TUTTOSCIENZE 7 ottobre 98


SCIENZE FISICHE SUPER-RAZZO EUROPEO E' l'ora di Ariane 5 Il test decisivo tra pochi giorni
Autore: LO CAMPO ANTONIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
ORGANIZZAZIONI: ARIANE 5, ESA, FIAT AVIO
LUOGHI: ITALIA

IL terzo e ultimo volo di qualifica di Ariane 5, il più grande e potente razzo vettore europeo, è in programma per il 20 ottobre dalla base di Kourou, nella Guiana Francese. Se tutto procederà bene, nel gennaio '99, il quarto lancio del grande vettore sarà il primo di tipo operativo del programma Ariane 5. La storia dei lanci è breve: il primo, del 4 giugno 1996, si concluse dopo 41 secondi per un'esplosione causata dal soft ware vecchio e inadatto al nuovo razzo: tutto da rifare, e nuovo lancio lo scorso 30 ottobre. Questa volta è andata bene, ma sono state registrate anomalie che hanno fatto ritardare il terzo lancio da maggio '98 a luglio, e poi ancora al prossimo settembre; in questa occasione sul razzo vi sarà un sistema di controllo d'assetto per raddoppiare le prestazioni dell'impianto precedente, per annullare il moto di torsione anomalo che durante il lancio dello scorso ottobre è stato rilevato per tutta la durata di funzionamento del secondo stadio. Il verdetto è il seguente: la coppia di torsione generata dal motore "Vulcain", a idrogeno e ossigeno liquidi con oltre 120 tonnellate di spinta, era salita fino a 33 gradi al secondo (circa 5 giri e mezzo attorno all'asse longitudinale). Il lancio si concluse positivamente, ma i tecnici sono convinti che il ripetersi di un tale problema in futuro potrebbe vanificare il buon esito di un lancio. Un gruppo di esperti ha lavorato su oltre trenta potenziali cause del fenomeno, ma ben presto è risultato che il "Vulcain" ha funzionato perfettamente. Forse la ruvidezza della parete esterna dell'ugello di scarico, o la rottura di un piccolo braccio di supporto della turbopompa dell'idrogeno liquido hanno causato l'anomalia che avrebbe potuto portare al secondo fallimento consecutivo. Ancora una volta comunque la parte italiana del vettore ha funzionato bene, compresi la turbopompa dell'ossigeno liquido di "Vulcain" e i due grandi booster laterali a combustibile solido, tutti realizzati da FiatAvio. Il terzo Ariane 5 ci permette di gettare uno sguardo alle future missioni abitate: verrà infatti portato nello spazio un prototipo di capsula, dalle caratteristiche simili a quelle dell'Apollo, che l'Esa progetta da anni quale scialuppa di salvataggio per la stazione spaziale, in grado di rientrare a Terra con a bordo sei astronauti. Antonio Lo Campo


SCIENZE FISICHE TECNOLOGIA L'asfalto che si beve la pioggia Modificato con elastomeri, è anche fonoassorbente
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, TRASPORTI, VIABILITA'
ORGANIZZAZIONI: ANAS, ENICHEM
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, SAN DONATO MILANESE (MI)

QUANDO guidate sotto la pioggia, se l'automobile che vi precede non alza spruzzi, state viaggiando su un asfalto di nuova generazione, autodrenante e fonoassorbente. Si tratta di un bitume "arricchito" con un elastomero, stirene-butadiene-stirene, Sbs, che dà al prodotto finale caratteristiche superiori rispetto ai bitumi normali. Questo nuovo asfalto aumenta la sicurezza stradale di un buon 40 per cento: evita il formarsi di pozze d'acqua, le nebulizzazioni, gli schizzi durante i sorpassi che tolgono visibilità, elimina i riflessi luminosi dei fari tanto fastidiosi nella guida notturna, aumenta la tenuta di strada. L'Anas se ne sta già avvalendo per la rete stradale via via che si presenta l'occasione di rifare il manto. Al Centro ricerche Enichem di San Donato Milanese, dove dal 1960 si studiano i diversi tipi di bitume e si sviluppano progetti finalizzati sugli asfalti, ci spiegano come si ottiene l'asfalto Sbs. Al normale bitume si aggiunge una percentuale minima di copolimero stirene-butadiene-stirene, che lo trasforma da massa viscosa e appiccicosa in massa elastica capace di recuperare la sua forma dopo una sollecitazione. Le differenze tra i due bitumi sono evidenti: il bitume tradizionale ha il punto di rammollimento attorno ai 40-50 gradi centigradi e il punto di infragilimento di poco inferiore a zero gradi. Quello modificato invece resiste fino a più85o e -20o. L'asfalto modificato deve il suo effetto drenante alle microcavità che si trovano al suo interno (i vuoti sono circa il 20 per cento). Le microcavità permettono all'acqua di passare attraverso il mantello d'asfalto e di depositarsi sul sottostante strato impermeabile che, grazie alla sua forma a "dorso di mulo", convoglia a sua volta l'acqua in canaline di scolo ai lati della strada. Al di sopra di questo strato filtrante è steso un manto d'usura pure drenante che protegge gli interstizi dall'intasamento di terriccio. Il nuovo asfalto è inoltre più resistente nel tempo di quello tradizionale perché, non ristagnando più acqua sulla superficie stradale, si evita in caso di gelo il formarsi di ghiaccio, fenomeno che invece danneggia l'asfalto tradizionale frantumandolo come vetro. Si risparmia quindi nella manutenzione. L'asfalto autodrenante ha una superficie ruvida, scabra, che, senza danneggiare gli pneumatici, assicura una maggiore aderenza, oltre ad un significativo effetto fonoassorbente. Questo tipo di asfalto è stato provato per la prima volta nell'Autodromo di Monza nel 1960, ma non ha avuto da allora grande diffusione perché più costoso del tipo tradizionale. Oggi, invece, col prevalere di ragioni di sicurezza stradale, di minori costi di manutenzione e anche d'adeguamento agli standard europei, sta conquistando la rete stradale italiana.Pia Bassi


SCIENZE A SCUOLA. L'ESPERIMENTO / PRESSIONE ATMOSFERICA L'invisibile forza dell'aria Come schiacciare una lattina o un bidone
Autore: MAINA EZIO

ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA

ECCO come sperimentare la forza dell'aria. Occorrente: - Una lattina della vostra bibita preferita. - Un fornello elettrico o a gas. - Mezzo metro di filo di ferro. - Una presina o un guanto da forno. - Una vaschetta d'acqua a temperatura ambiente. Attenzione: questo esperimento deve essere fatto con l'assistenza di un adulto. Esecuzione. Bevete il contenuto della lattina. Costruite un manico piegando il filo di ferro, circa a metà della sua lunghezza, attorno alla lattina e poi attorcigliando fra loro i due capi liberi. Controllate che il filo di ferro stringa bene la lattina e che sia possibile rovesciarla facilmente usando il manico che avete preparato. Versate un poco di acqua dentro la lattina in modo da coprirne appena il fondo. Disponete la vaschetta con l'acqua fredda nelle vicinanze del fornello, facendo attenzione che sia stabile. Accendete il fornello e ponetevi sopra la lattina. Per sostenerla utilizzate il manico, che va maneggiato usando il guanto da forno. Il metallo è un ottimo conduttore di calore, quindi, per evitare scottature, non dovete mai toccare la lattina o il suo manico, quando sono sul fuoco, con le mani non protette. Portate a ebollizione l'acqua. Quando vedrete uscire dalla lattina i primi sbuffi di vapore afferrate saldamente il manico e rovesciate la lattina con attenzione sulla vaschetta d'acqua a temperatura ambiente, immergendo, di qualche millimetro, l'estremità con il foro di uscita. La lattina verrà istantaneamente schiacciata producendo un forte rumore, simile a quello di un palloncino che scoppia. Che cosa succede? Quando l'acqua inizia a bollire, parte del liquido si trasforma in vapore acqueo espellendo parzialmente l'aria che era contenuta nella lattina. Quando si rovescia la lattina e la si mette in contatto con l'acqua fredda, il vapore acqueo si raffredda rapidamente, grazie alla buona capacità dell'alluminio di condurre il calore, e torna a condensarsi in piccole gocce. La pressione del gas all'interno della lattina diminuisce e la differenza fra la pressione interna e quella atmosferica esterna porta allo schiacciamento del contenitore. Un ruolo essenziale nella dimostrazione viene svolto dalle piccole dimensioni del foro sulla lattina. Infatti quando la pressione interna diminuisce, l'acqua sotto l'apertura viene risucchiata verso l'alto ma, a causa del ridotto diametro del passaggio, il tempo richiesto per la risalita dell'acqua è più lungo di quello necessario allo schiacciamento della lattina. Se infatti si asporta con un apriscatole tutta la sua parte superiore, la lattina non collassa ma si riempie semplicemente di acqua. Lo si può verificare facilmente introducendo un cartoncino o un piattino nell'acqua della vaschetta e chiudendo con questo l'apertura della lattina mentre ancora si trova sotto il pelo dell'acqua. Quando si estrae la lattina e la si raddrizza, sempre mantenendola ben chiusa, la si trova quasi completamente piena di liquido. Una dimostrazione spettacolare dello stesso fenomeno, adatta a un pubblico numeroso, può essere fatta utilizzando uno dei grandi fusti metallici impiegati per il trasporto di olii minerali. Si introduce nel fusto una piccola quantità d'acqua che viene posta in ebollizione. Il contenitore viene poi chiuso, avvitando con cura il tappo, e lasciato raffreddare. La crescente differenza di pressione fra interno ed esterno porta al suo schiacciamento. Su scala più modesta lo stesso meccanismo spiega come una bottiglia di plastica schiacciata non riesca a riprendere la sua forma originale se viene immediatamente ritappata, riuscendovi invece, almeno parzialmente se la si lascia aperta. In modo analogo, quando beviamo con una cannuccia un succo di frutta da un contenitore di cartoncino, le pareti del contenitore si flettono verso l'interno sotto la spinta dell'aria esterna. Noi non ci accorgiamo, in condizioni normali, della pressione atmosferica perché questa agisce sul nostro corpo con la stessa intensità in tutte le direzioni e quindi la forza totale che ne risulta è nulla. Non va però dimenticato che su ogni centimetro quadrato della nostra pelle, e di qualsiasi altro oggetto fisico, agisce una pressione pari a quella esercitata da una colonna di mercurio alta circa 76 centimetri, come ci ha insegnato Torricelli. Se al posto del mercurio si utilizza acqua, la pressione atmosferica equivale a una colonna d'acqua alta più di dieci metri. Quando l'equilibrio fra la pressione atmosferica agente sulle facce opposte di una superficie viene rotto gli effetti, come abbiamo visto, possono essere drammatici. Ezio Maina Università di Torino


SCIENZE A SCUOLA I NUOVI CONCORSI L'Università e il lavoro
Autore: MARCHISIO PIER CARLO

ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

LA nuova legge che disciplina l'assunzione dei professori universitari, già trattata su "Tuttoscienze", manda definitivamente in pensione lo scandaloso meccanismo dei concorsi nazionali. Essa rappresenta in un certo senso il ritorno a un passato recente, finito con i primi Anni 70, quando erano le sedi universitarie a bandire la competizione per le singole cattedre. Il meccanismo di quei concorsi era degenerato a causa di manovre politiche e fu giustamente abolito. Purtroppo per essere sostituito da un meccanismo ancora peggiore quando sarebbero bastate poche correzioni per adeguarlo al panorama accademico mutato profondamente dopo il '68. La nuova disciplina dei concorsi riprende alcuni aspetti della vecchia legge e riporta sotto il controllo delle singole università un diritto storico nato con il concetto stesso di autonomia universitaria e le cui radici affondano nel medioevo. Non è tuttavia un semplice ritorno alla storica autonomia dell'organizzazione accademica ma l'adeguamento alle mutate condizioni dell'insegnamento universitario, che deve corrispondere a nuovi bisogni di cultura reale, più flessibile e più diffusa. Si tratta di correggere l'allarmante tasso di abbandono studentesco che affligge l'università italiana ormai ridotta ad area di parcheggio per giovani disoccupati con costi disastrosi per la società. Al ministro e alle singole università tocca ora disciplinare l'accesso degli studenti, il che non significa, come sostengono molti demagoghi, limitare il diritto allo studio. Si tratta invece di garantire questo diritto facendo sì che tutti gli studenti iscritti e meritevoli possano terminare il loro corso di studi. Abbiamo bisogno di tecnici preparati pronti per il mondo del lavoro e non di una pletora di studenti frustrati. Dobbiamo in questo semplicemente adeguarci ai Paesi guida dell'Europa. E io credo che questo fosse nelle intenzioni del ministero. Ora, però, se tutto procede come dovrebbe, non dovrebbe più esistere un ministero dell'Università. Esiste un ente di questo tipo negli Stati Uniti? No. La competenza sull'insegnamento superiore deve essere per intero responsabilità delle singole università con al massimo un minimo di raccomandazioni e di controllo sul numero degli studenti esercitato dai governi regionali. Il futuro dell'Università italiana passa esclusivamente attraverso il reclutamento di docenti preparati e scientificamente produttivi. Gli americani e molti nostri partner europei hanno capito da tempo che questa è l'unica strada praticabile per legare l'università alla cultura scientifica ed economica. Noi ci stiamo, con ritardo, avviando nella stessa direzione a patto che le buone intenzioni che si intravedono non si stemperino in provvedimenti destinati a lasciare le cose come stanno. Se venisse a mancare un reale progresso nella realtà scientifica del Paese, altro che Maastricht ci vorrebbe per tener testa all'Europa. Pier Carlo Marchisio


SCIENZE FISICHE ASTROFISICA Lampi gamma thriller Un enigma ai confini dell'universo
Autore: VERNETTO SILVIA

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
LUOGHI: ITALIA

DAL giorno della loro scoperta, che risale alla fine degli Anni 60, fino all'ultima manifestazione del 27 agosto di cui riferiamo qui accanto, i "lampi" di raggi gamma (gamma-ray burst) non smettono di stupire e di turbare il mondo degli astrofisici. Molti studiosi hanno cercato di svelare l'origine di questi misteriosi lampi di raggi gamma prodotti da ignote sorgenti celesti e solo l'anno scorso è stato scoperto che i gamma-ray burst provengono da lontane galassie, un risultato che ha messo fine all'annoso dibattito sulla loro distanza. Le osservazioni in raggi X del satellite italo-olandese Beppo- Sax e le osservazioni ottiche di numerosi telescopi sparsi in tutto il mondo hanno mostrato che i burst, dopo la caratteristica emissione di raggi gamma della durata di pochi secondi, continuano ad emettere radiazione X e luce visibile per giorni e settimane, con un lento calo di intensità fino a divenire del tutto inosservabili, lasciando infine apparire la debole luce della galassia in cui sono stati prodotti. In un caso è stato possibile misurare la distanza dall'oggetto luminoso correlandola con il flusso di raggi gamma osservati. Si è dedotto che i gamma-ray burst sono gigantesche esplosioni che rilasciano un'energia pari a quella che la nostra galassia emette in un anno intero, paragonabile solo a una esplosione di supernova, l'evento ritenuto il più energetico dell'universo. Ma le sorprese non sono finite. Un nuovo risultato ha scosso ancora una volta gli studiosi del settore: il telescopio Keck II alle isole Hawaii è stato ripuntato verso la posizione di un burst rivelato nel dicembre 1997, il terzo di cui era stata osservata la controparte in luce visibile. Il bagliore del burst era ormai svanito e al suo posto vi era una debolissima galassia, di luminosità paragonabile a quella si una lampadina lontana più di un milione di chilometri. Nonostante l'esiguità della sorgente è stato possibile stimarne la distanza dallo studio del suo spettro luminoso: a causa dell'espansione dell'universo tutte le galassie si stanno allontanando da noi, e poiché la loro velocità è con buona approssimazione proporzionale alla loro distanza, quest'ultima è valutabile dalla misura dell'arrossamento della luce dovuto al moto di allontanamento, noto come effetto Doppler. Nella sorpresa generale, la galassia che aveva ospitato il burst risultava lontana 12 miliardi di anni luce, una distanza quasi comparabile a quella degli oggetti più remoti finora conosciuti. L'esplosione sarebbe avvenuta solo 2 miliardi di anni dopo il Big Bang, quando l'universo non aveva che un settimo dell'età attuale ed era 4,4 volte più piccolo. Considerata la sua enorme distanza, nell'ipotesi che l'emissione avvenga in modo isotropo, l'energia del burst sarebbe almeno 100 volte superiore ai valori finora ipotizzati, superando anche le esplosioni di supernova ed eguagliando addirittura l'energia luminosa emessa dall'intero universo in un secondo! L'origine di tutta questa energia, che fa dei gamma-ray burst gli oggetti più luminosi del cosmo, rimane un mistero. Prima di questi recentissimi risultati, il modello più in voga imputava l'enorme esplosione alla fusione di due stelle di neutroni. Le stelle di neutroni sono ciò che resta di un'esplosione di supernova, l'evento che conclude la vita delle stelle circa 10 volte più pesanti del Sole: esaurito il combustibile nucleare, il nucleo della stella collassa sotto il suo stesso peso, precipita verso il centro comprimendosi enormemente e rimbalzando produce un'onda d'urto che scaglia nello spazio tutta la materia stellare che lo circonda. Dopo l'esplosione, della stella originaria non rimane che una parte del suo nucleo, ridotto ad una sfera di una decina di chilometri di diametro e formato quasi completamente di neutroni, un oggetto di densità così elevata da pesare quasi un miliardo di tonnellate per centimetro cubo. Esistono anche sistemi binari in cui due stelle di neutroni ruotano strettamente una intorno all'altra e, perdendo energia sotto forma di onde gravitazionali, con il tempo si avvicinano sempre più fino a fondersi, dando origine a un buco nero, un corpo compattissimo con un campo gravitazionale tanto intenso da impedire alla luce stessa di uscire. I gamma-ray burst potrebbero essere il risultato di questa coalescenza, che avverrebbe in media in ogni galassia circa una volta ogni milione di anni. Ma l'energia prodotta da questo evento potrebbe non essere abbastanza elevata per generare il potentissimo gamma-ray burst del dicembre '97. Modelli alternativi paiono ora più idonei, ad esempio quelli che teorizzano una ipernova, una ipotetica versione molto più energetica della supernova, una titanica esplosione causata da collasso gravitazionale in stelle 100 volte più massiccia del Sole, che darebbe origine, anziché a una stella di neutroni, a un buco nero. La nuova sfida non è che agli inizi e il campo di ricerca è aperto a tutte le interpretazioni: forse fenomeni nuovi e per ora inimmaginati stanno all'origine di queste colossali esplosioni avvenute miliardi di anni fa, e la loro comprensione può rivelarci aspetti sconosciuti dell'evoluzione del cosmo. Silvia Vernetto Istituto di Cosmogeofisica Cnr, Torino


SCIENZE FISICHE Magnetar in vista Il 27 agosto un potente fiotto di energia X e gamma ha investito la Terra: veniva da un astro misterioso
Autore: BONANNI AMERICO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
NOMI: FEROCI MARCO
ORGANIZZAZIONI: CNR
LUOGHI: ITALIA

IL 27 agosto scorso la Terra è stata illuminata da un lampo invisibile, una esplosione di energia proveniente da 20.000 anni luce di distanza. La causa dell'insolito bombardamento sarebbe uno strano corpo celeste: la magnetar, cioè una stella di neutroni supermagnetica. Il fenomeno è avvenuto sopra della costa occidentale degli Stati Uniti, in quel momento immersa nella notte. Per cinque minuti la ionosfera (situata tra i 60 e gli 80 chilometri di altezza) è stata colpita da un fascio di raggi gamma e X provenienti dall'esterno del sistema solare. Le radiazioni hanno causato il fenomeno della ionizzazione, nel corso del quale gli atomi perdono alcuni elettroni. E' un processo che avviene continuamente nella parte di atmosfera rivolta verso il Sole e quindi sottoposta alla sua energia. Ma questa volta il Sole non c'entra. "E' stato - dice Umran Inan, dell'università americana di Stanford - come se lassù nella ionosfera la notte si fosse improvvisamente trasformata in giorno". Proprio gli strumenti della Stanford hanno rilevato l'improvviso cambiamento. Il gruppo guidato da Inan, infatti, tiene costantemente sotto controllo il livello di ionizzazione di quella parte di atmosfera: in quei 5 minuti del 27 agosto il livello è stato pari a quello provocato dal Sole. Nello stesso istante 7 satelliti, in orbita o in viaggio nel sistema solare, stavano rilevando un potente lampo gamma. Tra questi c'era l'italiano "Beppo" Sax, lanciato proprio per lo studio di questi fenomeni. "Il lampo del 27 agosto - dice Marco Feroci dell'Istituto di astrofisica spaziale del Cnr - è stato così potente da mandare a fondo scala tutti i rivelatori del satellite: un evento eccezionale per una sorgente già nota". L'oggetto responsabile della cascata di energia del 27 agosto è indicato solo da una sigla: SGR 1900più14. Conosciuto per diverse esplosioni gamma precedenti, è considerato un buon candidato per il modello delle "magnetar". Secondo le attuali ipotesi sarebbero stelle di neutroni (ciò che resta di alcune grandi stelle dopo la loro esplosione in supernova) dotate di un campo magnetico molto superiore rispetto alle altre, così potente da spaccare la superficie della stella causando una specie di movimento tellurico seguito da un enorme rilascio di energia. La coincidenza tra le osservazioni della ionosfera e quelle astronomiche ha permesso una prima ricostruzione della storia del 27 agosto. Prima di tutto SGR 1900più14 si dimostra sempre più una magnetar, almeno secondo i risultati presentati martedì 29 settembre durante una conferenza stampa organizzata dalla Nasa e da altre università Usa. Un forte terremoto stellare sulla sua superficie avrebbe quindi causato il lampo gamma osservato dai satelliti. Tanto per curiosità, secondo alcuni calcoli l'energia liberata in quella esplosione basterebbe per alimentare l'intera civiltà umana per un miliardo di miliardi di anni. Quanto alla Terra, l'atmosfera, investita dai raggi gamma e X, si è ionizzata, disturbando le comunicazioni radio nella parte del globo rivolta verso SGR 1900più14. "Tutto questo - commenta Inan - dimostra che la Terra non si trova in uno splendido isolamento. Il nostro ambiente è influenzato anche da energie provenienti da remoti angoli dell'universo". Americo Bonanni


SCIENZE A SCUOLA. LEZIONE / MATEMATICA Peano, il nonno dei frattali A Cuneo convegno sul grande matematico di fine '800
Autore: ODIFREDDI PIERGIORGIO

ARGOMENTI: MATEMATICA
NOMI: PEANO GIUSEPPE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, CUNEO (CN)

A Cuneo è stato dedicato qualche giorno fa un monumento al matematico Giuseppe Peano, e domani si tiene un convegno sulla sua opera. Saranno anche premiati i vincitori di un concorso a cui hanno partecipato studenti di tutta l'Italia con realizzazioni al computer della famosa cur va di Peano, che è anche rappresentata nel monumento. Peano è stato uno dei massimi matematici italiani di fine Ottocento e la sua specialità era l'analisi matematica. Alcuni dei risultati fondamentali che si insegnano tuttora nei corsi universitari sono dovuti a lui: per coloro che hanno studiato l'analisi, ricordiamo la definizione di area come limite delle approssimazioni poligonali interne ed esterne, il teorema di esistenza delle soluzioni di equazioni differenziali e il metodo di soluzione di sistemi di equazioni differenziali per approssimazioni successive. Questi risultati, per quanto importanti, non sarebbero però bastati a far conoscere il nome di Peano al pubblico, se egli non avesse trovato nel 1889 la sua famosa curva. La problematica relativa a questa scoperta risale ad un lavoro di Georg Cantor, l'inventore della teoria degli insiemi, il quale aveva dimostrato nel 1878 che un segmento ed un quadrato hanno lo stesso numero di punti nel senso che si possono ridisporre i punti del segmento in modo da far loro ricoprire l'intero quadrato. Peano trovò che la corrispondenza di Cantor tra un segmento e un quadrato può addirittura essere resa continua, nel senso che se si immagina il segmento costituito di un elastico, lo si può deformare senza romperlo in modo da fargli ricoprire l'intero quadrato. Gli esempi di Cantor e Peano mostravano dunque che il segmento e il quadrato, benché oggetti di dimensioni diverse, sono in realtà molto più simili del previsto. L'esempio più semplice di una curva del tipo di quella di Peano fu proposto nel 1891 da David Hilbert, e si ottiene nel modo seguente. Si divide anzitutto il quadrato in quattro parti che vengono numerate: esse corrispondono ciascuna ad un quarto del segmento di partenza. Si ripete poi il procedimento per ciascun quarto e si numerano i sedici quadratini così ottenuti: poiché ciascuno corrisponde a 1/16 del segmento di partenza, la numerazione dovrà essere consecutiva, nel senso che si può solo passare da un quadratino ad uno adiacente ad esso. Si ripete poi il processo, all'infinito. Se ad ogni passo si congiungono i centri dei vari quadratini con una poligonale, si ottengono approssimazioni di quella che sarà la curva finale. Una di queste poligonali è appunto rappresentata nel monumento di Cuneo, ma si deve fare attenzione a non confondere nessuna delle approssimazioni con la vera curva, che è il risultato finale di questo processo. Via via che si procede, le varie approssimazioni diventano però più complicate, e colorano una parte sempre maggiore del quadrato: alla fine, proprio perché la curva ricopre interamente il quadrato, essa non si distingue più dal quadrato completamente colorato. Inoltre, le approssimazioni della curva di Hilbert hanno la spiacevole proprietà che, benché esse si avvicinino via via alla curva finale, nessuna di esse ne fa parte. L'esempio originale di Peano non aveva questo difetto, ma era un po' più complicato: i quadrati venivano divisi in nove parti, invece che in quattro, e si procedeva zigzagando lungo le loro diagonali, invece di congiungerne i centri. Con la sua scoperta Peano aveva comunque sfregato una lampada magica, dalla quale uscirono come folletti innumerevoli variazioni. La prima, già citata, fu appunto quella di Hilbert. Nel 1905 Henri Lebesgue estese il risultato dal quadrato al cubo e all'ipercubo. In seguito si scoprì che la curva di Peano non è che il primo esempio di quei frattali che sono diventati vere e proprie forme d'arte computerizzata, e che hanno la proprietà che ciascuna loro parte è simile al tutto. Insomma, Peano e la sua curva hanno ben meritato l'onore di un monumento, certo insolito per un matematico, e ancor più per la sua opera. Piergiorgio Odifreddi Università di Torino


SFIDA INFORMATICA Segretissimo... o quasi Un personal fa saltare il codice del Bancomat
Autore: ALLASIA GIANPIETRO, CERRUTI UMBERTO

ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA
LUOGHI: ITALIA

LUNEDI' 13 luglio '98, in una stanza della Eef (Electronic Frontier Foundation) a San Francisco, sei scatoloni pieni zeppi di chip iniziano ronzando il loro lavoro sotto la direzione inflessibile di un semplice ma testardo personal computer con sistema operativo Linux. Sono attive 35.868 unità costruite apposta, montate su 26 schede; durante una breve pausa, le unità vengono portate a 37.050 con l'aggiunta di un'ulteriore scheda. Dopo 56 ore di calcolo il personal emette un segnale di trionfo: il messaggio cifrato è decodificato! Eccolo: "It's time for those 128-, 192-, and 256-bit keys". Il gruppetto di matematici, informatici e crittologi, che ha lavorato al progetto per poco più di un mese, è travolto dall'entusiasmo. Il significato dell'evento è enorme: il DES (Data Encryption Standard), lo standard Usa di crittografia, è stato rotto con una spesa (inclusi progettazione, chip, software e montaggio) inferiore a 250.000 dollari e con tecniche di pubblico dominio. Il DES è un codice simmetrico che lavora su blocchi di 64 bit di messaggio, cioè 8 byte. Se per esempio utilizziamo l'ordinario codice Ascii, alle lettere A, I, N, O e V corrispondono i numeri decimali 65, 73, 78, 79 e 86; questi, trasformati in numeri binari sono rispettivamente 01000001, 01001001, 01001110, 01001111 e 01010110. Inoltre lo spazio ha numero decimale 32, in binario 00100000. Segue che il messaggio "Viva noi" viene inviato al DES così: 01010110010010010 1010110010000010010000001 0011100100111101001001. Il DES utilizza una chiave che è anch'essa di 64 bit. Però 8 bit sono usati per il controllo di parità (dopo 7 bit consecutivi ce n'è uno di controllo); quindi la chiave ha una lunghezza effettiva di 56 bit. Data la chiave, l'algoritmo del DES percorre 16 cicli identici nei quali vengono effettuate complesse operazioni sul blocco in ingresso; il risultato dipende unicamente dalla chiave stessa e dal blocco entrato. Il codice è simmetrico in quanto se si fa entrare il risultato (messaggio cifrato) si riottiene, con la medesima chiave e nessun'altra, il testo originale. Poiché una chiave ha 56 bit, le chiavi possibili sono 2 elevato a 56, cioè circa 72 milioni di miliardi. Ogni unità del DES Cracker della EFF esaminava circa 2,5 milioni di chiavi al secondo, per un totale di 90 miliardi di chiavi al secondo. Il tempo di ricerca atteso era di 4,5 giorni. Con un po' di fortuna, il successo è arrivato dopo l'esame di un quarto delle possibilità: 18 milioni di miliardi di chiavi. Tutto questo è stato realizzato come risposta alla sfida DES Challenge II (premio 10.000 dollari), proposta da un gruppo di famosi crittologi con lo scopo di dimostrare al governo Usa l'inutilità delle restrizioni legislative sulla crittografia. Altre gare sono avvenute in precedenza con lo stesso obiettivo: rompere il DES! Nel 1997 il premio è stato vinto dopo 5 mesi di calcolo da parte di migliaia di personal computer in rete controllati da un server centrale. All'inizio del '98 il tempo necessario è stato inferiore alle 6 settimane; la rete di computer ha esaminato 30 miliardi di chiavi al secondo, per un totale di 63 milioni di miliardi prima di trovare quella giusta (il messaggio segreto era Many hands make light work). La prossima gara inizierà il 13 gennaio del 1999; si vinceranno 10.000 dollari se il codice sarà rotto in 14 ore e premi minori per tempi più lunghi. Saranno in rete personal di volontari in tutte le nazioni. Dal novembre di quest'anno il DES a 56 bit non sarà più usato dal governo Usa (che comunque già prima non si serviva del DES per le informazioni top secret). Ma il risultato probabile di questa sequenza di sfide (e relative vittorie) sarà che il vecchio DES potrà essere rotto in poche ore (se non in pochi minuti) da gruppi o singoli opportunamente attrezzati. Milioni di documenti riservati perderanno la loro segretezza e le conseguenze di questa (indesiderata) trasparenza saranno gravissime. L'Associazione dei Banchieri Usa ha già espresso profonda preoccupazione per l'evolversi della situazione. Ogni giorno, in gran parte del mondo, i trasferimenti bancari sono eseguiti in forma crittografata. Lo stesso PIN, il numero di identificazione personale delle nostre carte Bancomat, è cifrato in modo tale che chi casualmente (o non tanto casualmente) si trovi in possesso della nostra carta non possa leggere il numero sulla banda magnetica della stessa. Il DES, divenuto standard crittografico internazionale, è stato introdotto nel 1977 dopo anni di ricerche. Il Nbs (National Bureau of Standard, ora NIST, National Institute of Standard and Technology) scelse un algoritmo inizialmente sviluppato dall'Ibm e certificato dalla Nsa (National Security Agency) come "privo di debolezze statistiche o matematiche". Questa scelta ha suscitato molte controversie negli Usa. Il progetto iniziale dell'Ibm prevedeva chiavi lunghe più di un centinaio di bit; lunghezza che è stata ridotta a 56 bit nel DES. Alcuni critici dissero che questa dimensione - ridotta ma non troppo - era stata imposta dalla Nsa affinché fosse impossibile (o comunque troppo dispendioso) rompere il codice a chiunque non possedesse i super computer dei servizi di sicurezza statunitensi. Altri espressero il sospetto dell'esistenza di una sorta di "porta di servizio" nascosta nel codice: un punto debole introdotto apposta per rendere possibile la decifrazione a chi lo conosca, anche senza la chiave. Cercare le presunte debolezze del DES - volute o meno dalla Nsa - divenne il passatempo preferito di molti crittoanalisti. Si pensò, per esempio, che l'insieme delle chiavi fosse "chiuso". Questo significa che se si prende un blocco B e lo si codifica con una chiave J ottenendo il blocco (cifrato) B', e quindi si codifica B' con una seconda chiave K ottenendo il blocco (cifrato due volte) B", esiste sempre una terza chiave L, tale che cifrando B con essa si ottiene direttamente B". La chiusura dello spazio delle chiavi di un codice fa sì che esso sia sensibile a particolari attacchi crittoanalitici di tipo algebrico. Però nel 1993 venne dimostrato che l'insieme delle chiavi del DES non è chiuso. La provata non-chiusura dello spazio del DES ha reso sensata l'introduzione del Triple DES, algoritmo eguale al DES, a parte il fatto che il messaggio è cifrato tre volte di seguito, usando 3 chiavi; ovviamente se l'insieme delle chiavi fosse chiuso questo non porterebbe a nulla di diverso dalla utilizzazione di una sola chiave. Il Nist non si è però pronunciato su una effettiva maggiore robustezza del Triple DES, che è già usato da molte istituzioni e sostituirà del tutto il DES a partire da novembre, in attesa che si metta a punto il nuovo standard (potrebbe essere l'EES, cioè Escrowed Encryption Standard). I ripetuti e poderosi attacchi a cui il DES è stato sottoposto eliminano comunque ogni sospetto di superficialità o di intenti fraudolenti nei progettisti del DES. Infatti il DES ha superato persino le aspettative e si è dimostrato forte anche contro potenti algoritmi basati su teorie matematiche che nel 1977 non erano immaginabili. La debolezza del DES risiede unicamente nel fatto che lo spazio di ricerca delle chiavi è relativamente piccolo. Questo è dovuto a due dati di fatto. In primo luogo la ricerca delle chiavi è un problema computabile in parallelo: mille processori che esplorino un milione di chiavi al secondo cercano complessivamente un miliardo di chiavi al secondo. Naturalmente aumenta nella stessa misura il costo, ma se ci sono forti interessi, economici o di altro genere, i fondi si trovano. In secondo luogo, il progresso tecnologico produce, a parità di costo, processori sempre più veloci, che facilitano un attacco al DES. Tuttavia le proiezioni degli esperti dicono che con una chiave di 128 bit il sistema sarebbe al sicuro da ogni attacco basato sulla sola forza bruta della potenza di calcolo per almeno 35 anni. Il DES Cracker della Eef usa vecchie tecnologie, semplice progettazione hardware, software non molto interessante, e nessuna teoria crittoanalitica. Non è una meraviglia dell'ingegneria; la sola cosa interessante è quanto realmente la sua costruzione non presenti difficoltà. La vera notizia è che un piccolo gruppo di civili, organizzatisi in modo autonomo, abbia potuto costruire qualcosa che l'amministrazione pubblica ha sempre negato fosse possibile fare. La funzione principale di queste disfide è dimostrativa; esse rappresentano anche prese di posizione contro una certa ipocrisia nell'atteggiamento delle organizzazioni governative e nella legislazione che negli Usa regola l'esportazione di algoritmi crittografici. I servizi segreti Usa vivono nel terrore che possano circolare notizie per loro indecifrabili, che esista qualcosa che non possano conoscere e quindi cercare di controllare. La legge Usa attribuisce principalmente all'Itar (International Traffic in Arms Regulations) la funzione di evitare che solidi codici crittografici - trattati al pari di dispositivi bellici - cadano nelle mani di persone, enti o stati non autorizzati. Ma, in generale, questo non funziona. Un risultato curioso dell'azione dell'Itar è che esistono in Europa ditte che vendono software crittografico sviluppato in Usa, che però le società americane non possono esportare. Gianpietro Allasia Umberto Cerruti Università di Torino


TECNOLOGIA Serve mettere il "paraonde" al telefonino? Un grande giro di affari intorno ad aggeggi di dubbia utilità
Autore: GRASSIA LUIGI

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, COMUNICAZIONI
NOMI: CIARROCCA GIULIO, PACELLI EUGENIO
LUOGHI: ITALIA

SEMBRA il caso Di Bella dei telefonini. Nei negozi specializzati e nelle farmacie di tutta Italia si vendono apparecchietti che promettono di schermare le onde elettromagnetiche - forse dannose, benché niente sia ancora stato appurato - emesse dai cellulari. Gli acquirenti dei vari congegni non mancano e "molti sono medici", assicurano i commercianti. Gli scienziati esperti di onde radio e dei loro effetti biologici, invece, oppongono un muro senza brecce, benché con motivazioni articolate. "Questi aggeggi non possono funzionare", dicono. Oppure: "Se funzionano compromettono l'impiego del telefono". O ancora: "Funzioneranno, ma non servono a niente perché i cellulari non sono pericolosi". Ma fra i ricercatori si registra anche una certa curiosità e una (scettica) disponibilità a studiare un po' meglio queste novità. Chiariamo subito che non ci proponiamo di affrontare il problema, studiatissimo in tutto il mondo ma finora senza certezze definitive, se l'uso dei telefonini danneggi la salute; ci chiediamo solo se sia possibile limitare la nostra esposizione alle onde elettromagnetiche dei cellulari, siano esse nocive o no. Si candida alla bisogna tutta una serie di ritrovati, dalle palline alle terre rare a particolari tessuti in fibra di carbonato (unitamente ad apparecchi meno esotici, ma la cui efficacia nessuno contesta, come i "viva voce" e gli auricolari). Concentriamoci su due prodotti che vanno per la maggiore: la " coccinella" e il "phone shield". La prima è un simpatico oggetto, che di una coccinella ha appunto le dimensioni, la forma stilizzata e il colore: si attacca al telefonino e dovrebbe assorbirne le radiazioni. Grazie a un'intervista via fax con l'inventore coreano, abbiamo appreso che il congegno è realizzato con 5 ossidi di metallo e sfrutta il fenomeno della risonanza magnetica. Il limite delle domande e risposte scritte, senza controreplica, ha impedito di approfondire. C'è anche una certificazione della Utah University e il distributore italiano è "pronto a qualunque verifica" nei laboratori nostrani. Il phone shield è un cappuccio che avvolge la parte alta del telefonino, antenna esclusa. Un ingegnere della ditta che lo importa dagli Usa spiega: "E' fatto di un materiale segreto, usato sui satelliti per schermare le apparecchiature che possono essere danneggiate dalle onde radio. Le emissioni più pericolose dai cellulari sono alla base dell'antenna, proprio vicino all'orecchio. Il tessuto le ferma, proteggendo la salute senza interferire con l'antenna e dunque senza limitare le prestazioni del telefonino". Anche lui allega la validazione di un istituto indipendente di ricerca, gli americani Aprel Laboratories (i dati sono disponibili in Internet). Gli studiosi italiani che abbiamo consultato non mettono in discussione questi risultati. Ma per una ragione o per l'altra obiettano tutti che il punto non sta lì. " Siamo capacissimi di schermare queste emissioni al 90 o al 98%, e questo già da decenni - spiega ad esempio Angelo Lozito, fisico e consulente di Legambiente - Senonché, una volta che un telefonino è schermato non funziona più. E' come dire: se un'auto sta ferma non consuma benzina. Però non si va da nessuna parte". Neanche l'idea di un stop selettivo, vicino all'orecchio e non sull'antenna, convince Lozito: "Il diagramma di radiazione dei cellulari è già ottimizzato dal costruttore. Per cambiarlo bisogna modificare il progetto, ma così si alterano anche le prestazioni". Giulio Ciarrocca, uno dei massimi esperti italiani (ora fisico alla Pergaso prevenzione ambiente), concede qualcosa in più e qualcosa in meno: scorrendo i test sul phone shield, pur con la riserva che si presentano in forma divulgativa e non in quella canonica di una relazione scientifica, accetta per vero o verosimile che la schermatura sia selettiva e non comprometta il funzionamento; aggiunge però: "Proteggersi dalle emissioni dei telefonini non ha scopo perché in anni e anni di studi in tutto il mondo non è emersa la minima prova che siano dannose". Non riapriamo questo dibattito. Ma dal momento che basta allontanare l'apparecchio di pochi centimetri, osserva Ciarrocca, per ridurre drasticamente l'assorbimento, lo studioso consiglia ai più apprensivi di usare auricolari e viva voce. E di non servirsi del cellulare in auto, perché questa "scatola" chiusa obbliga il telefonino ad aumentare la potenza di trasmissione. Eugenio Pacelli, del Presidio multizonale di prevenzione dell'Asl di Roma, ricorda altri due accorgimenti per proteggersi dalle emissioni dei cellulari. "Il primo resta quello di estrarre completamente l'antenna". All'obiezione che è sempre più difficile, perché ormai la maggior parte dei telefonini ce l'ha fissa, osserva sconsolato che "si persegue la logica dell'estetica anziché quella della sicurezza". Comunque, fra le antenne non estraibili, quelle elicoidali riducono i rischi per conto loro. Il secondo consiglio è ancora più semplice: "Non usare il telefonino per lunghe conversazioni". Luigi Grassia


SCIENZE DELLA VITA PREMIATO Simeone scopritore dei geni Hox
Autore: MELDOLESI JACOPO

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, GENETICA, BIOLOGIA
NOMI: SIMEONE ANTONIO
ORGANIZZAZIONI: PREMIO CHIARA D'ONOFRIO PER LA RICERCA IN BIOLOGIA MOLECOLARE E CELLULARE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, MONTESILVANO LIDO (PE)

QUEST'ANNO il Premio Chiara D'Onofrio per la Ricerca in biologia molecolare e cellulare (10 milioni) è stato assegnato ad Antonio Simeone, ricercatore dell'Istituto Internazionale di Biofisica e Genetica del Cnr a Napoli. Negli ultimi 15 anni Simeone ha svolto un ruolo chiave in una delle più esaltanti avventure scientifiche ed intellettuali del nostro tempo, la scoperta di quei geni, detti geni Hox, che controllano lo sviluppo embrionale determinando in tutti gli organismi, dagli insetti all'uomo, l'intero impianto del corpo, dalla posizione della testa, del torace, dell'addome fino a quella degli arti. Oltre che per il loro profondo significato scientifico questi studi hanno permesso di spiegare in termini molecolari molti disturbi dello sviluppo, concretizzatisi in malformazioni riscontrate non solo in animali, ma anche nell'uomo. Negli ultimi anni gli studi di Simeone si sono focalizzati sullo sviluppo del cervello, in particolare su quello della corteccia cerebrale, rivelando nuovi aspetti destinati a pesare nel quadro di conoscenze che oggi si limitano alla neurobiologia ma che domani si svilupperanno a spiegare fenomeni come la memoria e il pensiero. La scelta di Simeone si inserisce nella recente ma già solida tradizione di eccellenza del Premio Chiara D'Onofrio. Quest'ultimo è stato istituito tre anni fa da un giudice, Francesco De Leo, in ricordo della personalità e dell'appassionato lavoro di sua moglie, una brillante ricercatrice recentemente scomparsa, che era stata attiva soprattutto nello studio dei tumori e della crescita cellulare. Il premio, però, non si limita a questo campo, ma ha assunto, fin dall'inizio, un significato culturale assai ampio. Per iniziativa di De Leo, infatti, esso è stato "adottato" dall'intera comunità di ricercatori in biologia e biomedicina del nostro Paese. La commissione giudicante è costituita, a turno, dai ricercatori anziani più noti, e l'assegnazione pubblica avviene nel corso di un congresso che riunisce insieme gli iscritti a quattro società scientifiche: biologia cellulare, biologia molecolare, genetica e microbiologia. In un Paese come il nostro dove la frammentazione accademica ha fatto la fortuna di molti, è un esempio di serietà e di rigore che mette a confronto e stimola larga parte della nostra ricerca in biologia. Quest'anno il Congresso si è tenuto a Montesilvano Lido, vicino a Pescara, dal 1o al 4 ottobre. Uno dei punti caldi è stata la presentazione, da parte di Simeone, dei risultati dei suoi studi recenti. Si è trattato di un evento scientifico che nel ricordo di una collega fornisce un riconoscimento e uno stimolo al progresso e all'eccellenza rivolto all'intera comunità dei biologi del nostro Paese. Jacopo Meldolesi Istituto San Raffaele, Milano


SCIENZE DELLA VITA IL CROMATISMO NEL MONDO ANIMALE Tanti messaggi colorati Ma molte specie vedono solo in bianco e nero
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

QUANDO vuole attrarre i maschi, la scimmia gelada (Theropithecus gelada), che vive sull'altopiano etiopico, si rizza sulle zampe posteriori per mettere bene in mostra le macchie rosse che ha sul petto, particolarmente brillanti nell'epoca dell'estro. Queste macchie fanno "pendant" con analoghe macchie purpuree che si formano nella regione genitale. Ma quelle il maschio non le può vedere perché la gelada vive in mezzo alle alte erbe della savana che le nascondono la parte inferiore del corpo. Comunque, il segnale funziona. Quel colore acceso fa da calamita e i maschi, appena lo vedono, accorrono. Ma in natura molto più spesso, sono i maschi che fanno sfoggio di colori vivaci quando cercano l'anima gemella. Ed è la femmina che sceglie il maschio che più le aggrada, il più colorato. Lo struzzo maschio, per esempio (Struthio camelus), nella stagione degli amori imporpora vistosamente collo e zampe. L'uccello fregata (Fregata magnificens) gonfia a più non posso l'enorme sacco golare che gli pende sotto il becco e si fa rosso fuoco per l'occasione. Il pulcinella di mare maschio (Fratercula arctica) sviluppa sul becco speciali guaine colorate per far colpo sulle femmine. Anche l'Euplectes oryx, un piccolo uccello "tessitore" africano (uno di quegli uccelli maestri nella fabbricazione del nido) si mette in pompa magna quando cerca moglie. Il galletto di roccia peruviano (Rupicola peruviana), invece, l'abito della festa lo porta in permanenza. E' uno splendido piumaggio rosso arancio con una leggiadra corona di penne erettili che formano una sorta di cimiero sul capo. Per farsi notare dal gentil sesso, i maschi si esibiscono a turno in una danza sopra un masso che fa da palcoscenico, davanti a una platea di scialbe femmine brune. Il colore è indubbiamente un linguaggio, ermetico in molti casi per gli uomini, ma non certo per gli animali. Può essere un messaggio d'amore rivolto all'altro sesso. Ma può essere anche un messaggio di ammonimento rivolto ai predatori. Lampi colorati che dicono: " Girate alla larga. Non sono buono da mangiare". Li lanciano di solito le specie che usano l'arma del veleno o di sostanze particolarmente disgustose. Un uccello giovane, alle sue prime esperienze in fatto di caccia, si lascia certo allettare dalle minuscole "rane tintorie" della famiglia Dendrobatinae dalle livree a tinte accese. Ma se ne acchiappa una, la sputa fuori immediatamente, per il suo sapore ripugnante, a meno che non sia troppo tardi. I casi sono due: o l'incauto predatore rimane morto stecchito, oppure da quel momento si guarda bene dall'avvicinare una preda così pericolosa. E la dendrobatina riesce a farla franca grazie ai suoi colori ammonitori. Ma ci sono anche i furbi, quelli che lo studioso inglese W. H. Bates chiama "le pecore in veste di lupi". Pur essendo completamente innocui, si travestono da nocivi (ne imitano la livrea) e così traggono in inganno i predatori che li scambiano per la specie pericolosa. Un esempio? Il moscone Milesia crabroniformis dalla sgargiante livrea rossa e gialla imita l'aspetto del calabrone, che in fatto di veleno non scherza. E il colubride Lampropeltis zonata, che non è velenoso, ma è la copia conforme del velenosissimo serpente corallo del Nordamerica (Micrurus fulvius). Ma il colore non è soltanto corteggiamento e mimetismo. Può indicare il grado sociale di un individuo. In un esperimento di laboratorio sono state colorate di rosa le parti inferiori dei fringuelli femmina, in modo da renderle simili ai maschi. Ebbene, da quel momento, gli individui "truccati", pur essendo di basso rango, venivano accettati dalle altre femmine come individui dominanti. Il colore può servire anche come segno di riconoscimento della specie nei confronti dei piccoli. Gli adulti del diamante mandarino (Taenopygia guttata), il grazioso uccelletto di origine australiana, esportato in tutto il mondo come uccelletto da gabbia, riconoscono i propri figli dal becco nero. Se sperimentalmente si tinge il becco dei nidiacei in altro colore, i genitori non li riconoscono più e si rifiutano di nutrirli. Anche i piccoli lanciano un preciso messaggio ai genitori, quando spalancando il becco mostrano la mucosa rossa della cavità orale. Dicono chiaramente "Ho fame". Quelli della famiglia Estrildidae hanno poi all'angolo della bocca e al margine del becco tanti bernoccolini colorati in giallo, bianco, azzurro, spesso cerchiati di nero. Un autentico tesserino di riconoscimento. Impossibile scambiarli per piccoli di un'altra specie. Non è detto però che gli animali vedano i colori come li vediamo noi. Tanto per darne un esempio, l'ape è cieca al rosso, ma vede l'ultravioletto che per noi è invisibile. Per lei è come se lo spettro della luce solare si accorciasse dalla parte del rosso e si allungasse dalla parte del violetto. Possiamo raffigurarci solo con la fantasia le gradazioni cromatiche dell'ambiente, così come appaiono ai suoi occhi. Tanto più che non si tratta di occhi semplici, ma di occhi composti, formati da 4900 unità ottiche elementari (ommatidi) nell'ape regina, che diventano 6300 nell'ape operaia e addirittura l3.000 nel fuco, l'individuo di sesso maschile. Se i colori sono una forma di linguaggio e sono così diffusi in natura, significa che gli animali sono in grado di distinguerli perfettamente. E infatti sappiamo che i colori sono percepiti chiaramente dalle scimmie, dagli uccelli, dalle lucertole, da alcuni serpenti, dagli anfibi, dai pesci ossei e dagli insetti. Ma gli altri? E in particolare i mammiferi? La risposta è piuttosto deludente. Fatte alcune eccezioni, i mammiferi sono ciechi ai colori. Vedono il mondo come un film in bianco e nero. La sensibilità si esercita soprattutto sul contrasto e sul movimento. Soltanto l'uomo, le scimmie, gli scoiattoli, i gatti e forse i cani (la questione è controversa) vedono il mondo in technicolor. Per cui quando vediamo il toreador che sbandiera la muleta davanti al toro, abbiamo l'impressione che sia il colore rosso a far infuriare l'animale. Ma non è così. Il toro si eccita soltanto perché vede un panno, per lui incolore, che si agita continuamente insieme col toreador. Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE DELLA VITA APPENA INAUGURATO Un parco per far crescere le biotecnologie Presso Ivrea aziende e università lanciano una sfida economico-scientifica
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: BIOLOGIA, TECNOLOGIA
NOMI: DE FLORA ANTONIO
ORGANIZZAZIONI: BIOINDUSTRY PARK DEL CANAVESE, FONDO EUROPEO DI SVILUPPO REGIONALE, REGIONE PIEMONTE, PROVINCIA DI TORINO, OLIVETTI, ASSINDUSTRIA DEL CANAVESE, FEDERPIEMONTE, RBM
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, IVREA (TO)

UNA vecchia cascina, a pochi chilometri da Torino, con 100 mila metri quadri di sterpaglie, e circa 75 miliardi di finanziamenti. Sono questi i due ingredienti fondamentali di un'avventura iniziata nel 1993 e che ora è una realtà della ricerca e dell'economia del Piemonte: il Bioindustry Park del Canavese, un parco scientifico interamente dedicato alle biotecnologie, che è stato inaugurato il 26 settembre. E' stata una inaugurazione senza troppa grancassa (come si addice a chi è abituato a lavorare più che a far chiacchiere), ma che va sottolineata per almeno tre motivi. Primo: il Bioindustry Park è il primo nel suo genere in Italia ed è stato realizzato con denaro comunitario (Fondo europeo di sviluppo regionale), con fondi pubblici nostrani (Regione Piemonte, Provincia di Torino) e privati (Olivetti, Assindustria del Canavese, Federpiemonte, Rbm). Dunque la dimostrazione che lavorare insieme si può. Secondo motivo: questo parco scientifico è stato progettato come un campus, dove aziende e università lavoreranno a pochi metri l'uno dall'altro mettendo in campo e condividendo ciascuno per proprie competenze, i propri carismi, le proprie risorse. Terzo: perché finalmente anche in Italia gli imprenditori e i politici si sono accorti che le biotecnologie sono uno dei settori strategici per il futuro, e che quindi questo tipo di ricerche vanno sostenute e incentivate. "L'Italia nel settore delle biotecnologie non ha nulla da invidiare agli altri Paesi dell'Unione Europea: nel nostro carnet abbiamo 3226 pubblicazioni scientifiche, 68 brevetti internazionali e la realizzazione di 694 strumenti specifici per il settore", spiega Antonio De Flora, responsabile del Progetto finalizzato per le biotecnologie del Cnr. "Anzi, molti scienziati stranieri ci hanno fatto i complimenti perché tutto ciò è stato realizato negli ultimi dieci anni, mentre in Paesi come Stati Uniti, Giappone, Germania, Cina e Russia, le biotecnologie sono nate nei primi Anni Settanta. Partita in ritardo l'Italia, ha prontamente recuperato e si è messa la passo con le Nazioni più tecnologicamente avanzate. E il Bioindustry Park costituirà un ulteriore volano per questi tipo di ricerche". Situato nel comune di Colleretto Giacosa, nel cuore del Piemonte, a pochi chilometri dall'autostrada che da Ivrea porta a Torino e Milano o, verso Aosta, direttamente in Svizzera e Francia, nel Parco Bioindustriale sono già state realizzate opera per 40 miliardi di lire e tutti finanziamenti saranno spesi entro il 2001, come previsto. Accanto alla ristrutturazione della vecchia cascina e degli edifici annessi (che ospitano i servizi di segreteria, centro congressi, sale riunioni, foresteria, ristorazione, consulenza marketing, finanziaria, legale e ricerca del personale), altri sei edifici costruiti ex novo per un totale di 16 mila metri quadrati sono adibiti a uffici e laboratori. Tutto realizzato con il minimo impatto ambientale e progettato tenendo conto della massima flessibilità, affinché ogni azienda possa personalizzare gli ambienti secondo le proprie esigenze. A disposizione di tutti, inoltre, un sistema di raccolta e trattamento dei rifiuti speciali, numerosi e costosi macchinari per servizi scientifici d'alto livello (che le piccole aziende non potrebbero altrimenti permettersi) e un'area attrezzata per attività industriale di pre-produzione. Il tutto immerso nel verde, con un grazioso laghetto, il prato all'inglese e le montagne della Valchiusella e la Serra morenica di Ivrea a far da fondale. Al Bioindustry Park le biotecnologie verranno esplorate a 360 gradi: dalla chimica e farmaceutica all'agroalimentare e alla veterinaria, dai diagnostici e cosmetici alla bioingegneria e all'informatica. E in primavera, senza attendere l'inaugurazione, alcune aziende si sono già insediate e ormai sono 70 le persone che qui lavorano a pieno ritmo (Istituto di ricerche Serono, Osra Informatica, Genesis Development, Sistemi e Tecnologie e Bioline Diagnostici), mentre altre imprese le raggiungeranno entro la fine dell'anno. Per la primavera del 1999, saranno 120- 130 i ricercatori e i tecnici che lavoreranno stabilmente al Bioindustry Park. Tra questi anche il personale del Lima (Laboratorio integrato di metodologia avanzate) realizzato dall'Università di Torino. "Il Lima è una struttura appositamente creata per fare ricerca nel campo biotecnologico - precisa Lorenzo Silengo, presidente del Bioindustry Park - di analisi, avvalendosi di apparecchiature e strumenti all'avanguardia. Il Lima sarà anche sede di formazione permanente per neo laureati e ricercatori che intendono specializzarsi in biotecnologie e nelle metodologie scientifiche orientate alla ricerca applicata nei settori chimico, farmaceutico, diagnostico, biomedicale e alimentare. Soprattutto il Lima sarà una concreta occasione per "modernizzare" la ricerca universitaria italiana e farla interagire strettamente con le industrie". Andrea Vico


SCIENZE A SCUOLA UN'AULA IDEALE
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: DIDATTICA
ORGANIZZAZIONI: TUTTOSCIENZE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

TORNA da questa settimana la pagina che Tutto scienze progetta guardando alla scuola e alla didattica. Troverete alcune novità: la pagina è organizzata come un'aula ideale, con rubriche pensate per affiancare l'aula reale. Una di queste è "La lezione". Di volta in volta sarà dedicata a discipline diverse, e non sempre scelte soltanto tra quelle dei programmi scolastici. Naturalmente sappiamo bene che le lezioni che contano sono quelle tenute dagli insegnanti in classe, nel contesto di un piano di studio organico. Le nostre saranno - in certo senso - lezioni integrative, che cercheranno di fornire un aggiornamento, oppure di sviluppare un tema che a sua volta può diventare argomento di una ricerca, o, ancora, di riprendere qualche nozione scolastica ma in collegamento con spunti di attualità. Un'altra rubrica, già comparsa qualche volta nella primavera scorsa, è "L'esperimento". Nelle scuole italiane le aule di fisica e di chimica efficienti sono rare. La nostra rubrica non pretende di surrogarne la funzione con un fai-da-te casereccio. L'intenzione è invece di presentare aspetti scientifici di fenomeni ogni giorno sotto i nostri occhi e di dare un po' di spazio alla manualità, nella convinzione che si impara davvero solo ciò che materialmente si fa. Altre rubriche, dedicate a Internet, problemi-gioco e alla storia della scienza, le scoprirete con il passar delle settimane, mentre ritroverete rubriche già note, come quelle dedicate all'informatica, all'inglese scientifico, all'educazione ai consumi. Le novità più importanti, comunque, quest'anno sono nella scuola stessa. L'obbligo scolastico verrà prolungato di un anno e poi di due. Ottima cosa, che ci allinea ai Paesi più sviluppati. Ci piacerebbe però anche capire meglio che cosa si studierà in questi anni aggiuntivi, verificare fino a che punto si saldano ai vari corsi. Non vorremmo, infatti, che diventassero un semplice parcheggio. L'altro cambiamento importante è il nuovo esame di maturità. Tra le molte innovazioni c'è anche quella che prevede come prova scritta di italiano, accanto al solito tema, anche la stesura di un articolo. Da questo punto di vista la lettura di "Tuttoscienze" diventa quindi ancora più importante. E la nostra responsabilità sarà ancora maggiore. Cercheremo di non dimenticarlo. Piero Bianucci




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