TUTTOSCIENZE 9 settembre 98


Creatina, molecola dell'energia Il fabbisogno normale è di 2 grammi al giorno
AUTORE: PELLATI RENZO
ARGOMENTI: SPORT
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
NOTE: SPORT E DOPING SPORT E DOPING

LA creatina è una sostanza presente nell'organismo umano, prodotta a livello epatico utilizzando l'aminoacido arginina. E' stata scoperta nel 1832 dal francese Chevreul, che la isolò dalla carne (il nome deriva dal greco "creas", che significa carne) ma gli studi sulle sue specifiche attività sono recenti. La creatina è indispensabile per la produzione di energia: permette alla cellula muscolare di contrarsi ed è coinvolta nel trasporto dell'energia stessa. L'organismo umano è una meravigliosa macchina che converte l'energia chimica contenuta nei principi nutritivi in energia meccanica e calore. La resa è del 25 per cento. Ciò significa che, per esempio, di 4 chilocalorie, una sola è trasformata in lavoro, le altre sono utilizzate per l'omeotermia (riscaldamento e termoregolazione). L'organismo, inoltre, riesce ad adattarsi alle diverse esigenze utilizzando circuiti diversi in base alle varie necessità. Basta pensare al mantenimento delle funzioni vitali durante il sonno (respirazione e circolazione ematica) e ai notevoli sforzi muscolari che avvengono durante l'attività sportiva (lavoro aerobico per l'esercizio prolungato e anaerobico per l'esercizio di potenza di breve durata). Per l'esercizio fisico l'organismo utilizza dei substrati energetici endogeni intramuscolari che dipendono essenzialmente dalla degradazione della creatina fosfato. La creatina fosfato consente di donare un radicale fosforico all'ADP (acido adenosindifosforico) per ottenere ATP (acido adenosintrifosforico), una molecola coinvolta in tutte le reazioni metaboliche in cui è richiesta energia. La produzione e la distribuzione di energia nell'organismo umano sono state paragonate a un impianto elettrico. I mitocondri sono i microelaboratori dove si produce energia all'interno della cellula, così come avviene nella centrale elettrica. Il bacino idrico è costituito da glicidi semplici e acidi grassi, provenienti dai cibi; la diga è costituita dalla membrana cellulare; il salto di caduta è rappresentato dalla catena di processi biochimici attraverso cui l'ossigeno brucia i substrati energetici; la creatina è stata paragonata alla linea elettrica che trasporta l'energia prodotta nel mitocondrio, ossia l'ATP, alle zone di utilizzo (struttura contrattile). Viene definita sistema "shuttle", navetta. Il fabbisogno quotidiano di creatina è di circa 2 grammi. Quando l'alimentazione è equilibrata viene introdotta con i cibi ricchi di proteine. Ma nella medicina sportiva la creatina viene somministrata a sè, in aggiunta a quella contenuta negli alimenti, per aumentare la capacità del muscolo di generare forza e ridurre i tempi di recupero dopo la fatica. La magistratura si esprimerà sulla liceità di questo uso. Ambito sportivo a parte, la creatina può essere utile per migliorare il metabolismo energetico del cuore in caso di scompenso o di cardiopatia ischemica. Possono trarre beneficio dall'apporto di creatina anche i soggetti che riducono l'apporto proteico per diete dimagranti esclusivamente vegetariane, anziani con problemi di masticazione e convalescenti con astenia. Renzo Pellati


SPORT O CHIMICA? Il doping sul podio Tutte le sostanze sotto accusa
AUTORE: FRONTE MARGHERITA
ARGOMENTI: SPORT
NOMI: SAMARANCH JUAN ANTONIO, KRIEGER HEIDI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
TABELLE: T. Le sostanze proibite
NOTE: SPORT E DOPING SPORT E DOPING

DIMENTICATE il vecchio motto. Non è vero che l'importante è partecipare: in qualsiasi sport, a ogni livello, chi gareggia vuole vincere. Ma il rovescio delle medaglie che scintillano sul petto dei grandi campioni dei nostri giorni è un segreto talmente oscuro e pericoloso che per tenerlo nascosto i medici e gli atleti sono disposti a tutto. Il caso doping scuote il mondo dello sport dalla fine di luglio, quando al Tour de France i controlli hanno smascherato le squadre e i ciclisti drogati con l'eritropoietina, detta più comunemente Epo, un ormone secreto naturalmente dai reni che favorisce la produzione di globuli rossi, e quindi l'ossigenazione dei tessuti, aumentando la resistenza agli sforzi prolungati. Nel ciclismo, si dice, per migliorare le proprie prestazioni la maggioranza degli atleti assume Epo, che viene prodotta industrialmente per curare malattie ben più gravi che l'ambizione del podio. E, anche se non si può generalizzare, può succedere che chi rifiuta di prendere la sostanza proibita, perché magari ha letto su qualche rivista medica che rende il sangue più denso, con rischio di ictus, infarto, insufficienza renale, ipertensione e altre malattie, può appendere la bici al chiodo e iscriversi a un corso di scacchi. Ma il caso doping non si è esaurito con l'arrivo agli Champs Elysees. La settimana seguente dalle pagine di un settimanale, l'allenatore della Roma, Zdenek Zeman, gettava nello scompiglio il mondo del calcio. Anche se per il momento questo allarme sembra rientrato, sfogliando la cronaca sportiva recente non è difficile rendersi conto che il fenomeno non si limita al ciclismo o al calcio ma interessa tutti gli sport: dall'atletica al nuoto, dalla ginnastica al body building. Neppure attività apparentemente insospettabili ne sono immuni. Per esempio, nel tiro al piattello e negli sport che richiedono la "mano ferma" alcuni atleti assumono farmaci betabloccanti, usati solitamente per curare ipertensione e palpitazioni, riuscendo così a ridurre i tremori e centrare il bersaglio. A seconda delle caratteristiche richieste agli atleti, ogni sport ha la lista di farmaci illegali più adatti a imbrogliare: alcuni fanno aumentare il volume e la potenza dei muscoli, altri sono delle vere e proprie droghe, che ingannano i recettori delle cellule nervose e nascondono la sensazione di stanchezza, o aumentano la fiducia in se stessi. Altri ancora svolgono compiti più specifici, come l'Epo e i betabloccanti, o come i diuretici che presi in dosi massicce, fra gli altri effetti, hanno quello di far calare di peso in poco tempo (naturalmente il calo è dovuto a una pericolosa disidratazione) e sono utilizzati negli sport come per esempio il pugilato dagli atleti che hanno messo su qualche chilo e non possono più gareggiare nella loro categoria. Ma è davvero necessario assumere sostanze che danneggiano la salute per vincere? La questione è controversa e non sono pochi i medici sportivi che sostengono che un buon allenamento e un dieta mirata, uniti alla predisposizione personale degli atleti, possono far meritare la vittoria senza che sia necessario ricorrere all'uso di sostanze illecite. E neppure sulla definizione di doping gli esperti si sono ancora messi d'accordo. Secondo Juan Antonio Samaranch, il presidente del Comitato olimpico internazionale, appartengono al doping, e quindi sono da perseguire, tutti quei comportamenti che in primo luogo danneggiano la salute dell'atleta e, inoltre, fanno migliorare in modo artificioso le sue prestazioni. In modo provocatorio, Samaranch aggiunge che "se questi comportamenti producono soltanto il secondo effetto, non si tratta di doping se danneggiano la salute invece sì". Questa dichiarazione, rilasciata recentemente a un giornale spagnolo ha scatenato un putiferio, ma ha anche reso evidente la necessità di trovare una definizione che valga per tutti. Una decisione è attesa per il prossimo gennaio, quando nel corso di un incontro i rappresentanti del Comitato olimpico internazionale decideranno finalmente cosa si intende esattamente quando si parla di doping. Se in mancanza di una indicazione certa molte delle sostanze assunte dagli atleti restano nel limbo e aspettano di essere condannate come molecole dopanti o assolte perché semplici integratori, di alcuni farmaci gli effetti nefasti sulla salute sono ormai arcinoti. Il Comitato olimpico internazionale ha stilato da tempo una lista di sostanze vietate suddividendole in categorie a seconda dei loro effetti; e l'elenco viene tenuto aggiornato via via che i medici disonesti scoprono nuove molecole che possono alterare le prestazioni degli atleti. Gli steroidi anabolizzanti, per esempio, sono molecole del tutto analoghe ad alcuni ormoni prodotti dall'organismo e vengono utilizzati per aumentare la massa e la potenza dei muscoli, perché agiscono sul DNA stimolando la produzione delle proteine delle cellule muscolari. Prima ancora che la medicina ne dimostrasse l'efficacia, fatto avvenuto appena nel 1996, molti atleti avevano già sperimentato su loro stessi gli effetti di queste sostanze. Ben Johnson, vinse la gara dei 100 metri alle olimpiadi di Seul del 1988 proprio grazie agli anabolizzanti Tuttavia, com'è noto, i controlli antidoping effettuati sulle urine rivelarono l'inganno la medaglia fu revocata e l'atleta, ora sospeso definitivamente dall'attività sportiva in seguito a un secondo analogo episodio, deve oggi fare i conti con i danni epatici e con gli altri gravi effetti collaterali provocati dall'assunzione di steroidi. Alla tedesca Heidi Krieger, campionessa del lancio del peso, è andata ancora peggio. Imbottita per anni di anabolizzanti dai suoi medici, recentemente la Krieger ha dovuto sottoporsi a un intervento per cambiare sesso (oggi si chiama Andreas), in seguito a un processo di trasformazione che lei stessa ha definito irreversibile e che è stato provocato dall'assunzione delle sostanze che le hanno fatto vincere le olimpiadi. L'impiego di steroidi anabolizzanti, e in particolare dell'ormone maschile testosterone, è oggi in calo, anche perché le tecniche dei controlli antidoping sono ormai in grado di rilevarli con una certa sicurezza. Le sostanze utilizzate per migliorare le prestazioni sono infatti soggette a mode, e i motori del cambiamento sono proprio le tecniche sempre più sofisticate che permettono di smascherare gli atleti che imbrogliano. Impossibilitati. a usare farmaci che i controlli sanno ormai individuare, i medici disonesti sperimentano sempre nuove droghe per le quali le tecniche di rilevamento non sono ancora sufficientemente affidabili. Così, per gonfiare i muscoli oggi si preferisce somministrare agli atleti l'ormone della crescita (GH) oppure il fattore di crescita insulino simile (IGF1). Gli effetti sulla muscolatura sono spettacolari almeno quanto quelli degli steroidi anabolizzanti, ma altrettanto evidenti e grotteschi sono quelli sulle ossa (il GH fa crescere quelle della mascella) e pericolose sono le conseguenze sul fegato e sul sistema circolatorio. Di fronte agli avvertimenti delle autorità sportive e alle morti sospette di alcuni atleti, l'atteggiamento di chi pratica sport a livello agonistico non sembra tuttavia cambiare. Lo scorso anno un sondaggio della rivista statunitense Sport Illustrated ha svelato che quasi tutti gli atleti sarebbero disposti ad assumere sostanze proibite se avessero la garanzia di non essere scoperti, e che pur di vincere un oro olimpico più della metà di loro prenderebbe i farmaci anche se la conseguenza fosse la morte dopo qualche anno. Non sorprende quindi che accanto alle sostanze proibite, gli sportivi accettino di sottoporsi a dolorose procedure che hanno l'obiettivo di mascherare i loro imbrogli o di migliorare le prestazioni. Per ingannare i test antidoping, che analizzano le sostanze secrete con le urine e sono in grado di individuare quelle che derivano dall'assunzione di farmaci non ammessi, alcuni atleti si sono presentati alle analisi tenendo ben nascosti sotto le ascelle alcuni sacchetti contenenti urine prese a prestito da qualche amico. I meno ingenui invece si sottopongono a una dolorosa operazione di "trapianto delle urine", facendosi iniettare direttamente nella vescica le urine insospettabili di qualcun altro. Oppure ricorrono a dosi massicce di farmaci che inibiscono l'attività dei reni, o a diuretici che diluiscono le molecole che indicano che si è ricorsi a una pratica illecita rendendole invisibili ai controlli. Margherita Fronte


I RISCHI Integratori al confine dell'illecito
AUTORE: M_FR
ARGOMENTI: SPORT
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
NOTE: SPORT E DOPING SPORT E DOPING

BARRETTE energetiche, bevande zuccherine, polveri e pillole popolano gli scaffali delle palestre, di solito dietro il bancone della rece ption. Sono gli "integratori", sostanze che non rientrano nella lista dei farmaci che gli atleti prendono per "tirarsi su" e che però possono ugualmente diventare pericolosi se assunti in dosi eccessive o senza seguire le giuste modalità. In linea di principio, gli integratori, che possono essere acquistati senza ricetta medica, dovrebbero supplire alla carenza degli elementi che l'organismo ha consumato durante uno sforzo fisico o che non ha introdotto in misura adeguata attraverso la dieta. Gli integratori più diffusi sono quelli minerali (assolutamente innocui), preziosi per restituire i sali persi con la sudorazione, e quelli vitaminici, che però possono comportare qualche rischio in caso di sovradosaggio. Rientra nella categoria degli integratori anche la ben nota creatina, la molecola prodotta naturalmente dall'organismo che ha fatto scoppiare il caso doping nel calcio. Si tratta di una sostanza che costituisce una preziosa riserva di energia per le cellule muscolari e che, somministrata agli atleti, permette di incrementare le scorte energetiche e resistere meglio agli sforzi, migliorando le prestazioni e accelerando il recupero fra una gara e l'altra. Tuttavia, oltre a essere piuttosto costosa, se assunta in dosi eccessive e senza che sia uno specialista a prescriverla, la creatina può provocare disturbi gastrointestinali e crampi. Abbastanza diffusa fra gli sportivi è anche l'abitudine ad assumere amminoacidi ramificati (i cui nomi scientifici sono valina, leucina e isoleucina), sostanze che l'organismo umano non è in grado di produrre da sè e deve introdurre dall'esterno. Non c'è dubbio che una bella bistecca sia da preferire all'assunzione in pillole di queste molecole, sia per la soddisfazione del pasto sia per gli effetti sulla salute. In dosi eccessive infatti questi integratori possono provocare la gotta e danneggiare reni e fegato. Infine, gli sportivi devono fare molta attenzione ai prodotti in vendita in erboristeria. Prima di acquistarli bisognerebbe verificare la loro composizione esatta: sapevate, per esempio, che un grammo di guanarà equivale una decina di tazzine di caffè?(m. fr.)


SCIENZE DELLA VITA. LA RICERCA DI NUOVE SPECIE Cacciatori di piante Dai Romani ai botanici inglesi
Autore: VIETTI MARIO

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA

LA "caccia" alle piante, cioè la ricerca di nuove specie, ha avuto una notevole espansione a partire dal sedicesimo secolo in coincidenza con l'introduzione della "nomenclatura binomia" ideata dal biologo Linneo. Questa consentì di riordinare con un unico criterio le centinaia di specie conosciute e quelle di nuova denominazione. Già nell'antichità la passione per la botanica aveva molti proseliti. Dalla regina egiziana Hatshepsut che intorno al 1480 a.C. organizzò forse la prima spedizione botanica alla ricerca della pianta per ricavare l'incenso (la Boswellia), fino ai Romani i quali, grazie ai lontani e vasti territori conquistati, scoprirono numerose piante, e non solo del tipo "utile" (castagni, fichi ecc.), ma anche specie prettamente ornamentali come le rose e le peonie. Le campagne militari romane contribuirono così alla diffusione di piante esotiche, non solo in Italia ma in buona parte dell'Europa. In seguito nel Vecchio Continente la ricerca botanica seguì la stessa sorte delle altre espressioni scientifiche e culturali, rallentando l'evoluzione durante il "buio" Medioevo e riprendendola con il Rinascimento. Fu nei secoli XVII e XVIII che esplose, soprattutto in Inghilterra, l'entusiasmo e l'attenzione per la coltivazione di piante importate da Paesi lontani. Occorreva quindi organizzare spedizioni verso l'Oriente e l'Occidente per reperire specie nuove, non solo per il loro valore economico od ornamentale ma anche per amore dell'indagine scientifica. Iniziò così l'epoca d'oro dei "cacciatori" di piante. Quasi tutti incontrarono non poche difficoltà durante i loro viaggi, sia per le restrizioni imposte da alcuni governi (in Giappone ed in Cina), sia per le varie guerre in corso; ma anche per le condizioni particolarmente scomode dei trasporti dell'epoca ed in generale per tutti i disagi ed i pericoli che potevano presentarsi in zone per lo più accidentate o inesplorate. Forse il problema più delicato di tutta l'operazione di caccia era rappresentato dal trasporto delle piante e dei semi. Non era infatti sufficiente avere fiuto e coraggio per cercare le nuove essenze, una volta trovate occorreva farle arrivare vive e vegete a destinazione, e con la lentezza delle comunicazioni dell'epoca le probabilità erano piuttosto scarse. Oltre agli inconvenienti che si presentavano durante il viaggio (ad esempio l'acqua salmastra sulle navi o la mancanza di luce) c'era anche da considerare il trauma che le piante subivano per la diversità del clima rispetto alla terra di origine. Il problema del trasporto fu risolto da Nathaniel Ward che nel 1834 ideò un sistema per garantire luce ed umidità alle piante durante il viaggio; queste venivano inserite in recipienti di vetro ben sigillati dove la condensa che si formava all'interno dava un'umidità sufficiente. Tra i principali cacciatori di piante vissuti tra il '700 e l'inizio dell'800 ricordiamo John Bartram e David Douglas, che esplorarono il Nord America, e P. Commerson che compì una circumnavigazione approdando in vari Paesi (Brasile, Tahiti, Madagascar) e scoprendo migliaia di nuove piante. Anche Linneo contribuì a reperire nuove specie con alcuni viaggi nel Nord Europa. Un cenno a parte merita Sir Joseph Banks (1743-1820) il quale, oltre a numerosi viaggi alla ricerca di piante, fu anche un instancabile collezionista nonché mecenate e abile istruttore di esploratori botanici. Con il suo lavoro gettò le basi per quello che sarebbe diventato il più grande orto botanico del mondo: il giardino di Kew a Londra. Mario Vietti


SCAFFALE Cosmacini Giorgio: "Il medico ciarlatano", Laterza
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Si chiamava Giuseppe Francesco Borri e nell'Europa del '600 fu noto come "il medico dei miracoli" ma anche come "il gran coglionatore". Cosmacini ce ne racconta l'avventurosa esistenza. E al lettore viene in mente che ogni tempo ha i suoi Borri.


IN BREVE Chip al rame ormai è una realtà
ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA
ORGANIZZAZIONI: IBM
LUOGHI: ITALIA

La Ibm sta mettendo in circolazione i primi microprocessori al rame con un personal computer operante a 400 MHz. Sono i più veloci oggi sul mercato.


SCIENZE DELLA VITA Dal Nuovo Mondo La magnolia e il pino strobo
Autore: M_V

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA

A partire dalla seconda metà del '600 dal Nord America vennero introdotte in Europa diverse nuove piante, grazie soprattutto ad alcuni appassionati collezionisti inglesi, come il vescovo Henry Compton (1632-1713). Questo prelato tramite alcuni missionari inviati tra gli indiani d'America, si fece portare alberi d'oltreoceano come la Magnolia virginiana, Juglans nigra, Acer negundo, Cornus florida, Pinus strobus e ne iniziò la coltivazione nel giardino del suo palazzo. Nel '700 John Tradescant, giardiniere di Carlo I, raccolse nel giardino di famiglia, aiutato da suo padre, molte specie arboree americane (Junipe rus virginiana, Liriodendron tulipifera, Robinia pseudoacacia, Taxodium distichum). Anche lui contribuì alla ricerca con alcune spedizioni in Virginia, dando così l'avvio alle esplorazioni botaniche nel Nuovo Mondo. La situazione qui era un po' diversa rispetto a Cina e Giappone. Infatti sebbene non vi fossero restrizioni di tipo governativo, non era facile avventurarsi in territori dove non mancavano i pericoli tra guerre civili, indiani e difficoltà di vario tipo: zone accidentate, trasporti disagevoli. Pochi furono i coloni nati in America che si dedicarono alla botanica; il più famoso fu John Bartram (1699-1777). Realizzò un orto botanico a Filadelfia, dove viveva, e andò a caccia di piante per una quarantina di anni, penetrando nelle regioni selvagge abitate dagli indiani. Ebbe la fortuna di entrare in contatto con Peter Collinson, un mercante di tessuti londinese appassionato di botanica, che lo incaricò dietro compenso di inviargli esemplari di piante. Lo scambio durò diversi anni e contribuì ad introdurre in Europa piante come la Magnolia grandiflora, diventata quasi "essenziale" nei giardini, Acer sacchari num, Tilia americana, Quercus rubra. Gli altri cacciatori di piante che perlustrarono i territori americani erano invece per lo più di provenienza europea; ricordiamo il francese Andrè Michaux, l'inglese Thomas Nuttal (1786- 1859) e lo scozzese Archibald Menzies (1754- 1842) al quale fu dedicato l'abete Pseudotsuga menziesii. Ma il più intraprendente e coraggioso fu senza dubbio lo scozzese David Douglas. Assunto nel 1824 dalla Horticultural Society, venne inviato a esplorare la costa occidentale americana alla ricerca di nuove specie di piante. Svolse il suo compito con una tenacia e un'energia non comuni che lo portarono a percorrere migliaia di chilometri in zone prive di strade e a superare numerosi ostacoli. Morì a 35 anni per un banale incidente (fu preso a cornate da un toro), dopo aver superato le avventure più incredibili e pericoli estremi. (m. v.)


SCIENZE FISICHE. IL MIRACOLO RICORRENTE Esami chimici per San Gennaro Lo scioglimento del sangue in laboratorio
Autore: FOCHI GIANNI

ARGOMENTI: CHIMICA, RELIGIONE
NOMI: DEL PREITE MARIANO, LAMBERTINI GASTONE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, NAPOLI (NA)

LA Chiesa permette alcuni culti di reliquie e manifestazioni di fede in certi miracoli per i valori spirituali a essi collegati, pur non pronunciandosi sulla loro autenticità. E' il caso della liquefazione del sangue di San Gennaro a Napoli: Famiglia Cristiana ricordava già una ventina d'anni fa che la Chiesa non ha su quel fenomeno una posizione esplicita. Gennaro, vescovo di Benevento, fu decapitato il 19 settembre del 305. Le ampolle col sangue, all'inizio conservate a parte, furono unite alle ossa del martire - si narra - nel quinto secolo. La prima liquefazione documentata risale al 1389: prima d'allora il fenomeno sembra sconosciuto. E' quanto notano sia Rino Cammilleri ("San Gennaro", Piemme, 1996) sia il chimico Luigi Garlaschelli dell'Università di Pavia. Una cronaca napoletana del 1382 nomina il santo più volte, ma mai il miracolo e neppure le ampolle. Nulla di strano, dunque, che qualcuno possa dubitare dell'autenticità della reliquia. Per chi non è disposto a credere nei miracoli, il fenomeno misterioso è davvero difficile da accettare, soprattutto nel suo ripetersi. Un coagulo di sangue, purché non disidratato, può essere riportato allo stato fluido con un qualunque attrezzo che rompa meccanicamente il reticolo di fibrina; ma in seguito non si potrà rapprendere una seconda volta, perché il reticolo stesso non ha possibilità naturali di riformarsi. Il ritorno allo stato solido sorprende dunque ancor più della liquefazione precedente. C'è chi ha pensato a qualcosa capace di fondere alla luce e risolidificarsi al buio: ma la scienza non conosce materiali del genere. Altri immaginano la crescita di microrganismi imprecisati: anch'essa improbabile nel suo andamento periodico, visto che il contenitore è sigillato. Lo stesso argomento esclude la possibilità che nelle ampolle ci sia una sostanza deliquescente, cioè capace di sciogliersi nell'umidità assorbita dall'aria. Ne esistono molti esempi, tra cui il cloruro di calcio (noto a chi vive nelle zone fredde, dove viene usato d'inverno per sghiacciare le strade); ma fra l'altro il prosciugamento successivo, che per evaporazione dell'acqua dovrebbe ridare un solido, può avvenire solo a temperature molto alte. Un po' più sensata sarebbe l'idea che nelle ampolle vi fosse una mistura basso-fondente, cioè solida nel locale fresco dove viene riposta, ma liquida al tepore emanato dalle candele e dalla folla. Niente da fare: il trucco non funzionerebbe in una qualunque stagione dell'anno; ricordiamo che il fenomeno si verifica invece in maggio, settembre e dicembre, quando l'aria dell'ambiente ha temperature molto differenti. Nel 1991 Garlaschelli insieme con altri pubblicò sulla rivista britannica Nature la ricetta d'una miscela cosiddetta tissotropica, che cioè può fluidificarsi quand'è agitata, e risolidificarsi pian piano a riposo. Se nelle ampolle di San Gennaro ci fosse qualcosa del genere, non ci sarebbe da stupirsi nel vederlo liquefarsi quando il reliquiario viene ripetutamente capovolto per controllare se il miracolo è avvenuto; di fatto, nel corso dei secoli ci sono state liquefazioni fuori delle date tradizionali, quando il reliquiario stesso è stato maneggiato per restauri. Spiega il chimico pavese che la ricetta messa a punto da lui e dai suoi colleghi si basa su materiali disponibili a un alchimista dell'epoca: cloruro ferrico sotto forma d'un minerale rintracciabile presso i vulcani attivi (quindi intorno al Vesuvio), calce o cenere di legno, pergamena come membrana dializzatrice. Anche uno dei molti pittori che nel Trecento facevano esperimenti per ottenere nuove tinte avrebbe potuto preparare una miscela del genere. L'aver prodotto qualcosa che si comporta in modo analogo alla reliquia non basta tuttavia a dimostrare che abbia davvero la stessa natura. Sul quotidiano Avvenire Mariano Del Preite, responsabile dell'ufficio stampa della curia napoletana, faceva notare in giugno che, a differenza di quanto ci si potrebbe attendere per una miscela tissotropica, la liquefazione è tutt'altro che riproducibile: qualche volta il solido resta tale anche dopo molti giorni di movimento del reliquario, qualche altra è già fluido all'apertura della cassaforte. Chi ha ragione? Dobbiamo riconoscere comunque a Garlaschelli il merito di stimolare la ricerca della verità. Se si potessero aprire le ampolle, le analisi chimiche e biologiche indicherebbero chiaramente se davvero vi è contenuto sangue: non si spinse fino a richiedere un intervento del genere il celebre anatomista Gastone Lambertini; però, in mancanza di quelle analisi, già nel 1964 egli evitava di dare il proprio responso. Volendo lasciare intatte le ampolle, si dovrebbe - suggerisce Garlaschelli - fare ricorso a spettrometri moderni, che darebbero un'indicazione più affidabile sulla presenza di emoglobina. Gianni Fochi Scuola Normale di Pisa


SCIENZE DELLA VITA IL RISCHIO CALABRONI Femmine pericolose e irritabili I maschi muoiono tutti all'inizio dell'inverno
Autore: GROMIS DI TRANA CATERINA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

IL ronzio di un calabrone che piomba inaspettato nell'ombra fresca di casa per sfuggire alla calura dell'estate è sempre inquietante. Sarà per le dimensioni (il calabrone, Vespa crabro, è la più grande delle nostre vespe), e anche per i colori aggressivi, ma quello che allarma è soprattutto lo zzzzz agitato dell'insetto che si sente in trappola e batte contro i vetri, ostacoli trasparenti e per lui incomprensibili. Tutti hanno una innata paura del ronzio e anche i più freddi possono vincerla con l'autocontrollo solo se lo conoscono e lo sanno accettare. E' un rumore di minaccia, che serve a mettere in guardia, e il fatto che lo usino anche gli innocui sirfidi, simili a piccole vespe, e altri insetti inoffensivi, non è che un trucco di questi deboli che non hanno altra arma se non l'inganno per intimorire. Il calabrone è uno dei forti, pericoloso davvero, irritabile, fornito di un veleno che può provocare anche la morte. Nella sua composizione chimica entrano istamina, serotonina, acetilcolina e sostanze velenose, per lo più polipeptidi, che formano un cocktail la cui potenza è legata a molti fattori: dalla quantità di punture, alla zona del corpo colpita, alle condizioni fisiche, all'età (le persone soggette ad asma e ad altre allergie sono più a rischio, come i vecchi e i bambini). Rispetto a quello delle api il veleno delle vespe e dei calabroni differisce per il suo costituente più originale, la kinina, un peptide che causa sensazioni dolorose ai tessuti in cui è introdotto. E' più potente nei calabroni e nelle altre vespe sociali che in quelle solitarie, con una tossicità maggiore durante il periodo dell'anno di maggiore attività. Le più pericolose sono le femmine operaie, più aggressive, più numerose e più attive dei maschi e delle loro sorelle prescelte per l'amore. I calabroni fondano società annue affidate a una sola femmina, unica madre, che inizia la costruzione del nido e continua il lavoro fino al momento in cui le prime figlie operaie sono in grado di alleviarle la fatica e di immolarsi per il bene della famiglia, lasciando a lei sola il compito di continuare a produrre uova. Il nido può essere nella cavità di un grande tronco, in una buca, in un solaio, appeso a una persiana o a una grondaia (e allora a volte è meglio chiedere l'intervento dei pompieri, attrezzati per difenderci dai pericoli). Fortunati quelli che si imbattono in un'opera compiuta quando la matriarca non ha trovato un rifugio più nascosto dell'appiglio di un ramo in un cespuglio di nocciolo: ha un fascino un po' sinistro quella leggera costruzione cartacea, fatta di legno sfibrato e impastato con la saliva, partendo da una sferetta grossa come un pisello che la femmina afferra con le mandibole e va a fissare nel punto dove si appenderà il nido. Poi una seconda sferetta si aggiunge alla prima, e una terza e così via, e il tutto viene modellato rapidamente, alternando la preparazione della carta a visite all'acqua per bere. Così con la calma sicurezza che governa le cose che si sanno fare senza averle mai imparate la madre modella un peduncolo e poi una coppa concava verso il suolo e alla fine costruisce alcune cellette a sezione esagonale con la bocca rivolta verso il basso. A questo punto la fatica si fa quasi insostenibile: mentre la femmina da sola continua a lavorare, aumentando il numero dei vani e deponendo altre uova, deve anche nutrire le prime larve venute al mondo che sono completamente inette. Ma lei accetta la sfida: vola nei dintorni a caccia di qualsiasi insetto dai tegumenti non troppo duri le capiti a tiro, si posa sui frutti maturi per assorbirne la polpa, arriva a infilarsi nelle arnie delle api per uccidere e portare via le operaie. Posa la preda su un ramo, la smembra e la riduce in poltiglia da somministrare alle figlie. Alla fine succede qualcosa che ridimensiona tutto questo immane sforzo: le prime larve in breve tempo raggiungono la maturità, dopo aver subito tre mute, e per la madre c'è finalmente uno spiraglio di luce dopo tutto questo estenuante lavorare: arriva l'aiuto delle vergini. Le nascite si succedono ora per ora e la famiglia comincia a prendere consistenza. Le figlie ingrandiscono e perfezionano il nido, lo rendono più robusto e confortevole con strati di carta un po' discosti l'uno dall'altro, efficaci nel mantenere la temperatura intorno ai trenta gradi necessari per lo sviluppo delle nuove larve. Per fortificarsi si riforniscono di proteine cacciando altri insetti e trovano l'energia degli zuccheri nei frutteti dove ben noti sono i loro attacchi devastanti a pere, fichi, acini d'uva, di cui divorano tutta la polpa. Attenzione agli orti: si può aprire un melone pregustandone la zuccherina bontà e trovarsi faccia a faccia con una buccia vuota da cui proviene un ronzio indispettito e pericolosissimo. A volte queste cose succedono nei giardini di casa, dove tutto matura al sole; altro sono i grandi campi che servono all'industria, in cui la frutta è raccolta acerba, quando i calabroni, buongustai, ancora la disdegnano. Irrobustite le figlie finalmente la madre regina trova un po' di pace e può dedicarsi senza più frenesie a completare il suo compito terreno, quello che fin dall'inizio era per lei l'unico scopo: perpetuare la specie prima di morire. Così verso la fine dell'estate deposita altre uova, in celle un po' più grandi e che nel nido hanno una loro precisa posizione, dalle quali nasceranno le femmine fertili. E in celle normali ne deporrà altre ancora, non fecondate, da cui nasceranno i maschi. L'autunno benedirà le nozze e gli ultimi voli degli individui fecondi e ai primi freddi la prosperosa colonia comincerà a declinare. Moriranno tutti i maschi e quasi tutte le operaie, il nido si raffredderà, si sgretolerà e soccomberà ai rigori dell'inverno. Solo le femmine fecondate, con un disperato attaccamento alla vita, andranno a rifugiarsi in ogni crepa o fessura o angolo riparato alla ricerca della salvezza. Il caso deciderà quali sopravviveranno, e pochissime in primavera saranno pronte a ricominciare la loro storia. Fortificate dagli stenti fonderanno nuove società e superato l'inverno, diventeranno degne di affrontare le sfide del futuro. Caterina Gromis di Trana


SCAFFALE Heidmann Jean: "Extra-Terrestri", Piemme
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Dopo anni di scetticismo da parte della comunità scientifica, la ricerca di forme di vita intelligenti nello spazio è ormai un campo riconosciuto, nel quale si incontrano astronomi, biologi, geologi, tecnologi. Questo libro, tradotto con cura da Franca Genta e giunto ora alla seconda edizione, fa il punto sullo stato delle conoscenze. Piero Bianucci


IN BREVE Il gioco del carbonio
ARGOMENTI: CHIMICA, DIDATTICA
ORGANIZZAZIONI: COOPERATIVA BILOBA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

Si chiama CicloCarbonio ed è un gioco da tavolo che simula il ciclo dell'elemento chimico fondamentale per la vita. Lo ha realizzato la cooperativa Biloba con il contributo dell'assessorato all'Ambiente della Regione Piemonte. Tel. 011-540.481.


SCIENZE DELLA VITA LA GAMBUSIA Il killer delle zanzare Un pesciolino che si nutre di larve
Autore: GRASSIA LUIGI

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
NOMI: GROPPALI RICCARDO, FRUGIS SERGIO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, PAVIA (PV)

A vederlo nuotare nelle vasche dell'università di Pavia sembra proprio un pesciolino: ha le pinne, le squame, le branchie. Invece è uno zampirone, un "Vape", insomma uno spietato killer di zanzare. Solo che le ammazza prima che imparino a volare, quando si aggirano ancora inoffensive allo stadio di larva nelle acque ferme di fossi, laghetti e risaie. E' originario della zona a cavallo fra Messico e Stati Uniti. Si chiama "gambusia" e potrebbe rivelarsi l'arma vincente per farci godere di belle stagioni senza più ronzii nè punture. O meglio, con meno ronzii e meno punture. Perché questa guerra non può essere vinta una volta per tutte", precisa il professor Riccardo Groppali, responsabile con Sergio Frugis della relativa ricerca presso il dipartimento di Ecologia del territorio. Ogni specie, già presente o appena introdotta (anche le zanzare, anche la gambusia) ha infatti un ruolo e un impatto sull'equilibrio ambientale. E a Pavia si studia proprio fino a che punto sia compatibile con questo equilibrio la diffusione nelle nostre acque del piccolo pesce. Un fatto è certo: la gambusia è micidiale. "La femmina adulta mangia fino a 150 larve al giorno, preferibilmente di zanzara" spiega Groppali. Quand'è all'opera fa paura. Appena la preda si avvicina alla superficie per respirare, il pesciolino, che se ne sta acquattato a pelo d'acqua, scatta e non lascia scampo. " Anche la capacità riproduttiva è prodigiosa - dice il ricercatore -. In condizioni ottimali una femmina produce 80 nuove gambusie per volta, a tre riprese ogni anno". Tanta energia è compressa in 6-7 centimetri ricoperti da squame grigie. Il maschio, un po' più piccolo, feconda la compagna con la pinna anale fatta a punta (gonopodio) introducendo lo sperma in una sacca dove le uova se ne stanno al sicuro, anziché essere subito rilasciate (come avviene invece per la maggior parte dei pesci). Ne usciranno piccoli già in grado di nuotare. E anche questo contribuisce al successo della specie. Un altro punto di forza di questo pesciolino col turbo è la resistenza ai prodotti che gli agricoltori versano in abbondanza nelle risaie, in particolare diserbanti. Ma da qui potrebbero nascere controindicazioni: l'organismo della gambusia accumula senza morire sostanze tossiche in alte concentrazioni, e se un airone o altro uccello piscivoro se la mangia, ingoia una polpetta avvelenata. E' importante studiare questi e altri effetti sulla catena alimentare. Ma Groppali tira fuori un asso dalla manica: "Che la gambusia sia compatibile con molti ambienti d'acqua dolce in Italia è dimostrato dal fatto che qui e là si è già ambientata, e da decenni. Negli Anni 20 e 30, l'epoca delle grandi bonifiche, fu introdotta in Maremma e sul litorale laziale. Molti altri Paesi, in Asia e Africa, l'hanno usata per stroncare la malaria. Ma da noi è stata pressoché dimenticata, anche perché ha un aspetto insignificante e nessun interesse per la pesca sportiva". Negli ultimi anni, spiega il ricercatore pavese, la gambusia è stata rilevata a sorpresa in diverse zone del bacino padano. "Adesso stiamo esaminando la sua adattabilità alle sempre mutevoli pratiche di coltivazione del riso, per valutare se espanderne l'habitat, e studiamo come confinarla in un certo bacino una volta introdotta". Luigi Grassia


SCIENZE DELLA VITA LE PILLOLE DEL DIGIUNO Il mercato della fame Gli americani sempre più ciccioni
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: CHIMICA, BIOLOGIA, FARMACEUTICA
ORGANIZZAZIONI: SMITHKLINE BEECHAM
LUOGHI: ITALIA

RITIRATA recentemente dalle farmacie (anche in Italia) la fenfluramina a causa di potenziali danni polmonari, poco o nulla rimane per chi cerca una pillola che freni l'appetito. D'altra parte egualmente importante è la richiesta proveniente dal lato opposto per un farmaco che invece lo stimoli. Basta pensare ai pazienti in chemioterapia o a coloro che per motivi di salute non si siedono a tavola con entusiasmo pur avendo bisogno di aumentare di peso. Fallito anche il tentativo con le amfetamine, dannose perché eccitanti del sistema nervoso centrale, non rimane ai ricercatori che rimettersi alla caccia di qualche buona molecola, possibilmente prodotta dallo stesso cervello umano e quindi vicina ai meccanismi fisiologici utilizzati dall'organismo per controllare l'appetito. I candidati non mancano: possiamo risalire a dati di cinquant'anni fa, quando si scoprì un'area particolare del cervello la cui distruzione trasforma gli animali in mangiatori voraci e insaziabili. La regione è localizzata in quella parte del cervello chiamata ipotalamo e il centro nervoso in questione venne chiamato "centro della sazietà". Molto più recentemente ricercatori della Rockefeller University di New York scoprirono una proteina prodotta dal cervello che ha la proprietà di sopprimere l'appetito che venne chiamata leptina. Si notò in seguito a studi più precisi che il " centro della sazietà" è assai ricco in recettori della leptina che sono necessari affinché essa estrinsechi la sua azione fisiologica. Nello stesso centro ipotalamico si condensano anche i recettori di una piccola molecola, un peptide chiamato sostanza Y che ha l'effetto opposto alla leptina di stimolare l'appetito. Il concetto di un solo centro nervoso formato da molti neuroni con la funzione di coordinare sia l'appetito che la sazietà non è più valido alla luce delle scoperte moderne e viene ritenuto oggi assai semplicistico. Sappiamo invece che si tratta di una rete nervosa e di numerosi centri collegati tra di loro a formare un sistema di informazione che riceve continuamente dei segnali circa le condizioni di nutrizione dell'individuo. Se ad esempio si verifica una caduta anche minima del tasso di zucchero nel sangue essa viene immediatamente segnalata a vari centri in modo da attivare una immediata risposta. La più recente scoperta in questo campo è quella di un gruppo di ricercatori dell'Università del Texas e dei laboratori di ricerca dell'industria farmaceutica Smithkline Beecham che hanno isolato dal cervello del ratto due nuovi peptidi chiamati orexine (dal nome greco dell'appetito). Si è visto che anche le orexine come la leptina e la sostanza Y agiscono a livello dell'ipotalamo però in un'area particolare di questo chiamata "zona dell'appetito". Se tale centro viene leso, l'animale rifiuta il cibo e muore letteralmente di fame. Si è pure riusciti ad identificare i recettori sui quali agiscono le orexine. Ciò è assai importante in quanto permetterà in seguito di sviluppare dei farmaci molto selettivi che attivino o sopprimano il senso dell'appetito. Se le orexine vengono iniettate direttamente nel cervello l'animale mangia da tre a sei volte di più e se viene tenuto a digiuno si nota un aumento delle orexine che informa l'animale sulla necessità di nutrirsi. Il fatto che le orexine agiscano su un centro così specifico e limitato dell'ipotalamo fa sperare che il loro effetto sia altrettanto selettivo e mirato (al contrario di quello della leptina e della sostanza Y). L'interesse dell'industria farmaceutica circa lo sviluppo di farmaci anoressici (sopprimenti l'appetito) è molto alto trattandosi di un potenziale mercato di miliardi di dollari. Le statistiche degli ultimi tre anni denunciano un crescente aumento del peso medio degli americani malgrado le numerose cure dimagranti già utilizzate. Ezio Giacobini


IN BREVE Informatica e riservatezza
ARGOMENTI: INFORMATICA
ORGANIZZAZIONI: CNR
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, PISA (PI)

Il 26 e 27 novembre all'Università di Pisa il Cnr organizza un convegno su informatica, sicurezza e privacy, con l'intervento di ricercatori e magistrati. Informazioni: 050-593.209.


SCIENZE FISICHE. CURIOSITA' La scienza americana parla latino
Autore: MINELLI GIORGIO

ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA

IMPEACHMENT è parola tornata di moda in questi giorni, e di nuovo si è sentito il lamento dei puristi nella nostra lingua per lo straripare dell'inglese. D'altra parte una traduzione diretta non risulta sia stata proposta. Eppure tutto è partito da noi, o meglio dai nostri padri: impeachment viene dal verbo latino impedicare. Concetto acquisito nella cultura giuridica anglosassone, trasferito oltre oceano, e da lì tornatoci ora con clamor di media. A proposito, media non viene dal latino? Ma non sono questi gli unici esempi di ritorno dall'America della nostra lingua madre: paradossale è il caso del fax, che gli statunitensi si ostinano a scrivere per esteso fac-simile, anche sulle loro pur piccolissime carte da visita, mentre qui - come se ci vergognassimo delle radici della nostra cultura - sentiamo il bisogno dell'esterofilo monosillabo, con tanto di x. Tutto il linguaggio scientifico americano traborda di latino, a partire dalla medicina. Non è facile trovare il nome di una malattia che non ci sia perfettamente familiare: appendicitis, colitis, colica, hepatitis; pneu monia, meningitis. Sembra il latino maccheronico del Dottor Purgone o del Dottor Balanzone ed è invece il ricordo di quando c'era una convergenza delle culture su di una unica gloriosa lingua, della quale noi - che ne siamo gli eredi diretti - facciamo di tutto per cancellare la traccia. Ma non è solo nelle discipline più antiche, come legge e come medicina, che gli americani fanno uso del latino: ogni volta che il progresso porta al bisogno di un vocabolo nuovo vi ricorrono sempre più spesso, ed anche per le tecniche più avanzate. Quando al cinema o alla Tv si vede arrivare una diligenza capita che per qualche momento le ruote girino al rovescio: il complesso fenomeno dovuto all'avvicinarsi della frequenza di rotazione delle ruote a quella di campionamento dei fotogrammi, si chiama alia sing, dal latino alias, perché le immagini sono altro rispetto al giusto. E così i suoni, i rumori, sono composti da una serie di segnali elementari sinusoidali, il cui insieme (che li caratterizza) si chiama spectrum, e se c'è da farne il plurale, si va in perfetto latino a spectra. Un mare sono le parole latine nella tecnica di marca americana e perciò diffuse in tutto il mondo: inertia, data, formula, radius, momentum, minimum, maximum, plus, minus, solo come esempi. Ma il latino traborda anche nel lessico più comune: le 24 ore della giornata vengono divise in 12 a.m. e in 12 p.m. ossia ante meridiem e post meridiem. Ma non chiedete mai cosa vogliono dire quelle letterine perché non lo sa nessuno: la curiosità non è nei geni degli americani (peraltro neppure nei nostri). E nello scrivere si trova spesso i.e. (ossia id est) col significato di cioè. Anche l'italiano è ben presente con molte parole sui quotidiani americani, che non sfoggiano certo un lessico sofisticato: è netta l'impressione che usino più parole italiane gli americani (il latino è addirittura fuori discussione), di quante americane ne usiamo noi. Possiamo dunque tranquillamente parlare di impeachment (vogliamo dire impedicamento?) senza temere di sentirci per questo succubi di una moda o di una cultura linguistica egemone. Faremmo molto meglio invece ad aver cura di diffondere fra noi il latino, e basterebbe anche solo di quel tanto che lo fanno gli altri. Amen. Giorgio Minelli Università di Bologna


SCIENZE DELLA VITA Le "cineserie" Nel '600 le prime importazioni
Autore: M_V

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA

NUMEROSE specie della flora originale dei Paesi orientali hanno arricchito le collezioni europee, la maggior parte di esse venivano coltivate da centinaia di anni nei giardini cinesi e giapponesi. Ma per i cacciatori di piante occidentali non fu facile entrare in possesso degli esemplari da riportare in patria. Cina e Giappone infatti rimasero quasi del tutto chiusi all'Occidente fino alla metà dell'800, quando con il trattato di Nanchino (1842) l'accesso divenne un po' più libero. Prima di questa data, dopo il viaggio di Marco Polo nel XIII secolo, solo pochissime persone riuscirono a superare i confini del misterioso Oriente. I primi scambi commerciali furono avviati dalla Compagnia delle Indie, che installò alcune basi lungo la costa cinese (Macao, Canton). Fu in una di queste basi che un medico inglese, Cunningham, già verso la fine del '600 riuscì a reperire e spedire in Inghilterra diverse piante locali, anche se non gli era concesso di penetrare nell'entroterra. I francesi invece, pur non avendo privilegi commerciali, riuscirono a inviare in Cina alcuni missionari che si ingraziarono la popolazione insegnando i segreti di arti sconosciute ai cinesi (orologeria, soffiatura del vetro). Fu uno di questi, Padre d'Incarville, che, soggiornando diversi anni a Pechino verso la metà del '700, raccolse ed inviò in Europa numerose piante che furono poi molto utilizzate nei giardini occidentali (ad esempio Ailanthus altissima, Albizia ju librissin, Juniperus chinensis, Koelreuteria paniculata, So phora, Thuja orientalis). In seguito la cortina si alzò nuovamente per alcuni anni, ma le poche informazioni apprese furono sufficienti a scatenare in Occidente la moda delle "cineserie"; le piante che arrivavano, per lo più molto attraenti, diventarono molto ambite e suscitarono il desiderio di conoscere nuove varietà. Si dovette però attendere fino agli inizi dell'800, con la ripresa degli scambi commerciali tra Cina ed Europa, per poter avere nuovi invii di piante. In questi anni Kerr, giardiniere a Kew, fu mandato in Cina da Banks alla ricerca di novità; scoprì tra l'altro la Rosa ban ksiae (chiamata così in omaggio a Banks), la Kerria japonica (nome dato in suo onore) e il primo giglio tigrino. Nel frattempo in Europa il numero degli appassionati e collezionisti botanici stava aumentando notevolmente e la richiesta sempre maggiore di piante esotiche incrementò la ricerca, che non era più solo a fini scientifici ma anche a fini economici. Il mercato delle orchidee ad esempio stava diventando piuttosto ricco ed i cacciatori di piante erano disposti ad avventurarsi nella giungla più fitta pur di accaparrarsi una nuova varietà. Alcuni vivaisti inglesi (il più noto fu Veitch), fiutando l'affare, incominciarono a specializzarsi in coltivazioni di piante orientali e a tale scopo assoldarono dei cercatori di piante. Tra questi forse il più bravo fu Thomas Lobb, esperto soprattutto in orchidee. Un altro che merita di essere citato fu lo scozzese R. Fortune, inviato in Cina nel 1843 per conto della Royal Horticultural Society; oltre ad essere botanico esperto, Fortune era dotato di un "fiuto" che gli servì per trovare numerose piante nuove come Anemone japonica, Jasminum nudiflorum, Weige la, Clerodendrum, Forsythia, diverse specie di peonie, rododendri, azalee, susini. Fortune andò anche in Giappone verso il 1860 dove la chiusura verso l'Occidente era pressoché identica alla Cina e le restrizioni imposte dal regime agli stranieri erano alquanto severe e durarono a lungo. Nonostante ciò riuscì a spingersi in zone poco conosciute e a trovare numerose specie nuove e pregiate (Primula japonica, Deutzia scabra, Osmanthus fortunei). Prima di lui solo pochi cacciatori di piante erano riusciti a penetrare in Giappone. Ricordiamo lo svedese C. P. Thunberg che introdusse verso la fine del '700 il Berberis thun bergii e il bavarese P. H. von Siebold che, essendo un bravo oculista oltre che botanico, ebbe dai giapponesi particolari permessi per muoversi abbastanza liberamente, tanto che quando ripartì nel 1830 portò con sè un consistente bottino: 458 esemplari di piante. (m. v.)


SCIENZE FISICHE. CLIMATOLOGIA Le Alpi senza ghiacciai L'effetto serra cambia il paesaggio estivo
Autore: MINETTI GIORGIO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA, ECOLOGIA, AMBIENTE
NOMI: BIANCOTTI AUGUSTO
ORGANIZZAZIONI: COMITATO GLACIOLOGICO ITALIANO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

DA circa un trentennio stiamo assistendo a continue anomalie nell'andamento delle stagioni. Le osservazioni e le analisi, effettuate con metodi scientifici negli ultimi 200 anni, dimostrano che queste anomalie si sono spesso verificate: abbondanti nevicate, nubifragi, siccità. Questi episodi hanno avuto quasi sempre una caratteristica episodica ma non si sono mai presentati a scadenza così ravvicinata come avviene da qualche tempo a questa parte. La crescita della popolazione mondiale e le conseguenti maggiori richieste di energia, cibo ed acqua, suggeriscono che le attività umane siano la causa specifica che sta alterando l'atmosfera della Terra. Buco d'ozono, effetto serra ed incremento del riscaldamento globale sono i fenomeni ormai quasi scientificamente accertati che intervengono direttamente quali elementi di rottura nell'equilibrio idrogeologico. Tra gli ambienti particolarmente vulnerabili, le montagne sono le aree più minacciate dal cambiamento climatico, le cui ripercussioni si stanno già facendo risentire a lunga scadenza. Tra queste, come ricorda Augusto Biancotti, direttore del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Torino e " past president" del Comitato Glaciologico italiano: 1) riduzione delle precipitazioni nevose con impoverimento di bacini glaciali; 2) eccessivo innalzamento delle temperature con ritiro delle masse glaciali; 3) aumento della franosità ed erosione dei pendii montani con facilità d'inondazioni; 4) caduta di piogge acide sotto forma di acido solforico o nitrico a causa degli inquinanti emessi da autoveicoli e centrali a carbone o gasolio con considerevoli deperimenti forestali; 5) conseguenze economiche per minor afflusso idrico ai bacini artificiali delle centrali elettriche; 6) conseguenze turistiche con riduzione di superfici sciabili durante il periodo estivo; 7) e ancora lo squilibrio conseguente al ritiro delle masse glaciali provoca crolli improvvisi di fronti pericolosi per alpinisti ed escursionisti. Di fronte a questa situazione non può destare meraviglia se, ora come nel passato, molte istituzioni di studiosi e scienziati sentano la necessità di incontri a livello nazionale ed internazionale per favorire il confronto e lo scambio di problematiche e metodiche più ampie e diversificate. Il trasferimento dei risultati scientifici di questi incontri agli enti amministrativi pubblici, potrà forse migliorare in parte la situazione. Già 48 anni fa, precisamente nel lontano 1950, Mario Brossolasco, dell'Università di Genova, di sua iniziativa dava inizio a un Congresso internazionale che si proponeva lo studio della meteorologia applicata al particolare ambiente montano. Da allora, con una cadenza biennale, si è rinnovata e consolidata questa iniziativa che, svoltasi nelle più svariate località alpine, ha raccolto gli esperti più autorevoli in questa materia, quali rappresentanti di molti Paesi. Ne scaturì già allora un'autorevole constatazione del considerevole valore che la meteorologia riveste nell'ambiente montano, relativamente ai problemi legati ai più vari campi in cui interviene: turismo, approvvigionamento idrico, industrie idroelettriche, attività sportiva, trasporti, idraulica, agricoltura e conservazione del suolo. In quest'ottica la Regione Piemonte, settore Direzione dei Servizi Tecnici di prevenzione e settore Meteoidrografico, si è assunta il compito di organizzare il 25o Congresso di meteorologia alpina a Torino. La scelta di Torino riveste un particolare significato per la candidatura quale sede dei Giochi Olimpici invernali del 2006, la cui designazione avverrà nel prossimo anno. Sede dell'incontro sarà il Centro Congressi del Lingotto, in via Nizza. Sono in programma anche visite a Pallanza, all'Istituto di Idrobiologia del Cnr, ed escursioni agli impianti dell'Enel in Val Formazza e al ghiacciaio del Sabbione. Tra i temi che compaiono nell'agenda dei lavori congressuali, segnaliamo il 15 settembre analisi e previsioni meteo in montagna; climatologia alpina; il 17 nivologia, glaciologia, biometeorologia, idrobiologia e inquinamento in ambiente alpino; il 18 rischio idrometeorologico ed economia in ambiente alpino; il 19 settembre è prevista l'escursione in Val Formazza. Per ulteriori informazioni ci si può rivolgere al numero telefonico 011-3168203. Giorgio Minetti


IN BREVE Lerici: museo per i dinosauri
ARGOMENTI: DIDATTICA, PALEONTOLOGIA
NOMI: LANDINI WALTER
ORGANIZZAZIONI: MUSEO GEOPALEONTOLOGICO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, LERICI (SP)

Il 12 settembre apre nel Castello di Lerici un Museo Geopaleontologico, per iniziativa della Provincia di La Spezia e del Comune di Lerici, in seguito alla scoperta nell'entroterra, di orme di dinosauri risalenti a circa 200 milioni di anni fa. A parte il settore dei dinosauri, ricostruiti in grandezza naturale, è di particolare interesse una sala dove sono simulati terremoti: i visitatori in piccoli gruppi, intorno a una tavola vibrante, vivranno l'emozione e la paura di un evento sismico. Lo scopo è formare nei cittadini una coscienza del problema, e stimolare un'educazione ambientale. Il progetto scientifico del museo è stato curato dal paleontologo Walter Landini dell'Università di Pisa; le simulazioni sismiche sono a cura di due specialisti come Carlo Gavarini e Paolo Scandone.


SCAFFALE Maffei Lamberto: "Il mondo del cervello", Laterza
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: BIOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Il cervello di Galileo e quello di Dario Fo, il nostro cervello e i condizionamenti della tv, il cervello della donna e quello dell'uomo, il cervello destro - quello della sintesi e della percezione spaziale - e il cervello sinistro - quello analitico e specializzato nel linguaggio, il cervello del piacere e il cervello dell'arte: ecco alcuni degli aspetti presi in esame in questo libro agile, lieve e insieme profondo, scritto da uno dei maggiori neurobiologi italiani.


SCAFFALE Massironi Manfredo: "Fenomenologia della percezione visiva" , il Mulino
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: BIOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

La percezione visiva è un fenomeno estremamente complesso per i meccanismi cerebrali che coinvolge ma proprio per questo è anche una preziosa via di accesso ai processi cognitivi: memoria, pensiero, linguaggio. E' la chiave di questo saggio ispirato a una divulgazione alta ma chiarissima. Massironi insegna psicologia generale all'Università di Verona.


IN BREVE Nuovo farmaco anti-Parkinson
ARGOMENTI: CHIMICA
NOMI: DA PRADA MOSE'
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, SVIZZERA, BASILEA

Dal 15 settembre sarà in farmacia un nuovo farmaco anti-Parkinson totalmente rimborsato. Si tratta di una molecola a base di tolcapone messa a punto da una equipe guidata a Basilea dall'italiano Mosè Da Prada. Informazioni presso l'Associazione italiana parkinsoniani: 02-6671.3111.


SCAFFALE Piervittori Rosanna: "Licheni. Conoscerli e utilizzarli", Minerva Aosta
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: BOTANICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

SINGOLARE società di mutuo soccorso tra funghi e alghe, i licheni sono interessanti da molti punti di vista. Colpisce innanzi tutto la forma di simbiosi cui devono la loro esistenza: un'alga che mette a disposizione la sua funzione nutritiva tramite la sintesi clorofilliana mentre il fungo presta l'apparato riproduttivo. Ma sono notevoli anche le capacità del lichene di colonizzare ambienti estremi e, nello stesso tempo, di funzionare come prezioso sensore dell'inquinamento. Per non parlare della varietà delle forme e dei colori, attrattiva estetica che appassionò un poeta come Camillo Sbarbaro. Questo volume di Rosanna Piervittori (contributi di Fausto Ceni, Maria Teresa Della Beffa e Deborah Isocrono) ci presenta le più comuni tra le migliaia di specie con fotografie, disegni e schede botaniche, senza dimenticare le applicazioni, che vanno dalla fitoterapia alla cosmesi alla tintura.


SCAFFALE Poggi Alessandro: "Il tempo illustrato", Titania Editrice, Lucca
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: FISICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Il cielo come palcoscenico per alcuni tra i più straordinari spettacoli della natura: è questa l'idea che ha ispirato ad Alessandro Poggi, fotografo e giornalista scientifico, un libro tanto da guardare quanto da leggere. L'arcobaleno, gli aloni lunari, i lampi, i fulmini, le nubi nottilucenti, le trombe d'aria, i colori del cielo dall'azzurro profondo al rosso del tramonto, la grandine: ognuno di questi fenomeni viene descritto nel suo aspetto e spiegato nelle sue cause, spesso con curiosi cenni storici.


SCAFFALE Santoro Eugenio: "Internet in medicina", Il pensiero scientifico Editore
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Internet e il medico. Questo libro spiega come chi si occupa di medicina possa trarre la massima utilità dalla rete delle reti, ricavandone informazioni fresche, consultando le riviste, partecipando a congressi virtuali, e anche guardandosi dalle trappole che talvolta Internet nasconde.


IN BREVE Un'agenda piena di dati statistici
ARGOMENTI: DIDATTICA
ORGANIZZAZIONI: DIARIO AGENDA ZANICHELLI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

E' disponibile il nuovo Diario Agenda Zanichelli, che copre il periodo dal 1o settembre 1998 al 31 dicembre 1999: contiene molti dati statistici aggiornatissimi, notizie geografiche, politiche ed economiche, le nuove parole accolte nello "Zingarelli 1999" e, per ogni giorno, la rievocazione di un evento tratta da una voce dell'Enciclopedia Zanichelli 1999 (pubblicata su carta e su Cd-rom).


SCIENZE DELLA VITA CON SEDE A TRIESTE Un'associazione per ricordare il dottor Schweitzer L'ospedale di Lambarenè, in tutta l'Africa, fu secondo solo a quello di Nairobi
AUTORE: BODINI ERNESTO
PERSONE: SCHWEITZER ALBERT
NOMI: BRESSLAU HELENE, TRENSZ FREDERIC, SCHWEITZER ALBERT
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TRIESTE (TS)

AL di là della affascinante vita avventurosa di Albert Schweitzer (Kaysersberg 1875-Lambarenè 1965), ciò che più conta è l'esempio della sua azione e il rigoroso concetto di "rispetto per la vita" che, nel corso della sua esistenza, ha espresso concretamente intendendo per vita sia quella umana, sia quella della natura. Schweitzer intendeva, in ogni caso, impegnarsi in un servizio direttamente umanitario, volendo diventare medico per poter lavorare senza parlare: per molti anni infatti fu professore di teologia e predicatore. Giunse in Gabon (allora la più povera delle Colonie della pur ricca Francia) il 15 aprile del 1913, con la moglie Helene Bresslau che gli fu sempre vicina per assistere e curare persone affette da lebbra, malaria, tumori, ernie, e per combattere superstizione, fame. Si propose di raggiungere l'Africa equatoriale perché la presenza di un medico, secondo i missionari, rispondeva al più urgente dei bisogni. "Nel suo lavoro di medico - spiega il dottor Adriano Sancin, fondatore e segretario generale dell'Associazione italiana Albert Schweitzer (sede a Trieste in via dei Soncini 139, tel. 040/27.46.34-81.41.35), e più volte in missione nel Gabon e in diversi Paesi in via di sviluppo - Schweitzer non fu un genio e non ha mai inventato nulla; quello che invece è rilevante nella sua personalità non è tanto la sua capacità geniale quanto la pazienza di apprendere. Una pazienza sostenuta da una straordinaria forza di volontà e favorita, come egli stesso affermava, da una buona dose di fortuna". Ottenuto il titolo di "Approbation als Artz" (l'autorizzazione all'esercizio della pratica medica) l'11 febbraio 1912, Schweitzer frequentò a Parigi dei corsi di medicina tropicale, che completò a Berlino con uno stage supplementare, dal 1913 al 1917. Nel 1924, sino all'arrivo del dottor Victor Nessmann, si dedicò prevalentemente all'attività medica e chirurgica; dal 1925 fu coadiuvato dal dottor Marc Lauterburg e in seguito dal dottor Frederic Trensz, il più vecchio collaboratore di Schweitzer e suo successore a Lambarenè (il primo, dopo la morte di Schweitzer, fu il dottor Walter Munz). L'ospedale di Lambarenè fu secondo in tutta l'Africa solo a quello di Nairobi in Kenya. Si operavano soprattutto ernie giganti, elefantiasi, fibromi uterini, gozzi e ferite varie causate da incidenti: le fratture venivano trattate con la tecnica di estensione di Kirschner. Nel 1939 gli interventi furono 700 e circa quaranta pazienti erano ricoverati in attesa di essere operati. Mentre per la dissenteria si usavano il cloridrato di emetina, il yatrene, l'allistatina e la iodal guina; contro la filariosi, la malaria, la malattia del sonno, i tumori, la lebbra (curata con il pro mine e il diasone, due prodotti che Schweitzer per primo introdusse nell'Africa Equatoriale dagli Usa), l'ulcera fagedemica e contro le affezioni intestinali come la dissenteria, bilharziosi (patologia che risultò sensibile al tartaro stibiato) ed anchilostomiasi, la Tbc polmonare o ossea, la rosolia e le avitaminosi, sia allora, come oggi, venivano usate sostanze biochimiche prodotte dall'industria farmaceutica. In quel periodo Schweitzer scriveva: "La medicine tropicale a fait de grand progres dans le traitement des splenomegalies qui se produisent dans le paludisme chronique. C'est surtout à la science italienne que la medicine est redevable de ce traitement". Fu anche il primo a sostituire l'atoxyl e l'arseno benzolo (farmaci dagli effetti collaterali pericolosi e inadatti a distruggere i microrganismi che avevano già invaso le cellule del sistema nervoso centrale) con il germanyl, il moranyl ed il tryparsamide, molecole che, grazie alla scoperta della statunitense Pearce, avevano rivoluzionato la cura della malattia del sonno. Gli ammalati arrivavano da villaggi distanti centinaia di chilometri dall'ospedale, in condizioni pietose, affamati, denutriti, e spesso accompagnati dai familiari. " Evidenti le difficoltà di organizzazione di un ospedale coloniale - spiega ancora il dottor Sancin - ma Schweitzer nel suo discusso villaggio sanitario accolse gli ammalati assieme alle loro famiglie, agli animali e consentì ai vari gruppi etnici di vivere secondo i loro costumi: tollerò le abitudini tribali, la poligamia, le loro interminabili discussioni... Il villaggio sanitario come concepito da Schweitzer è un'idea dell'avvenire e se comparato alle cliniche delle capitali, il villaggio con le sue costruzioni basse e di modeste dimensioni ha un aspetto umile, quasi povero". Tuttavia, nel 1950 furono installati l'energia elettrica e il primo apparecchio radiologico; nel 1954 fu modernizzato il laboratorio analisi, ampliata la rete elettrica e il villaggio dei lebbrosi prese la sua forma definitiva grazie al Premio Nobel. Gli ammalati ricoverati a Lambarenè erano passati da 3800 nel 1958 a 6500 nel 1963, senza tener conto del villaggio dei lebbrosi che ospitava 200 pazienti; gli interventi chirurgici erano passati da 802 a 1003 dal 1961 al 1963; la mortalità nel periodo post operatorio era dell'1, 29 per cento nel 1961 e dell'1,17 per cento nel 1962. Nel biennio 1988-1989 vi lavoravano 113 indigeni (di cui uno medico) e 22 stranieri (di cui 5 medici). Nel 1988 sono stati ospedalizzati 2861 pazienti e 36.975 trattati in ambulatorio; effettuati 1364 interventi chirurgici e 45.052 analisi di laboratorio. In pediatria (32 posti letto) dal 1987 al 1992 sono stati effettuati 5163 ricoveri e 42.469 servizi esterni. Ernesto Bodini




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