Biologia e etologia degli insetti dannosi alle conifere: come combatterli senza danneggiare i boschi. Strumento di studio per docenti e studenti di agraria, entomologi forestali, vivaisti, ricercatori di selvicoltura. Chiunque sia andato a passeggio in una pineta conosce i bozzoli filamentosi, tenaci della processionaria del pino, così come avrà visto i bruchi (le larve), in lunghe colonne, in processione appunto, alla ricerca di cibo.
ARGOMENTI: DIDATTICA, EDITORIA, ELETTRONICA, PREMIO, SCIENZA
NOMI: RICHERI GIUSEPPE
ORGANIZZAZIONI: PREMIO MOEBIUS MULTIMEDIA CITTA' DI LUGANO
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, SVIZZERA, LUGANO
SELEZIONATI in una rosa di 111 opere inviate da 77 editori, sono stati presentati l'8 e 9 maggio a Lugano i 24 Cd-rom finalisti dell'edizione di lingua italiana del Premio Moebius. La giuria, presieduta da Giuseppe Richeri, ha avuto il compito di scegliere un vincitore per ciascuna delle tre sezioni: scienza, tecnica e medicina; cultura, arti e lettere; educazione e formazione permanente. Sono stati premiati "Speak Up Interactive", un corso di lingue pubblicato da Rizzoli New Media; "Anatomia dell'apparato locomotore", tuttora in cerca di un editore; e "Moebius, creatore di universi", antologia completa di Jean Giraud, famoso disegnatore fantastico, pubblicata da Profile Multimedia. Il Premio Moebius Multimedia Città di Lugano, promosso dalla città ticinese e dalla Radiotelevisione svizzera di lingua italiana, seleziona i titoli italiani che verranno presentati a Parigi nel mese di novembre alla premiazione finale del Prix Moebius International dell'Unione Europea, creato nel 1992. Quella svoltasi la settimana scorsa è la seconda edizione di lingua italiana. Già a un anno dall'esordio si è osservato un generale miglioramento della qualità delle opere. Abbandonate le interfacce goffamente tridimensionali e gravate da un gusto kitsch, la multimedialità italiana, pur dovendosi misurare con un mercato assai ristretto, ha avuto il coraggio di offrire prodotti in grado di soddisfare le esigenze di approfondimento di chi ha interessi specifici. Il vincitore della sezione Scienza, per esempio, ha mostrato come lo studente di medicina possa giovarsi delle potenzialità multimediali per compiere nello spazio virtuale operazioni che gli consentono una buona conoscenza del funzionamento dei muscoli, interagendo con i vari elementi anatomici mostrati sullo schermo. Anche un'opera come "Camminare nella pittura" di Giuseppe Barbieri, pubblicata da Mondadori New Media, ha dimostrato come sia possibile compiere una originale indagine scientifica della rappresentazione prospettica dello spazio senza lasciarsi sedurre dalle lusinghe multimediali. Lorenzo De Carli
ARGOMENTI: ACUSTICA, FISICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: BUCKINGAM MICHAEL
LUOGHI: ITALIA
QUASI per magia, la fisica e la tecnica hanno trasformato il perenne rumore di fondo del mare in splendida luce, riproducendo il raro fenomeno naturale della sonoluminescenza: lampi che si sprigionano dalle bolle d'idrogeno o di gas nobile quando vengono sfiorate dalle onde sonore. Le ricerche per trasformare il rumore in luce furono avviate a metà degli Anni 80 da un nucleo di fisici diretto dall'americano Michael J. Buckingam. Occorsero sei anni di studi per risolvere teoricamente il problema e altrettanti per realizzare l'impianto elettronico computerizzato. Nella sua essenza si trattò dapprima di un piccolo riflettore parabolico avente nel suo fuoco un microfono subacqueo e di un bersaglio ligneo rettangolare che rifletteva intensamente alcune frequenze sonore mentre ne assorbiva altre. Ne deriva la possibilità di riflettere in scala cromatica le onde sonore trasformandole in un vario insieme di colori artificiali. In definitiva si creava una lente acustica che forniva l'immagine del fondale marino ricalcandola sui vari rumori ambientali. Seguì una lunga serie di esperimenti conclusa da una lente acustica formata da 128 idrofoni costituenti un'antenna parabolica avente un angolo visivo pari a quello di una macchina fotografica. Nell'agosto dell'anno scorso un nuovo più perfezionato sistema di luce acustica fu collaudato sui fondali del Nord Pacifico; oltre all'antenna parabolica comprendeva una linea di bersagli costituiti da tavolette di alluminio di un metro di lato e da un impianto elettronico per la conversione in forma digitale del rumore ambiente, trasformato dalla lente acustica in immagini, proiettate infine sullo schermo di un computer. Ultimamente la sequenza operativa è stata di molto semplificata con il rendere il bersaglio visibile utilizzando direttamente il rumore di fondo per produrre sullo schermo il flusso di trenta immagini. Contemporaneamente si è raggiunto in pieno il previsto obiettivo finale: utilizzare la luce acustica per ritrarre un bersaglio mobile; nel caso in questione si è trattato di una foca. Numerose sono le applicazioni potenziali della luce acustica sottomarina: dalla localizzazione delle mine subacquee al controllo visivo di veicoli sottomarini automatizzati; dal controllo della perforazione dei pozzi petroliferi alla sorveglianza dei bacini portuali. Altri impieghi si avranno certamente con l'ulteriore perfezionamento delle fotocamere subacquee a luce acustica. Mario Furesi
ARGOMENTI: ZOOLOGIA, CACCIA
NOMI: BATESON PATRICK, BRADSHAW ELISABETH
ORGANIZZAZIONI: NATIONAL TRUST, NEW SCIENTIST
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, REGNO UNITO, GRAN BRETAGNA
UNA manifestazione dell'Inghilterra rurale nelle strade di Londra ha impensierito Tony Blair fino a spingerlo a ritrattare una promessa elettorale: l'abolizione di sport crudeli come la caccia alla volpe e la caccia al al cervo. Le ragioni dei dimostranti erano comprensibili, ma non condivisibili. La caccia è un elemento storico della vita della campagna inglese. Per chi la pratica è una aristocratica tradizione; per i molti più umili addetti ai cani, alle armi, ai cavalli, significa un reddito, una quantità notevole di posti di lavoro, per di più in un ambiente rurale in forte declino. Nel febbraio 1997 Carlo d'Inghilterra ad un convegno della Soil Association contrastò l'illusione che l'agricoltura intensiva desse, nella realtà, cibo a basso costo. Argomentò il principe: " L'agricoltura intensiva ha prodotto illusioni e disastri. Ad esempio l'aver trattato gli animali d'allevamento come macchine per produrre proteine ha portato alla sperimentazione di carburanti" alternativi sotto forma di proteine riciclate. Carcasse di pecore ammalate di encefalite spongiforme delittuosamente sono state trasformate in polvere proteica per alimentare le mucche con relativa diffusione allo stock bovino, e trasmissione all'uomo, di questa patologia mortale". Ed esaminando i devastanti "costi occulti" nel mondo agricolo concluse: "L'agricoltura contribuisce attualmente al 2 per cento dell'economia inglese, ma produce il 10 per cento delle piogge acide e il 4 per cento delle emissioni gassose responsabili dell'effetto serra. Quali dunque i costi e vantaggi sul lungo termine?". L'abolizione degli sport cruenti, caccia alla volpe e al cervo, è dunque una ulteriore, vera minaccia al mondo agricolo inglese o sono altre, e meno folkloristiche, le ragioni del suo declino? Ma possono, in dibattiti come questo, etologia e fisiologia dare un contributo? I dati raccolti, su commissione del National Trust, da etologi inglesi dell'Università di Cambridge guidati da Patrick Bateson, Provost del Kings' College, esaminano il tema della caccia nel giusto contesto evolutivo della fisiologia dei suoi attori nella caccia con i cani. La selezione delle razze di cani idonei alla caccia ha prodotto individui fisiologicamente capaci di seguire a lungo e instancabilmente un cervo o una volpe. Ma la natura ha pensato a dotare volpi e cervi di apparati fisiologici adatti a sostenere i, non previsti, lunghi inseguimenti di gentiluomini a cavallo in giacca rossa e corno da caccia per aizzare i segugi? Se chi caccia e l'inseguito fossero ad armi pari le proteste di chi vuole l'abolizione di tali "sportivi" confronti potrebbero apparire dei moralismi che ignorano la conflittualità naturale tra specie. Prede e predatori sono, si dice, la norma biologica. Anche di recente un ricercatore ha sostenuto che la caccia con i cani sia assimilabile all'azione dei predatori naturali. Questa asserzione dopo le ricerche di Bateson risulta falsa evolutivamente. L'evoluzione dei cervi è avvenuta nelle foreste temperate e questi animali normalmente coprono brevi distanze nel corso della giornata. Il principale predatore, il lupo, li attacca alla posta o in brevi inseguimenti. Al contrario la caccia dei cani può durare ore e di norma un cervo fugge, di media, per 19 chilometri. Che accade dunque, in questa situazione innaturale, alla fisiologia ed al comportamento del cervo inseguito? I dati, raccolti dal sangue e dai muscoli dei cervi tallonati dai segugi indicano che i muscoli subiscono una perdita, quasi totale, di carboidrati energetici; i tessuti muscolari si rompono e c'è un intenso rilascio di beta-endorfine per antagonizzare lo stress prolungato. Nel sangue appaiono le alte concentrazioni di cortisolo che caratterizzano le condizioni estreme di stress psicologico e fisiologico. La prima fase della caccia, poi, è accompagnata da un'intensa emolisi. I cervi hanno eritrociti più piccoli che altri animali e sono noti per essere osmoticamente più fragili. Tra le cause scatenanti l'emolisi può esserci anche l'ipertermia che insorge nell'animale cacciato. Una innaturale sofferenza fisiologica dell'animale appare dunque già nelle primissime fasi della caccia. Non è solo quindi paura l'elemento traumatizzante per il cervo, ma un corredo di alterazioni che non sono presenti sia in atleti umani o in altre razze animali a cui si richiedono abitualmente performances sportive. Quella al cervo è dunque una caccia crudele, esponendo un animale, non evolutivamente dotato, a sforzi fisici ed emotivi fatali; prima che lo raggiungano i cani muore per stress. Il lavoro di Bateson nella sua scientifica eticità è esemplare e indica come vada inteso il concetto di animal welfare che riguarda tutte le specie, domestiche e non, con cui interagiamo. Il dibattito sollevato da questa ricerca ha prodotto una straordinaria quantità di interventi sulla stampa britannica, a tutt'oggi oltre mille articoli. In un'intervista a New Scientist Patrick Bateson e Elisabeth Bradshaw dichiarano: "Gli scienziati divengono oggetto di un linguaggio offensivo quando sfidano ciò che è comunemente accettato come conoscenza o al contrario sono usati per sostenere ciò che ognuno dice già di conoscere. Nonostante il fatto di aver con la nostra ricerca trasformato noi stessi nell'oggetto dell'odio di molti o esser divenuti bersaglio della condiscendenza di altri, abbiamo trovato questo studio affascinante proprio a causa della sua dimensione umana. "La retorica di chi è a favore o contro la caccia non è cambiata negli ultimi sette anni. Era il caso di fare uno sforzo per elevare il livello del dibattito al di sopra degli approcci antropocentrici. Ciò ha focalizzato le nostre menti sui modi in cui un metodo scientificamente corretto possa condurci a esaminare aspetti, altrimenti inconoscibili, della sofferenza animale". Bruno D'Udine Università di Udine
Il primo manuale italiano che tratta dell'avventura dei metalli nella storia dell'uomo, dalla preistoria al medioevo: gli antichi giacimenti metalliferi, i primi rudimentali sistemi di estrazione del metallo dal minerale, fino ai manufatti, strumenti per il lavoro, la caccia, la guerra. I primi manufatti in argento compaiono in Asia quattromila anni prima di Cristo. Per il suo basso punto di fusione il piombo fu probabilmente uno dei primi metalli ad essere estratto per fusione. Sono stati trovati reperti risalenti a 6-7 mila anni a.C. I Romani ne impiegarono enormi quantità per le condutture dell'acqua. Ma bisogna arrivare all'età del ferro per avere una grande diffusione del nuovo metallo che sostituisce il bronzo (lega di rame e stagno). Allo stato puro è raro, e si trova soprattutto nei meteoriti (sideriti), ma è comune e diffuso come minerale ferroso. Il metallo fu a lungo ritenuto efficace contro i malefici, anche da Plinio; di quì la credenza popolare del "toccare ferro", contro la sfortuna. Infine le vicende dei metalli preziosi, argento e oro, quest'ultimo malleabile e duttile, inossidabile e inattaccabile dagli acidi, già usato cinquemila anni prima di Cristo.
NOMI: GOLGI CAMILLO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. L'apparato di Golgi
NELLA seduta del 19 aprile 1898 della Società medico-chirurgica di Pavia, Camillo Golgi, illustre professore di istologia e patologia generale all'Università di Pavia, comunicò di avere osservato due nuove strutture nel tessuto nervoso: la prima era situata sulla superficie esterna delle cellule nervose (ed è oggi conosciuta come "rete perineuronale"), mentre la seconda era situata all'interno del corpo delle cellule nervose. Questa seconda struttura fu presentata in modo un po' sommesso dallo scienziato pavese, che la descrisse come un intreccio "fine ed elegante" di sottili filamenti nastriformi e "tenui placchette", denominandola "apparato reticolare interno". La struttura è rimasta legata al nome del suo scopritore ed è oggi universalmente nota come apparato di Golgi o complesso di Golgi. Camillo Golgi aveva basato questi suoi studi su colorazione del tessuto nervoso da lui stesso messa a punto nel 1873. Questa tecnica, tuttora in uso e nota come "impregnazione di Golgi", consentì per la prima volta di visualizzare delle singole cellule nervose con tutti i loro prolungamenti (ora denominati dendriti e assoni) e pose le basi per le moderne conoscenze sulla struttura del sistema nervoso. Golgi propose però un'interpretazione errata dell'organizzazione generale del sistema nervoso, ritenendo che i prolungamenti nervosi si intrecciassero senza interruzioni. L'esistenza di interruzioni attraverso le quali i neuroni comunicano, le sinapsi, venne invece sostenuta da altri neuroscienziati del tempo e fu definitivamente dimostrata negli Anni 50 grazie alla microscopia elettronica. Golgi fece, tuttavia, degli studi fondamentali sul sistema nervoso, per i quali, con lo spagnolo Santiago Ramon y Cajal, venne insignito del Premio Nobel nel 1906. Ma la scoperta di Golgi di cui ora si celebra il centenario era destinata ad esercitare, sulla scienza biomedica del Ventesimo Secolo, un impatto ben maggiore dei suoi studi sull'organizzazione del sistema nervoso. Tuttavia, come spesso avviene per le scoperte scientifiche, la segnalazione dell'esistenza di un apparato all'interno delle cellule ebbe vita molto tormentata. In centinaia di articoli, comparsi nei primi decenni del Novecento, infuriò un acceso dibattito sulla reale esistenza dell'organello intracellulare, che venne da molti considerato un artefatto di colorazione. L'ingresso definitivo dell'apparato come costituente di tutte le cellule fu sancito solo negli Anni Cinquanta, quando, grazie ai forti ingrandimenti consentiti dalla microscopia elettronica, l'apparato di Golgi è stato identificato con certezza. Si apriva così una nuova era di studi sulla biochimica, sulle funzioni e, in tempi recenti, sulla biologia molecolare, dell'apparato di Golgi. E' oggi ben noto che l'apparato o complesso di Golgi svolge un ruolo fondamentale nei meccanismi con i quali le cellule fabbricano materiali, soprattutto proteine, per rinnovare i costituenti al loro interno, o che vengono riversati all'esterno della cellula come prodotti del lavoro della cellula stessa. L'apparato di Golgi, generalmente situato vicino al nucleo della cellula, è costituito da pile di cisterne circondate da membrane. I lipidi e le proteine vengono avviati all'apparato di Golgi dal reticolo endoplasmatico, che rappresenta un'altra componente fondamentale dei macchinari di sintesi cellulare. Tali materiali viaggiano impacchettati in vescicole di trasporto, entrano nell'apparato di Golgi da un versante di ingresso e passano attraverso una catena di montaggio. Dopo aver così subito una serie ordinata di modifiche all'interno dei costituenti dell'apparato, le proteine vengono nuovamente impacchettate in vescicole, che escono dal versante di uscita dell'apparato di Golgi e sono convogliate alle loro destinazioni finali all'interno della cellula, o riversati, mediante i meccanismi di secrezione, all'esterno della membrana che riveste la cellula. Legato alla denominazione del suo organulo intracellulare, che, nella fretta terminologica anglosassone degli scienziati, viene oggi molto spesso designato solo come "il Golgi", Camillo Golgi sarebbe certo molto sorpreso di essere diventato il ricercatore più frequentemente citato nella scienza biomedica mondiale. Ma il rapporto con la sua persona e la sua scoperta si è perso nell'uso del termine e, nella comunità scientifica internazionale, pochissimi sanno che Golgi era italiano. I nostri alunni ne incontrano il nome fin dalle scuole medie, quando nei libri di testo viene spiegata come è fatta una cellula. Potremmo almeno anche spiegare loro che, una volta tanto, possono essere fieri di uno scienziato che non solo era italiano, ma lavorò esclusivamente in Italia. Marina Bentivoglio Università di Verona
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA, STORIA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
TABELLE: C. Le meteoriti cadute in Italia negli ultimi 400 anni
NON deep impact ma mi ni-impact. In un anno la Terra raccoglie dallo spazio circa 200 mila tonnellate di materia interplanetaria. Quasi tutta questa materia è costituita da particelle con dimensioni inferiori a 1 millimetro: in prevalenza polvere cosmica e micrometeoriti. Le meteoriti rappresentano, almeno per i corpi di massa sopra i 100 grammi, una frazione quasi insignificante del contributo globale giornaliero del flusso. Da un recente studio dei bolidi meteoritici osservati fotograficamente su scala globale, risulta infatti che circa 30 mila meteoriti di massa sopra i 100 grammi cadono annualmente sull'intera superficie terrestre, vale a dire lo 0,02 per cento del flusso totale. Solo una minima parte di queste meteoriti viene rinvenuta: anche nelle aree popolate più densamente, appena un fenomeno su 100 viene osservato ed è seguito dal recupero di uno o più frammenti al suolo. Dalle cadute più recenti avvenute negli Stati Uniti e in Europa, si stima che ogni anno sulla Terra precipitino circa 1000 meteoriti di massa maggiore di 10 chilogrammi; una decina di queste vengono raccolte. La caduta di sassi cosmici, quindi, non è così rara come si crede, ma la stragrande maggioranza va dispersa negli oceani, nelle foreste, nei deserti o rimane abbandonata al suolo. Le poche osservazioni fotografiche oggi disponibili sulle traiettorie dei bolidi interplanetari che hanno poi prodotto meteoriti, mostrano che questi sassi cosmici hanno piccole velocità geocentriche, orbite a bassa inclinazione ed eccentricità relativamente piccole. Pri bram, Lost City, Innisfree, Pee kskill, e St. Robert sono tra i pochi esempi di bolidi fotografati in questo secolo che hanno "figliato" meteoriti alla fine del loro percorso in atmosfera e di cui sono noti con precisione i parametri orbitali. Tutti questi avevano velocità fra i 13 e 21 chilometri al secondo, eccentricità tra 0,4 e 0,67, inclinazione tra 1 e 12 gradi e afelio (punto più lontano della loro orbita rispetto al Sole) nella fascia degli asteroidi. Questi valori sono tipici dei Neo (Near Earth Objects) asteroidali del tipo Apollo che circolano nei pressi della Terra viaggiando su orbite che incrociano quella del nostro pianeta o che transitano molto vicino alla sua orbita. Delle circa cinquanta meteoriti ritrovate in Italia negli ultimi 2000 anni e attualmente conservate nei nostri musei, una trentina sono quelle cadute negli ultimi quattro secoli. In questo secolo ne sono state ritrovate 12 e le più importanti in ordine di peso sono Bagnone, un corpo ferroso di 48 chili rinvenuto nel 1904, e Vigarano, una condrite carbonacea di due pezzi da 11,5 e 4,5 chili trovata nel 1910. La più recente è Fer mo, una condrite ordinaria che è la dodicesima di questo secolo e tra queste, la terza in ordine di peso con 10,2 chili. E' ovvio che le meteoriti cadute in Italia in questi ultimi millenni sono in numero decisamente più elevato ma, come si diceva, la stragrande maggioranza di questi corpi non sono stati ritrovati anche se in molti casi sono stati visti cadere. Le meteoriti recuperate sul suolo italiano come altrove, sono in maggioranza condriti ordina rie (CO) del tipo di Fermo e il record nazionale di peso è detenuto con 228 chili dalla meteorite Alfianello, caduta vicino a Brescia il 6 febbraio 1883. Giordano Cevolani Cnr, Bologna
ARGOMENTI: ENERGIA, RICERCA SCIENTIFICA, ECOLOGIA, AMBIENTE
NOMI: QUAGLINO ALBERTO, COMINO ELENA, SOLERI CRISTINA
ORGANIZZAZIONI: POLITECNICO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)
TABELLE: T. Effetti dei campi magnetici sulla germinazione delle spore
SARA' per quello sfrigolio inquietante che si avverte passando sotto i cavi dell'alta tensione; certo è che la questione dei presunti effetti dannosi dei campi elettromagnetici a bassa frequenza, appunto quelli generati dagli elettrodotti, più si cerca di districarla, più si ingarbuglia. Da quando si è cominciato a discuterne, negli Anni 70, sull'onda di studi americani e sovietici che ipotizzavano una connessione con il cancro, e in particolare con le leucemie, hanno assunto, nell'immaginario collettivo, una connotazione sinistra (cui ha contribuito un'informazione spesso ad effetto); una connotazione che resta tale e quale, nonostante la prevalenza di indagini che tenderebbero a negarla. Di fatto le numerose ricerche successive finora non hanno portato a conclusioni inequivocabili. "Dell'inquinamento elettromagnetico a 50 Hertz si sa poco - spiega Alberto Quaglino, del Dipartimento di georisorse del Politecnico di Torino -; soprattutto non si è ancora riusciti a stabilire una correlazione dose- danno. La nostra legislazione a tutela dell'ambiente e della salute è molto severa, più severa, ad esempio, di quelle francese e tedesca; inoltre è in preparazione un disegno di legge che, se sarà approvato, abbasserà ulteriormente i limiti di intensità dei campi elettromagnetici generati dagli elettrodotti; ciò imporrà radicali modifiche alle linee ad alta tensione, con un costo di circa 25 mila miliardi, che ovviamente sarebbe scaricato sulle tariffe. E' ovvio, quindi, che alla questione sia fortemente interessata l'industria elettrica, la quale deve rispondere a richieste emotive provenienti dall'opinione pubblica con interventi che, seppur tecnicamente possibili, sono insostenibili economicamente e che potrebbero addirittura essere inutili". Per esempio l'interramento dei cavi, che non eliminerebbe le radiazioni. Adesso arrivano le prime conclusioni di una ricerca ideata proprio dal dipartimento di georisorse del Politecnico di Torino (professor Quaglino, dottoressa Elena Comino, ingegner Cristina Soleri, che ne ha ricavato la sua brillante tesi di laurea) e condotta insieme con il Laboratoire de Reseaux d'Energie Electrique dell'Ecole Polytechnique Federale di Losanna (Janoz e Zweiacher) e il Laboratoire de Phytogenetique Cellulaire dell'Università di Losanna (Zryd e Schaefer). La ricerca, presentata nel corso di un recente seminario al Politecnico torinese, è partita alla fine del '76 e le prime conclusioni si sono avute a dicembre '77. Il primo passo è consistito nella scelta di un indicatore ambientale in grado di rispondere alle onde elettromagnetiche, individuato in un muschio, Physcomitrella Patens, ben conosciuto dai ricercatori svizzeri, che lo utilizzano per esperimenti da molti anni. Quindi si è costruito a Losanna un complesso laboratorio in cui sono state installate cinque "bobine" perfettamente identiche quanto a condizioni ambientali (illuminazione, umidità, temperatura...) nelle quali sono state impiantate le spore di Physcomitrella. Le spore di quattro bobine sono state sottoposte a campi elettrici e magnetici a 50 Hertz di diversa intensità (ma comunque 1000 volte superiore a quella che si riscontra normalmente sotto un elettrodotto); quelle della quinta, la bobina-testimone, invece non sono state sottoposte a campo. I parametri biologici considerati sono stati: germinazione, mortalità, fototropismo e stato di salute dei muschi. I risultati riportati si riferiscono a una esposizione protrattasi per 20 giorni. Prima constatazione: il campo elettrico non ha avuto alcun effetto, i muschi hanno manifestato germinazione, fototropismo e stato di salute perfettamente regolari sia nelle bobine sottoposte a campo sia in quella testimone. Effetti evidenti ha avuto invece il campo magnetico, come mostra la tabella: le spore sottoposte a campo magnetico hanno avuto un'alta percentuale di mortalità, tanto più elevata quanto più intenso era il campo; lo sviluppo delle spore sottoposte a campo è nettamente inferiore a quello delle spore della bobina testimone; inoltre è emersa una relazione tra la crescita o lo scarso sviluppo dei muschi e l'intensità del campo magnetico. Conclusione super-prudente dei ricercatori: "Ciò potrebbe provare che una qualche influenza del campo magnetico c'è stata". La ricerca intanto prosegue con le opportune variazioni; sarà progressivamente prolungato il tempo di esposizione mentre sarà diminuita l'intensità del campo in modo da avvicinare le condizioni degli esperimenti a quelle reali di esposizione alle radiazioni degli elettrodotti; saranno inoltre variate altre condizioni, come illuminazione e temperatura (si pensa anche alla possibilità di estendere il lavoro alle alte frequenze, quelle tipiche dei telefoni cellulari). "Si potrà arrivare a stabilire se l'influenza del campo magnetico sotto i tralicci è tanto forte da indurre modificazioni su di un organismo semplice che risponde molto bene; invece se il campo avrà sull'indicatore ambientale un'influenza insignificante o nulla potremo essere certi che con i vincoli della legge attuale non si devono nutrire preoccupazioni". Vittorio Ravizza
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: FOLKMANN JUDAH, DULBECCO RENATO, CHERESH DAVID, BROOKS PETER,
BUSSOLINO FEDERICO
ORGANIZZAZIONI: SCRIPPS RESEARCH INSTITUTE, ASSOCIAZIONE ITALIANA RICERCA
SUL CANCRO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: NUOVE TERAPIE CONTRO IL CANCRO - "Progetto Speciale Angiogenesi"
DA qualche giorno una nuova strategia anti-cancro occupa le pagine dei giornali di tutto il mondo. Le molecole-star sono l'angiostatina e l'endostatina, Judah Folkman è il ricercatore americano che ci sta lavorando. Premi Nobel come Watson e Dulbecco hanno sottolineato quanto il filone sia promettente. Ma non si deve pensare che questi studi nascano dal nulla. In realtà vengono da lontano, e non sono una esclusiva americana. Vediamone il contesto. Ogni buon generale lo sa: spesso la guerra non si decide sul fronte, ma nelle retrovie. Sabotare le linee di accesso al fronte, impedendo al nemico di fornire viveri e munizioni ai combattenti, è una tattica vincente. Su questo principio si basa, appunto, la strategia di Folkman. Il metodo consiste nel "sabotare" il sistema di vasi che ogni tumore costruisce al proprio interno sfruttando le più recenti conoscenze di biologia cellulare. All'inizio della loro evoluzione, la maggior parte dei tumori solidi manca di una efficiente rete vascolare. In questa fase (detta carcinoma in situ), che può durare mesi o anni, le cellule maligne ricevono con difficoltà dal sangue ciò che è indispensabile alla loro sopravvivenza, come l'ossigeno, le sostanze nutritive e i fattori di crescita che regolano la loro proliferazione. La massa del tumore rimane così limitata a pochi millimetri: le cellule maligne che si trovano più lontane dalla circolazione sanguigna tendono letteralmente a morire di fame. Inoltre, in assenza di vasi, le cellule del tumore difficilmente possono attraversare i capillari sanguigni e raggiungere la circolazione per colonizzare altri organi e formare così metastasi. La piccola massa tumorale, relativamente innocua, diventa un pericoloso nemico nel momento in cui crea una propria rete vascolare. Ciò avviene quando alcune delle cellule del tumore cominciano a secernere molecole che stimolano la formazione di nuovi vasi sanguigni. Questi sono i fattori angio genici (dal greco aggeion = vaso e genos = origine), mentre il processo di formazione di nuovi vasi sanguigni prende il nome di neovascolarizzazione o angio genesi. Una volta dotato di sufficiente irrorazione, il tumore cresce rapidamente e si moltiplicano le possibilità di metastasi. E' qui che le molecole di Folkman - endostatina ed angiostatina - potrebbero rivelarsi decisive, bloccando il processo di vascolarizzazione. Ma da anni, come si diceva, gli scienziati studiano gli inibitori dell'angiogenesi, un lavoro che ha permesso di identificare numerose molecole coinvolte nel processo e alcuni dei meccanismi con le quali esse agiscono. I fattori angiogenici vengono riconosciuti da specifici recettori situati sulla superficie delle cellule endoteliali, quelle cioè che formano le pareti di vasi sanguigni, inducendole a proliferare e ad organizzarsi in nuovi vasi. Un importante progresso è stata l'osservazione che, insieme ai fattori angiogenici, sia le cellule normali sia quelle tumorali producono anche molecole antiangiogeniche, cioè ad azione opposta alle prime: l'effetto finale dipende quindi dall'equilibrio fra questi diversi fattori positivi e negativi. Com'è logico, è proprio sull'isolamento di molecole antiangiogeniche che si sono concentrati gli sforzi dei cancerologi. Recentemente, un gruppo di ricerca americano, guidato da David Cheresh e Peter Brooks dello Scripps Research Institute, ha riportato sulla prestigiosa rivista " Cell" l'isolamento di un nuovo promettente inibitore dell'angiogenesi. Si tratta di una piccola molecola proteica chiamata Pex, che ha origine dalla scissione di una proteina più grande, Mmp-2. In un certo senso, Pex è un figlio degenere di Mmp-2. Quest'ultima, infatti, è nota per il suo importante ruolo nel favorire la neovascolarizazione ed esplica la sua azione legandosi ad un recettore sulla superficie delle cellule endoteliali. In Italia un "Progetto Speciale Angiogenesi", coordinato da Federico Bussolino dell'Università di Torino, è sostenuto dall'Associazione Italiana Ricerca sul Cancro e coinvolge 12 gruppi di ricerca di tutta la penisola. Sergio Pistoi Università di Torino
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
NOMI: BONINO GIUSEPPE
ORGANIZZAZIONI: CNR
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, FERMO (AP)
MINI impact all'italiana: l'ultimo sasso cosmico ritrovato nel nostro Paese è caduto il 25 settembre 1996 alle 17,30 nelle campagne di Fermo, provincia di Ascoli Piceno, nelle Marche. Si tratta di una meteorite rocciosa. Su segnalazione di Luigi Benedetti, la ritrovò due giorni dopo Giuseppe Santarelli, ai bordi di un sentiero, in un piccolo cratere profondo 30-40 centimetri. Misura 19X24X16 centimetri, pesa 10,2 chilogrammi ed è tutta ricoperta da una sottile crosta di fusione di vetro nero spessa 0,2 millimetri. Un corpo del tipo di Fermo entrando in atmosfera comincia a perdere massa per ablazione già al di sotto di 100 chilometri, raggiungendo la massima luminosità dopo alcuni secondi. Poi nella stratosfera subisce una forte decelerazione e la pressione lo fa esplodere. I bang sonici riportati da alcuni testimoni suggeriscono che Fermo si è spaccata perlomeno in 2-3 pezzi nella bassa stratosfera. A queste altezze la sua velocità di entrata, che era probabilmente sui 15 chilometri al secondo, si è molto ridotta e i pezzi sono caduti a velocità di qualche centinaio di metri al secondo. In questa fase un osservatore non può vedere alcun effetto luminoso e l'impatto al suolo dei frammenti del corpo, che in entrata poteva avere le dimensioni del metro, avviene con pochi danni e forma piccoli crateri. Finora è stato recuperato un solo pezzo, ma altri frammenti dovrebbero essere disseminati nella zona. All'analisi petrografica eseguita dal gruppo di ricercatori coordinato da Molin, del Dipartimento di mineralogia e petrologia di Padova, Fermo ha rivelato una struttura eterogenea caratterizzata da clasti (frammenti irregolari) di diverse tonalità di grigio. L'esame al microscopio su una sezione sottile lucida, spessa 0,03 millimetri, mostra differenze nella tessitura tra i clasti osservati a occhio nudo, mentre l'analisi chimica effettuata con la microsonda elettronica sulle fasi mineralogiche (circa 300 punti) ha determinato il contenuto degli elementi chimici nei vari cristalli. I minerali presenti nella meteorite sono in ordine di abbondanza: olivina, pirosseno, plagioclasio, kamacite, taenite e, in minore quantità, cromite e apatite. I dati petrografici e mineralogici permettono di classificare la meteorite Fermo come una condrite ordinaria brecciata, classe chimica H (da high iron, cioè ad alto contenuto in ferro). L'analisi degli isotopi nella meteorite è stata condotta dal gruppo coordinato da Giuseppe Bonino del Dipartimento di fisica generale dell'Università e dell'Istituto di cosmogeofisica del Cnr a Torino. La meteorite contiene numerosi isotopi cosmogenici prodotti dall'interazione con i raggi cosmici nello spazio interplanetario, che sono utili per calcolare il tempo di esposizione di Fermo nello spazio (probabilmente alcuni milioni di anni) e per ricavare informazioni sulle variazioni dell'attività solare nel passato. Uno spettrometro gamma ad alta efficienza, operante nel laboratorio sotterraneo del Monte dei Cappuccini a Torino, ha permesso di individuare in un campione di 800 grammi prelevato dal corpo principale la presenza del titanio 44, un radioisotopo cosmogenico che ha un tempo di dimezzamento di 66,6 anni e che è particolarmente indicato per lo studio delle modulazioni solari del flusso dei raggi cosmici galattici su scala secolare. (g. cev.)
NOMI: DI BELLA LUIGI
LUOGHI: ITALIA
LE polemiche sulla "gravità" dei casi inseriti nella sperimentazione della terapia Di Bella riempiono i giornali. I sostenitori del medico modenese dicono che vengono trattati pazienti in fase troppo avanzata per poter ottenere risposte favorevoli; gli oncologi responsabili della sperimentazione ribattono che vengono inseriti anche pazienti non trattati prima, in fase relativamente precoce, e seguendo le indicazioni stabilite in seno alla Commissione oncologica nazionale d'accordo con lo stesso Di Bella. Si sente parlare, e si scrive, di stadi avanzati, di stadi iniziali, di malati terminali. Quest'ultimo termine è inopportuno: da "stadio terminale" della malattia si è passati all'espressione "malato terminale", che va rifiutata in quanto contraria alla "pietas", e a volte, per fortuna, anche smentita dalla realtà. Proviamo a spiegare l'evoluzione di un tumore e la sua minore o maggiore gravità. Una differenza che più o meno tutti conoscono, è quella tra i tumori al "primo" o all'"ultimo stadio"; è ovvio che ciò si riferisce rispettivamente ad una fase iniziale della malattia o ad una fase avanzata. Naturalmente a ogni fase, o "stadio", corrisponde un programma terapeutico diverso con un alternarsi o un integrarsi delle varie metodiche: interventi chirurgici, trattamenti radioterapici (cobalto, acceleratore lineare...), cicli di chemioterapia. E' molto importante conoscere le modalità che permettono di definire un tumore iniziale, avanzato, e così via. Per questo dagli Anni 50 l'Unione Internazionale contro il Cancro e un'apposita commissione statunitense hanno proposto e progressivamente perfezionato un metodo di "stadiazione" (divisione in stadi) dei tumori indicato come il "sistema TNM". Qual è il significato di questa sigla? T vuol dire Tumore (il tumore primitivo, ad esempio un tumore alla mammella); N vuol dire (linfo)Nodo (si sa che i tumori, come le infezioni, possono diffondersi e interessare i linfonodi regionali - quelli del collo per i tumori e le infezioni della bocca, delle ascelle per quelli mammari o delle braccia, gli inguinali per i tumori o le infezioni dei genitali esterni e delle gambe, e così via -; M vuol dire Metastasi, cioè ripetizione del tumore a distanza dal punto di nascita (ossa, polmoni, fegato, cervello, per tumori iniziati nella mammella, nello stomaco, nel retto...). Corredando le lettere TNM di numeri (da 1 a 4 per T, da 0 a 3 per N, da 0 a 1 per M) in progressione secondo la maggior dimensione o la maggior penetrazione nei tessuti limitrofi di T (tumore primitivo), secondo l'interessamento delle ghiandole linfatiche (N) sia come numero, mobilità e dimensioni, e per la presenza o meno di ripetizioni del tumore a distanza (Metastasi = M), è possibile definire la maggiore o minore estensione del tumore, e di conseguenza la sua maggiore e minore gravità. Riunendo poi le diverse categorie di T (T1, T2, T3, T4) con quelle di N (N0, N1, N2, N3) e di M (M0, M1), è possibile suddividere i tumori in 4 stadi (I, II, III, IV) che contraddistinguono le forme più iniziali e via via quelle più avanzate. Ad ogni stadio corrisponde una strategia terapeutica adatta, e ovviamente lo stadio in cui il trattamento è più problematico è il IV, che può venire considerato come " avanzato" ma che non deve essere ritenuto "terminale". Si può affermare che tutti gli "stadi terminali" sono "avanzati", ma non tutti gli "avanzati" sono terminali] Il succedersi di questi stadi è in funzione della maggiore o minore malignità del tumore (che in parte è costituita dalla velocità con cui le cellule tumorali si moltiplicano). Più la malignità, che si può definire biologica, è accentuata, più l'evoluzione della malattia è rapida e meno efficaci nel tempo risultano i trattamenti terapeutici. Questi fattori, Di Bella o non Di Bella, condizionano qualsiasi trattamento antitumorale, scientificamente provato come valido, e devono essere tenuti presenti anche quando si ha a che fare con terapie alternative. Dunque, nell'onda di emotività popolare, bisogna ben tenere presente che le forme ad elevata malignità e a rapida evoluzione, se si trovano in "fase evolutiva" terminale, non possono essere indicative di risultati interpretabili. Diverso è per i casi a lenta evoluzione; quando non rispondono più alle terapie classiche, mi sembra di capire, possono essere appoggiati alla terapia Di Bella quando vengano a trovarsi allo stadio avanzato (il così detto IV Stadio). Per facilitare la comprensione della classificazione TNM vi è un apposito Atlante. Per concludere, non si può fare di ogni erba un fascio. Qualsiasi possa essere il trattamento praticato è indispensabile una realistica valutazione della situazione. In un momento di così grande confusione sarebbe molto altruistico, molto utile, quasi un atto di volontariato, che chi riesce a comprendere questi concetti si faccia parte diligente nel trasmetterli e nello spiegarli a chi, preso dalla necessità e coinvolto nella realtà dolorosa della malattia, non si trova nelle condizioni di lucidità e serenità per decidere razionalmente. Fausto Badellino Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro, Genova
LA BICICLETTA/Bicycle. L'illustrazione riunisce elementi dei tipi di bicicletta più diffusi. Il telaio (frame) è lo scheletro su cui sono montate le ruote (wheels) e le altre parti. Un ciclo a una sola ruota è un monociclo (unicycle); una a tre ruote è un triciclo (tricycle)
Le faggete richiedono ambienti umidi, la pineta di San Rossore è danneggiata dall'aerosol marino, la densità delle chiome del Pinus Pinea è un parametro per valutare lo stato di deperimento... Un testo, pensato per docenti e studenti universitari, in particolare per la laurea in scienze forestali, che esamina l'influenza dei principali fattori ambientali, (atmosfera, radiazione solare, acqua), sulla vita e sugli equilibrii del bosco.
HA già cacciato "Titanic" dagli schermi d'America, domani lo vedremo in anteprima a Torino. "Deep impact" racconta che cosa succederebbe alla Terra se si scontrasse con una cometa. Anche qui gli effetti speciali si sprecano: sono costati 114 miliardi. E anche qui la furia del mare è protagonista: l'"impatto profondo" con un frammento della cometa avviene nel mezzo dell'oceano. In "Titanic" una sciagura reale del passato. In "Deep impact" una tragedia planetaria del futuro. Improbabilissima, ma non impossibile. Qualche anno fa in un articolo su "Nature" Clark Chapman e David Morrison, due tra i maggiori esperti di asteroidi, pubblicarono una curiosa tabella. Nell'arco della sua vita un americano ha una probabilità su 100 di morire per un incidente stradale, una su 300 di finire assassinato, una su 800 di perire in un incendio, una su 20 mila di precipitare durante un viaggio aereo, una su 60 mila di rimanere vittima di un tornado e circa una su 250 mila di morire per l'impatto di un pianetino o di una cometa. Tornando a "Deep impact", non sempre i maghi di Hollywood e gli scrittori di fantascienza anticipano la realtà. In questo caso bisogna ricordare che "Impact" (da "International Monitoring Program for Asteroid and Comet Threat) è anche il nome di un progetto scientifico italiano nato circa tre anni fa, e proprio mirato allo studio di quei potenziali killer cosmici che incrociano di tanto in tanto l'orbita della Terra. Oggi si conoscono circa 400 asteroidi pericolosi, ma si calcola che ce ne siano almeno 2000 con dimensioni superiori a 1 chilometro. Si tratta di stanarli tutti, e per questo esiste già la Spaceguard Foundation, organismo internazionale di cui è responsabile Andrea Carusi (Cnr), e di studiarne le caratteristiche fisiche in vista di una eventuale prevenzione dell'impatto. Ricercatori dell'Osservatorio di Torino, l'Alenia e la Regione Piemonte in proposito hanno già avviato uno studio preliminare per la messa in orbita di un satellite dedicato all'analisi fisico-chimica degli asteroidi. La prima fase di ricerca è terminata; la seconda, che richiederebbe circa un miliardo, è pronta a partire appena si troveranno i finanziamenti. Che il rischio-asteroidi, per quanto piccolo, sia reale, è divenuto sempre più chiaro negli ultimi anni. Sulla Luna, su Mercurio, su Marte e sui satelliti dei pianeti maggiori esistono migliaia di crateri causati dalla caduta di asteroidi e di comete. Quasi tutti sono antichissimi: risalgono a 4 miliardi di anni fa, quando si formò il sistema solare e gli asteroidi vaganti (o meglio, i planetesimi) erano numerosissimi. Mentre i corpi del sistema solare privi di atmosfera conservano chiarissime le tracce di questo bombardamento, sulla Terra gli agenti meteorologici e geologici ne cancellano le impronte in pochi milioni di anni. Ma alcuni segni di catastrofiche collisioni con asteroidi sono tuttora riconoscibili. Il caso più celebre è quello del Meteor Crater, in Arizona. Ha l'aspetto di una grande scodella larga 1265 metri e profonda 174. Il bordo si innalza di 50 metri sul deserto. Qui, 50 mila anni fa, un minuscolo pianetino ferroso si schiantò alla velocità di 16 chilometri al secondo liberando l'energia di mille bombe atomiche come quella di Hiroshima. Gli scienziati hanno ricostruito la scena. A Nord-Est apparve una scia luminosa, una palla di fuoco abbagliante come il Sole che avanzava velocissima. Doveva essere un asteroide di una trentina di metri di diametro, interamente metallico: 92 per cento di ferro, 7 per cento di nichel, 0,5 per cento di cobalto e tracce di platino, iridio e altri elementi. Nel terribile urto con il suolo quasi tutta la massa metallica si fuse. Un gigantesco fungo di polveri e detriti infuocati salì nel cielo. Quasi 200 milioni di tonnellate di roccia e terra furono rimosse nell'urto. Di queste 127 milioni costituiscono oggi l'anello montuoso del cratere. L'arido clima desertico lo ha conservato quasi intatto fino ai nostri giorni. Altri crateri da impatto sono stati scoperti un po' dappertutto: in Australia il Wolf Creek, in Sud Africa il Bushveld Complex e il Vedrefort Ring, in Canada il Manicouagan, in Europa il Ries e il " bacino di Praga". Impatti con asteroidi di 10 chilometri di diametro avvengono in media ogni 100 milioni di anni. Frequenza e probabilità aumentano al diminuire del diametro. Oggetti di alcune decine di metri penetrano nell'atmosfera a scadenze di un migliaio di anni. Meteoriti di piccole dimensioni raggiungono il suolo a decine di migliaia l'anno. Anche l'Italia, come si può leggere negli articoli qui accanto, ha avuto i suoi mini-impact: una trentina negli ultimi 400 anni. Tra il 1975 e il 1992 ben 136 volte un macigno proveniente dallo spazio ha rischiato di farsi scambiare dai satelliti-spia per un'esplosione nucleare e di suscitare l'immediata reazione degli Stati Uniti. Sono dati resi pubblici dal Pentagono soprattutto per le pressioni di Simon Worden, un astronomo che ha messo la sua competenza al servizio del Dipartimento della difesa americano. Tre gli impatti maggiori secondo i dati che il Pentagono teneva riservati: uno sopra l'Indonesia il 15 aprile 1988 (equivalente a 5000 tonnellate di tritolo), uno il 1o ottobre 1990 a Nord dell'Australia (2000 tonnellate) e uno il 4 ottobre 1991 sopra l'Artico. Complessivamente ogni anno le meteoriti che esplodono nell'atmosfera corrispondono al botto 80 mila tonnellate di tritolo, cioè quattro ordigni nucleari come quello che distrusse Hiroshima. Spettacolari sono le grandi "piogge" di "stelle cadenti". Mentre intorno al 10 agosto (San Lorenzo) e in altri periodi dell'anno possiamo vedere qualche decina di meteore all'ora, in alcune occasioni, quando la Terra attraversa i detriti lasciati da comete disgregate, può capitare che diventino visibili migliaia di meteore al minuto. Questi residui cometari si vaporizzano completamente nell'attrito con l'atmosfera e in genere quindi non danno luogo a meteoriti. Ma il fenomeno è grandioso. Memorabili sono rimaste le " piogge" del 1833, del 1866, del 1885, del 1933 e del 1966. Quest'anno qualcosa del genere potrebbe accadere il 17 novembre, quando il nostro pianeta passerà nella scia della cometa Tempel- Tuttle. Piero Bianucci
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
NOMI: WINGET DON, FONTAINE GILLES
LUOGHI: ITALIA
UNA sfera di cristallo: i maghi illudono la gente pretendendo di usarla per prevedere il futuro. Gli scienziati hanno scelto, per ricostruire il passato delle stelle, una sfera di cristallo molto particolare: una nana bianca, ossia ciò che rimane di un astro di massa paragonabile a quella del Sole che, al termine della propria esistenza, ha perduto nello spazio gli strati più esterni e si è ridotto a poche migliaia di chilometri di diametro toccando una densità altissima. Fin dagli Anni 60 gli astrofisici teorici hanno previsto che il raffreddamento del nucleo di una nana bianca può portare gli atomi che lo compongono a disporsi in un rigido reticolo ordinato. Proprio come in un cristallo. Un effetto che può avere conseguenze importanti sull'intera stella. Infatti, come l'acqua congelando cede energia all'ambiente circostante, la cristallizzazione dovrebbe provocare un rilascio di energia supplementare, rallentando il raffreddamento complessivo. Tenere conto di questo effetto nell'elaborare modelli teorici porta a modificare le età delle nane bianche, che dunque sarebbero più vecchie di quanto si è ritenuto finora. Esiste anche una dipendenza del fenomeno dalla struttura della stella. Se infatti l'ossigeno si è concentrato nel nucleo, la cristallizzazione ha liberato una quantità maggiore di energia di cui bisogna tenere conto nel calcolare l'età della stella. E la differenza non è minima, potendo arrivare anche a due o tre miliardi di anni. Ma un conto sono i modelli teorici, e un altro la loro verifica. Non è banale andare a vedere cosa succede dentro una nana bianca. Esiste però una tecnica che ha l'ambizione di rivelare cosa accade all'interno di una stella: l'astrosismologia. Un po' come succede per i terremoti che consentono ai geologi di studiare le profondità della Terra, riuscire a osservare le pulsazioni superficiali di uno di questi astri permetterà agli astrofisici di risalire alla loro struttura interna. Tutto sta a trovarne uno che si presti a questo tipo di osservazioni. Un bel problema: infatti le nane bianche pulsanti sono rare, e anche quelle note fino a poco tempo fa erano ancora troppo calde per avere un nucleo cristallizzato. Ma su The Astrophysical Journal un gruppo di ricercatori guidati da Don Winget, dell'Università del Texas a Austin, ha rivelato di aver scoperto una candidata eccellente. Si tratta di Bpm 37093, un'oscura stellina nella costellazione del Centauro che ha massa doppia di quella di una nana bianca media, e quindi ha già probabilmente un interno cristallizzato. Il suo studio darà la prima prova sperimentale di questo fenomeno esotico. Le prime misure sono appena iniziate. Si cerca di rivelare le deboli pulsazioni superficiali che hanno un periodo di circa dieci minuti. Non verrà usato un unico strumento, ma una rete di telescopi di medie dimensioni sparsi sulla superficie terrestre, che opereranno in successione, a staffetta, per garantire che Bpm 37093 non sia mai persa di vista durante le due settimane di raccolta delle misure. "Ma molto duro lavoro sarà necessario per tenere in considerazione tutti gli effetti possibili", osserva Gilles Fontaine, specialista di nane bianche dell'Università di Montreal. Si riferisce ai moti di convezione interni alla stella e alla presenza di strati esterni di idrogeno che potrebbero influenzare la pulsazione e nascondere o simulare la presenza di un nucleo cristallizzato. Don Winget riconosce le difficoltà. Ma ritiene che l'impiego del telescopio spaziale potrebbe essere decisivo. Infatti le osservazioni di Bpm 37093 che l'anno prossimo " Hubble" potrebbe compiere nell'ultravioletto consentirebbero di distinguere le pulsazioni di un vero nucleo cristallizzato da tutti i possibili effetti spuri. Gli astrofisici hanno dunque buone probabilità di comprendere il passato di oggetti misteriosi come le nane bianche. Una ricerca affascinante e utile: non dimentichiamo che anche il nostro Sole terminerà la sua esistenza proprio in questa forma. Marco Cagnotti
ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA
ECCO un esperimento che si può fare anche in casa con mezzi semplicissimi. Occorrente: 1) Una vaschetta trasparente, meglio se rettangolare, di plastica o vetro. 2) Una sorgente di luce che sia in grado di produrre un raggio luminoso piuttosto stretto. Funzionano egregiamente le torce elettriche con la possibilità di focalizzare il raggio luminoso, con altri tipi di torce è consigliabile mascherare con cartoncino o nastro isolante la maggior parte della lente, lasciando solo una apertura di circa un centimetro quadrato in corrispondenza del centro. Va bene anche un proiettore per diapositive. Per migliorare la qualità del raggio è possibile utilizzare una diapositiva completamente nera, non esposta, oppure un cartoncino fissato su un telaietto da diapositive. In entrambi i casi bisogna asportare con una taglierina una finestrella di un paio di millimetri di lato al centro della diapositiva. La diapositiva va inserita nel proiettore, non davanti alla lente. Si deve poi mettere a fuoco in modo da ottenere un raggio ben definito. 3) Qualche goccia di latte. Esecuzione. Per una buona riuscita dell'esperimento è necessario che l'ambiente sia in penombra. Riempite il contenitore di acqua. Accendete la sorgente luminosa e posizionatela in modo che il raggio di luce attraversi il liquido. Aggiungete, goccia a goccia, il latte finché il raggio luminoso diventa chiaramente visibile. Con questo semplice apparato è possibile osservare diversi fenomeni interessanti. Per prima cosa notiamo che se teniamo la sorgente luminosa al di sopra della vaschetta e proiettiamo il raggio di luce verso il basso, questo, quando raggiunge la superficie dell'acqua, cambia direzione. Se misuriamo gli angoli a partire dalla verticale rispetto alla superficie come mostrato in figura, l'angolo che il raggio rifratto forma nell'acqua è sempre più piccolo dell'angolo che il raggio incidente forma nell'aria. Questo effetto spiega perché guardando un bastone parzialmente immerso nell'acqua, questo appaia spezzato alla superficie del liquido. Man mano che la direzione del raggio luminoso in aria si avvicina alla superficie dell'acqua, l'angolo di rifrazione Or si avvicina ad un valore limite critico. E' interessante notare che il percorso seguito dalla luce è lo stesso sia che parta dall'aria e poi entri in acqua, sia che, al contrario, si propaghi inizialmente nell'acqua per poi emergere nell'aria. Lo si può verificare facilmente ponendo la sorgente luminosa sul fianco del contenitore, al di sotto della superficie dell'acqua, dirigendo poi la luce dal basso verso l'alto, fino a colpire la superficie. Per osservare la direzione del fascio luminoso nell'aria è opportuno intercettare il fascio utilizzando un piccolo cartoncino bianco. Si osservi che una parte della luce viene riflessa all'interno del liquido. Il raggio riflesso diventa progressivamente più luminoso man mano che la direzione del fascio iniziale si allontana dalla verticale, mentre il raggio rifratto, che si propaga in aria diminuisce di intensità. In particolare, se si pone la sorgente in modo che la luce in acqua formi con la verticale un angolo pari all'angolo critico, il raggio rifratto si propaga lungo la superficie. Se si aumenta ancora l'angolo fra la direzione della luce nel liquido e la verticale, tutta la luce verrà riflessa all'interno dell'acqua. L'interfaccia fra aria e acqua si comporta come uno specchio provocando riflessione totale. Questo fenomeno è alla base del funzionamento delle fibre ottiche. Pur essendo le fibre trasparenti, un segnale luminoso, generato ad una estremità, si propaga lungo la fibra senza uscire all'esterno. Se si fa in modo che l'angolo con cui la luce colpisce la superficie della fibra ottica sia maggiore dell'angolo critico, il segnale viene riflesso totalmente vero l'interno. In questo modo si ha pochissima dispersione ed è possibile trasmettere messaggi per decine di chilometri senza aver bisogno di costose amplificazioni. Ezio Maina Università di Torino
C'E' davvero incompatibilità tra l'analisi matematica e la "Divina Commedia", la chimica e il greco antico, la biologia e la letteratura? Ecco un'opera che ricompone la frattura tra gli studi umanistici e quelli scientifici: un filo conduttore che lega la classificazione sistematica alla storia del pensiero. E' un libro sia per gli umanisti amanti di cose della natura sia per i naturalisti appassionati di storia, è la chiave di lettura di quella materia che al primo approccio sembra la meno scientifica di tutte le scienze e che invece ne è l'elemento unificante: la sistematica, cioè l'opera classificatoria, che studia i rapporti tra individui e specie e generi e famiglie e così via, e che soddisfa il desiderio, innato nella mente dell'uomo, di "riconoscere" e "nominare". Il libro è nato da quella strana e affascinante comunione di anime che a volte esiste tra esseri umani di diverse generazioni. I due autori sono riusciti in una impresa non facile: trasformare il loro confronto dialettico di incontri e scontri con la scienza nel lavoro costruttivo di scrivere a due mani serenamente, rendendo semplici e spesso divertenti argomenti difficili e a volte oscuri. Il primo autore era noto nell'Ateneo torinese ai tempi dei suoi anni piemontesi perché sapeva elargire con entusiasmo la brillantezza del suo ingegno. La lontananza non l'ha spenta, anzi.