TUTTOSCIENZE 2 settembre 98


DI CHE PROFUMO SEI?
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, CHIMICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. Il test delle rose colorate. La mappa delle fragranze

AL gusto e all'olfatto, i nostri sensi chimici, l'evoluzione culturale ha riservato destini opposti: il gusto coltivato ed esibito con la complicità di gastronomi ed enologi, l'olfatto rimosso; il gusto vissuto come elegante strumento di piacere, l'olfatto come residuato animalesco, eredità quasi imbarazzante per un Ho mo sapiens. In effetti, gusto e olfatto, proprio perché hanno in comune un meccanismo chimico (in entrambi la sensazione è dovuta a molecole provenienti dall'ambiente che vanno a legarsi con appositi recettori del nostro organismo), sono parenti così stretti da essere inseparabili, sicché il destino divergente ad essi imposto dal costume va contro la loro stessa natura. Il gusto, anzi, preso a sè è un senso ben grossolano, visto che sulla lingua troviamo recettori soltanto per quattro sapori fondamentali: dolce, amaro, acido e salato. La raffinata delizia di un sorso di buon Barolo o anche semplicemente di una plebea frittata di cipolle la dobbiamo proprio al contributo del bistrattato olfatto, salvo poi dolerci se in casa si diffonde un odore di soffritto. Già, gli odori, nel nostro tempo, esistono tutt'al più per essere cancellati. Basti ricordare che il filosofo Kant considerava l'olfatto "il più superfluo e ingrato di tutti i sensi". Ma forse ora si profila un'inversione di tendenza. Un libro a più mani, "Fragranze", di George H. Dodd, l'ideatore del "naso elettronico", e Steve Van Toller (edizioni Aporie) analizza le mille sfaccettature della psicologia e della biologia degli odori e dei profumi, rivelando la centralità di un organo di senso troppo sbrigativamente negato. A parte il contributo che dà al piacere della tavola, scopriremo che l'olfatto è un fondamentale strumento di comunicazione, più efficace della vista e dell'udito nel trasmettere emozioni e sentimenti in quanto ha dirette connessioni con il sistema limbico e l'ipotalamo, le zone del cervello da cui dipende la nostra vita emotiva. Proust nella "Recherche" e Primo Levi in una delle sue " Storie naturali" avevano ben afferrato la potenza evocativa di un odore, anche a distanza di decenni dalla prima esperienza. Ciò è ben comprensibile in quanto è nei mammiferi - in noi mammiferi - che la comunicazione olfattiva raggiunge la massima sofisticazione, al punto che l'odore del singolo individuo è strettamente collegato al suo sistema immunitario. Questioni decisive per la sopravvivenza come i rapporti madre-figlio, i legami familiari e di gruppo, l'attrattiva sessuale e le scelte alimentari sono pilotati dall'olfatto. Addirittura Le Gros Clark è giunto a parafrasare il " Cogito ergo sum" di Cartesio in "Olfacio ergo cogito" e il neurologo Adrian ha osservato che alla fin fine il cervello è in sostanza un organo chemiorecettore, per cui il miglior modo per studiarlo consiste forse proprio nel partire dall'odorato. La raffinatezza del nostro senso dell'olfatto rispetto al gusto si coglie anche in semplici dati: mentre occorrono almeno 3 milligrammi di zucchero per ottenere una sensazione di dolce, al nostro naso bastano 0,00005 milligrammi di rosmarino in un litro di aria per avvertirne l'aroma, e nel caso del tartufo addirittura 0,00000001 milligrammi. Due parti di vanilina su mille miliardi sono già in grado di stimolare le nostre cellule olfattive. Queste cellule occupano una superficie di 5 centimetri quadrati e sono circa 10 milioni, una cifra paragonabile a quella delle cellule a forma di cono della retina che ci consentono di avere una visione a colori (7 milioni). Anche se non ce ne rendiamo conto, sono molte migliaia le sfumature odorose che possiamo percepire e distinguere. Possiamo tuttavia invidiare i cani, che hanno 10 volte più cellule olfattive di noi... I produttori di profumi, una categoria che lavora al confine tra chimica, biologia, psicologia e un raffinatissimo artigianato, sono oggi tra i pochi ad essere pienamente consapevoli dell'importanza dell'olfatto nella nostra vita. Molta strada si è fatta da quando, nel 1921, Ernest Beaux creava Chanel n. 5 usando aldeidi alifatiche (che, peraltro, se in alta concentrazione, hanno un odore sgradevole: come sempre, è questione di senso della misura). Oggi ogni molecola viene studiata atomo per atomo nella sua struttura tridimensionale, cromatografia e spettrometria di massa sono al servizio dell'industria profumiera e non c'è aroma naturale che non possa essere riprodotto alla perfezione in un laboratorio chimico.Un aspetto curioso è la classificazione dei profumi. I tecnici hanno un loro complicato vocabolario: floreale, cipriato, ambrato, aldeidico, verde, colonia, speziato, fruttato, legnoso e così via. Come con le 22 lettere dell'alfabeto si possono ottenere quasi infinite combinazioni che vanno dalla "Divina Commedia" fino a un racconto della Tamaro o di Culicchia, così, anche partendo da pochi aromi fondamentali è possibile combinare una incredibile varietà di profumi, dai più sofisticati ai più stucchevoli, che di volta in volta riflettono i nostri stati d'animo, i nostri umori e persino le nostre percezioni subliminali. Qui accanto, tratta dal libro di George Dodd e Steve Van Toller, riproduciamo una versione semplificata della "Mappa delle fragranze". Come si vede, si va da un estremo floreale/femminile a un altro estremo non-floreale/maschile. In questa transizione si passa da un lato per le percezioni di naturale, fresco e sportivo, e dall'altro lato per inebriante, caldo, sontuoso. Entro queste coordinate si collocano le centinaia di profumi offerti dal mercato. Vale la pena di notare che i profumi classici si pongono in una zona centrale, lontana da ogni eccesso: è lì che sta il già citato Chanel n. 5, noto anche perché poche gocce della sua essenza costituivano l'unico abbigliamento notturno di Marilyn Monroe. Ma se per i produttori e i chimici che li assistono i profumi non hanno misteri, le cose vanno ben diversamente per il consumatore. Anche le donne e gli uomini più consapevoli, quando entrano in una profumeria diventano incerti: provano una essenza dopo l'altra, oscillano tra giudizi opposti, faticano a individuare il giusto cocktail tra l'odore naturale della loro pelle e la molecola da aggiungervi. In questo dissolversi anche delle personalità più spiccate di fronte alla scelta di un profumo si misurano due fattori in contrasto tra di loro: quanto, istintivamente, sentiamo ancora l'importanza dei messaggi odorosi, e quanto, tuttavia, ci siamo allontanati dal linguaggio di questi messaggi. Considerando l'intreccio profondo e sottile tra percezioni olfattive e psicologia, Mensing e Beck hanno elaborato un test basato su "rose di colori" tra le quali il cliente è invitato a scegliere. Le trovate in questa pagina. "Guardare le combinazioni di colori - spiegano Mensing e Beck - suscita un certo tipo di sensazioni e lo stato emotivo individuale è decisivo ai fini della scelta di un profumo. Ne consegue la possibilità di determinare questa scelta avvalendosi del test dei colori, che aiuta a individuare sia i bisogni emozionali sia quelli razionali e indica anche le marche associate a ogni colore o alla categoria cui appartiene la personalità". Pare che con questo sistema sia possibile prevedere con una probabilità dell'80 per cento le fragranze preferite, mentre la probabilità di individuare in anticipo le fragranze da scartare sarebbe addirittura del 90 per cento. Il test, comunque, non conduce ancora direttamente alla marca: Mensing e Beck consigliano di offrire al cliente uno spettro di almeno tre profumi affini, in modo che ognuno possa sintonizzare ancora meglio la fragranza scelta con i propri "dati sociobiografici" e le variabili del clima. Dubitate? Non vi resta che sperimentare su voi stessi l'efficacia della associazione colori-profumi-personalità. Piero Bianucci


DATI USA Finalmente i tumori arretrano
Autore: BADELLINO FAUSTO

ARGOMENTI: STATISTICHE
ORGANIZZAZIONI: ACS (AMERICAN CANCER SOCIETY)
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA

L'AMERICAN Cancer Society (Acs) ha presentato i dati 1998 sulla diffusione dei tumori negli Stati Uniti secondo i calcoli del Surveillance, Epidemiology and End Results dell'Istituto nazionale per il cancro di Bethesda. Sono dati incoraggianti. Per la prima volta l'Acs riporta una tendenza positiva, con una riduzione del numero totale di nuovi casi di cancro e una diminuzione della mortalità. Inoltre la sopravvivenza a 5 anni è in aumento, con l'eccezione dei cancri bronco-polmonari. Queste buone notizie arrivano al momento giusto, in quanto l'Acs nel preparare le sue strategie per il prossimo decennio adotterà dei programmi finalizzati a ridurre in maniera sensibile sia l'incidenza che la mortalità dei tumori. Nel febbraio 1997 i suoi responsabili decisero di voler raggiungere per il 2015 una riduzione del 50 per cento della mortalità per tumori, e nel febbraio scorso vi sono stati sviluppi in merito. Nelle valutazioni statistiche per il 1997 sono stimati negli Usa 1.382.400 nuovi casi, che a metà anno risultavano essere 1.257.800, con una riduzione del 9 per cento, che diventerà dell'11 nel 1998. Quest'anno il numero stimato di morti da tumore è di 564.800, sovrapponibile a quello dell'anno passato (560.000). Vi è una tendenza alla diminuzione per i tumori bronco-polmonari e prostatici nell'uomo, della mammella nelle donne e colonrettali in entrambi. Per la prima volta dal 1930 vi è stata una diminuzione della mortalità del 2,6%, nel periodo dal 1991 al 1995. Più precisamente, tra il 1990 e il 1994 vi fu ogni anno una riduzione del 1,4% nella mortalità da carcinoma polmonare negli uomini, dello 0,5 per la prostata, del 1,9% e del 1,5% rispettivamente negli uomini e nelle donne per i tumori del colonretto. Inoltre nelle donne la morte per tumore mammario è scesa del 1,8%, ma è aumentata per quello del polmone. Anche la sopravvivenza a 5 anni continua a migliorare, considerando i tumori nella loro globalità. Era del 50% nel '74-76, del 52% nel '80-82 e del 60% nel periodo '86-93. Ciò vale per i bianchi americani, pur verificandosi la tendenza, in maniera più ridotta, anche negli africani-americani (inferiore del 10-15 per cento). Diversi possono essere i motivi di questa diminuzione dell'incidenza e della mortalità: prevenzione, diagnosi precoce, terapie più aggressive. Qualunque sia il motivo più importante, comunque bisogna aumentare l'impegno in tutti i tre settori, afferma l'Acs. Un punto che fa pensare, oltre alle differenze tra bianchi e neri, è la diminuzione della mortalità più sensibile negli uomini (5,3%) che nelle donne (1,1%). Probabilmente alla base di questa differenza vi è il continuo aumento di tumori polmonari nel sesso femminile. Di qui la necessità di agire con programmi di educazione sanitaria nei confronti del fumo di tabacco in tutti, ma specialmente nei giovani e tra le donne. Fausto Badellino Istituto nazionale per la ricerca sul cancro, Genova


SCIENZE DELLA VITA MEDICINA I tessuti artificiali
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

NOMI: WILLIAMS DAVID, LANGER ROBERT, VACANTI JOSEPH
LUOGHI: ITALIA

I biologi ingegneri aumentano di numero. Alla ormai ben nota ingegneria genetica - l'insieme dei metodi di intervento sul patrimonio genetico, con vaste applicazioni anche in campo medico - è l'ora di aggiungere la Tissue Enginee ring, l'ingegneria dei tessuti. I progressi della biologia cellulare e dei materiali plastici permettono oggi di fabbricare tessuti artificiali che per aspetto e funzione riproducono abbastanza fedelmente le loro controparti naturali. Essenziale a questo riguardo è l'uso dei polimeri (composti organici derivanti dall'unione di due o più molecole semplici dette monomeri) biocompatibili e biodegradabili, atti a fungere da supporto per la crescita e l'impianto di cellule. Questi materiali possiedono una considerevole resistenza meccanica ed un elevato rapporto superficie-volume. Utilizzando metodi di progettazione e produzione assistite dal calcolatore si potrà ricavare da questi polimeri complesse impalcature imitanti la struttura di specifici tessuti, o addirittura di organi. Le impalcature saranno trattate con sostanze plastiche che favoriscano l'adesione e la proliferazione delle cellule, indi verranno " seminate" con cellule. Via via che queste andranno dividendosi e giustapponendosi la plastica si degraderà fino a lasciare solo tessuto coerente. Il nuovo tessuto potrà allora essere impiantato. La validità di questo approccio è già stata dimostrata: in grandi ustionati, e in diabetici affetti dalle tipiche ulcerazioni delle estremità inferiori, è stato impiantato tessuto cutaneo umano, fatto crescere su substrati polimerici. Un recente convegno nell'Università di Padova si è occupato appunto di questa nuova frontiera della medicina, la ricostruzione di tessuti umani, presente con una lezione magistrale David F. Williams dell'Università di Liverpool, grande autorità in materia. Come ha sintetizzato il professor Abatangelo, dal prelievo di qualche centimetro quadrato di cute del paziente si sono ottenute cellule, fatte poi crescere su supporti costituiti da biomateriali derivati dall'acido ialuronico (normalmente presente nella cute umana). In poco più di due settimane si sono ottenuti lembi di cute di qualche metro quadrato, innestabili nel paziente. In sostanza si tratta della costruzione di "pezzi di ricambio" utilizzando le cellule che costituiscono il tessuto da riparare, e un supporto biocompatibile e biodegradabile. Il supporto, che permette alle cellule di crescere nelle tre dimensioni e di ricreare la struttura del tessuto dal quale provengono, va poi incontro al naturale processo di biodegradazione lasciando un tessuto neoformato normale. Le previsioni sono affascinanti. Nei prossimi decenni la scienza medica andrà oltre i trapianti (che presentano parecchi problemi, dal rigetto alla carenza di organi donati) e, con la fabbricazione di tessuti, produrrà direttamente nuovi organi. L'ingegneria genetica a sua volta fornirà cellule che non provochino rigetto. Può apparire improbabile che un organo pienamente funzionale sia in grado di svilupparsi su una impalcatura polimerica a partire da poche cellule, eppure è ormai noto che le cellule hanno una notevole capacità di organizzare la rigenerazione del tessuto di origine. Per convincersene basta vedere le ricerche di Robert Langer del Mit, e di Joseph Vacanti della Harvard Medical School, che da vent'anni si occupano di ingegneria biomedica: un brevetto per organi artificiali "coltivati" su tessuti di polimeri è stato depositato negli Stati Uniti nello scorso mese di giugno. Le cellule, infatti, sono in grado di comunicare fra loro tramite gli stessi segnali extracellulari che nell'embrione dirigono lo sviluppo degli organi, e si hanno buone ragioni di ritenere che in opportune condizioni le cellule siano anche capaci di specificare i dettagli più fini che presiedono alla ricostruzione d'un organo. Unica eccezione la rigenerazione del tessuto nervoso: finora non si è riusciti a fare crescere cellule nervose umane. Tuttavia molti ricercatori si dicono ottimisti. Ulrico di Aichelburg


SCIENZE FISICHE. PROGETTI CON LA NASA L'Europa unita nello spazio Sei nuovi astronauti per la stazione orbitale
Autore: GUIDONI UMBERTO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: SCHLEGEL HANS, THIELE GERHARD, EYHAERTS LEOPOLD, VITTORI ROBERTO, NESPOLI PAOLO
ORGANIZZAZIONI: NASA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. G. Ore-uomo nello spazio (cumulative, fino al 1992)

CON l'arrivo di sei nuovi astronauti, il corpo spaziale europeo raddoppia i suoi effettivi. Tre reclute hanno al proprio attivo missioni spaziali con gli americani e con i russi. Sono Hans Schlegel, della agenzia tedesca (Dlr), che ha partecipato a una missione sulla navetta "Columbia" nel '93, e Gerhard Thiele, l'altro tedesco del gruppo, che è stato la sua riserva per quella missione. Dall'agenzia francese (Cnes) proviene Leopold Eyhaerts, che ha volato a bordo della stazione Mir durante la missione "Altair", conclusasi pochi mesi fa. Infine, c'è il sottoscritto che, per conto dell'Agenzia Italiana (Asi), ha partecipato, nel '96, alla missione per sperimentare il "satellite al guinzaglio". Dall'Italia vengono anche i due aspiranti astronauti: il pilota Roberto Vittori e l'ingegnere Paolo Nespoli, che hanno appena superato la selezione nazionale bandita dall'Asi. La crescita del nucleo di astronauti europei va vista nella prospettiva dell'inizio delle operazioni della stazione spaziale internazionale (Iss) che verrà assemblata in orbita a partire dalla fine di quest'anno. Si tratta di un'opera ciclopica che vede gli sforzi congiunti di ben 19 nazioni. Di essi, 14 Paesi fanno parte dell'Agenzia Spaziale Europea (Esa) che ha un ruolo di primo piano nella fase di realizzazione e in quella di utilizzazione. E' proprio in vista di questo rinnovato impegno nello spazio che i Paesi dell'Esa hanno deciso di mettere insieme le esperienze maturate nel campo delle missioni spaziali con uomini a bordo, per dar vita a un unico corpo di astronauti europei. Con questo accordo, Francia, Germania e Italia, i tre Paesi che hanno una tradizione di voli abitati, hanno di fatto rinunciato alle loro organizzazioni nazionali per convogliare gli astronauti in servizio attivo in un unico organismo internazionale, che sarà localizzato presso il Centro degli Astronauti Europei (Eac) dell'Esa, già in funzione da diversi anni nei dintorni di Colonia. Dei sei nuovi arrivati nell'organizzazione dell'Esa, quattro partecipano, insieme ai candidati della Nasa, al nuovo corso per astronauti che è appena iniziato presso il Johnson Space Center di Houston. Questo corso - il 17o da quello che vide la partecipazione dei magnifici sette del programma Mercury - è un punto di passaggio obbligato per diventare astronauti di professione e per poter partecipare alle future missioni a bordo della stazione spaziale. Per gli altri due - Gerhard Thiele e il sottoscritto - si è aperta una nuova fase di lavoro più squisitamente tecnico, per la messa a punto di alcuni dei molteplici aspetti ingegneristici legati al modo di vivere e di lavorare a bordo della stazione spaziale Internazionale. Questa attività si affianca a quella preparatoria alla selezione dei membri dell'equipaggio di uno dei prossimi voli dello shuttle. La mia aspettativa è di poter partecipare alla fase di assemblaggio della Stazione spaziale internazionale (Iss), che inizierà con la messa in orbita del modulo russo Fgb, il modulo che provvederà alla generazione di energia elettrica almeno nella prima fase della vita della stazione. Proprio nella fase di costruzione della Stazione spaziale internazionale sarà importante il ruolo di un altro modulo, quello italiano ribattezzato "Leonardo", che è appena stato consegnato alla base di lancio del Ksc - in Florida - per i test finali in vista del volo inaugurale, previsto per la fine dell'anno prossimo. Devo ammettere che un pensierino su quel volo o su uno dei successivi del modulo italiano l'ho già fatto. Ma per tornare all'allargamento del corpo astronauti europeo vale la pena di approfondire il significato della partecipazione del vecchio continente alla realizzazione della stazione spaziale internazionale. L'Esa sta costruendo uno dei laboratori scientifici - il Columbus Orbital Facility - dove si faranno ricerche in microgravità. Inoltre, anche due dei tre "nodi" che tengono insieme gli elementi della stazione, sono di fabbricazione europea, con le industrie italiane in primissimo piano. Un altro aspetto, non secondario, è la partecipazione europea alla fase successiva: quella che vedrà equipaggi internazionali avvicendarsi in orbita per almeno dieci anni. Tutto o quasi deve arrivare dalla Terra ed elementi indispensabili per la vita degli equipaggi come cibo, aria ed acqua saranno portati a bordo utilizzando voli di veicoli automatici che periodicamente visiteranno la stazione. Un veicolo di trasporto tutto europeo è in corso di realizzazione e dovrebbe affiancare i razzi russi "Progress" per portare a bordo della stazione generi di prima necessità ma anche elementi logistici di vario genere. Denominato Atv - Automated Transfer Vehicle - sarà un sistema di trasporto automatico in grado di portare i rifornimenti dalla Terra alla stazione spaziale. Lanciato con il razzo "Ariane 5" dalla base di Kourou (Guiana francese) l'Atv sarà in grado di effettuare autonomamente il trasferimento orbitale e arrivare alla stazione spaziale in circa due giorni, attraccando in modo automatico al " Service Module", il secondo modulo di fabbricazione russa. L'Atv avrà una funzione importante anche per il mantenimento in orbita della stazione spaziale. Alla quota cui orbita la Iss c'è un vuoto ultraspinto - almeno per gli standard terrestri - ma c'è ancora una densità di materia sufficiente per rallentare impercettibilmente la stazione che, se lasciata a se stessa, si troverebbe ad orbitare a quote sempre più basse e finirebbe per ricadere sulla Terra. Quando sarà attraccato alla Iss, il veicolo europeo sarà in grado di contrastare questo "attrito" fornendo una spinta supplementare o " reboost" che riporterà la stazione sull'orbita prevista. Infine, l'Atv potrà smaltire in modo ecologico i rifiuti e il materiale non utilizzabile (ad esempio gli abiti smessi dall'equipaggio, visto che non c'è una lavanderia sulla stazione) che verranno "bruciati" quando l'intero veicolo andrà distrutto negli strati densi dell'atmosfera. Questo ambizioso programma richiederà entro il 2000 circa 15 astronauti europei addestrati per compiere prolungate missioni in orbita. Con essi l'Europa si appresta a raccogliere la sfida del prossimo decennio e a diventare unita anche nello spazio. Umberto Guidoni Astronauta


SCIENZE FISICHE. NUOVA TECNICA La fluorescenza X per salvare l'arte
Autore: CARTELLI FEDERICO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ARTE
ORGANIZZAZIONI: UNIVERSITA' DI LECCE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, LECCE (LE)

HA solo pochi mesi di vita, per indicarla, nel laboratorio dell'Università di Lecce dove è stata inventata, la chiamano apparecchiatura per analisi in fluorescenza X. Racchiusa in una valigetta del peso di 15 chilogrammi, sfrutta come rivelatore un tubo che emette raggi X a bassissima energia, facendoli penetrare per millesimi di millimetro in materiali lapidei e metallici. Trova applicazione nella tutela del patrimonio architettonico e artistico, aggredito da varie forme d'inquinamento. Centri storici e musei sono i suoi campi d'azione privilegiati. Rispetto ad altre tecnologie, questa analisi in fluorescenza ha il vantaggio di non essere distruttiva: opera infatti solo in superficie, non asportando alcun campione di materiale; l'esecuzione è rapidissima: dopo cento secondi è in grado di fornire i risultati. L'ideatore è Alfredo Castellano, docente di Fisica dell'ambiente e di archeometria (scienza che si occupa delle misure di reperti archeologici). La parte più innovativa dell'apparecchiatura consiste nel compiere rilievi in elementi leggeri, cioè con basso numero atomico, compresi fra il calcio e il silicio. I principali elementi indagabili con questa tecnica sono lo zolfo e il cloro, ai quali si addebita particolarmente l'inquinamento ambientale. Nell'applicazione sul campo, l'operatore addetto al restauro possiede quindi tutte le informazioni necessarie per intervenire con efficacia su un determinato materiale in stato di degrado. L'apparecchiatura è già utilizzata dal 1997. Primo ambito di intervento è stato il patrimonio monumentale barocco del centro storico di Lecce. L'indagine ha riguardato il materiale lapideo che compone gli altari della basilica di Santa Croce (massima espressione del barocco leccese) e le mura del castello cinquecentesco attaccate da cloro (cloruro di sodio). I sali contenuti nella pietra, sciolti dagli agenti atmosferici, provocano una reazione chimica che sgretola la compattezza lapidea. Si viene così a formare la superficie bucherellata tipica degli edifici antichi. In stretto contatto con l'Istituto centrale del restauro, a Roma, sono state condotte analisi sugli affreschi della basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio, per quantificare il grado d'inquinamento causato da solfato di calcio. Qualche mese fa a Milano, nella basilica di Sant'Ambrogio, si è misurata la composizione esatta dell'"Altare d'oro" per procedere al restauro. A Firenze verrà indagato il deterioramento della statua in bronzo del Perseo di Benvenuto Cellini. Federico Cartelli


SCIENZE FISICHE. MACCHINE La lampadina di Rabelais
Autore: MARCHIS VITTORIO

NOMI: RABELAIS FRANCOIS, EDISON THOMAS ALVA, CRUTO ALESSANDRO, JUSTE FRANCOIS
LUOGHI: ITALIA

NEL mezzo della volta era un anello d'oro massiccio sospeso, della grossezza d'un pugno, dal quale pendevano tre catene d'argento di grossezza poco minore, le quali, due piedi e mezzo più sotto, comprendevano in figura triangola una lamina d'oro fino, rotonda, di tal grandezza che il diametro eccedeva due cubiti e mezzo palmo. In essa erano quattro anelli o pertugi, in ciascuno dei quali stava infissa una palla vuota, quadrata nell'interno, della circonferenza di circa due palmi. (...) Ciascuna era piena di acquavite cinque volte distillata da un alambicco serpentino, inconsuntibile. Al di sotto di quella lamina, circa a due piedi e mezzo, le tre catene nella loro figura primitiva erano infilate in tre anse, le quali sporgevano da una gran lampada rotonda di cristallino purissimo, del diametro di un cubito e mezzo, che aveva al di sotto una apertura di circa due palmi. Da questa apertura scendeva giù in mezzo un vasello di simil cristallo, in forma di borraccia o come un orinale, e pendeva dal fondo della gran lampada, con una tal quantità della suddetta acqua ardente che la fiamma del suo lino asbestico saliva direttamente nel centro della gran lampada: cosicché tutto il corpo sferico di essa sembrava ardere e fiammeggiare, giacché il fuoco stava nel suo punto mediano. Ed era difficile tenervi fermo e costante lo sguardo così come non si può fissare la massa del sole" . Chi scrive non è nè l'americano Thomas Alva Edison, nè il suo rivale di Piossasco Alessandro Cruto, e neppure qualcuno dei vari Staite, Draper, Shepherd, Lane- Fox, Jablochov e Maxim che si contendono il primato della invenzione della lampadina, ma il grande scrittore francese Francois Rabelais nel trentanovesimo capitolo del quinto libro del "Gargantua e Pantagruel", pubblicato a Lione nel 1542 presso il libraio-editore Francois Juste. Il passo per arrivare alle sorgenti luminose di oggi sembra breve. L'uso di una reticella "in lino asbestico" per aumentare la luminosità della lampada è scusabile perché a quel tempo gli effetti cancerogeni dell'amianto non erano ancora noti. Anche l'elettricità, di cui oggi nessuno più si stupisce, era del tutto sconosciuta. Vittorio Marchis Politecnico di Torino


SCIENZE DELLA VITA UN ECOSISTEMA AL BIVIO Le Alpi in pericolo Un Rapporto ha lanciato l'allarme
Autore: STEINMANN FRANCESCA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, MONTAGNA
NOMI: BROGGI MARIO, PLATCHER HARALD
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. T. L'ecosistema alpino

UN territorio di 180 mila chilometri quadrati con 11 milioni di abitanti. Un ambiente naturale con riserve di animali e piante proprietà di 43 Regioni e 5800 Comuni che vogliono proteggerne le ricchezze naturali senza perdere di vista il tornaconto. Sono le Alpi, l'ecosistema naturale più vasto dell'Europa Centrale. Dal 1989, le sette nazioni che si affacciano sull'arco alpino - Germania, Francia, Italia, Liechtenstein, Austria, Slovenia e Svizzera - cercano di trovare insieme soluzioni per garantire la qualità di vita delle popolazioni e la salvaguardia delle loro risorse. La Convenzione delle Alpi, che ne è lo strumento per eccellenza, deve essere ancora ratificata da due nazioni: Italia e Svizzera. Rispetto a un centinaio di anni fa, molte zone, una volta agricole, hanno perduto l'aspetto del paese alpino rurale e stanno pagando a caro prezzo lo sviluppo economico. Molte decisioni adottate dall'Unione Europea in materia di agricoltura, nel campo dell'energia, dei trasporti e del turismo si ripercuotono direttamente su queste regioni. Così, come gli alpeggi abbandonati e l'intensificazione delle pratiche agricole e zootecniche hanno inciso negativamente sul territorio, anche la rimozione dei corsi d'acqua dai loro alvei naturali, le deviazioni verso le grandi centrali idroelettriche e l'utilizzo di spazi sempre maggiori per le più svariate attività commerciali sono segni evidenti di un habitat alpino impoverito per mano dell'uomo. "Una correzione di rotta è possibile" dice Mario Broggi dell'Istituto governativo di ricerca sul bosco e sul paesaggio del Liechtenstein. "Ci riusciremo se faremo in modo che l'agricoltura di montagna, basata com'è su cicli economici e produttivi completi, divenga per tutta l'Europa un esempio da seguire per un uso delle risorse compatibile con le reali capacità di carico ambientali". La commissione internazionale per la protezione delle Alpi, Cipra, un organismo non governativo nato nel 1952, ha deciso di esaminare la situazione con uno studio centrato su tre grandi temi: il paesaggio, il tempo libero, e i trasporti. Presentato di recente a Trento, il Rapporto sullo stato delle Alpi sottolinea come il territorio montano più industrializzato e antropizzato del mondo possa diventare un esempio di sviluppo sostenibile per tutto il pianeta e dimostrare nei fatti che ecologia ed economia sono collegate e interdipendenti. Infatti, sottolinea lo studio, l'imprenditoria può contribuire alla salvaguardia ambientale traendone anche beneficio economico. Il primo problema della montagna è l'uomo, o troppo presente o troppo assente. Tra l'esodo delle popolazioni montane e l'inurbamento dei fondovalle, a cavallo del secolo scorso, nel passaggio della società da agricola ad industriale, la distribuzione demografica dell'arco alpino ha subito numerosi cambiamenti, sostiene lo studio, ed il quadro generale è diversissimo. Tuttavia ci sono due regioni che offrono un panorama piuttosto omogeneo sull'incremento e sullo spopolamento delle regioni. La prima è la fascia occidentale delle Alpi Orientali (Baviera, Vorarlberg, Tirolo, Salisburgo ed Alto Adige), dove si registra un incremento della popolazione su tutto il territorio, grazie alle attività turistiche, con crescente urbanizzazione dei fondovalle e dei Comuni montani. La seconda è la fascia delle Alpi Sud Occidentali (Piemonte, Liguria e le Alpi francesi meridionali) dove si risente di uno spopolamento generalizzato. In mancanza di un vero e proprio sviluppo turistico montano anche i territori di fondovalle, i primi a crescere, qui sono troppo defilati rispetto ai grandi centri europei per poter registrare alcun incremento demografico. Così, tra l'abbandono dei campi o l'intensificazione degli allevamenti e le molteplici conversioni alle attività commerciali, il territorio alpino è messo a dura prova e, fatta eccezione delle zone isolate dove l'uomo continua a svolgere tradizionalmente la sua attività agricola, le pianure ed i pendii dell'arco alpino subiscono un uso sempre più prepotente ed irrazionale delle risorse. Prendiamo le acque. Oggi il 79 per cento dei corsi d'acqua ha subito interventi tali che praticamente non esistono più torrenti integri o che non siano stati regimati, sottolinea lo studio. Sistemazione degli alvei e captazione delle acque fluviali per le centrali idroelettriche hanno pesantemente modificato il loro equilibrio naturale, modificandone anche la portata idrica. Per non parlare della qualità delle acque. Ormai l'82 per cento dei corsi d'acqua è di qualità scadente o pessima. Eppure gli habitat acquatici rappresentano la linfa vitale per la sopravvivenza di numerose specie vegetali ed animali... Lo sa bene Harald Platcher, che si occupa di salvaguardia ambientale all'Università di Marburg in Germania e che sta studiando gli ultimi torrenti naturali dell'Europa Centrale dove preziosissime specie dell'arco alpino esistono ancora. Egli sottolinea che, sebbene le specie più interessanti si trovino nei bacini idrografici del Tagliamento, del Lech, dell'Isar e del Piave, solo il Tagliamento, l'unico a disporre di quasi tutto lo spazio che le sue acque occupavano un tempo, può essere considerato il re dei fiumi alpini. Gli altri fiumi hanno subito mutamenti tali da vedere il loro equilibrio naturale gravemente compromesso. Ma l'uomo non devia soltanto le acque. Ha bisogno di nuove strade e di nuovi insediamenti per sfruttare economicamente meglio il territorio. Il benessere diffuso fa spostare più uomini, e anche più merci. Ecco quindi comparire il turismo di massa e la proliferazione di mezzi pesanti lanciati sulle grandi arterie di comunicazione. Come si fa a dire che il turismo è un male per le Alpi quando può vantare un apporto di 25,2 miliardi di dollari Usa all'economia di tutto il comprensorio alpino? Con 60 milioni di presenze annue, senza contare i turisti pendolari di giornata, è difficile sostenere che economicamente non sia un bene. Ma lo è anche per lo stato di salute delle Alpi? Intanto l'Unione Europea deve rispondere alla domanda crescente di trasporti e ha approvato un piano per la costruzione di ben 12 mila chilometri di nuove autostrade nei Paesi dell'arco alpino. Nel 1970, dice lo studio della Cipra, 24 milioni di tonnellate di merci sono transitate attraverso l'arco alpino centrale (tra il Moncenisio, il Frejus e il Brennero). Di queste, il 79 per cento viaggiava su rotaia e il restante 21 per cento su strada. Nel 1996, la situazione si era capovolta: le merci trasportate erano salite a 85 milioni di tonnellate, e di queste, soltanto il 39 per cento viaggiava su rotaie, mentre il restante 61 per cento era su strada. In ultima analisi, nel 1996 l'intero arco alpino - da Ventimiglia a Wechsel, a Sud di Vienna - è stato attraversato da 7,4 milioni di mezzi pesanti, che hanno trasportato 138 milioni di tonnellate di merci. Le merci viaggianti su strada rappresentavano il 63 per cento. Secondo gli esperti dell'Unione Europea nei prossimi 20 anni il trasporto merci attraverso le Alpi raddoppierà e quello delle persone dovrebbe aumentare del 50 per cento. E' inevitabile. Ma che ne sarà della flora e della fauna alpine? Francesca Steinman


SCIENZE DELLA VITA Mal di montagna Prima ricerca fatta su grande scala
Autore: QUAGLIA GIANFRANCO

NOMI: CREMONA GEORGE, DONNER CLAUDIO
LUOGHI: ITALIA

IMPROVVISO affaticamento, nausea, difficoltà di respiro e forte mal di testa. Talvolta vomito. In casi fortunatamente rari, coma ed edema polmonare. E' il "mal di montagna". Colpisce una persona su due sopra i 2500 metri di quota. In Italia ogni anno almeno venti persone muoiono per le conseguenze di un edema polmonare in alta montagna. I primi sintomi, dicono gli esperti, si presentano qualche ora dopo l'arrivo in quota, non durante lo sforzo. Un segnale inconfondibile è la tosse secca. Se curata in tempo, la patologia può essere debellata. Un altro dato: l'incidenza sulle Alpi è del 5,2 per cento, rispetto alle altre zone montuose italiane ed europee. Il mal di montagna, insomma, diventa oggetto di un'indagine epidemiologica. Due equi pe di medici sono salite per quindici giorni nel rifugio più alto d'Europa, la Capanna Regina Margherita, a 4600 metri sul Monte Rosa, per monitorare oltre trecento fra alpinisti ed escursionisti. Tutte cavie volontarie, arruolate sul posto, che si sono messe a disposizione degli esperti dell'Università di California (San Diego) e della Clinica del Lavoro e riabilitazione Fondazione Maugeri di Veruno (Novara). Con loro hanno collaborato tecnici del club alpino. L'indagine è partita da un'ipotesi precisa: i soggetti che a livello del mare presentano volumi polmonari più piccoli, per quanto nella norma, sarebbero maggiormente disposti allo sviluppo dell'edema polmonare d'alta quota di coloro che hanno invece volumi polmonari più ampi. Lo studio è stato compiuto in tre momenti: all'arrivo alla stazione della funivia di Alagna, in Valsesia, all'arrivo al Regina Margherita e dopo 24 ore di permanenza, il giorno successivo per coloro che hanno pernottato in questo albergo alpino tra i ghiacciai. Esami non invasivi, comprendenti anamnesi cardiorespiratoria e farmacologica, prove spirometriche, determinazione del fattore di transfer per il monossido di carbonio, radiografia del torace, elettrocardiogramma. Il 60 per cento delle "cavie" erano italiani, gli altri svizzeri, francesi, tedeschi, inglesi e anche due americani. Lo "screening", come spiega il dottor George Cremona, uno dei ricercatori dell'istituto scientifico di Veruno diretto dal dottor Claudio Donner, non è fine a sè stesso ma ha una finalità preventiva: "La diagnosi precoce e la terapia cui viene sottoposto un numero sempre più elevato di persone in vacanza in alta montagna non basta ad evitare i malori e gli incidenti rilevati, sovente con gravi conseguenze. Significa, insomma, che l'edema polmonare in montagna continuerà ad essere un problema sanitario nell'immediato futuro". Primi risultati indicativi: nessuno dei pazienti esaminati presentava patologie particolari nè rientrava tra i soggetti a rischio. Soltanto al termine dell'elaborazione dei dati si avrà un quadro completo del "campione". Non è la prima volta che l'ambiente dell'alta quota è utilizzato dall'Istituto scientifico di Veruno come laboratorio di indagine per studiare i meccanismi di adattamento dell'organismo alle condizioni estreme. In collaborazione con l'Istituto di fisiopatologia respiratoria del Cnr di Palermo alcuni anni fa si erano spinti sino ai 5050 metri della piramide del Cnr a Lobuche (Nepal), quasi ai piedi dell'Everest. Dopo quattro settimane di test, i risultati dimostrarono che la funzione cardiaca e il controllo della pressione arteriosa non procedono di pari passo e che sono influenzate dall'attività respiratoria. Ed è proprio la respirazione ad alta quota, con interruzioni e riprese, che frammenta la continuità del sonno causando disturbi e disagi. Gianfranco Quaglia


SCIENZE FISICHE. VETTORI Nasce Vega il razzo tutto italiano
Autore: RIOLFO GIANCARLO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA, INDUSTRIA, PROGETTO
ORGANIZZAZIONI: FIATAVIO, AEROSPATIALE, VEGA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

L'APPUNTAMENTO con la rampa di lancio è all'inizio del 2002. "Vega", il piccolo lanciatore ideato in Italia, è stato adottato dall'Agenzia spaziale europea, che ne ha avviato lo sviluppo con uno stanziamento di 60 milioni di Ecu. Intanto la FiatAvio nel poligono sardo di Salto di Quirra ha fatto il primo decisivo test sul suo motore a razzo Zefiro, uno dei componenti fondamentali del nuovo vettore. Con il Vega l'Italia assume per la prima volta la responsabilità di un programma europeo. Sarà l'Asi, infatti, a guidare la cordata, assumendo anche il 55 per cento dei costi di sviluppo del piccolo lanciatore, stimati in 370 milioni di Ecu (721 miliardi di lire). Al suo fianco, i francesi del Cnes, che sono stati i primi, con "Ariane", a credere nelle capacità della tecnologia europea nel campo dei lanciatori, mentre gli altri partner europei si sono accodati. Adesso il copione si ripete nel campo dei vettori leggeri, ma il ruolo di locomotiva questa volta tocca all'Italia. La realizzazione del Vega sarà affidata a una joint-venture tra la FiatAvio e la francese Aerospatiale. Il progetto prevede un razzo alto 28 metri, con un peso al decollo di 130 tonnellate e capace di scagliare in orbita bassa satelliti con una massa di mille chili. Tre gli stadi, tutti a propellente solido. Il primo verrà realizzato accorciando uno dei booster di Ariane 5, il secondo sarà lo Zefiro della FiatAvio, mentre il terzo nascerà da una costola di quest'ultimo. Ai tre stadi si deve aggiungere il modulo a propellente liquido, destinato a imprimere le correzioni finali per l'ingresso in orbita dei satelliti. Vega dovrebbe avere un ampio mercato: la domanda prevista per la messa in orbita di satelliti scientifici è di 4-6 lanci l'anno. Ma è una previsione che non tiene conto della sostituzione periodica dei piccoli satelliti per telefonia mobile. Intanto, mentre a Kourou si prepara il secondo lancio di qualificazione di Ariane 5, previsto a ottobre, il Consiglio dell'Esa (Agenzia spaziale europea) ha dato via libera allo sviluppo di una versione potenziata del razzo, con una capacità di carico accresciuta del 60%. Nel test di ottobre i " passeggeri" di Ariane 5 saranno la capsula Ard e il satellite Maqsat 3. La prima, molto simile al modulo di comando dell'Apollo, servirà per sperimentare le tecnologie necessarie per il rientro di un veicolo spaziale nell'atmosfera, in particolar modo i materiali della protezione termica. Dell'esperienza potrà beneficiare il Crv (Crew Return Vehicle), la mininavetta Nasa-Esa, che servirà come scialuppa di salvataggio per la stazione spaziale internazionale. Quanto al Maqsat 3, è un simulacro che riproduce dimensioni e massa di un tipico satellite per telecomunicazioni. Al suo posto avrebbe dovuto esserci un vero satellite, che però non è ancora pronto e verrà lanciato successivamente. Dopo il test di ottobre, Ariane 5 sarà pronto a iniziare l'attività commerciale. Il primo volo operativo, siglato 504, è previsto entro la fine dell'anno. Le missioni successive seguiranno al ritmo di cinque ogni 12 mesi, sino al 2002, quando, con l'uscita di scena di Ariane 4, si arriverà ad almeno otto lanci l'anno. Quanto all'Ariane 5 Plus, dovrebbe entrare in servizio nel 2007. Grazie ad alcuni miglioramenti e, soprattutto, all'impiego di uno stadio superiore criogenico (a idrogeno e ossigeno liquidi), il carico utile in orbita di trasferimento geostazionaria passerà dalle attuali 6,8 a più di 11 tonnellate. Giancarlo Riolfo


SCIENZE FISICHE. UN CORSO A TRIESTE Nelle microcavità la luce in trappola
Autore: PAGAN FABIO

ARGOMENTI: FISICA, TECNOLOGIA
NOMI: BELTRAM FABIO, QUATTROPANI ANTONIO
ORGANIZZAZIONI: CENTRO INTERNAZIONALE DI FISICA TEORICA «ABDUS SALAM»
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TRIESTE (TS)

IMMAGINIAMO di avere due specchi metallici e di avvicinarli l'uno all'altro fino a una frazione di millimetro. La luce confinata nello spazio tra i due specchi acquisterà caratteristiche interessanti e inattese: presenterà ad esempio uno spettro costituito solo da alcune frequenze. E avrà quindi solo alcuni colori. Se i due specchi vengono realizzati sovrapponendo strati monoatomici di materiali semiconduttori (come l'arseniuro di gallio), potremo ottenere superfici metalliche che selezioneranno le caratteristiche desiderate dei fotoni. Quella che avremo così costruito è una microcavità, una sorta di "scatola di luce" grazie alla quale possiamo scegliere e manipolare a piacere i fotoni. Le sue dimensioni devono essere paragonabili alla lunghezza d'onda della luce impiegata: dell'ordine del micron (un millesimo di millimetro), o anche meno. Le microcavità di semiconduttori sono dispositivi realizzati per la prima volta nel 1982: ormai hanno una piena maturità tecnologica, pur restando tuttora esemplari da laboratorio. Ma rappresentano la chiave di volta che potrebbe innescare una rivoluzione nell'optoelettronica, sostituendo la luce alla corrente elettrica (come già avviene nei laser e nelle fibre ottiche). Delle microcavità e delle loro straordinarie proprietà ottiche s'è parlato a Trieste, al Centro internazionale di fisica teorica "Abdus Salam", in un corso diretto da Fabio Beltram della Scuola Normale di Pisa e da Antonio Quattropani del Politecnico di Losanna. "Grazie a queste microcavità abbiamo ormai imparato a giocare con elettroni e fotoni per migliorare le prestazioni dei semiconduttori", spiega Beltram, 39 anni, goriziano, ricercatore di punta nella tecnologia optoelettronica, che ha alle spalle sei anni trascorsi ai Bell Laboratories americani. Quali le potenziali ricadute di queste ricerche? Alcune sono appena ipotizzabili: ad esempio i laser senza soglia, che azzerano il tempo di avvio e riducono le perdite di energie. Ma altre potenziali applicazioni sono legate a oggetti che fanno parte della nostra vita quotidiana. Dice Beltram: "Ogni anno si consumano miliardi di barili di petrolio solo per far funzionare i semafori. Con le cavità ottiche si potrebbe risparmiare gran parte di questo petrolio selezionando la luce del colore desiderato. Allo stesso modo si potrebbero anche rimpiazzare le lampadine elettriche e i tubi al neon, graduando a volontà la tonalità della luce e aumentando l'efficienza del sistema". Fabio Pagan


SCIENZE DELLA VITA FOTOGRAFIA & COMPUTER Perché le vacanze non si scolorino Trasformare la pellicola in un disco digitale
Autore: MEZZETTI UMBERTO

ARGOMENTI: INFORMATICA, FOTOGRAFIA, TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

CHI ha festeggiato di recente le nozze d'argento, andando a rivedere l'album del matrimonio avrà notato che le immagini, che ricordava brillanti e sature di colore, appaiono sbiadite. La conservazione delle fotografie è un problema che preoccupa da almeno quarant'anni i fabbricanti di materiale fotografico, e che la ricerca tenta di risolvere senza troppo successo. E' anche vero che, spesso, sia i fabbricanti sia i laboratori di trattamento sono più interessati a produrre belle stampe che soddisfino il cliente alla consegna, piuttosto che preoccuparsi di come appariranno fra vent'anni, anche se le case produttrici effettuano test che simulano l'invecchiamento del prodotto. Tutte le riproduzioni a colori, siano esse illustrazioni di libri e riviste o fotografie scattate da noi, si basano sull'impiego di tre soli colori (giallo, magenta e cyan o blu-verde), che miscelati in diverse proporzioni concorrono a fornire al nostro occhio le informazioni che permettono di ricostruire i colori del soggetto. Nel caso della stampa tipografica di libri o riviste si usano inchiostri che, ovviamente, sono già colorati al momento dell'impiego. Questo consente una scelta fra un'ampia gamma di coloranti con notevoli caratteristiche di stabilità. La pellicola e la carta fotografica, invece, devono contenere, al momento della fabbricazione, i coloranti allo stato " latente", costituiti da molecole assai più complesse di quelle usate negli inchiostri, e quindi molto più instabili. I materiali fotografici sono costituiti da un supporto (carta o pellicola) su cui sono stesi tre sottilissimi strati (in realtà sono molti di più, ma solo con funzioni ausiliarie) di un'emulsione formata da gelatina, da un sale d'argento sensibile alla luce (bromuro o cloruro) e da un formatore di colore (copulante) che è incolore fino a che non viene immerso in una soluzione in grado di "rivelare" il colore in proporzione alla quantità ed alla lunghezza d'onda della luce che ha colpito il cristallo di sale d'argento, cui il copulante è collegato, al momento dell'esposizione. In pratica la formazione dell'immagine, sia per quanto riguarda la pellicola sia le stampe, avviene in due fasi. 1) La pellicola viene esposta nell'apparecchio fotografico; poiché ciascuno dei tre strati è sensibile ad uno solo dei colori fondamentali, il sale d'argento presente nello strato interessato registra un'immagine in bianco e nero corrispondente al colore ed all'intensità della luce riflessa dal soggetto. 2) La pellicola, consegnata al negoziante, viene avviata al trattamento. Il trattamento consiste nell'immersione del film in varie soluzioni chimiche. A) Sviluppo o rivelatore cromogeno: questa soluzione reagisce con il sale d'argento nelle zone colpite dalla luce e rende visibile innanzitutto un'immagine in bianco e nero registrata dalla pellicola in ciascuno strato. La soluzione di sviluppo, successivamente, in corrispondenza alle zone in cui si è formata l'immagine in bianco e nero, si ossida e reagisce con il copulante presente nella stessa zona, producendo un'immagine colorata sovrapposta a quella in bianco e nero. B) L'argento che costituiva l'immagine in bianco e nero viene trasformato in un sale solubile dalla successiva soluzione di sbianca, ed eliminato, insieme al sale d'argento che non è stato colpito dalla luce, nel successivo trattamento di fissaggio. Un sistema di dosaggio automatico provvede a sostituire le soluzioni man mano che la loro attività diminuisce in funzione della quantità di pellicola introdotta. C) A questo punto si arriva alla fase determinante ai fini della conservazione dell'immagine; tutti i prodotti chimici che la pellicola o la carta hanno assorbito nel corso del trattamento devono essere eliminati per evitare che col tempo continuino a reagire con i coloranti alterandoli in modo irreversibile. L'eliminazione di questi prodotti può avvenire mediante un lavaggio in acqua calda (35o C), oppure mediante una soluzione stabilizzante che trasformi i vari prodotti in sostanze inerti dal punto di vista fotografico. I laboratori in genere si attengono strettamente alle specifiche di trattamento previste in quest'ultima fase (tempo, temperatura, quantità d'acqua impiegata e sostituzione dello stabilizzante). Visto però che il mancato rispetto di queste specifiche non è immediatamente rilevabile sulla produzione, in alcuni casi il laboratorio può non accorgersi dell'irregolarità. Ciò avviene soprattutto nei periodi di massimo lavoro, cioè ai grandi rientri dalle vacanze. Sarebbe quindi sconsigliabile far sviluppare le pellicole nel periodo che va dalla seconda metà d'agosto a tutto il mese di settembre; meglio sigillare la pellicola esposta in un involucro impermeabile (va benissimo il contenitore cilindrico) e riporre tutto in frigorifero, pazientando fino agli inizi d'ottobre. A questo punto il laboratorio, smaltito il grosso del lavoro, sarà in grado di operare nelle migliori condizioni, garantendo stampe più durature. E' importante anche l'ambiente in cui le stampe e soprattutto i negativi vengono conservati: carte d'album di cattiva qualità, esalazioni di vapori chimici provenienti da mobili nuovi, bustine di plastica che s'incollano alle stampe, sono tutti fattori che pregiudicano la conservazione. In qualche caso, quando le stampe presentano delle macchie rosse, è possibile recuperarle lasciandole immerse per quattro-cinque minuti in una soluzione di carbonato di sodio (un cucchiaino di Soda Solvay in un litro d'acqua). Il trattamento dovrà essere seguito da un accurato lavaggio in acqua corrente tiepida; le stampe potranno poi essere fatte asciugare all'aria su un telo pulito e spianate ponendole sotto un peso, ad esempio una pila di libri. Quando ci si trova di fronte a stampe che hanno perso i colori o che presentano macchie o alterazioni, è bene tentare di farle ristampare partendo dal negativo, che di solito si conserva meglio della stampa. Al momento l'unico sistema alla portata dei dilettanti che garantisca una buona conservazione delle fotografie è il trasferimento del negativo in formato digitale su Cd-Rom. Si avrà una leggera perdita di nitidezza, ma la garanzia di poter riprodurre perfettamente i colori anche fra molti anni. La maggior parte dei grandi laboratori è in grado di effettuare il trasferimento che, se richiesto insieme allo sviluppo del negativo non è molto costoso. Le immagini potranno poi essere visionate con un normale pc e, se si dispone di una stampante adeguata, potranno essere riprodotte sulle apposite carte con una qualità vicina a quella fotografica. Umberto Mezzetti




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