Firenze. In Brasile invece il progetto, decennale, affidato a padre Angelo Pansa, prevede la riforestazione di un territorio collinare, per un totale di tremila ettari, tra i 600/800 metri di altezza, attraversato dagli affluenti dei fiumi Xingu e Araguaia. Alla fine saranno messi a dimora trecentomila alberi di alto fusto, altrettanti di media taglia, oltre a essenze arbustive ad uso prevalentemente medicinale. Il terreno, già preparato per la piantumazione, viene intanto utilizzato dagli indios per coltivazioni annuali di mais, riso, fagioli, zucche, mandioca, ananas eccetera. Scopo finale è la protezione e l'ampliamento di macchie di foresta nativa nelle aree stabilmente occupate dagli indios, creazione di vivai, tutela e valorizzazione della popolazione Xavantes. I due progetti possono contare per ora su cento milioni annui per dieci anni, dalla Valcucine, azienda di Pordenone che si è caricata dell'onere finanziario dell'impresa. Altri apporti sono attesi e benvenuti, mentre i responsabili di Bioforest ricordano che i contributi sono fiscalmente deducibili per privati e imprese. Renato Scagliola
ARGOMENTI: BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
LA storia che voglio raccontare ha uno straordinario interesse scientifico ma è anche occasione per fare alcune riflessioni su come avanza oggi la ricerca biologica e medica. Cancro e malattia di Alzheimer sono due importanti problemi medici con implicazioni sociali enormi soprattutto per le persone di età avanzata. Con le malattie cardiovascolari sono responsabili di conseguenze devastanti sulla qualità della vita senile e presenile nei Paesi ad alto livello economico. A giudicare superficialmente nessuno direbbe che cancro e malattia di Alzheimer hanno un importante meccanismo biologico comune. Un recente lavoro apparso su Nature smentisce questa idea e fa pensare che la perdita della memoria e della personalità tipica di questa demenza sia causata dallo stesso fenomeno che fa perdere alle cellule di molti tumori il controllo della loro vita sociale. Da tempo è noto che mutazioni nel gene della presenilina 1 (PS-1) sono responsabili del 70% dei casi di malattia di Alzheimer a comparsa precoce e possono essere responsabili anche della malattia a inizio tardivo, due forme clinicamente distinte. PS-1 si lega a una proteina cellulare che si chiama catenina- beta coinvolta nel controllo dell'adesione ma dotata della duplice funzione di produrre segnali che raggiungono siti specifici nel Dna nucleare indispensabili per il controllo della proliferazione cellulare. Questi segnali sono alterati nei tumori dell'intestino in quanto, per effetto di una mutazione, viene a diminuire la funzione di un'altra proteina, chiamata Apc, che controlla la stabilità e la quantità di cateni na-beta. Le mutazioni di PS-1, analogamente a quelle di Apc, destabilizzano catenina-beta e ne riducono la quantità provocando un'alterazione dei segnali nucleari. Nelle cellule nervose tuttavia l'effetto non è a livello della proliferazione ma questo fenomeno ne induce la perdita aumentando la suscettibilità dei neuroni all'apoptosi o morte cellulare programmata. Proprio quel che capita nel cervello dei malati di Alzheimer. Questo fenomeno è molto evidente in una situazione sperimentale ma è dimostrabile anche nelle cellule nervose umane di pazienti con mutazioni a livello di PS-1. Come molti altri dati sperimentali anche questo aprirà la strada alla sperimentazione di farmaci capaci di frenare la morte delle cellule nervose nei malati che presentano i primi sintomi della malattia forse veicolando PS-1 nella sua forma nativa non mutata e indirizzandola con opportuni vettori verso le cellule nervose. Un'altra sfida per lo sviluppo della terapia genica del 21o secolo senza alimentare ottimismo ingiustificato su tempi e modi delle applicazioni pratiche. Questo meccanismo comune apre una considerazione sulla natura della scienza e sui suoi sviluppi. Per tutti è comodo oggi pensare che cellule nervose e cellule neoplastiche siano entità distinte e che neurologi e oncologi vivano su pianeti differenti. Così non è. Questa ricerca lo dimostra in maniera evidente ma anche altre suggeriscono che la natura abbia sviluppato nel corso dell'evoluzione meccanismi comuni e li abbia conservati sulla base della loro efficienza. Questi vengono semplicemente adattati a esigenze diverse. PS-1 e Apc hanno funzioni simili nel legare catenina-beta e analoghe molecole esistono in sistemi più semplici. Non conosciamo la forma di queste molecole che forse è simile aldilà del fatto che sono codificate da geni diversi ma il metodo per studiarle è rigidamente identico. Inoltre il processo di pensiero necessario per affrontare l'uno o l'altro problema è del tutto indistinguibile. Telethon distribuisce finanziamenti per lo studio delle malattie genetiche, compreso il morbo di Alzheimer, mentre l'Airc, Associazione italiana per la ricerca sul cancro, ovviamente finanzia la ricerca sui tumori. Forse il lavoro uscito su Na ture potrebbe essere finanziato dall'uno o dall'altro ente senza distinzioni di etichetta. Pier Carlo Marchisio
Lotta biologica alle zanzare: è l'impegno preso da Casale Monferrato, capofila di un accordo con altri 47 comuni. Il progetto è sostenuto dalla Regione Piemonte con un finanziamento di 2 miliardi. Se ne parla il 24-25 novembre nel Teatro municipale di Casale Monferrato. Tel. 0142-444.348.
ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA
QUANTE volte, in riva al mare, siamo rimasti come ipnotizzati a guardare il frangersi delle onde? E quante volte ci siamo interrogati sul meccanismo che genera onde sempre uguali e sempre diverse? Il moto della superficie marina risulta dalla presenza simultanea di onde lunghe e corte che si muovono con velocità diverse per valore e direzione, e dalla cui sovrapposizione, casuale e variabile, deriva l'aspetto mutevole della superficie del mare cioè il crescere, il frangersi e lo scomparire delle singole creste. Le onde prodotte dal vento variano in dimensione dalle piccole increspature generate da una lieve brezza alle gigantesche onde oceaniche, con periodi superiori ai 20 secondi e lunghezza maggiore di 700 metri. Il moto delle onde molto corte, con periodi inferiori al decimo di secondo e lunghezze inferiori a qualche centimetro, è determinato dalla tensione superficiale. Il moto delle onde lunghe consiste invece di enormi oscillazioni determinate dalla forza di gravità. Il risultato della sovrapposizione di onde di lunghezza diversa varia ininterrottamente perché la velocità di propagazione delle onde aumenta con la loro lunghezza; quindi le onde più lunghe superano in continuazione quelle più corte, in modo che le rispettive creste si sovrappongono in modo casuale. Le onde marine non sono necessariamente prodotte dalla situazione meteorologica locale, ma possono essere dovute a una lontana tempesta. Infatti, mentre in bacini piccoli, come quelli del Mediterraneo, le onde non hanno spazi per allontanarsi molto dalla zona di origine, nell'oceano, dove non ci sono coste che ne interrompono il cammino, esse sono in grado di percorrere distanze enormi che raggiungono le migliaia di chilometri. In generale, quella che osserviamo sulla costa è la conclusione di un processo complesso che si può schematizzare in tre fasi: generativa, dispersiva e dissipativa. La fase generativa avviene durante la tempesta. Ricevendo energia dal vento, ogni onda aumenta fino a raggiungere un livello di saturazione a cui si frange e smette di crescere. L'efficacia dell'azione del vento dipende dalla differenza fra la sua velocità e quella delle onde: le onde corte raggiungono la saturazione per prime perché, lente rispetto al vento, crescono molto velocemente; le onde lunghe, alcune delle quali viaggiano letteralmente più veloci del vento, crescono lentamente, estraendo la loro energia dalle onde più corte. Quindi durante una tempesta le creste aumentano progressivamente in altezza, lunghezza e periodo. La loro altezza limite è proporzionale alla velocità del vento al quadrato: un vento di 50 chilometri all'ora potrebbe produrre creste alte mediamente 4 metri, un vento di 100 chilometri all'ora creste alte 16 metri, e così via. Fortunatamente, i valori limite richiedono spazi talmente grandi e tempi così lunghi, che per velocità del vento molto elevate non vengono praticamente mai raggiunti. Tuttavia, la sovrapposizione casuale delle varie onde implica che singole creste possano superare di molto i valori medi: secondo le leggi della probabilità quando le creste sono alte mediamente 10 metri, una ogni cento di esse supera i 15, e una ogni mille i 19 metri. La fase dispersiva inizia appena la tempesta si calma, o le onde escono dalla zona del mare da essa occupata. Le varie onde, che inizialmente si trovavano nella stessa posizione, a causa della loro diversa velocità si disperdono su zone molto vaste. Un'onda con periodo di venti secondi viaggia a circa 60 chilometri all'ora e può percorrere 10.000 chilometri in una settimana. Le onde con periodi inferiori viaggiano più lentamente. Onde prodotte da tempeste nell'Oceano Antartico sono state rilevate una decina di giorni più tardi alle Hawaii e in California, dopo aver attraversato, attenuandosi solo un poco, l'intero oceano Pacifico. Si è valutato che durante tale viaggio l'altezza delle onde lunghe sia diminuita di meno del 5 per cento ogni mille chilometri. Nel secolo scorso si è persino tentato di sfruttare la capacità delle onde molto lunghe di percorrere enormi distanze per dedurre dalla loro presenza l'imminente arrivo della perturbazione che le aveva generate. La fase dissipativa ha luogo in zone ristrette, dove la profondità del mare si riduce a poche decine di metri e le onde, qualunque sia il loro orientamento precedente tendono ad allinearsi, diventano parallele alla costa e, frangendosi, perdono la propria energia. Questo comportamento è determinato dalla diminuzione della loro velocità di propagazione con la diminuzione della profondità. Generalmente, avvicinandosi alla costa, una cresta ruota in modo da dirigersi perpendicolarmente verso la riva perché la parte più lontana, che si trova in acqua più profonda, viaggia verso la riva ad una velocità maggiore della parte più vicina. Contemporaneamente, la distanza fra due creste successive diminuisce, perché la cresta più distante dalla costa si trova in acque più profonde della precedente e tende a raggiungerla. In questo processo ciascuna onda aumenta in altezza e, infine, diventa troppo ripida, si frange. Tutta l'energia accumulata in una lontana tempesta, conservata per lunghe distanze, viene persa in poche centinaia di metri e determina una lenta e progressiva modifica delle coste. Piero Lionello Università di Padova
Inizia la tredicesima stagione di "GiovediScienza" al teatro Colosseo di Torino. Il primo appuntamento è domani sera, ore 21, con Danilo Mainardi e Giovanni Bearzi. Tema: "Delfini di casa nostra" . Le 14 conferenze seguenti torneranno al solito orario: 17,45.
Golgi (primo premio Nobel italiano per la medicina) e Bizzozzero, due fondatori della biologia cellulare, verranno ricordati il 24 novembre a cento anni dalla scoperta dell'apparato reticolare interno all'Accademia di Medicina di Torino, in via Po 18. Tel. 011-817.92.98.
ARGOMENTI: CHIMICA, BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
CHE cosa succede nel nostro cervello quando mandiamo a memoria un numero di telefono o cerchiamo di memorizzare un indirizzo? In che modo il cervello fissa per un certo tempo - che varia da pochi minuti a tutta la vita - il turbinio di avvenimenti che ogni giorno gli giungono dal mondo esterno o che esso stesso genera con la propria fantasia? In poche parole, che cosa è la memoria e come si genera? Non è possibile fornire una risposta breve a quesiti così complessi e in parte ancora insoluti, ma possiamo provare a descrivere una scoperta recente che riguarda le basi chimiche e molecolari della fissazione dei ricordi, fase che equivale a meccanismi ideati dall'uomo per la fotografia, per la registrazione dei suoni o per la memoria sui dischetti di un computer. Come ognuno di noi ben sa, non tutti gli eventi di cui si è testimoni vengono fissati e, se anche lo fossero, si è in grado di "rievocare". E per fortuna, se pensiamo che non proprio tutto quanto ci accade è opportuno ricordare! In che modo, dunque, il nostro cervello decide di fissare un certo evento? Questa decisione sostanzialmente è costituita da due componenti: la prima che coinvolge la sfera emotiva o razionale e che presiede più o meno consciamente alla decisione se fissare o lasciare svanire nel fluire delle attività cerebrali; una seconda componente, poi, che in relazione alla prima costituisce l'interruttore molecolare per l'eventuale fissazione dell'evento. In realtà queste due fasi si influenzano reciprocamente poiché l'interruttore molecolare, a sua volta, è in grado di influire sulla componente emotiva o razionale generalizzata e, così facendo, contribuisce alla costituzione di un circuito che si autoalimenta o si autoinibisce. Tralasciamo la prima componente del processo di memorizzazione (che richiederebbe ben altro spazio) e concentriamoci sull'ipotetico interruttore molecolare. Esiste proprio, o è ancora uno dei tanti "dei ex machina" che gli scienziati ipotizzano quando manca un anello in un problema irrisolto? Gli studi degli ultimi anni permettono di rispondere un netto sì. L'interruttore molecolare esiste ed è un recettore unico nel suo genere. Proprio questa sua unicità, che cercheremo di descrivere, permette di affermare che è questa molecola proteica ad attivare la fissazione più o meno temporanea di un certo evento. Grazie alla sua azione, altre proteine, situate dentro la cellula, possono essere messe in moto e, in una reazione a cascata, possono anche andare ad influenzare il cuore operativo della cellula cioè i suoi genitori. Quando taluni di questi geni si attivano, la fissazione di quel ricordo diviene più permanente, fino ad essere praticamente irreversibile. I recettori sono antenne molecolari, disposte sulla parte esterna delle cellule, deputate a captare i segnali che le cellule dell'organismo si inviano in continuazione. Nel sistema nervoso i segnali più frequentemente impiegati sono quelli che presiedono alla trasmissione degli impulsi nervosi, denominati neuro-trasmettitori. Per attivare un determinato recettore di solito basta un certo tipo di neuro-trasmettitore e soltanto quello; poiché vi sono numerosissimi recettori ed numerosi neuro-trasmettitori, le cellule sono in grado di scambiarsi le informazioni anche più complesse e sofisticate necessarie per far funzionare il cervello. Informazioni che variano dalla possibilità di distinguere l'inflessione di una voce o la sfumatura di un colore fino alla comprensione di un problema matematico. Questo sistema di antenne-recettori e di molecole-segnale, tuttavia, serve al cervello per recepire gli avvenimenti del mondo esterno, elaborarli ed emettere la risposta più adeguata. Ma in questa complessa rete di attività "in tempo reale", è necessaria una quarta funzione fondamentale: quella di fissare gli eventi che debbono essere memorizzati e lasciare fluire quelli che non rivestono alcuna importanza. E qui si inserisce la scoperta di questi ultimi anni. Questa funzione è svolta da un tipo di antenna- recettore (denominata con l'acronimo Nmda che sta per N- metil-D-aspartato) che è dotata di una proprietà che, come si è accennato, la rende unica fra tutti i recettori dell'organismo. Infatti, per poter essere attivata e trasmettere il suo segnale dentro la cellula, il recettore Nmda richiede non uno ma due segnali di natura completamente diversa fra loro: non solo è necessario il contatto con un neuro-trasmettitore, che nel caso in questione è il glutammato, ma, contestualmente a questo legame, la membrana nella quale il recettore Nmda è inserito deve essere depolarizzata, cioè attivata. In sostanza, per poter avviare il meccanismo di memorizzazione, sono necessarie due chiavi e non soltanto quella che normalmente serve alle cellule per comunicare fra loro. Questa proprietà era stata ipotizzata, molto tempo prima che fosse dimostrata la sua esistenza reale, da uno scienziato americano di nome Hebb, il quale aveva descritto le proprietà fondamentali che avrebbe dovuto avere un circuito per poter fissare per un tempo minimo gli eventi elettrici che si verificavano al suo interno. Il lettore avrà intuito che questo duplice sistema di controllo ha la funzione di non permettere la fissazione di tutti gli eventi, ma soltanto di quelli che il cervello "decide" di fissare in base alla loro importanza. Oggi la molecola in questione non solo è stata identificata ma, grazie a tutte le potenti tecniche di biologia molecolare messe a disposizione da altre discipline, si sono clonati tutti i geni che forniscono le informazioni per la sua sintesi. E ne sono emersi due aspetti di grande rilevanza, uno per la neurobiologia in senso stretto, l'altro per la medicina. Si è scoperto, infatti, che il recettore Nmda - come forse era plausibile ipotizzare - costituisce in realtà una piccola galassia di molecole dotate di proprietà simili ma non identiche fra loro che prospettano un esempio unico delle potenzialità plastiche del cervello. Ogni struttura sinaptica nella quale si trova questo tipo di antenna-recettore può modificare sia nel senso di facilitare l'attività sinaptica sia, al contrario, di inibirla permettendo una modulazione finissima dell'attività elettrica. E' a questo livello che si nota una delle differenze più significative fra il modo di operare dei computer e quello del cervello. D'altra parte, si è scoperto che se questo genere di molecole recettoriali tipo Nmda viene attivato per un tempo troppo lungo - come si verifica in seguito ad una ischemia cerebrale - esso può scatenare i primi eventi del processo che porta a morte le cellule nervose eccessivamente stimolate. Ennesima riprova che spesso una funzione sofisticata ha il suo risvolto negativo; ma ennesimo incoraggiamento a cercare farmaci che permettano di modulare l'attività del recettore Nmda: ne potrebbe trarre giovamento chi sia colpito da una ischemia cerebrale o sia affetto da problemi di memoria. Pietro Calissano II Università di Roma
"La dinamica del clima" di Guido Visconti e "Darwin", biografia scritta da Barbara Contienenza, sono le ultime pubblicazioni edite a cura della rivista mensile "Le Scienze".
ARGOMENTI: MATEMATICA
LUOGHI: ITALIA
PRENDO il libro di Euclide, i famosi "Elementi" e lo apro alla prima pagina. Vi trovo subito una curiosa definizione: "Un punto è ciò che non ha parti". L'affermazione sembra innocua. Ma non lo è. Sapevo che la struttura assiomatica della geometria euclidea richiede, per sua natura, la definizione dei termini primitivi come punto e segmento, ma non sapevo che dietro ognuno di essi possono celarsi profonde riflessioni e sofferte conquiste del pensiero. La storia della definizione del punto nasconde un insegnamento importante: se procediamo di corsa, rischiamo di perdere di vista le piccole cose, che, spesso, sono le più belle. Ringrazio Richard Trudeau, che, con il suo libro "La rivolu zione non euclidea" (Bollati Boringhieri), mi ha accompagnato su un bellissimo prato, facendomi scorgere un piccolo fiore che m'era sfuggito. Eccolo. La definizione di Euclide (300 a. C.) fa intendere che il punto sia un ente che non ha lunghezza nè larghezza o, in altre parole, ha lunghezza e larghezza nulle. Però è anche vero che un segmento di una certa lunghezza è costituito da punti affiancati gli uni agli altri; come è possibile, allora, che dall'accostamento di oggetti privi di lunghezza si ottenga un segmento? La nostra intuizione si scontra con questo dilemma e sembra non riuscire a risolverlo. Eppure, Euclide non ebbe scelta, la descrizione che diede del punto era l'unica logicamente possibile. Vediamo perché. Euclide sapeva dell'esistenza dei numeri irrazionali; era stato Ippaso di Metaponto (dopo il 430 a. C.) a dimostrare che il rapporto tra le lunghezze di due segmenti non si può sempre esprimere come rapporto di due numeri interi (cioè come numero razionale). Egli citò l'esempio del rapporto tra la diagonale di un quadrato di lato unitario e il lato stesso. Si sa (basta applicare il teorema di Pitagora) che tale rapporto è pari a radice quadrata di 2; con una magnifica dimostrazione, Ippaso diede prova dell'impossibilità di rendere questo numero come quoziente tra due interi (la prova si trova in molti testi di matematica, se qualcuno non fosse in grado di reperirla, usi il mio indirizzo di e-mail e l'avrà). Ora proviamo a supporre che i punti, anziché avera lunghezza nulla, abbiano un diametro d maggiore di zero; immaginiamo, inoltre, che tutti i punti abbiano lo stesso diametro (non ci sarebbe ragione per ipotizzare il contrario; i filosofi chiamano questo ragionamento "principio di ragion sufficiente"). Allora potremmo pensare di ingrandire una porzione del segmento e di scorgere ciò che è mostrato nella figura. Bene, adesso consideriamo il rapporto AB/d e indichiamo il risultato con la lettera m; dato che abbiamo diviso la lunghezza del segmento per la lunghezza di uno dei suoi punti, m sarà il numero di punti contenuto nel segmento AB, cioè un numero intero. Ora ripetiamo le stesse operazioni per un generico segmento CD, questa volta CD/d sarà uguale a n. Ma cosa è successo al rapporto tra AB e CD, a seguito di queste argomentazioni? Bè, esso è diventato: AB/CD = (m d) / (n d) = m/n, cioè un numero razionale! Dunque, se ipotizziamo che i punti abbiano una lunghezza diversa da zero, per quanto essa sia piccola, giungiamo a concludere che il rapporto tra le lunghezze di due segmenti qualsiasi sia razionale, affermazione che, grazie a Ippaso di Metaponto, sappiamo essere falsa. Euclide sapeva bene queste cose e, dovendo scegliere tra ciò che suggeriva la sua intuizione e ciò che indicava la logica, optò per quest'ultima, facendo un altro passo nella direzione, promossa da Talete nel 600 a. C., che avrebbe caratterizzato tutta la matematica e la scienza dei millenni a venire. Lorenzo Galante galantetin.it
"Lo scorrere del tempo" è il tema di una mostra realizzata da Gian Carlo Rigassio che si terrà a Collegno (Torino) all'ex convitto delle operaie del Villaggio Leumann (corso Francia 275) dal 19 al 27 novembre. Informazioni: 011-405.41.60.
ARGOMENTI: FISICA, DIDATTICA
ORGANIZZAZIONI: CITTA' DEI BAMBINI, UNESCO, UE UNIONE EUROPEA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, GENOVA (GE)
LABIRINTO invisibile, caleidoscopio umano, trappola per la luce... Espressioni poetiche? No, indicano alcuni degli oggetti esposti in una delle due sale dedicate alla scienza e alla tecnologia nella Città dei Bambini di Genova. Venti dei 31 giochi-esperimenti di una sala sono stati realizzati dal gruppo di Didattica della Fisica dell'Università di Genova, il Gioco, che si occupa anche di educazione ambientale su progetti dell'Unesco e dell'Unione Europea. Il Gioco ha ideato e realizzato gran parte di un modulo di 700 metri quadrati sui 2200 dell'intera Città dei Bambini. L'altra sala, allestita con materiale del museo La Villette di Parigi, ospita uno studio televisivo dove i bambini possono realizzare senza l'ausilio dei grandi interi spettacoli, un cantiere edile, dove i piccoli possono costruire la casa dei loro sogni, un grosso formicaio e altro ancora. Nei primi sei mesi di apertura, dopo l'inaugurazione avvenuta lo scorso dicembre, il museo ha accolto ben 70.000 visitatori. Tutti i giochi-esperimenti sono prototipi realizzati con materiale ignifugo e sono concepiti sulla base del motto: "un bel gioco dura tanto", intendendo il giocare e quindi il divertirsi come l'unico modo veramente serio di imparare le cose. Alla base c'è la precedente mostra scientifica interattiva Imparagiocando, svoltasi nelle tre edizioni del '92 e del '93 presso la Badia di S. Andrea a Cornigliano e del '96 al Palazzo Ducale di Genova. Imparagio cando è un gruppo di enti, il Dipartimento di Fisica, il Dipartimento di Informatica, Sistemistica e Telematica della Facoltà di Ingegneria e l'istituto di Fisica della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Genova, l'Istituto Nazionale di Fisica della Materia, il Centro di Biotecnologie Avanzate, l'Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro e l'Arciragazzi di Genova. "Il nostro credo - dice Mario De Paz, responsabile scientifico dei gruppi e professore di Laboratorio per Chimici all'Università di Genova - è di tipo costruttivista. Lo scopo è che oguno impari da sè. Cerchiamo di far capire quale sia il concetto di variabile. La domanda che dovrebbe sorgere nella mente dei giovani visitatori alle prese con i nostri giochi dovrebbe essere: se in un dato esperimento introduciamo delle varianti, quali sono gli effetti che si possono ottenere?". Quattro sono i fenomeni fisici cui ogni oggetto della mostra ricorre: la luce, il suono, la forma e il movimento. Con il bio-cromakey ad esempio è possibile provare sensazioni stravaganti come quella di accomodarsi su di un globulo rosso, di stare a cavalcioni di un'ape o di librarsi in volo. Se si passa sotto la vasca delle onde invece si crea un particolare equilibrio di luci, suoni e onde. Io sono te e tu sei me permette, frapponendo uno speciale vetro semiriflettente fra due persone sedute una di fronte all'altra, di cambiare le sembianze di una persona con il naso, la bocca o gli occhi dell'altra, producendo così una strana mescolanza dei due volti. A turni di circa 60 persone, sulle 120 che girano per il resto della Città dei Bambini, in un'ora e un quarto i bambini possono imparare e vivere la scienza e la tecnologia giocando sotto la supervisione dei sette animatori, due per ogni sezione. A proposito, quando visiterete la mostra, ricordate di portare con voi un bambino: l'ingresso (lire 8000 a persona, da martedì a domenica ore 10-17; lunedì chiuso) è bandito a tutti coloro che non siano accompagnati da almeno un minorenne di non più di 14 anni. Beatrice Bressan
ARGOMENTI: ECOLOGIA, PREMIO
NOMI: MAZZOTTI GIUSEPPE, MARAINI FOSCO
ORGANIZZAZIONI: PREMIO GAMBRINUS
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
DA sedici anni il Premio Gambrinus "Mazzotti" segnala libri di ecologia, di esplorazione, di alpinismo. E cerca di farlo andando contro corrente. I premi dell'edizione '98 sono stati consegnati sabato a Tiziano Terzani per il settore Esplorazione ("In Asia", Longanesi), Francesco Corbetta, Giovanna Abbate, Annarita Frattaroli e Gianfranco Pirone per il settore Ecologia ("S.O.S. Verde", Edagricole), Riccardo Cerri e Laura Osella per il settore Montagna (" The Queen of the Alps", Edizioni Zeisciu) e a Jacques Chatelain per il settore Artigianato ("Marcare il pane, decorare il burro", Priuli & Verlucca). Un premio speciale honoris causa è andato a Fosco Maraini per la nuova edizione di "Segreto Tibet" (Corbaccio). Che significa per la giuria del Gambrinus-Mazzotti (sede a San Polo di Piave, Treviso) andare contro corrente? Facciamo un esempio. Ecologia è parola giovane - fu coniata dal biologo tedesco Haeckel nel 1866 - ma già inflazionata, forzata, trasformata in arma politica e forse consunta. Bene: l'ecologia che il Gambrinus-Mazzotti ha sempre valorizzato è quella strettamente scientifica, che tende a capire i rapporti tra gli organismi viventi e l'ambiente nella loro fitta trama di interazioni. Il saggio premiato sabato, che denuncia quanto siano a rischio ricchezze naturali come le lagune salmastre, le foreste planiziali, le pinete mediterranee e altri ambienti analoghi, conferma questa linea. Il resto, le crociate, possono avere titoli di merito, ma sono un'altra cosa. Un discorso a sè merita il premio a Fosco Maraini. Il suo " Segreto Tibet" è uno straordinario esempio di longevità editoriale. Nato da spedizioni pionieristiche cui Maraini partecipo' nel 1937 e nel 1948 al fianco del grande orientalista Giuseppe Tucci, fu pubblicato nel 1951 e poi tradotto in una dozzina di lingue. Nel prepararne questa nuova versione, Maraini avrebbe potuto darci un aggiornamento puntuale, con interpolazioni o con un apparato di note. Ha preferito invece lasciare intatto il testo originale, e ad ogni capitolo aggiungere una "Rilettura 1998" in contrappunto con la vecchia versione. Ne esce ancora più drammaticamente il genocidio - in senso letterale e culturale - attuato dalla Cina maoista in un Tibet che fino a pochi decenni fa viveva ancora in un suo Medioevo felice e armonioso. Mettere a ruvido contatto le informazioni e le immagini di mezzo secolo fa con gli stermini e le distruzioni degli anni recenti si dimostra il più efficace dei modi per denunciare una vergogna di questo secolo: "Mio caro lettore, è con le lacrime agli occhi che ti comunico: di tutte le mirabili e antichissime opere d'arte conservate a Kyangphu, che riflettevano lo spirito umano in uno dei suoi momenti più sublimi di fede e di civiltà interiore, non restano ormai in terra, tra noi, che le pallide ombre delle fotografie qui pubblicate. E' tragico, è angoscioso, ma questa è la semplice verità.". Che il Gambrinus-Mazzotti sia un premio anomalo è documentato dal Catalogo curato da Antonio Beltrame sui primi 15 anni di attività. Basta scorrere i titoli dei quasi 800 libri che negli anni sono arrivati a San Polo di Piave. Per quanto le categorie previste dal bando di concorso possano sembrare, e in parte siano davvero, una rete che, come tale, seleziona i pesci e non può catturare quelli fuori misura per le sue maglie, l'elenco dei concorrenti riserva sorprese. Limitandoci ai settori Ecologia ed Esplorazione, tra i premiati incontriamo unoscienziato laureato dal Nobel come Konrad Lorenz con "Il declino dell'uomo" (1985), un grande avventuriero moderno come Reinhold Messner con "Antartide, inferno e paradiso" (1992), un narratore come Luis Sepulveda con "Patagonia Express", (1995) un ricercatore come Enrico Alleva con "Il tacchino termostatico" (1990), naturalisti come Giuseppe Notarbartolo di Sciara e Francesco Mezzatesta. Se poi si guarda agli esclusi, la qualità e la varietà del paesaggio umano non si abbassano: ci imbattiamo in Tullio Regge, Barry Commoner, Nazzareno Fabbretti, Jacques Cousteau, Luigi Boitani. Se un premio attira uomini così diversi, la ragione va cercata proprio nel nome di Giuseppe Mazzotti, nella sua personalità multiforme, che costituisce la vera anima di questo riconoscimento per libri che, altrimenti, non troverebbero casse di risonanza. La varietà delle sigle editoriali, dalle grandi alle minime, è un'altra scoperta di chi scorre l'elenco e la storia del Gambrinus-Mazzotti. Fino a quel Camillo Pavan che, pubblicato in proprio il saggio "Sile, alla scoperta del fiume", se lo vide premiare per la sezione Ecologia nel 1989. A San Polo di Piave il potere editoriale conta poco. Piero Bianucci
ORGANIZZAZIONI: PITTSBURGH UNIVERSITY
LUOGHI: ITALIA
IL 23 dello scorso giugno una paziente di 62 anni paralizzata alla parte destra del corpo e con gravi disturbi della parola in seguito a un ictus è stata scelta da un gruppo di neurochirurghi dell'Università di Pittsburgh in Pennsylvania per il primo trapianto intracerebrale di cellule nervose allo scopo di riparare i danni dell'infarto cerebrale. Occorreranno 12 interventi per determinare l'applicabilità e il margine di sicurezza di un così audace procedimento. Secondo il neochirurgo che dirige il progetto si tratterebbe di "una transizione nella terapia post-infartuale diretta non più solo a limitare i danni provocati al tessuto cerebrale ma bensì a restaurare la funzione mediante sostituzione con cellule nervose sane". E' ovviamente di una tecnica del tutto sperimentale che richiederà molti controlli prima di poter essere utilizzata in terapia. Basandosi su operazioni analoghe in persone colpite dal morbo di Parkinson utilizzando cellule nervose fetali si possono prevedere due esiti. Il primo, meno probabile, sarebbe un successo completo, con un ritorno della motilità e della parola. Come alternativa meno ottimistica ma forse più realistica si potrebbe ottenere un ricupero funzionale parziale. Un punto delicato di questi interventi è l'approvvigionamento di cellule nervose umane da usare come materiale di sostituzione. L'alternativa usata nel Parkinson di utilizzare cellule fetali umane ottenute da feti abortiti si è rivelata poco pratica (occorrono diversi feti in buone condizioni per ogni operazione). Nel nostro caso si è ricorsi a cellule di un tumore umano (il teratocarcinoma) coltivate in vitro onde ottenerne in numero sufficiente. Sono stati iniettati direttamente nel cervello 2 milioni di neuroni in prossimità della lesione cerebrale in tre punti diversi per un totale di 6 milioni di cellule. Per aumentare la probabilità di sopravvivenza delle cellule il paziente era trattato con immunosoppressivi come la ciclosporina (il cervello accetta cellule estranee con facilità maggiore di altri organi). Una seconda possibilità sarebbe l'utilizzazione di cellule nervose prelevate da embrioni animali come xenotrapianti (non della stessa specie). Tali cellule possono ora esser coltivate in vitro in un numero praticamente illimitato. In futuro si prevede di far crescere cellule umane embrionali o di clonare cellule animali "umanizzate". Si spera che le cellule trapiantate nel cervello ricevente non solo siano in grado di sopravvivere ma soprattutto di stabilire connessioni nervose colle cellule del cervello ospite. Negli esperimenti su ratti si è visto che le cellule tumorali del teratocarcinoma trattate con acido retinoico si comportano dopo il trapianto come vere cellule nervose progenitrici: sopravvivono per oltre un anno senza formare tumori e sono in grado di ristabilire la funzione nell'animale in cui venne simulato sperimentalmente un infarto cerebrale. Pur essendo un procedimento in fase sperimentale, ecco dunque un'alternativa interessante che aprirebbe una via completamente nuova alla riabilitazione del paziente post- infartuato ottenuta oggi principalmente mediante fisioterapia. Ezio Giacobini
ARGOMENTI: ECOLOGIA, ASTRONOMIA, ENERGIA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, SAINT BARTHELEMY (AO)
LA Regione Valle d'Aosta ha recentemente approvato una Legge regionale contro l'inquinamento luminoso. L'iter è stato lungo ma infine si è giunti a disporre di un prezioso strumento per la tutela del cielo stellato, tanto più che si parla di creare un osservatorio astronomico a Saint- Barthelemy (Nus). Sabato 21 novembre, a Torino (Palazzo Lascaris, via Alfieri 15, ore 9), si terrà un dibattito tra esperti in vista di un disegno di legge analogo per la Regione Piemonte. Può quindi essere utile riepilogare qui l'esperienza valdostana. L'inquinamento luminoso è un problema sottovalutato: la luce dispersa direttamente o indirettamente al di fuori dell'area da illuminare non sembra produrre gravi danni. In realtà i danni dell'inquinamento luminoso sono notevoli. Innanzi tutto si deve considerare l'aspetto legato alla ricerca scientifica: gli osservatori astronomici vengono enormemente danneggiati nel loro lavoro. Ma il cielo non è solo dei professionisti. Recenti fenomeni astronomici spettacolari, come il passaggio della cometa Hale-Bopp, hanno reso evidente che c'è un gran numero di appassionati alla scienza del cielo. Ma non è necessario essere astrofili per apprezzare un cielo stellato: il cielo è uno spettacolo naturale paragonabile ai migliori paesaggi. Bisogna anche ricordare che l'inquinamento luminoso comporta uno spreco di denaro pubblico in quanto si utilizza solo in minima parte la luce emanata. Pensiamo a quei globi tanto diffusi che, essendo sostenuti, dal basso, da un pilastrino, inviano più luce verso l'emisfero superiore ove non serve, anzi è dannosa, rispetto a quella che giunge invece verso l'emisfero inferiore. Inoltre ogni modo di produrre energia comporta inquinamento. Quindi tutto l'inquinamento derivato dalla produzione di energia non necessaria potrebbe essere evitato. Nè si deve dimenticare il danno che ha l'eccessiva illuminazione notturna causa ad alcune specie animali e in particolare a certi migratori. La Legge Regionale del 28 aprile 1998, n. 17, intitolata "Norme in materia di illuminazione esterna", prevede come finalità il contenimento dell'inquinamento luminoso sul territorio regionale, la salvaguardia della fauna notturna e delle rotte migratorie degli uccelli, e la tutela dei siti degli osservatori astronomici professionali e non professionali, comprese le zone circostanti. La Legge si fonda su otto articoli. Il primo prevede le finalità e definisce l'inquinamento luminoso come "ogni forma di irradiazione di luce artificiale al di fuori delle aree a cui essa è funzionalmente dedicata ed in particolare verso la volta celeste"; inoltre l'articolo stabilisce che le legge non si applica ai piccoli impianti (fino a 5 punti luce con un flusso luminoso non maggiore di 1200 lumen). L'articolo 2 vieta l'utilizzo, per l'illuminazione pubblica e privata, di fasci orientati dal basso verso l'alto, siano essi fissi, roteanti o comunque mobili. Sono quindi da escludere quei fasci potentissimi delle discoteche che hanno sollevato tante polemiche nei tempi recenti. L'articolo tre stabilisce che entro dodici mesi dall'emanazione delle norme dell'Uni e del Cei che definiscono i requisiti di qualità dell'illuminazione stradale e delle aree esterne per la limitazione dell'inquinamento luminoso, tutti gli impianti di illuminazione esterna, di nuova realizzazione o in rifacimento, dovranno essere adeguati a tale normativa tecnica. (Nel frattempo si stabilisce un limite del tre per cento del flusso luminoso che viene inviato nell'emisfero superiore, rispetto al flusso luminoso emesso dalle lampade). L'articolo 4 stabilisce alcune deroghe, mentre il quinto prevede il rilascio, alla fine dei lavori di esecuzione degli impianti luminosi, da parte dell'installatore, di un certificato di conformità degli stessi alla legge. Il sesto demanda all'Agenzia Regionale per l'Ambiente la competenza circa la formulazione di pareri ed indicazioni, su richiesta di enti pubblici e privati, e la raccolta e l'esame della documentazione in merito all'applicazione della legge. Il settimo articolo prevede la sanzione amministrativa (da lire 1.000.000 a lire 3.000.000), mentre l'ottavo riguarda gli oneri per l'amministrazione. Il disegno di legge è stato elaborato da un gruppo di lavoro costituito da Ugo Venturella, funzionario della Direzione Ambiente, da Vittorio Canale, esperto illuminotecnico, e dallo scrivente (su proposta dell'assessore all'Ambiente, Elio Riccarand). Nella speranza che analoghe iniziative vengano seguite da altre regioni, l'Associazione di Ricerche e Studi di Archeoastronomia Valdostana (Arsav, via Binel 8, Aosta) è disponibile a fornire documentazione e suggerimenti. Chiunque fosse interessato al testo completo della Legge, potrà trovarlo all'indirizzo: http://aostanet.com/privatilcossard o richiederlo per e-mail a cossard&aostanet.com. Guido Cossard
Il numero d'autunno di "Telema" è dedicato al tema "Scienza, ricerca e civiltà". Tra i contributi alla rivista della Fondazione Ugo Bordoni, articoli di Rita Levi Montalcini, Giulio Giorello, Ilya Prigogine, Luigi Berlinguer e Duccio Macchetto.
ARGOMENTI: PSICOLOGIA, BIOLOGIA
NOMI: CANGUILHEM GEORGES
LUOGHI: ITALIA
FA piacere sentir dire da uno storico della scienza e della medicina come Grmek che "la malattia è uno modo inevitabile di esistenza". Un po' di sano realismo non guasta, infatti, in un panorama di scientismo onnipotente che vorrebbe fare dell'uomo una "macchina perfetta". Al centro del revisionismo critico di Grmek - che sull'argomento ha pubblicato un saggio molto penetrante (La vita, le malattie e la storia, Di Renzo, 1998) - è un'acuta discussione su ciò che è da intendersi per "normale" e "patologico" e la consapevolezza che non sempre la malattia è il nemico da combattere: a volte può essere il male minore che nasconde e mitiga quello peggiore. L'esempio che Grmek ci mostra è quello dell'Hiv, esploso proprio in ragione della scomparsa della quasi totalità delle malattie infettive "minori". Partendo dall'idea che ogni malattia costituisce, assieme allo stato di salute, un equilibrio "normativo", Grmek rispolvera su un piano pratico l'affascinante tesi di Goerges Canguilhem (Il normale e il pa tologico, Einaudi 1998) e prima ancora quella di Freud secondo cui il raggiungimento di un equilibrio omeostatico è da preferirsi al completo annullamento del bene e del male. Questo in termini psichici, quanto fisici. Al giorno d'oggi, anche la psicoanalisi, come la medicina, ha di che interrogarsi: se è vero infatti che il progresso della tecnica - e sia l'una che l'altra possono intendersi tali, nel senso greco di techne, ossia di attività artigianale che include un sapere tecnico-scientifico e la pratica di un'arte - si avvicina sempre più alla soglia della massima precisione, è altrettanto vero che con ciò aumenta il numero dei "casi" irrisolvibili. Ci basti pensare ai primi studi sull'isteria di Freud e al dilagare delle attuali forme di depressione a sfondo esistenziale; oppure alla polmonite e all'Aids. Freud sosteneva che il sintomo fa da "schermo" a qualcos'altro: ebbene, allora è possibile che la polmonite facesse da schermo all'Aids - come sostiene Grmek - e che l'isteria e le nevrosi facessero da copertura alla depressione. Ma dove può portarci questo progressivo perfezionamento dei nostri mezzi conoscitivi e curativi? Hillman direbbe: Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio (Raffaello Cortina, 1998). Seguendo il pensiero medico, da qui a pochi anni ci sarà una pillola per ogni sintomo; ma eliminato il disturbo - inteso come campanello d'allarme e non come causa del malessere - permane la cruda realtà di un equilibrio spezzato. Lo psicofarmaco, si sa, assopisce la coscienza ma non ricuce la ferita. Fatta eccezione per quelle "patologie d'organo" che necessitano di un intervento medico, ma che non è detto che trovino la loro origine solo ed esclusivamente su un piano fisico, siamo sicuri di dover porre rimedio alla totalità dei disturbi? E' dimostrato ad esempio che la prevenzione farmacologica ha portato sì a un abbattimanento delle malattie infettive, ma ha anche accentuato le forme allergiche: l'organismo, in altre parole, è diventato iperreattivo alle sollecitazioni esterne. Sarebbe sciocco, nonché poco salutare, suggerire a un paziente che soffre di dolori addominali "prenda un antidolorifico!". Bisogna piuttosto indagare sull'origine del disturbo. Perché allora a un paziente che accusa sintomi di depressione dovremmo rispondere "prenda il Prozac", o a un altro che lamenta un'incapacità a interagire col proprio simile dovremmo suggerire la pillola contro la timidezza? Non smetterò mai di stupirmi dinanzi a soluzioni così a basso prezzo, ma posso comprenderne la logica: se scopo primario della medicina è curare, come quello del meccanico è aggiustare, allora bisogna avere a disposizione nel proprio cilindro magico una pillola per ogni occasione. Per fortuna, non sempre è così: esistono ancora persone, come Grmek, che sanno riconoscere che una parola o cinque minuti di conversazione possono fare più di un farmaco, soprattutto se ci si trova dinanzi a un "caso" senza soluzione. Esistono ancora persone che non hanno dimenticato che l'essere umano non è fatto solo di sinapsi e di formule chimiche, ma possiede anche un'anima - elemento a tutt'oggi inafferrabile per la scienza, ma essenziale per la vita. Certo, è possibile che in un domani non troppo lontano qualcuno venga a dirci che esistono il gene dell'anima e la pillola della felicità, ma se davvero il senso della nostra esistenza dovesse risolversi nel completo automatismo del nostro corpo, non vedo proprio a che ci servirebbe essere felici. Aldo Carotenuto Università di Roma "La Sapienza"
Fino a sabato è nelle edicole il Cd-rom "Nello spazio tra le stelle" allegato al settimanale "Specchio". Curato da Tullio Regge e Piero Bianucci, contiene 500 schede multimediali, 60 minuti di sequenze audio-video, 30 minuti di filmati della Nasa e dell'Esa, una decina di esperimenti interattivi, 700 immagini ad alta definizione e oltre 500 pagine di testi.
NOMI: REMUZZI GIUSEPPE
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO CARLO NEGRI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, BERGAMO (BG)
NOTE: Ramipril
UN recente studio, condotto in quattordici centri di nefrologia italiani, e coordinato da Giuseppe Remuzzi, dell'Istituto Mario Negri di Bergamo, apre un nuovo promettente capitolo per la cura delle malattie renali croniche. Stando a quanto appena pubblicato sulla rivista britannica Lancet, il ramipril, un farmaco noto e comunemente impiegato contro l'ipertensione, è in grado di fermare la progressione delle malattie dei reni e, se la cura inizia abbastanza presto, può scongiurare il ricorso alla dialisi per i pazienti non diabetici. E' tuttavia bene precisare subito che il farmaco non è efficace e non può far nulla per i malati che sono già sottoposti a dialisi, ma invece rappresenta certamente una speranza concreta per le circa 150 persone su ogni milione di italiani che, ogni anno, devono iniziare questo trattamento perché i loro reni non sono più in grado di filtrare efficacemente il sangue. I dati recenti resi noti da Remuzzi e dai suoi colleghi rappresentano la conclusione di uno studio iniziato nel 1995 e i cui risultati preliminari, pubblicati a giugno dello scorso anno sulla stessa Lancet, dimostravano che il ramipril è in grado di far diminuire del cinquanta per cento la progressione del danno renale, allontanando così nel tempo la necessità della dialisi. Il risultato ottenuto allora superava di gran lunga quelli ottenuti da altre medicine contro la pressione alta che, a differenza del ramipril, non fanno però parte della categoria degli inibitori dell'enzima convertitore dell'angiotensina, o Ace inibitori. Ma ciò che gli stessi ricercatori non si aspettavano è che, sul lungo periodo, la terapia può bloccare del tutto la degenerazione del tessuto renale. Il nuovo studio, in cui sono stati esaminati gli effetti del farmaco su 97 malati in cura da tre anni, ha infatti dimostrato che, nei pazienti trattati per tempo, il ramipril "è in grado di stabilizzare la funzione di filtraggio dei reni e azzera il rischio di dover ricorrere alla dialisi", scrivono i medici su Lancet. Inoltre, i numeri dimostrano che quanto prima la cura ha inizio, tanto maggiori saranno le sue probabilità di successo: se il danno ai reni è abbastanza limitato da permettere di curare i malati con il ramipril per un periodo di almeno trentasei mesi e senza dover ricorrere al tormento della dialisi, questa non sarà più necessaria. Il ramipril agisce facendo diminuire la perdita di proteine che si verifica se le cellule dei glomeruli (le unità filtranti dei reni) sono danneggiate. Queste strutture funzionano un po' come un setaccio le cui maglie devono essere di una misura adeguata a far passare nelle urine alcune molecole e trattenerne invece altre. Quando c'è un danno, le maglie del setaccio si allargano e non sono più in grado di trattenere le proteine: proprio per questo motivo se gli esami rivelano che ci sono alcune proteine nelle urine significa che è in corso una malattia renale. Anche se inizialmente le cellule dei glomeruli possono recuperare parte delle molecole che si sono lasciate sfuggire, con il tempo questa attività viene meno, le maglie del setaccio si allargano sempre di più e si instaura la malattia cronica che, alla lunga, rende necessario il ricorso alla dialisi. I ricercatori italiani hanno dimostrato che fermando la perdita delle proteine si riesce a bloccare la cascata di eventi che porta alla distruzione del tessuto e, inoltre, hanno individuato una nuova azione per i farmaci del tipo di quello utilizzato nello studio. Infatti, anche se i medicinali contro l'ipertensione sono comunemente impiegati per curare chi soffre di reni, secondo gli autori della ricerca " l'effetto osservato nei pazienti trattati con ramipril non può dipendere esclusivamente dall'abbassamento della pressione del sangue (...) o da trattamenti concomitanti", e deve quindi essere ricondotto a un ruolo specifico degli anti ipertensivi del tipo degli Ace inibitori nella protezione dal danno renale. Margherita Fronte