TUTTOSCIENZE 12 agosto 98


SCIENZE DELLA VITA VALLOMBROSA Anche sequoie negli arboreti dell'abbazia E' l'unica riserva biogenetica "storica" esistente in Italia
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, VALLOMBROSA (FI)

UN silenzio profondo interrotto soltanto dai fruscii del vento, dai sussurri dell'acqua, dai cinguettii di tantissimi uccelli in una distesa sterminata di verde: questo è quanto offre al visitatore Vallombrosa con i celebri arboreti, gli unici aventi carattere storico esistenti in Italia. La storia della foresta di Vallombrosa è strettamente congiunta a quella dell'ordine monastico dei benedettini Vallombrosani, ordine fondato nell'XI secolo. Per i frati la foresta non è stata soltanto fonte di introiti, ma ha rappresentato anche un ambiente di studio, di sperimentazione, di didattica. Arboreti e abbazia che vi sorge accanto sono un importante punto di riferimento nella cultura forestale. Gli arboreti possiedono collezioni tali di piante in grado di soddisfare funzioni scientifiche, di conservazione dei patrimoni genetici, di didattica, di ricerca, non disgiunte da aspetti ornamentali e paesaggistici. Attualmente gli arboreti sono gestiti dall'Istituto sperimentale per la selvicoltura di Arezzo (viale Regina Margherita 80), un ente appartenente al ministero dell'Agricoltura e delle Foreste, con la collaborazione dell'Istituto di Botanica agraria e forestale dell'Università di Firenze. Fra le diverse formazioni forestali che costituiscono quella che si potrebbe definire una " Riserva biogenetica" le abetine ricoprono la maggiore superficie (oltre 600 ettari). L'abete bianco è certamente molto suggestivo con le sue scure fustaie che ispirano un profondo senso di raccoglimento (abete deriva dal verbo latino abire che sta a significare tendere verso l'alto, verso una perfezione, verso il cielo), inoltre possiede un valore economico per la richiesta di legname, forse più importante nel passato, rispetto ad oggi, infatti era usato per fare antenne delle navi, travi delle chiese e delle case essendo in grado di fornire pezzi unici. L'abete bianco è l'Abies alba, specie tipicamente europea, presente o in boschi puri cioè come unica essenza oppure consociato generalmente con l'abete rosso (di solito sulle Alpi) e al faggio. Da giovane presenta una corteccia liscia e argentata che diventa più spessa e si screpola nelle piante adulte (fattore che aiuta a comprendere l'età). La chioma sempreverde inizialmente piramidale tende a formare il cosiddetto "nido di cicogna" quando la pianta raggiunge la maturità. Una caratteristica di queste abetine è l'impossibilità di rinnovarsi per disseminazione nel bosco puro. I semi germinano, ma dopo un breve periodo i semenzali soccombono. Questo fatto sembra dovuto alla scarsità di luce secondo alcuni, mentre secondo altri a fenomeni di concorrenza tra gli apparati radicali o ad allelopatie (tutti abbiamo notato che al di sotto e in vicinanza del noce ad esempio non si sviluppa nessuna pianta). I monaci che già nell'antichità avevano scoperto questi fenomeni mettevano a dimora ogni anno duemila piantine per ettaro per lo più prelevate nel bosco e talvolta fatte venire dalle foresterie limitrofe. Solo a partire dall'Ottocento si è incominciato ad allevare in vivaio l'abete bianco destinato ai rimboschimenti. A Vallombrosa si scoprono piante o imponenti per età e dimensioni, o insolite come la Torreya nucifera che ha il frutto grande come un'oliva e gli aghi profumatissimi o il Caloce drus che " ginocchiandosi" forma nuove piante o la Chamaecypa ris obtusa innestata che possiede un aspetto nano, o ancora le chimere del carpino, o betulle di specie diverse da quell'unica che solitamente si conosce, o ancora l'Abies pinsapo, di cui in Spagna sono state distrutte intere foreste per fare le sedie per le signore che dovevano assistere alle corride, o il Pinus lambertiana chiamato anche sugar pine che oltre ad avere aghi particolari possiede i coni più lunghi (oltre 60 cm) di qualsiasi altra conifera, penduli, portati da un peduncolo di una quindicina di centimetri formati da scaglie di consistenza quasi cuoiosa, originario dell'Oregon e della California, oltre a tante sequoie. Ogni visitatore, accompagnato dalle brave guide (la visita si prenota all'istituto di Arezzo), scoprirà tanti monumenti vegetali, con peculiarità tali da renderli indimenticabili. Tuttavia - afferma Paolo Grossoni, studioso di Botanica forestale - gli arboreti necessitano di interventi urgenti non solo per il "restauro" del complesso, ma anche per l'attuazione di una gestione sempre più mirata alle esigenze legate alla conservazione della biodiversità. Occorrerebbe un potenziamento di questa tipologia museale creando una rete di arboreti a livello nazionale con finalità sperimentali e conservazionistiche. Elena Accati


SCIENZE FISICHE PER ANALISI CHIMICHE Arrivano i sensori intelligenti Cento volte più efficienti di quelli attuali
Autore: PRELLA DANILO

ARGOMENTI: ELETTRONICA, TECNOLOGIA
NOMI: HOLTZ JOHN, ASHER SANFORD
LUOGHI: ITALIA

PRATICI, versatili, sensibilissimi e soprattutto molto economici. Queste le qualità principali di una nuova generazione di sensori, destinata a rivoluzionare completamente il mondo delle analisi chimiche. Non è una innovazione di poco conto: in molti casi queste analisi sono di vitale importanza. Determinare con precisione la concentrazione di un componente qualunque di una soluzione è indispensabile, infatti, tanto nelle indagini mediche quanto in quelle ambientali o industriali. Ma su quali principi si basano questi "miracolosi" dispositivi? Nulla che non fosse già noto da tempo. I nuovi sistemi sfruttano in modo ingegnoso le interazioni fra la materia e le radiazioni elettromagnetiche; nel caso specifico la luce visibile. Quando la specie chimica di cui si vuole conoscere la concentrazione viene a contatto con il sensore modifica, in modo misurabile, il comportamento di quest'ultimo nei confronti di un fascio di luce incidente. Per rendere i sensori "intelligenti", cioè selettivi per una particolare specie chimica, basta poi saturarli di molecole di riconoscimento che sono differenti da specie a specie. Utilizzando questo principio fondamentale, due gruppi di ricerca statunitensi hanno sviluppato due sensori, basati rispettivamente su una associazione gel- cristallo e su un chip al silicio. John H. Holtz e Sanford A. Asher, dell'Università di Pittsburgh, hanno incapsulato in un gel particolari cristalli costituiti da sfere di materiale plastico con un diametro di circa 100 nanometri. La spaziatura tra le sfere è tale che il cristallo si comporta come un vero e proprio reticolo di diffrazione tridimensionale, scomponendo la luce bianca incidente in tutte le sue lunghezze d'onda. Quando il sensore viene illuminato appare quindi di colore diverso a seconda della spaziatura fra le sfere. Il gel utilizzato ha la capacità di variare il proprio volume al cambiare delle condizioni nell'ambiente circostante: temperatura, pH o composizione chimica. Dal momento che le sfere sono solidali con il gel, un aumento di volume di quest'ultimo provoca un corrispondente allontanamento fra le sfere e quindi una variazione del colore, che può essere apprezzata anche ad occhio nudo. Dalla misura precisa di questa variazione è possibile risalire all'entità del rigonfiamento e quindi alla concentrazione del soluto che si desidera analizzare. A Pittsburgh sono stati messi a punto prototipi per misurare molecole di glucosio e ioni di piombo ma, cambiando le molecole di riconoscimento, sarà possibile costruire dispositivi sensibili a una vastissima gamma di soluti (ad esempio virus). Incidendo chimicamente la superficie di un chip al silicio, simile a quello dei computer, un gruppo di ricercatori californiani ha invece ottenuto una specie di foresta di pilastri silicei dalle singolari proprietà ottiche. Se il sensore viene illuminato dall'alto si hanno fenomeni di interferenza fra la luce riflessa dalla base dei pilastri e quella riflessa dalla sommità. Le molecole bersaglio libere in soluzione (proteine, Dna, piccole molecole organiche) reagiscono con le molecole di riconoscimento collocate ai lati dai pilastri modificando la velocità con cui la luce attraversa il sensore e quindi anche i fenomeni di interferenza. Sono proprio queste variazioni che, interpretate da un calcolatore, consentono di valutare la concentrazione della specie chimica analizzata. Questo dispositivo è 100 volte più sensibile dei sensori convenzionali, permettendo di individuare catene di Dna con una concentrazione di una parte per quadrilione. Una piccola quantità di materiale a basso costo (sono infatti sufficienti un millimetro cubo di gel e un chip di alcuni micron di spessore), qualche semplice strumento per valutare la risposta del sensore e il gioco è fatto. E non è che l'inizio. Quelli che oggi sono solo prototipi domani diventeranno oggetti di uso comune in tutti i laboratori, e forse, in un futuro per ora ancora lontano, faranno parte della vita quotidiana di ognuno di noi, come un comune elettrodomestico. Non è stato proprio questo il destino dei computer? Danilo Prella


NUOVE CELLE A COMBUSTIBILE Energia dalla chimica Con emissioni quasi nulle
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ENERGIA, CHIMICA
ORGANIZZAZIONI: ANSALDO RICERCHE
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, SPAGNA, MADRID

LE celle a combustibile, il cui principio di funzionamento era stato intuito da Grove fin dal 1839, furono utilizzate per la prima volta sulle capsule spaziali americane "Gemini" e "Apollo" che portarono alla conquista della Luna. Esse consentono di trasformare direttamente l'energia chimica di un combustibile in elettricità e in calore grazie alla combinazione di idrogeno (fornito, per esempio, da metano) con ossigeno dell'aria e con l'intervento o meno di un catalizzatore. Da allora è in corso in tutti i Paesi avanzati un lento ma costante processo di sviluppo diretto ad applicare questa tecnologia, altamente efficiente ed ecologica, alla produzione di elettricità su ampia scala. Al tempo delle imprese spaziali ciò che contava di più, oltre all'elevata efficienza, era l'assoluta sicurezza di funzionamento dato che da esso dipendeva la vita degli astronauti (le celle non contengono parti in movimento quindi hanno pochissima probabilità di guastarsi); poi venne la crisi petrolifera dell'inverno '73- 74 e intorno a questa tecnologia si accese un grande interesse. Oggi si punta sulle celle a combustibile soprattutto per il bassissimo livello di emissioni che ne fa delle potenziali, formidabili alleate nella lotta globale all'effetto serra. Un passo importante su questa strada è costituito dall'inaugurazione, nel centro per la dimostrazione delle nuove tecnologie di San Augustin de Guadaliz, a Madrid, di un impianto di prova per protipi di pile a combustibile e dal contemporaneo inizio dei test di una pila (o "stack") di celle a combustibile da 100 kiloWatt realizzata dall'Ansaldo, un progetto da 95 miliardi che rappresenta il maggior filone di attività di Ansaldo Ricerche di Genova. L'impianto è stato costruito in base al programma MOLCARE (Molten Carbonate Europe) guidato da Ansaldo Ricerche coadiuvata da Iberdrola, proprietaria del centro, Endesa, Babecek, Wilcox Espagnola e, con accordi bilaterali, da Enel, Enea e FN spa. Sono stati messi a punto vari procedimenti i più promettenti dei quali si possono raggruppare in quattro categorie: celle ad acido fosforico, a carbonati fusi, ad ossidi solidi, a membrana polimerica. Per lo "stack" in prova a Madrid Ansaldo (che già commercializza una pila ad acido fosforico da 200 kiloWatt) ha adottato la tecnologia dei carbonati fusi. "Queste pile - dicono i tecnici della società genovese - hanno ormai sorpassato la fase sperimentale e potranno diventare il cuore di centrali elettriche ad alto rendimento e ad impatto ambientale nullo, particolarmente adatto ad aree urbane e sottoposto a rigidi vincoli ambientali". Lo "stack", che è il punto di arrivo di una lunga serie di prototipi, "è l'unico nel suo genere in Europa perché utilizza una tecnologia innovativa che lo distingue per due aspetti importanti: il rendimento elettrico superiore di dieci punti rispetto al 40% delle pile di precedente generazione ad acido solforico; e la possibilità di utilizzare come combustibile una varietà di sostanze, dal metano ai gas di carbone, dai gas da biomassa a quello derivato da rifiuti solidi urbani. Dopo i test di Madrid la pila sarà trasferita a Segrate, presso Milano, per le prove "sul campo"; sarà infatti inserita in un impianto di cogenerazione dell'Enel, nel quale cioè si produrrà energia elettrica e calore utilizzando pile a combustibile alimentato con gas naturale. Il programma Molcare prevede come fase successiva la costruzione con la stessa tecnologia di un impianto da 500 kiloWatt composto da due modelli da 250 kiloWatt, ciascuno dei quali sarà formato da due pile gemelle da 125. Un impianto, in sostanza, capace di fornire l'energia a circa 170 appartamenti. Questa, secondo i progetti di Ansaldo Ricerche, dovrebbe essere l'unità di base per la costruzione modulare di vere e proprie centrali fino a dieci megaWatt. La costruzione del prototipo industriale inizierà nei prossimi mesi e sarà completato entro il 2001, quando potrà partire la produzione. Siamo quindi alla vigilia del decollo delle celle a combustibile? In Usa sono già stati realizzati impianti fino a due megaWatt, il Giappone ha un programma decennale con il quale vengono finanziate le aziende impegnate nel settore, l'Europa nel nuovo piano quadriennale prevede finanziameni in funzione dei risultati e le imprese produttrici stanno riservando alla nuova tecnologia uno spazio sempre maggiore nei loro programmi. Vittorio Ravizza


SCIENZE FISICHE BIOLOGIA SPERIMENTALE I topolini clonati delle Hawaii Verso la comprensione dei meccanismi molecolari
Autore: ZUCCOTTI MAURIZIO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, GENETICA
NOMI: GURDON JOHN, REDI CARLO ALBERTO
LUOGHI: ITALIA

LA storia dell'embriologia è ricca di grandi scoperte derivanti dalla capacità dei ricercatori di ideare nuovi approcci sperimentali ed inventare nuove tecniche e nuovi strumenti che ci permettono di meglio comprendere le meraviglie della Natura quali la formazione di un nuovo individuo attraverso lo sviluppo embrionale. La complessità degli eventi che regolano le primissime fasi dello sviluppo embrionale e che hanno inizio con la fecondazione è a tutt'oggi sconosciuta. La fecondazione ha inizio con la fusione tra la cellula germinale femminile (cellula uovo) e quella maschile (spermatozoo) a formare lo zigote. Lo zigote è la prima cellula del nuovo individuo che inizia a dividersi in due cellule, poi quattro, otto, sedici, trentadue e così via fino al completo sviluppo del nuovo individuo. Durante la moltiplicazione cellulare le cellule si differenziano a formare i diversi organi e strutture che compongono l'intero corpo. I biologi hanno sempre pensato che, successivamente alla differenziazione, il materiale genetico della cellula adulta, il Dna, non fosse più in grado di ripercorrere a ritroso il percorso fino a raggiungere lo stato indifferenziato che aveva inizialmente nello zigote. Gli esperimenti che porteranno alla clonazione di anfibi prima e di mammiferi poi, dimostreranno invece la possibilità di riprogrammare l'informazione genetica di una cellula somatica quando il nucleo di questa viene trasferito all'interno di una cellula uovo. Il primo di questi esperimenti fu eseguito da John Gurdon (Università di Cambridge, UK) il quale alla fine degli Anni 60 dimostrò come il nucleo di una cellula intestinale di rana adulta trasferito all'interno di una cellula uovo fosse in grado di modificare il proprio programma genetico e di assumerne uno del tutto nuovo che permetteva lo sviluppo dell'embrione fino all'individuo adulto. Solo trent'anni dopo, la nascita della pecora Dolly (Nature 385: 810-813, 1997), ad opera del gruppo di ricerca scozzese diretto da Ian Wilmut, aveva dimostrato che anche nei mammiferi il Dna poteva essere riprogrammato. Dolly era però l'unico individuo nato dopo quasi trecento tentativi e nessun altro ricercatore (nemmeno lo stesso gruppo scozzese) riuscì a ripetere l'esperimento. Il mammifero meglio conosciuto per gli studi di genetica, biologia della riproduzione e dello sviluppo è sicuramente il topolino. Per questo motivo una ricerca recentemente pubblicata sulla rivista Nature (Nature 394: 369-374, 1998) rappresenta un enorme passo in avanti perché conferma definitivamente le potenzialità della cellula uovo di mammifero di eliminare il programma genetico della cellula somatica trasferita, per sostituirlo con un nuovo programma necessario allo sviluppo embrionale. Dimostra anche che il programma genetico di una cellula somatica può essere modificato, così da "far dimenticare" le informazioni che lo hanno portato alla sua forma-funzione definitive, e riprogrammato per seguire un nuovo destino differenziativo. A questa ricerca hanno contribuito le sinergie di un team internazionale di ricercatori di Università degli Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna ed Italia. Per l'Italia ha partecipato l'autore di questo articolo come membro del Laboratorio di Biologia dello Sviluppo dell'Università degli Studi di Pavia (diretto da Carlo Alberto Redi e di cui fa parte Silvia Garagna, ricordate i topolini di Seveso? vedi "La Stampa" 3 dicembre 1997). Questo team di ricercatori ha lavorato nel laboratorio di Ryuzo Yanagimachi all'Università delle Hawaii, dove sono nati i topolini clonati. Non è un caso che queste ricerche siano avvenute nel laboratorio di Yanagimachi. L'approccio tipico della biologia sperimentale che questo grande ricercatore ha sempre avuto gli permise già negli Anni 60 di mettere a punto le tecniche necessarie alla fecondazione in vitro nei mammiferi che tanta rilevanza hanno avuto ed hanno in campo medico e zootecnico. Le scoperte fatte da Yanagimachi nell'ambito della biologia della riproduzione, la sua ingegnosità e le molte conoscenze acquisite anche contro ogni apparente evidenza, gli hanno valso il conferimento nel 1996 del Premio Internazionale per la Biologia. Nell'esperimento descritto su Nature, questo gruppo di ricercatori ha eliminato il materiale genetico presente in una cellula uovo di topo (ad es.: da topoline con pelo grigio) e l'ha sostituito con quello di cellule follicolari (ad es.: da topoline con pelo nero); cellule queste che circondano la cellula uovo successivamente alla sua ovulazione (vedi figura). Le cellule follicolari sono terminalmente differenziate, hanno cioè terminato la lunga via che le porta alla acquisizione della loro forma e funzione definitive. La cellula uovo con il nuovo nucleo della cellula follicolare è stata poi trasferita in una soluzione in grado di attivarne lo sviluppo embrionale fino allo stadio dei blastocisti (stadio dello sviluppo che precede l'impianto dell'embrione sulla parete dell'utero). Le blastocisti così formate sono state trasferite nell'utero di una topolina (con pelo bianco) e dopo circa 20 giorni è avvenuta la nascita delle topoline clonate, tutte con il pelo nero] L'ottenimento di topolini clonati permetterà un enorme passo in avanti nella comprensione dei meccanismi molecolari che regolano le prime fasi dello sviluppo dell'embrione di mammifero. E' questo infatti un modello di studio che permetterà di capire come una cellula uovo sia in grado di eliminare il programma genetico esistente nel Dna della cellula somatica (ad es.: follicolare) e di ricostruire un nuovo programma che sarà in grado di iniziare e completare lo sviluppo embrionale. Fenomeni simili di azzeramento parziale o completo della "memoria" genetica di una cellula sono noti nel caso di alcuni tumori, cioè quando una cellula perde quelle che sono le proprie caratteristiche per svilupparsi in un altro tipo cellulare. La cellula uovo è straordinaria nelle sue capacità di riprogrammare il Dna della cellula somatica che è stato introdotto al suo interno. Essa è chiaramente in grado di guidare la successiva programmazione del Dna della cellula somatica verso un destino differenziativo che è quello caratteristico dello sviluppo embrionale. La scoperta che anche nei mammiferi la differenziazione cellulare non è un processo terminale, ma può essere modificato, apre enormi possibilità sia nell'ambito della ricerca di base che in quella bio- medica e farmacologica. Quando avremo capito nei dettagli come sia possibile riprogrammare l'informazione genetica di una cellula somatica (e questo richiederà ancora molti anni di ricerca), avremo in mano le conoscenze e gli strumenti che ci permetteranno di ripercorrere, passo per passo, gli eventi che portano alle trasformazioni tumorali, di individuarne i meccanismi molecolari che li presiedono e guidano. Potrebbe quindi diventare possibile un intervento terapeutico in grado di riprogrammare le cellule tumorali e farle "rientrare" nel sentiero differenziativo che avevano ormai perso. E' proprio in questa direzione che gli sforzi del Laboratorio di Biologia dello Sviluppo dell'Università di Pavia saranno indirizzati nei prossimi anni. Maurizio Zuccotti Laboratorio Biologia dello Sviluppo Università degli Studi di Pavia


SCIENZE DELLA VITA ETOLOGIA Il perché piace tanto la pelle nera
Autore: PACORI MARCO

ARGOMENTI: ETOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

MARE, sole, sabbia e ore piccole hanno effetti, non solo sul nostro organismo, ma anche sulla psiche. Il sole fa bene] E non solo per l'osteoporosi o per le malattie della pelle: mette di buon umore e rende più cordiali e aperti] Tant'è vero che la depressione è un fenomeno più tipicamente invernale. Perché una persona abbronzata appare più attraente e sessualmente stimolante? Ecco che viene in aiuto l'etologia, la scienza che studia il comportamento animale: nei mammiferi le cellule che corrispondono ai melanociti umani producono, nel periodo della riproduzione, l'ormone melanoforo; questo a sua volta determina un cambiamento nel colore del pelo, segnalando la disponibilità all'accoppiamento. Nell'uomo le regioni a più densa concentrazione di melanociti sono le cosiddette "zone erogene", cioè le parti dell'epidermide più sensibili alla stimolazione erotica. Fatto curioso? Forse, ma questo addensamento spiegherebbe il collegamento tra sesso e colorito della pelle; negli esseri umani, in altre parole, esisterebbe una sorta di memoria genetica del significato del pigmentarsi della pelle e ciò li porterebbe a trovare più eccitante un corpo abbronzato, perché nel suo inconscio è collegata al sesso e vuol dire "pronto a riprodursi" . La nostra sessualità è eccitata in modo più intenso d'estate e al mare per altri due importanti motivi: primo, i corpi seminudi, con l'esibizione di seni e natiche, gambe e spalle, stimola la nostra immaginazione erotica. Per altro, indagini condotte nelle discoteche hanno dato prova di un collegamento tra il periodo di maggiore fecondità e la tendenza a scoprirsi: le donne, in sostanza, vestono, senza rendersene conto, abiti più succinti, gonne più corte o scollature più ampie al momento dell'ovulazione; mentre la tendenza è notevolmente ridimensionata nel periodo non fertile. Esporre quindi una quantità di pelle maggiore, stuzzicherebbe i nostri appetiti sessuali, perché segnalerebbe quello che nel codice animale è la disponibilità all'accoppiamento. Con il caldo sudiamo di più: questo sarebbe un'altra causa che d'estate ci rende più inclini all'eccitazione: la sudorazione accresce la dispersione delle molecole odorose nell'aria e il fatto di essere poco vestiti non ne altera le fragranze: in particolare, possiamo captare meglio le "fragranze" degli acidi grassi emanati dalle regioni genitali e da altre zone del corpo; d'altra parte, non serve essere psicologi per sapere che l'odore delle persone può dimostrarsi un potente afrodisiaco. Inoltre, queste sostanze, in modo subliminale, cioè senza la nostra consapevolezza, stimolano un organo, detto vomero-nasale, che si trova alla base del setto del naso, inviando un segnale direttamente all'ipotalamo, una struttura del cervello preposta tra l'altro all'elaborazione delle reazioni sessuali. I processi dell'ipotalamo, per altro, potrebbero essere influenzati anche dalla semplice luce del sole. E' quanto afferma lo scienziato Hal Hellman: esaminando il modo in cui il nostro cervello regola il ritmo veglia- sonno, questo studioso ha constatato come nei mammiferi, uomo compreso, l'esposizione alla luce riduca la produzione di melatonina da parte di una ghiandola posta alla base dell'encefalo, chiamata epifisi. La melatonina induce il sonno e, negli animali, la sua somministrazione inibisce l'ovulazione; che anche nell'essere umano si abbiano delle modificazioni ormonali è tutto da verificare, ma è provato che nella nostra specie l'epifisi riceve l'informazione sulla quantità di luce per mezzo di un percorso nervoso che, partendo dall'occhio, attraversa guarda caso l'ipotalamo. Anche l'abitudine a fare le ore piccole può incentivare gli approcci con l'altro sesso; l'uomo ha ereditato dalla sua provenienza dalla savana africana un ritmo che lo porta ad avere due picchi di attività: uno, il più intenso, in tarda mattinata; l'altro, più blando, verso il calar del sole. Tuttavia, in chi prolunga la giornata dopo le 22-23, si genera spesso un'ultima fase di attività intensa: le interazioni di questa fase hanno un carattere emotivo, spesso erotico e a volte aggressivo. Marco Pacori


SATELLITE DI GIOVE La vita su Ganimede? Le nuove immagini della sonda Galileo
Autore: GUAITA CESARE

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: HEAD JAMES
ORGANIZZAZIONI: NASA
LUOGHI: ITALIA

QUESTE nuove foto della Galileo non sono la dimostrazione dell'esistenza di forme di vita su Ganimede, ma sono un chiaro indizio che la vita ci potrebbe essere stata in passato". Questo il lapidario commento di James Head (capo dei geologi della Nasa presso la Brown University) alle sensazionali nuove immagini di Ganimede riprese nei mesi scorsi dalla sonda Galileo e divulgate dalla Nasa alla metà di luglio. Ganimede è il maggiore satellite non solo di Giove ma anche di tutto il Sistema Solare (il suo diametro di 5268 km supera quello di Mercurio). Orbita attorno a Giove in 7,15 giorni ad una distanza di ben 1,07 milioni di km. Anche per questo la sua densità è estremamente bassa (1,94 gr/cm3) e compatibile con una massa composta di acqua per almeno il 40%. Nei primi Anni 80 le sonde Voyager mostrarono una superficie ghiacciata e freddissima nettamente divisa in due tipi di terreni: ampie regioni circolari scure ed antiche (in quanto altamente craterizzate), separate da bande di fessure parallele (solchi) chiare e molto più giovani (in quanto povere di crateri da impatto). La bassa risoluzione dei Voyager si rivelò però incapace di ricostruire la complessa storia geologica del satellite. Adesso invece J. Head, non ha avuto difficoltà a dichiarare: "Le recenti immagini ad alta risoluzione di Ganimede ci hanno fatto ricredere sul passato del satellite: c'era acqua liquida, c'era calore e un costante apporto di materiale organico per opera di comete ed asteroidi...". La presenza di sostanze organiche sulla superficie di Ganimede gode del pesante supporto sia spettroscopico che fotografico della sonda Galileo. In particolare T. B. Cord (Università delle Hawaii) ha riscontrato, in alcuni spettri infrarossi dalla Galileo, due bande tipiche (3,4 e 4, 57 micron) delle miscele di composti organici che si ritrovano sulla scura superficie dei nuclei cometari. Da qui l'idea che la superficie di Ganimede ha continuato ad arricchirsi di materiali organici apportati dalla caduta di comete (o particolari asteroidi). Un'ipotesi che le recenti immagini inviate dalla Galileo sembrano confermare in maniera davvero spettacolare". Valga per tutte una serie di bellissime riprese della cosiddetta Enki Catena. Qui la Galileo ci mostra una successione di 13 crateri perfettamente allineati ed in parte sovrapposti: è chiara la convinzione che simile bizzarra struttura sia stata prodotta da una cometa che (a somiglianza della famosa SL9 del 1994) venne disintegrata da Giove poco prima di dirigersi contro Ganimede. Attualmente sono moltissimi su Ganimede i crateri di possibile origine cometaria (tra questi almeno una decina di Catenae); altrettanto abbondante, quindi, va ritenuta la quantità di materiale organico depositatosi sulla superficie. Una superficie su cui la Galileo ha riscontrato anche prove inconfutabili di attività geologica. Questa attività doveva essere molto intensa in passato grazie alla presenza, all'interno di Ganimede, di una consistente quantità di calore. Inizialmente dovette trattarsi di calore primordiale che produsse una forte differenziazione compositiva, con la formazione di un nucleo metallico più interno e di un accumulo verso l'esterno della quasi totalità della componente acquosa. Più di preciso, in base alle deviazioni che la Galileo ha subito durante i vari passaggi ravvicinati nei pressi di Ganimede, J. Anderson (J.P.L.) ha potuto dimostrare che esiste veramente un nucleo metallico di circa mille km di diametro ed un guscio esterno di circa 800 km di acqua ghiacciata. La clamorosa scoperta di G. Gurnett (uno scienziato della Iowa University responsabile del magnetometro a bordo della Galileo) dell'esistenza di un campo magnetico bipolare inclinato di 10o rispetto all'asse di rotazione, è una conferma indiretta della presenza di un nucleo metallico, ma è anche un indizio che il nucleo stesso debba aver conservato anche attualmente una consistente quantità di calore. Calore che, di certo, non può essere di tipo primordiale (ad impedirlo è la massa comunque esigua a livello planetario). Da qui la necessità di indagare su eventuali altri episodi di riscaldamento. Su questo punto ha a lungo lavorato R. Malhotra (Lunar and Planetary Institute) cercando di simulare l'andamento nel passato delle mutue interazioni mareali di Ganimede con gli altri satelliti maggiori. Con un risultato sorprendente: che circa 3 miliardi di anni fa l'orbita di Ganimede divenne talmente ellittica da innescare una intensa interazione mareale con Giove, quindi un intenso riscaldamento. Questo episodio fondamentale nella storia del satellite produsse, sulla crosta ghiacciata superficiale, un'imponente attività geologica, con fuoruscita, al di sopra del terreno antico più scuro e craterizzato, di immense colate di ghiaccio chiaro (solchi). Anzi, una statistica accurata della distribuzione dei crateri su questi terreni giovani sembra indicare come, nel tempo, si debbano essere succeduti almeno una altra decina di episodi minori di riscaldamento mareale. Se questo giustifica l'attuale esistenza, all'interno di Ganimede, di un nucleo magnetico caldo, porta con sè anche un'altra importante conseguenza: quella della presenza passata di grandi estensioni di acqua liquida e calda, accumulata da imponenti eruzioni vulcaniche. A questo riguardo le immagini divulgate dalla Nasa alla metà di luglio hanno tolto ogni dubbio: all'interno del cosiddetto Sippar Sulcus la Galileo ha infatti rintracciato una serie di infossature (leggi: bocche vulcaniche) dalle quali sembra che in passato siano emerse enormi colate di materiale fluido. L'emozione tra i planetologi di tutto il mondo è davvero grande: c'è infatti ormai la prova documentata che in passato Ganimede era un pianeta caldo e ricco di acqua liquida. Un ambiente, quindi, estremamente accogliente per la grande quantità di materiale organico continuamente veicolato dalle comete. Condizioni simili a quelle che esistevano in passato su Ganimede sembrano caratterizzare attualmente Europa, un altro dei grandi satelliti di Giove: non a caso, la Nasa ha deciso di prolungare di due anni la missione Galileo proprio per lo studio intensivo dei misteri di Europa. Cesare Guaita


SCIENZE FISICHE LASER Quando la tv a tre dimensioni?
Autore: VALERIO GIOVANNI

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, COMUNICAZIONI
NOMI: DOWNING ELIZABETH
ORGANIZZAZIONI: STANFORD UNIVERSITY
LUOGHI: ITALIA

DAL Rinascimento in poi, tutti i tentativi di mostrare immagini tridimensionali hanno sempre ingannato l'uomo. A partire dalla prospettiva nella pittura fino agli stereoscopi dell'era vittoriana, dagli occhialini per i film 3D, agli ologrammi, fino ai caschi della realtà virtuale, si è sempre rappresentata un'immagine piatta come se fosse a tre dimensioni. Il resto lo fanno gli occhi e il cervello, che fanno sì che si creda di avere davanti un oggetto solido, con altezza e larghezza ma anche con una profondità. Il "display volumetrico" realizzato dall'americana Elizabeth Downing non è così. Non servono occhiali speciali o altri congegni: basta la luce naturale. Le figure a tre dimensioni, colorate e in movimento, si visualizzano all'interno di un piccolo cubo di cristallo. Girandovi attorno, l'immagine appare sotto angolature diverse, come se fosse un oggetto reale. Tutto senza trucchi. Il dispositivo sfrutta l'interazione tra laser e materia. Ogni fascio è infrarosso e quindi invisibile nel passaggio attraverso il cristallo. Ma quando due laser si incontrano, insieme forniscono abbastanza energia alla materia da emettere luce visibile. Le coppie di laser scorrono rapidamente (da 30 a 100 volte il secondo) attraverso il cubo e quando i fasci si incontrano si generano i punti di luce che costituiscono le immagini. Elizabeth Downing, ricercatrice dell'Università di Stanford, non è stata la prima ad avere l'idea di uno schermo tridimensionale. I primi tentativi risalgono agli Anni 70, quando un gruppo di ricercatori del Battelle Memorial Institute a Columbus tentò di utilizzare il principio dei fasci laser combinati. Ma si trovò subito ad affrontare due problemi. Innanzitutto, era difficile trovare il materiale per il cubo: la maggior parte delle sostanze converte la luce infrarossa in calore. Nei comuni cristalli o in soluzioni contenenti terre rare, l'energia fornita dai laser causa un riscaldamento, ma non la fluorescenza. L'altro problema era tecnologico: trent'anni fa mancavano laser in grado di produrre la giusta lunghezza d'onda infrarossa. Elizabeth Downing analizzando nuovi materiali, provenienti dalle aree di ricerca confinanti, e principalmente dalle telecomunicazioni, ha individuato tre elementi, il praesodimio, l'erbio e il tullio, che producono luce rossa, verde e blu, se opportunamente stimolati. Il cubo 3D è una miscela di metalli pesanti e vetro, contenente questi tre elementi e può creare così quasi ogni colore. Il primo display volumetrico ha le dimensioni di uno zuccherino, con lati di pochi centimetri. Ma ora la ricercatrice americana, ottenuti gli indispensabili finanziamenti, sta realizzando un cubo di 25 centimetri di lato, con immagini controllate da decine di coppie laser. Un display tridimensionale potrebbe avere numerose applicazioni nella visualizzazione scientifica, nella costruzione di modelli molecolari e nel controllo del traffico aereo, sostituendo gli schermi radar piatti. In medicina potrebbe essere utilizzato per visualizzare immagini di risonanza magnetica o di tomografia computerizzata. Ma è ancora troppo presto per correre al supermercato e prenotare la tivù a tre dimensioni. Ci sono i costi: il prototipo di 25 centimetri di lato dovrebbe costare circa 80 mila dollari, 140 milioni. Per ottenere una qualità di immagine televisiva, il dispositivo dovrebbe controllare centinaia di laser. E poi a differenza degli oggetti reali, le immagini generate sono trasparenti e si sovrappongono tra loro con un "effetto fantasma". Giovanni Valerio


SCIENZE DELLA VITA ACQUARIO DI GENOVA Tra rane pomodoro e pesci chitarra Nella Grande Nave Blu un assaggio delle preziose biodiversità marine
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: ACQUARIO DI GENOVA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, GENOVA (GE)

ALL'ACQUARIO di Genova è approdata una "grande nave blu". Ormeggiata con la poppa al grande edificio e la prua rivolta al mare, ospita in duemila metri quadrati (che si aggiungono ai settemila preesistenti) un settore nuovo e molto innovativo sotto l'aspetto scientifico. La "grande nave blu" è la grande novità dell'estate '98 offerta ai visitatori che stanno arrivando da tutto il mondo; un progetto spettacolare, dicono alla direzione dell'Acquario "per sensibilizzare il pubblico alla bellezza e alla fragilità della vita, per sottolineare che la conservazione della biodiversità degli oceani, così come dell'intero pianeta, è la principale sfida degli uomini del ventunesimo secolo". Si entra nella poppa della " grande nave blu" e ci si ritrova... in un'altra nave, il "vascello dei grandi esploratori", una di quelle navi a vela che tra la metà del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento, percorsero tutti i mari del mondo sotto il comando di navigatori-scienziati come de Bougainville, Cook, Banks, La Perouse, come l'italiano Alessandro Malaspina, grande, sfortunato e dimenticato (anche qui, nella sua Liguria). A bordo di queste navi schiere di scienziati raccoglievano e catalogavano migliaia di animali e piante sconosciute per portarle in Europa dove il più sedentario Linneo provvedeva alla sua gigantesca opera di classificazione che ancora resta fondamentale; decenni decisivi, fino al leggendario viaggio intorno al mondo, nel 1831, della nave "Beagle" a bordo della quale c'era il ventiduenne Charles Darwin; un viaggio, come si sa, decisivo per la scienza moderna. Diceva in quegli anni Louis Agassiz, lo scienziato svizzero specialista di pesci ma diventato famoso per aver per primo intuito il meccanismo delle glaciazioni: "In Amazzonia, in una pozza grande come un campo da tennis, ho scoperto più specie di pesci che in tutti i fiumi d'Inghilterra". Fino ad oggi in tutto il mondo sono state scoperte un milione e mezzo di specie; ma quante ne esistono, quante attendono di essere scoperte? Forse cinque, forse dieci o quindici milioni. Se si abbattono le foreste, se si distrugge la biodiversità milioni di piante e animali spariranno senza che l'uomo abbia fatto in tempo a conoscerle. Eppure in queste specie ignote ci sono probabilmente le risposte a molti bisogni dell'umanità. La pervinca del Madagascar per esempio, ha consentito la prima vittoria su alcune forme di leucemia infantile. Almeno un quarto delle nostre medicine arriva dalle foreste tropicali, nelle quali vive circa la metà delle specie del pianeta". Dal vascello dei grandi esploratori (dove, tra le altre specie si possono vedere alcuni esemplari di limulo, tipico dell'America del Nord-Est, un animale che ha conservato invariata la forma preistorica, simile a un crostaceo ma parente dei ragni) si entra davvero nel "tema", la conservazione della biodiversità. Per illustrare il concetto è stato scelto il caso-Madagascar, Paese nel quale si è svolta di recente una missione scientifica italiana appoggiata proprio dall'Acquario; isola che ospita una strabiliante varietà di specie, molte delle quali endemiche. Ed ecco allora tartarughe, camaleonti di Parson, camaleonti cornuti, ciclici (pesci delle acque interne africane), rane pomodoro; ecco una laguna malgascia con pesci chitarra, pipistrello, pilota, angelo, farfalla, ecco la scogliera corallina abitata da coralli molli, madrepore, anemoni, gamberi, ricci, molluschi. Ma ecco anche la foresta bruciata e sradicata per ricavare terre coltivabili, ecco i detriti trascinati in mare dalle piogge, che soffocano la barriera corallina. Messaggio chiaro. Il percorso si chiude con il "vascello degli esploratori del futuro" e la nuova frontiera della scienza: lo spazio, l'infinitamente piccolo, gli abissi con le loro creature ancora misteriose. Il nuovo padiglione sarà la base su cui nei prossimi mesi sarà "ridefinito" tutto l'Acquario; il concetto della difesa della biodiversità sarà esteso per comprendere il riferimento alle attività umane, in particolare a quelle legate al mare, come la pesca e il turismo. Vittorio Ravizza


SCIENZE DELLA VITA VENDICARI Un'oasi tutt'altro che protetta
Autore: ROTA ORNELLA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, VENDICARI (SR)

VOLETE documentarvi su aironi cenerini, bianche spatole, garzette, cicogne, aenicotteri, piccoli trampolieri affascinanti quanto gambecchi, fratini, piovanelli, pettegole, pantane e tanti altri? Non è necessario viaggiare in luoghi esotici: stanno qui, in Sicilia. Per oltre 200 specie di uccelli, l'oasi di Vendicari, vicino a Siracusa, è tappa, asilo e ristoro, nei lunghi viaggi delle migrazioni: da fine agosto a tutto l'autunno verso l'Africa dal Nord Europa, percorso inverno in primavera. Questi otto chilometri lungo la costa da Noto a Pachino sono una delle zone umide di maggiore rilievo europeo, riconosciuta di importanza internazionale in base alla Convenzione di Ramsar (1971), dichiarata riserva naturale dalla regione siciliana nel 1984. Un'area ricca di richiami antichi: dai Fenici (che vi stabilirono un attracco) agli arabi (dalla cui lingua ha radice il nome dell'oasi), ai greci, ai romani, fino al nostro rinascimento (la Torre Sveva, eretta nel 1400). Di fianco a germani reali, cavalieri d'Italia - fra i pochi uccelli che si fermano a nidificare - anatre, folaghe, gabbiani anche molto rari, cormorani, sterne, falchi di palude e falchi pescatori, cicogne, allocchi, civette, pettirossi, cornacchie, ghiandaie e tanti altri uccelli, ci sono volpi, ricci, istrici, lepri, donnole, martore, ghiri, conigli selvatici. E anfibi, rettili (come il Biacco, detto Milord per l'elegante linea in nero, e il Colubro leopardino, ritenuto il più bel serpente europeo), pesci. Della tradizionale lavorazione ittica, sono rimasti ruderi di un'antica tonnara e resti archeologici di epoca ellenistica: ricoperte da sterpaglie, grandi vasche per la salagione del pescato e la macerazione degli scarti di tonno. Di particolare interesse scientifico gli invertebrati, che a Vendicari sono esemplari degli adattamenti biologici ed etologici messi in atto dall'evoluzione come risposta alle difficili condizioni ambientali delle zone costiere. Una fauna straordinaria che vive in un lembo di natura tutt'altro che incontaminata, ma umiliata da cartacce e rifuti: un degrado dovuto sia all'incuria e all'insufficienza di mezzi, sia all'inciviltà dei visitatori. Di un "piano per l'utilizzazione" dell'oasi si parla dal 1987. Allora, gli ecologisti lo definivano primo passo "urgente" per l'avvio di uno "sviluppo sostenibile". La flora comprende decine di specie, come Finocchio di mare, Lentisco, canna, giunco e Palma nana (presenti soprattutto nei tre pantani: Grande, Roveto e Piccolo), salicornia (che per l'alto grado di salinità veniva masticata dai legionari romani per reintegrare i sali minerali), oleastro, ginestra, mirto, Spazzaforno, Mandragora, Giaggiolo bulboso, ginepro coccolone. Questo è frequente nelle dune consolidate, come ce ne sono a Vendicari: stanno alle spalle dei tanti gruppi che quotidianamente si tuffano nonostante il divieto di balneazione, in un tratto di mare vietato ai motoscafi e da essi quotidianamente solcato. Ornella Rota


SCIENZE FISICHE MACCHINE "Una vasca da bagno in ghisa smaltata..."
Autore: MARCHIS VITTORIO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
NOMI: SAVINIO ALBERTO
LUOGHI: ITALIA

TRA le cartoline che ho trovato sul tavolo della Bibliotheque de l'Institut e che illustrano il Musee di Louis Pasteur, ve ne è una che rappresenta una vasca da bagno, in ghisa smaltata di un bianco ora un po' ingiallito, appoggiata sopra quattro piedi pure in ghisa. Sulla parete fanno bella mostra di sè le tubazioni, che dall'alto, costeggiando lo spigolo della "salle de bain", arrivano al gruppo erogatore dell'acqua calda e fredda, con i rubinetti in ottone e le manopole in porcellana. Siamo alla fine del XIX secolo e la casa è ormai diventata una "macchina da abitare", volendo continuare a tradurre malamente dal francese, in analogia a quanto si fa con le altre macchine "da scrivere" o "da cucire". La vasca da bagno è una macchina per la salute. Le pagine dei cataloghi dei primi Grandi magazzini e delle Compagnie di vendita per corrispondenza incominciano a fare la conoscenza anche con i "boiler" e gli " chauffe-bain", ma la tradizionale pentola sul fornello rimane la norma. In casa nostra, quando ero bambino, il bagno c'era e i vicini venivano a visitarlo e lo guardavano con ammirazione. Qualche amico più intimo, chiedeva ogni tanto il piacere di venire a fare il bagno da noi... Mio padre, ingegnere, aveva fatto costruire, su disegno proprio, una specie di batisfera che, piena di carbonella ardente, veniva calata nella vasca per scaldare l'acqua. Nella nostra casa del Poveromo, rifatta di sana pianta dopo la guerra, abbiamo rimesso a posto anche il bagno. Non ho detto che il bagno funzioni. Le pareti intorno sono rivestite quasi a statura d'uomo con magnifiche lastre di marmo catarrino. La vasca stessa è di un bello smalto bianco latteo, ma i rubinetti che buttano acqua non ci sono; ci sono due bocchette di tubi appena affioranti e chiuse con viti a dado, simili agli atrofizzati capezzoli sul petto dell'uomo. E altrettanto asciutti". Sono parole che possiamo leggere sulle pagine del Corriere della sera alla data del 6 ottobre 1949. Chi le scrive è un certo Andrea de Chirico, che ha appena compiuto i 58 anni. Suo padre Evaristo lo ha fatto nascere ad Atene, dove è impegnato a seguire i lavori di un'impresa di costruzioni ferroviarie. Suo fratello Giorgio sarà pittore. Andrea, passato alla storia con il nome di Alberto Savinio, nella Milano del dopoguerra non può che concludere: "Entro nel bagno infunzionante. La bagnarola è bianca e vuota. L'occhio nero dello scarico mi guarda". Vittorio Marchis Politecnico di Torino


SCIENZE DELLA VITA IL CASO AMIANTO Utilissimo ma mortifero Nonostante tutto aumentano le patologie
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, CHIMICA
LUOGHI: ITALIA

AMIANTO, caso veramente unico nel suo genere, quasi incredibile. Press'a poco da un secolo si conosce la patogenicità di questo minerale, se ne parla e se ne scrive con frequenza, si chiudono al pubblico sale considerate pericolose (anche Torino ne sa qualcosa), l'igiene del lavoro è sempre vigilante, ciò nondimeno la patologia causata dalla penetrazione della polvere di amianto nelle vie respiratorie continua ad aumentare di frequenza nei Paesi industrializzati. La polvere è costituita non da particelle sferiche come accade in altre polveri minerali ma da fibre, le quali per ragioni aerodinamiche possono penetrare nelle vie aeree più profonde. La patologia consiste anzitutto nella cosiddetta asbestosi (l'asbesto è una varietà di amianto, ma questo termine viene usato come sinonimo di amianto), ossia lesione dei polmoni, la fibrosi, proliferazione di tessuto fibroso che progressivamente sostituisce il tessuto normale. Ne derivano affanno di respiro, tosse, espettorazione, ma soltanto dopo una dozzina di anni dall'inizio dell'esposizione. Altra forma patologica è quella tumorale: il potere cancerogeno delle fibre di amianto per i polmoni e la pleura, sospettato fino dal 1935 (vedi l'articolo di K. M. Lynch in American Journal Cancer) e confermato dopo una ventina di anni, è stato sperimentalmente dimostrato a partire dal 1970, con la precisazione dell'importanza della dimensione delle fibre, le più lunghe e più fini essendo maggiormente cancerogene (vedi l'articolo di M. F. Stanton in Journal Cancer Inst., 1981). Il tumore polmonare da amianto non ha caratteristiche che lo distinguano da quello di altra origine, per esempio da tabacco. Il tumore pleurico è un mesotelioma, ossia derivante dalle cellule di rivestimento della pleura. Il tumore polmonare in genere compare dopo una ventina di anni, quello pleurico addirittura dopo una quarantina. L'amianto agisce anche potenziando l'azione cancerogena del benzopirene del fumo di tabacco: è stato dimostrato che un fumatore esposto all'amianto ha un rischio di tumore polmonare 9 volte superiore a quello d'un fumatore non esposto, e di ben 90 volte superiore a quello d'un soggetto non fumatore e non esposto. Si tratta essenzialmente d'una patologia professionale, tuttavia non si può escludere che anche una debole esposizione ripetuta sia dannosa. L'incidenza del mesotelioma pleurico in una popolazione non esposta all'amianto è valutabile in un caso per milione di abitanti, l'esposizione all'amianto fa salire l'incidenza a circa 15 casi per milione. Si sono fatti importanti progressi nei mezzi di diagnosi e di controllo di questa patologia. In alternativa agli esami radiologici tradizionali, talora non abbastanza sensibili, si può ricorrere alla cosiddetta tomodensitometria toracica oppure all'ecografia toracica. Può essere anche opportuna l'analisi mineralogica di campioni biologici (espettorazione, liquido di lavaggio bronchiale, biopsie di tessuto polmonare) per valutare l'accumulo delle fibre di amianto nei polmoni. L'uso dell'amianto dovrebbe essere abolito ma, possedendo caratteristiche vantaggiose per molti settori industriali, vi sono non pochi problemi per la sua sostituzione. Si reputa che siano tremila le sue utilizzazioni di vario genere, cosicché un sempre maggior numero di categorie professionali ha occasione di rapporti con materiale contenente amianto. Purtroppo il larghissimo impiego fin qui fatto tenderà a mantenere a lungo l'attuale contaminazione dei più svariati ambienti, in ambito professionale e non. Ulrico di Aichelburg




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