TUTTOSCIENZE 5 novembre 97


SCIENZE A SCUOLA. I TRENT'ANNI DI SATURNO 5 Il più grande razzo mai costruito Progettato dal tedesco Von Braun, padre delle V2. Il primo lancio nel '67
AUTORE: LO CAMPO ANTONIO
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, STORIA DELLA SCIENZA
ORGANIZZAZIONI: NASA, SATURNO 5
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D.T. Tutti i lanci del Saturno 5 (cronologia da Apollo 4 a Skylab 1)

QUEL giorno, al Centro spaziale Kennedy di Cape Canaveral, se lo ricordano ancora bene. Quando vennero scanditi i secondi finali del conto alla rovescia, al momento del "lift-off", sotto la piattaforma 39-A fu come veder apparire un'eruzione vulcanica. Alle 7 di mattina del 9 novembre 1967, tutta l'area della base spaziale si illuminò e un tremendo boato fece vibrare il suolo e tutte le strutture vicine come un terremoto. Se lo ricordano bene soprattutto i tecnici della rete televisvia americana Cbs, il cui tetto della cabina di ripresa, piazzato nella tribuna stampa a 5 chilometri e mezzo di distanza, crollò mentre il primo "Saturno 5", il razzo che doveva portare entro due anni uomini sulla Luna, si infilava attraverso le nubi, 30 secondi dopo il distacco da Terra. L'intensità del rumore fu paragonata all'eruzione del 1883 del vulcano Karakatoa, e l'onda di pressione generata dai 5 motori del primo stadio fu misurata a 1770 km di distanza dai sismometri di un centro di geofisica nello Stato di New York. Quella mattina di trent'anni fa iniziava ufficialmente la "missione Luna", poiché quello era il vettore in grado di portare in orbita terrestre un carico di 120 tonnellate (la capsula Apollo, il modulo lunare e il terzo stadio del razzo), e un'astronave (Apollo e modulo lunare) di 50 tonnellate verso la Luna. Quel lancio, di una missione definita "Apollo 4" si svolse senza equipaggio, e per la tecnologia dell'era spaziale fu un debutto memorabile. Il Saturno 5 era un capolavoro di Werner von Braun, ingegnere missilistico tedesco, passato con gli americani dopo la sconfitta nel secondo conflitto mondiale della Germania nazista, che aveva sfruttato le sue genialità per lanciare i missili-bomba V1 e V2 su Londra e altre città nemiche. Von Braun, quando alla Nasa, dal 1958, gli diedero carta bianca per costruire razzi a scopi civili, infilò un successo dietro l'altro. Il razzo che lanciò il primo satellite artificiale americano, l'"Explorer 1", von Braun lo aveva battezzato "Jupiter" (Giove), e siccome nel sistema solare il pianeta successivo è Saturno, von Braun chiamò "Saturn" il successivo progetto per realizzare un razzo lunare. Il programma, avviato nel 1960, vide dieci lanci di razzi "Saturno 1" che servirono per affinare le tecnologie di propulsione dei vari stadi, e per collocare in orbita carichi di 10 tonnellate. Fu poi sviluppato "Saturno 1-B", che inviò in orbita le prime "Apollo" con e senza equipaggio. Tutti i lanci furono un successo. Il Saturno 5 fece 13 lanci, tutti con successo, e fu poi abbandonato nel 1973, dopo essere stato usato per inviare in orbita il laboratorio "Skylab" . Ilmotivo era che i costi di lancio erano troppo alti, e del grande vettore andava perso tutto. In quegli anni la filosofia dei vettori recuperabili, con lo space shuttlein avvio di realizzazione, predominava. Oggi, visto quanto costa un volo dello shuttle, in molti della Nasa si lamentano di non aver salvato il vettore lunare, almeno per effettuare lanci periodici, poiché con un solo vettore di questo tipo si collocano in orbita carichi sei volte maggiori di quelli che oggi possono portare in orbita i vettori più potenti di Russia, Stati Uniti, Giappone ed Esa. Non a caso si progetta il riutilizzo del vettore russo "Energhija" collaudato due volte con successo nel 1987 e 1988, per avere nuovamente a disposizione un razzo dalle capacità del mitico "Saturno 5" delle imprese lunari " Apollo". Antonio Lo Campo - -------------------------------------------------------------------- MISSIONI SPAZIALI IN VIDEOCASSETTA - -------------------------------------------------------------------- Chi è appassionato di astronautica e vuole rivedere molti dei filmati più importanti e spettacolari degli ultimi cinque anni, non ha che da procurarsi «L'ultima frontiera», quinta videocassetta della serie «Storia della conquista dello spazio» curata da Renato Cepparo. Il video (Cinehollywood, 48 minuti) è un aggiornamento dal 1991 al 1996 dei precedenti quattro volumi che, partendo dai primi Sputnik, trattano tutta l'astronautica (pur con qualche lacuna sulle missione lunari Apollo). In questo ultimo video troviamo le missioni Tethered, la Mir, la riparazione del telescopio spaziale «Hubble», le sonde Ulisse, Galileo e Magellano, i satelliti Olympus, Soho, Ers, Sax e Meteosat.


SCIENZE A SCUOLA. I TRENT'ANNI DI SATURNO 5 Il più grande razzo mai costruito Progettato dal tedesco Von Braun, padre delle V2. Il primo lancio nel '67
AUTORE: LO CAMPO ANTONIO
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, STORIA DELLA SCIENZA
ORGANIZZAZIONI: NASA, SATURNO 5
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D.T. Tutti i lanci del Saturno 5 (cronologia da Apollo 4 a Skylab 1)

QUEL giorno, al Centro spaziale Kennedy di Cape Canaveral, se lo ricordano ancora bene. Quando vennero scanditi i secondi finali del conto alla rovescia, al momento del "lift-off", sotto la piattaforma 39-A fu come veder apparire un'eruzione vulcanica. Alle 7 di mattina del 9 novembre 1967, tutta l'area della base spaziale si illuminò e un tremendo boato fece vibrare il suolo e tutte le strutture vicine come un terremoto. Se lo ricordano bene soprattutto i tecnici della rete televisvia americana Cbs, il cui tetto della cabina di ripresa, piazzato nella tribuna stampa a 5 chilometri e mezzo di distanza, crollò mentre il primo "Saturno 5", il razzo che doveva portare entro due anni uomini sulla Luna, si infilava attraverso le nubi, 30 secondi dopo il distacco da Terra. L'intensità del rumore fu paragonata all'eruzione del 1883 del vulcano Karakatoa, e l'onda di pressione generata dai 5 motori del primo stadio fu misurata a 1770 km di distanza dai sismometri di un centro di geofisica nello Stato di New York. Quella mattina di trent'anni fa iniziava ufficialmente la "missione Luna", poiché quello era il vettore in grado di portare in orbita terrestre un carico di 120 tonnellate (la capsula Apollo, il modulo lunare e il terzo stadio del razzo), e un'astronave (Apollo e modulo lunare) di 50 tonnellate verso la Luna. Quel lancio, di una missione definita "Apollo 4" si svolse senza equipaggio, e per la tecnologia dell'era spaziale fu un debutto memorabile. Il Saturno 5 era un capolavoro di Werner von Braun, ingegnere missilistico tedesco, passato con gli americani dopo la sconfitta nel secondo conflitto mondiale della Germania nazista, che aveva sfruttato le sue genialità per lanciare i missili-bomba V1 e V2 su Londra e altre città nemiche. Von Braun, quando alla Nasa, dal 1958, gli diedero carta bianca per costruire razzi a scopi civili, infilò un successo dietro l'altro. Il razzo che lanciò il primo satellite artificiale americano, l'"Explorer 1", von Braun lo aveva battezzato "Jupiter" (Giove), e siccome nel sistema solare il pianeta successivo è Saturno, von Braun chiamò "Saturn" il successivo progetto per realizzare un razzo lunare. Il programma, avviato nel 1960, vide dieci lanci di razzi "Saturno 1" che servirono per affinare le tecnologie di propulsione dei vari stadi, e per collocare in orbita carichi di 10 tonnellate. Fu poi sviluppato "Saturno 1-B", che inviò in orbita le prime "Apollo" con e senza equipaggio. Tutti i lanci furono un successo. Il Saturno 5 fece 13 lanci, tutti con successo, e fu poi abbandonato nel 1973, dopo essere stato usato per inviare in orbita il laboratorio "Skylab" . Ilmotivo era che i costi di lancio erano troppo alti, e del grande vettore andava perso tutto. In quegli anni la filosofia dei vettori recuperabili, con lo space shuttlein avvio di realizzazione, predominava. Oggi, visto quanto costa un volo dello shuttle, in molti della Nasa si lamentano di non aver salvato il vettore lunare, almeno per effettuare lanci periodici, poiché con un solo vettore di questo tipo si collocano in orbita carichi sei volte maggiori di quelli che oggi possono portare in orbita i vettori più potenti di Russia, Stati Uniti, Giappone ed Esa. Non a caso si progetta il riutilizzo del vettore russo "Energhija" collaudato due volte con successo nel 1987 e 1988, per avere nuovamente a disposizione un razzo dalle capacità del mitico "Saturno 5" delle imprese lunari " Apollo". Antonio Lo Campo - -------------------------------------------------------------------- ------------------- MISSIONI SPAZIALI IN VIDEOCASSETTA - -------------------------------------------------------------------- ------------------- Chi è appassionato di astronautica e vuole rivedere molti dei filmati più importanti e spettacolari degli ultimi cinque anni, non ha che da procurarsi «L'ultima frontiera», quinta videocassetta della serie «Storia della conquista dello spazio» curata da Renato Cepparo. Il video (Cinehollywood, 48 minuti) è un aggiornamento dal 1991 al 1996 dei precedenti quattro volumi che, partendo dai primi Sputnik, trattano tutta l'astronautica (pur con qualche lacuna sulle missione lunari Apollo). In questo ultimo video troviamo le missioni Tethered, la Mir, la riparazione del telescopio spaziale «Hubble», le sonde Ulisse, Galileo e Magellano, i satelliti Olympus, Soho, Ers, Sax e Meteosat.


SCIENZE DELLA VITA. ECATOMBE IN MAURITANIA Virus uccide le foche monache Lo stesso di un'epidemia nel Mediterraneo
Autore: NESSI EMILIO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, MEDICINA
NOMI: VEDDER LIES
ORGANIZZAZIONI: @SEAL RESCUE AND RESARCH CENTRE , CNROP
LUOGHI: ESTERO, AFRICA, MAURITANIA

UNA massiccia moria per mesi ha colpito la colonia di foche monache sulla costa occidentale della Mauritania, lasciando sulle spiagge ben 200 esemplari morti. Per settimane i ricercatori del Seal Rescue and Research Centre di Pieterburen (Olanda), i biologi del Cnrop (Centre National de Recherches Oceanographiques et des Peches) di Nouadhibou (Mauritania) avevano controllato le coste alla ricerca dei corpi gettati a riva dall'alta marea. Una ecatombe senza eguali che nel giro di alcuni mesi aveva ridotto la colonia a soli 70 individui. Durante una di queste perlustrazioni compiute da un gruppo di ricercatori spagnoli, erano stati trovati, in alcune grotte, quattro cucciolotti ormai allo stremo delle forze. Denutriti e febbricitanti, furono immediatamente portati presso l'acquario di Cansado (un piccolo sobborgo di Nouadhibou) e affidati alle cure della dottoressa Lies Vedder. Nel giro di alcuni mesi, grazie alle premurose cure alle quali furono sottoposti, il loro peso era triplicato e l'alimentazione forzata non era altro che un brutto ricordo. Nel frattempo nei vari laboratori europei si erano intensificate le analisi per stabilire la causa che in così poco tempo aveva decimato questi splendidi mammiferi marini già minacciati di estinzione. Questa mortalità di massa, ricordava il professor Osterhous dell'Università Erasmus di Rotterdam (Olanda), aveva mostrato sintomi uguali a quella che si era verificata nel 1988 nei mari a Nord-Ovest dell'Europa. In quella occasione ben 20. 000 foche morirono a causa di un nuovo morbillivi rus chiamato " virus del cimurro delle foche". Nel 1990 un'altra moria colpì pinnipedi e cetacei nelle acque del Mediterraneo. Anche in questo caso si trovò che gli animali avevano avuto problemi respiratori: l'esame autoptico rivelò enfisema e polmoni congesti, segni evidenti da infezione da morbillivirus. La popolazione di foche monache era stimata nei primi mesi di quest'anno intorno ai 500 esemplari: 200 nel Mediterraneo (lungo le coste del Mar Egeo, in Grecia, in Turchia, Tunisia, Libia) e 270/300 lungo le coste della Mauritania. Il numero esatto è difficile da stabilire in quanto le foche conducono una vita di cui sono noti pochi particolari. Trascorrono infatti poco tempo sottocosta o a terra in grotte dove partoriscono e si prendono cura dei piccoli. Questo virus dunque, causa primaria dell'epidemia, si trasmette per via orale generalmente quando le foche si incontrano e si strofinano reciprocamente il muso fra loro. In questi giorni, dopo essere state vaccinate, due giovani foche monache sono state liberate sulle spiagge della riserva di Capo Blanco all'interno del Parco Nazionale Banc D'Arguin. Willie e Amerique, una femmina e un maschio del peso di 60 chilogrammi circa, portavano sul capo uno speciale trasmettitore satellitare che fornirà agli studiosi, per quattro mesi, preziose informazioni. Solo così si potrà studiare il loro comportamento e gli spostamenti in mare aperto. Ma all'orizzonte sembrano profilarsi altre nubi... Secondo il direttore del Parco Nazionale del Banc D'Arguin la massiccia pesca industriale compiuta da modernissime navi provenienti da ogni parte del mondo sta alterando la delicata catena alimentare di questi mari. Di contro la pesca è forse l'unica risorsa di questo Paese che esporta ogni anno tonnellate di pesce. Quale sarà il futuro delle foche monache? Certamente l'impegno internazionale sostenuto anche da un valido progetto offerto dalla Comunità europea e la volontà dei ricercatori mauritani a difesa di questi splendidi pinnipedi ci spinge a sperare in una ripresa dell'esiguo numero rimasto. Emilio Nessi


Sfida mondiale all'ultima stella In Cile l'Europa sta costruendo strumenti ancora più potenti
Autore: MIGNANI ROBERTO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, OTTICA E FOTOGRAFIA, TECNOLOGIA
NOMI: GIACCONI RICCARDO, TARENGHI MASSIMO
ORGANIZZAZIONI: ESO OSSERVATORIO AUSTRALE EUROPEO
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, CILE
NOTE: VLT Very Large Telescope

LE ricerche degli ultimi trent'anni hanno rivelato corpi celesti che emettono radiazione elettromagnetica (onde radio, raggi X, raggi gamma) al di fuori della regione ottica dello spettro. Captare le informazioni emesse a lunghezza d'onda diversa è necessario per comprendere meglio gli oggetti che si studiano. La differenza è la stessa che passa tra vedere un fotografia in bianco e nero e una a colori. Questo è l'importante concetto di "astronomia a tutto campo" . Ma le osservazioni fatte con i telescopi ottici non hanno perso importanza. Al contrario, rimangono essenziali per chiarire la natura di corpi celesti identificati ad altre lunghezze d'onda. Da che cosa dipendono le prestazioni di un telescopio? Fondamentalmente dalla sua capacità di raccogliere luce (quindi dalle sue dimensioni), dalla strumentazione di cui è dotato e, ultimo ma non meno importante, dal sito dove è collocato. A parità degli altri requisiti, la differenza di prestazioni dipende dalle dimensioni del telescopio. Costruire un telescopio di grandi dimensioni non è un problema banale dal punto di vista strettamente ingegneristico. Maggiore è la grandezza dello specchio primario (quello, cioè, che raccoglie la luce) maggiore sarà anche il suo peso e, di conseguenza, quello complessivo dell'intero telescopio. A parte le difficoltà insite nella realizzazione di uno specchio di grandi dimensioni, esso tenderebbe inevitabilmente a curvarsi sotto il suo stesso peso, causando una inaccettabile perdita nella qualità delle immagini. Per questo motivo, la corsa ai grandi telescopi ha subito un periodo di stasi negli Anni 70. Ora però nuove tecniche nella costruzione degli specchi hanno dato un impulso alla costruzione di telescopi di grandi dimensioni. Il problema del peso dello specchio può essere risolto utilizzando due strategie diverse. Una di queste consiste nell'accostare specchi più piccoli, e quindi di peso minore, creando una superficie continua di grandi dimensioni (specchio segmentato). Questa è la strategia adottata, ad esempio, per realizzare gli specchi da 10 metri dei telescopi gemelli Keck I e Keck 2, situati sul monte Mauna Kea nelle Hawaii. L'altra strategia consiste nel realizzare uno specchio singolo, ma sottile e dotato di un complesso sistema di pistoncini controllati da un computer, che esercitando una opportuna pressione nei punti strategici ne impediscono la deformazione. Questo è il sistema delle ottiche adattive di cui è munito il New Technology Telescope (Ntt) dell'Osservatorio australe europeo (Eso) a La Silla sulle Ande cilene. Proprio con questo sistema, l'Eso sta costruendo in Cile 4 nuovi telescopi da 8,2 metri. I 4 telescopi saranno in grado di operare sia singolarmente che simultaneamente raggiungendo una superficie equivalente a quella di un unico telescopio da 16 metri. A tale telescopio è stato dato il nome di Very Large Telescope (VLT). Il Vlt farà un ulteriore passo in avanti con l'impiego delle ot tiche adattive. Il principio è simile a quello delle ottiche attive (il sistema di pistoncini che regolano la forma dello specchio), ma applicato, questa volta, allo specchio secondario, cioè a quello che raccoglie la luce riflessa dallo specchio principale e la indirizza verso gli strumenti. Le ottiche adattive dovrebbero permettere di correggere le distorsioni delle immagini causate dalla turbolenza atmosferica locale inducendo distorsioni in senso opposto. Una delle altre novità sarà quella di poter controllare il telescopio direttamente dal centro dell'Eso a Garching (Germania) tramite comunicazioni satellitari. Questo sistema di controllo remoto è già stato sperimentato con successo negli ultimi anni con un altro telescopio dell'Eso: l'Ntt. Il Very Large Telescope (Vlt) sarà, quindi, il telescopio più grande e tecnologicamente più avanzato del mondo, lo strumento ideale per svolgere ricerca di punta agli inizi del nuovo millennio: consentirà agli astronomi di osservare e studiare oggetti molto più deboli di quanto mai osservato finora da Terra e, quindi, di spingere lo sguardo più lontano nel tempo per indagare più a fondo le origini dell'universo. A livello di prestazioni, il Vlt sarà in grado di competere con il Telescopio Spaziale "Hubble", ma a costi di molto inferiori. Le strutture del Vlt sono già in avanzata fase di costruzione sul Cerro Paranal, una montagna nel deserto cileno di Antofagasta a Nord di La Silla, scelta nel 1987 come sito astronomico ideale. Il Cerro Paranal e la regione circostante (in tutto circa 725 chilometri quadrati) vennero ufficialmente donati all'Eso dal governo cileno nel 1988. Tre anni più tardi incominciò la costruzione delle prime strutture dell'osservatorio con la rimozione di circa 300.000 metri cubi di roccia dalla cima della montagna. Purtroppo, la realizzazione del progetto ha corso seri rischi a causa di una serie di contese giudiziarie sui diritti di proprietà della montagna. Nel 1993 una famiglia cilena, Latorre, decise di fare causa all'Eso rivendicando la proprietà del Cerro Paranal. Pur non esistendo i presupposti legali per cui l'Eso possa esser chiamato in giudizio (dal 1964 il governo cileno garantisce all'Eso e alle sue proprietà, quale organizzazione internazionale, una sorta di immunità diplomatica) la vicenda ha causato seri problemi provocando anche, nel marzo 1994, l'intervento della polizia per imporre la sospensione a tempo indeterminato dei lavori. Fortunatamente, il governo cileno ha convenuto sull'opportunità di evitare un incidente diplomatico raggiungendo un accordo tra i rappresentanti legali della famiglia Latorre che prevede un indennizzo di circa 10 milioni di dollari. Ora che tutte le vertenze legali sono risolte, la realizzazione prosegue a pieno ritmo e sono già state montate le strutture che ospiteranno i 4 telescopi. Nel dicembre scorso il sito del Vlt è stato ufficialmente inaugurato nel corso di una cerimonia svolta alla presenza del presidente cileno, Eduardo Frey e dei vertici dell'Eso, tra cui il direttore, Riccardo Giacconi e il responsabile del progetto, Massimo Tarenghi. Secondo il programma, il primo dei 4 telescopi dovrebbe diventare operativo per la fase di test per l'agosto del prossimo anno e, da solo, diventerà subito il più grande telescopio dell'emisfero australe e il secondo in assoluto dopo i due Keck. Gli altri 3 telescopi dovrebbero seguire a scadenza annuale. L'astronomia europea sarà pronta, così, a inaugurare il nuovo millennio con il telescopio più grande del mondo. Roberto Mignani Max Planck Institut, Garching


SCIENZE DELLA VITA. NUOVI FARMACI C'è un'arma contro il virus dell'influenza
Autore: BUONCRISTIANI ANNA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

MAL di testa, febbre, gola che brucia, muco nasale così abbondante da rendere difficile la respirazione... Chi non conosce i fastidiosi sintomi che accompagnano l'influenza? Un farmaco già sperimentato sull'uomo ci dà ora la speranza di poterli alleviare e di combattere così una malattia che non solo è noiosa, ma in certe persone, specialmente se anziane, può anche provocare serie complicazioni respiratorie e cardiache. Un gruppo di ricercatori ha sperimentato gli effetti che una sostanza detta zanamivir ha sugli influenzati. La malattia è causata da un virus grande un decimillesimo di millimetro. Esso al centro è formato da una spirale di un solo acido nucleico, l'Rna, circondato da un rivestimento proteico. E' in base alla composizione di quest'insieme che i virus influenzali sono classificati nei tipi A, B e C, ben noti a chiunque legga un giornale o ascolti radio e televisione nei periodi delle epidemie. Qualcuno si ricorderà però di aver notato, oltre alle lettere che indicano i tipi, delle altre, H e N. Queste specificano i sottotipi e sono le iniziali inglesi di due glicoproteine, l'emagglutinina e la neuraminidasi, conficcate come in un puntaspilli nella membrana che avvolge il virus. Come tutti gli altri virus, anche quello dell'influenza per riprodursi deve entrare in una cellula ospite che gli fornisca quel qualcosa che gli manca. Alla cellula il virus aderisce per mezzo dell'emagglutinina che ha sulla propria superficie: forma dei legami chimici, in cui entrano in gioco residui di acido sialico presenti sulla membrana della cellula ospite. Quando il virus si è replicato, i "figli" sono anch'essi attaccati alla membrana cellulare: affinché possano essere liberati e quindi messi in grado di diffondersi, è necessario che i legami con l'acido sialico vengano rotti. A questo scopo entra in gioco la neuraminidasi, enzima il cui nome viene dal fatto che l'acido sialico è un derivato dell'acido neuraminico. Gli studiosi pensano che essa non si limiti a far uscire i virus dalle cellule, ma che li aiuti anche a muoversi nel muco che riveste l'apparato respiratorio, facendoli diffondere più facilmente. Visto che per la replicazione del virus sono importanti i ruoli dell'enzima, i ricercatori hanno deciso di studiare sostanze in grado di metterlo fuori uso. Tra queste, è efficace lo zanamivir, la cui molecola assomiglia molto a quella dell'acido sialico. La neuraminidasi virale viene ingannata, e si rivolge allo zanamivir come se fosse l'acido sialico da aggredire: anzi, ha per il farmaco un'affinità addirittura maggiore. I virus rimangono così attaccati alla cellula ospite, e l'infezione è circoscritta. Finora come terapia contro l'influenza ci sono gli agenti antivirali amantadina e rimantadina, efficaci, però, solo su virus di tipo A e con antipatici effetti collaterali. Per combattere la malattia quindi non resta che prevenirla con la vaccinazione, solo parzialmente efficace a causa dell'estrema variabilità dei ceppi del virus. A questo proposito, gli epidemiologi sono in allarme perché un virus influenzale che finora non aveva mai infettato l'uomo è apparso di recente a Hong Kong e ha ucciso un bimbo di tre anni. La paura è che possa svilupparsi su scala mondiale una nuova epidemia causata da un virus contro il quale non si possiedono anticorpi: un po' come la "spagnola", che meno di ottant'anni fa uccise più di venti milioni di persone. Si sente dunque ancora di più la necessità di un farmaco valido contro ogni tipo di virus influenzale. Lo zanamivir è stato sperimentato in Europa e nel Nord America da ricercatori sia universitari sia appartenenti a una multinazionale farmaceutica. Dopo la sua somministrazione nel naso per mezzo di uno spray, sintomi come febbre, congestione nasale e tosse durano meno che nelle persone non trattate. Inoltre i casi di complicazione della malattia sono minori e non ci sono effetti collaterali spiacevoli. Si pensa che il farmaco possa entrare in commercio negli Stati Uniti nel 1999. Anna Buoncristiani


SCIENZE DELLA VITA. PREVENZIONE Le noci allontanano il cardiologo Con sostanze che proteggono aorta e coronarie
Autore: TRIPODINA ANTONIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

ANCHE le noci aspirano a "togliere il medico di torno", come le mele, che peraltro non hanno alcun merito del genere scientificamente documentabile. Le virtù salutistiche delle noci derivano loro dall'essere ricche di l-arginina, un aminoacido necessario alla sintesi di ossido nitrico da parte delle cellule dell'endotelio vasale. L'endotelio, costituito da un unico strato di cellule, è la tonaca che tappezza i vasi, interponendosi tra il sangue circolante e le sottostanti fibre muscolari lisce. Fino a non molto tempo fa era considerata una barriera priva di qualsiasi attività propria. Un articolo comparso sulla rivista inglese "Nature" nel 1980 ha modificato radicalmente questo concetto. In questo articolo, entrato ormai nella storia della medicina, Furchgott e Zawadadzki hanno descritto la prima dimostrazione sperimentale dell'esistenza di un fattore vasodilatante prodotto dell'endotelio. Questo fattore da loro denominato Edrf (Endothelium Derived Relaxing Factor) è stato in seguito identificato con l'ossido nitrico (NO). Questa scoperta ha innescato una vera rivoluzione culturale. Da allora la ricerca intorno alla "funzione endoteliale" si è enormemente dilatata ed ha portato a una completa revisione dell'inquadramento delle vasculopatie e della loro terapia. Ora sappiamo che l'endotelio, ben lungi dall'essere una membrana inerte, si comporta come un organo "paracrino", cioè capace di una secrezione di tipo endocrino locale, in grado di modulare il tono vascolare attraverso la produzione di sostanze vasodilatanti (l'ossido nitrico, la prostaciclina, il fattore endoteliale ad azione iperpolarizzante) e di sostanze vasocostrittrici (la prostaglandina H2, il trombossano, l'angiotensina II, l'endotelina, il vasocostrittore più potente che si conosca). Il fisiologico equilibrio fra queste sostanze permette di mantenere un flusso sanguigno ottimale. L'ossido nitrico, che è il fattore maggiormente studiato, ha dimostrato di svolgere un ruolo essenziale non solo nel regolare il tono vascolare, ma anche nell'inibire la proliferazione e la migrazione delle cellule muscolari lisce, l'adesione e l'aggregazione piastrinica, la permeabilità delle pareti vasali a livello di microcircolo: tutte azioni che antagonizzano i processi attraverso cui si instaurano le lesioni aterosclerotiche. Come già detto, l'ossido nitrico è prodotto dalle cellule dell'endotelio a partire dalla l-arginina, attraverso l'azione dell'enzima ossido nitrico-sintetasi. La capacità dell'endotelio di produrre questa sostanza è ostacolata dall'aterosclerosi, dall'ipertensione, dal diabete, dall'ipercolesterolemia, dal fumo, dall'età avanzata. In questi casi, di conseguenza, si ha il sopravvento degli stimoli che determinano vasospasmo e aumentata aggregazione piastrinica e una ulteriore propensione verso quelle patologie in cui questi processi giocano un ruolo determinante: si pensi appunto all'angina instabile e all'infarto del miocardio. La "scoperta" dell'ossido nitrico ha avuto inoltre il merito di chiarire le modalità d'azione dei nitroderivati, i farmaci più antichi nel trattamento del dolore anginoso: quest'anno ricorre il centotrentesimo anniversario della pubblicazione su "The Lancet" dell'articolo di Sir Thomas Lauder Brunton sull'impiego del nitrito di amile nell'angina pectoris (1867). Ormai è accertato che queste sostanze sono per se stesse inattive e che possono svolgere la loro benefica azione grazie alla loro conversione (attraverso sistemi enzimatici ancora non del tutto noti) in ossido nitrico. L'osservazione che i nitrati possono supplire ad una carenza di ossido nitrico endogeno ha attribuito loro un ruolo terapeutico nuovo, molto più ampio di quello finora immaginato e in buona parte ancora da esplorare. Anche l'aggiunta di l-arginina nella dieta mostra analoghe proprietà di supplenza nella produzione di ossido nitrico: in conigli con alti tassi di colesterolo si è riusciti a dimostrare un ripristino delle risposte vasodilatatrici e un rallentamento nell'evoluzione aterosclerotica nell'aorta, nelle coronarie e nelle carotidi. E' possibile ipotizzare che anche nell'uomo una dieta ricca di l-arginina (per esempio, dieci noci al giorno) possa produrre gli stessi benefici effetti. Antonio Tripodina


SCIENZE DELLA VITA. INIEZIONI Impotenza? Prova con la prostaglandina E-1 Un disturbo che colpisce il 13 per cento degli italiani, giovani inclusi
Autore: PELLATI RENZO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

UNA stima della Società Italiana di Andrologia rivela che nel nostro Paese, ogni anno, si spendono 3000 miliardi per consultare cartomanti e occultisti su problemi della sfera sessuale. Questa cifra dà un'idea della vastità del fenomeno e giustifica l'importanza di affrontare il problema in modo razionale. Ecco perché tre società scientifiche (Andrologia - Urologia - Medicina generale) hanno intrapreso uno studio epidemiologico per verificare la reale incidenza del fenomeno in Italia (2010 soggetti sottoposti a indagine). Sebbene la disfunzione erettile (la cosiddetta impotenza) non sia una patologia "grave", l'impatto sulla qualità della vita è negativo in quanto incide sulle relazioni famigliari ed interpersonali. Si è visto che il deficit erettivo riguarda il 12,8 per cento degli uomini italiani (circa tre milioni) e il disturbo colpisce non solo persone in età avanzata, ma anche di età giovanile (2 per cento tra 20-39 anni) e media (16 per cento tra 40-59 anni). I fattori coinvolti sono vari: diabete, fumo, stress, cardiopatie, per non dire delle cause organiche tipo interventi chirurgici (prostata), traumi spinali, anomalie ormonali, terapie protratte con farmaci antidepressivi, antipsicotici, per cui è essenziale la collaborazione fra medico generico e specialista (andrologo, urologo) per inquadrare il paziente nel modo migliore. Oggi la ricerca ha fatto un passo avanti grazie alla possibilità di utilizzare la prostaglandina E-1 per iniezione intracavernosa. Ne ha parlato l'autorevole rivista scientifica "New England Journal of Medicine". Come è noto, le prostaglandine sono sostanze a struttura complessa (derivate dagli acidi grassi insaturi a 20 atomi di carbonio) prodotte nella zona midollare del rene. Poiché sono numerose, con azioni biologiche diverse, vengono indicate con una lettera dell'alfabeto per identificare la serie e il tipo di formula. La prostaglandina E-1 quindi è una sostanza prodotta dal nostro organismo ad azione vasodilatatrice, particolarmente indicata quando il quantitativo di sangue che perviene al pene è scarso, oppure il deflusso è eccessivo. La somministrazione dall'esterno rappresenta una terapia sostitutiva (va a colmare una produzione carente da parte dell'organismo). Sono sufficienti piccolissime dosi somministrate con una microiniezione nei corpi cavernosi del pene per riportare alla normalità il meccanismo erettivo alterato: poiché la sostanza viene immediatamente degradata in sede di iniezione, non va in circolo e non ha effetto su altri organi. Un grosso vantaggio è venuto dagli autoiniettori semi-automatici, con i quali è possibile caricare prima il dosaggio adeguato e successivamente effettuare la somministrazione. Le dosi, le indicazioni e le controindicazioni devono essere valutate dal medico specialista, il quale darà le istruzioni necessarie per ridurre i rischi di pungere zone non adatte (setto intercavernoso e uretra) ed evitare gli effetti collaterali come le erezioni eccessivamente protratte e dolorose (priapismo). Gli studi riportano ormai oltre ottomila pazienti controllati che dimostrano l'efficacia della metodica che consente, dopo un periodo di rodaggio, di ripristinare l'erezione spontanea. Renzo Pellati


ASTRONOMIA Sguardi sull'universo I telescopi Keck, occhi da 10 metri
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, OTTICA E FOTOGRAFIA, TECNOLOGIA
NOMI: KECK WILLIAM, NELSON JERRY, HORN D'ARTURO GUIDO, RODDIER FRANCOIS, CHAFFEE FRED
ORGANIZZAZIONI: KECK OBSERVATORY
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, HAWAII
TABELLE: D. Ottica intelligente (Caratteristiche tecniche di un telescopio)

IL Cerro Paranal, sulle Ande del Cile, con il Vlt, Very Large Telescope, 4 specchi da 8 metri equivalenti a un unico specchio da 16, diventerà il paradiso degli astronomi qualche anno dopo il Duemila. Ma per adesso il paradiso è nelle isole Hawaii, sulla cima del vulcano Mauna Kea. Qui sono da poco entrati in servizio due telescopi da 10 metri ciascuno: "Keck 1" (inaugurato nel '93) e " Keck 2" (1996), dal nome del mecenate che li ha finanziati, William Keck. E presto saranno pronti il telescopio nazionale giapponese " Subaru" da 8,3 metri di diametro e "Gemini" da 8,2 metri, una collaborazione tra Usa, Canada, Gran Bretagna, Brasile, Argentina e Cile (dove sorgerà uno strumento identico, in modo che gli astronomi possano avere sott'occhio l'emisfero boreale e l'emisfero australe). I telescopi Keck e i suoi compagni si trovano in mezzo all'oceano Pacifico a 4200 metri di quota. Nessun altro osservatorio astronomico sta così in alto. Il Mauna Kea svetta sopra metà dell'atmosfera. Per gli astronomi l'aria è un nemico perché la sua turbolenza disturba fortemente le immagini. Eliminarne la metà, quindi, è un grande vantaggio, anche se ha i suoi inconvenienti: lassù l'ossigeno scarseggia, mettendo in difficoltà i motori delle auto e rendendo faticosa la respirazione dei ricercatori, con conseguenti mal di testa. Ma per poter scrutare più lontano nell'universo si sopporta questo e altro. E poi i pregi del Mauna Kea sono anche altri. Una inversione termica trattiene le nubi tra i duemila e i tremila metri. Superato lo strato di nuvole, il cielo è sereno per 300 notti all'anno. Le due cupole dei telescopi Keck sono unite da un edificio basso e lungo in quanto gli astronomi non si accontentano di usare questi strumenti indipendentemente l'uno dall'altro ma vogliono anche farli funzionare come un grande interferometro: facendo incrociare i fasci di luce provenienti dai due specchi, si ottiene in pratica uno strumento il cui potere di risoluzione, cioè la capacità di separare punti vicini, è equivalente a quella di un telescopio da 85 metri, qual è la distanza tra i due Keck. Così, grazie all'ampiezza record degli specchi e al loro uso come interferometro (sarà messo a punto nei prossimi mesi), questo strumento è oggi di gran lunga l'occhio più potente a disposizione degli astronomi: può spingersi fino a 10-12 miliardi di anni luce, cioè quasi ai confini del cosmo, che dovrebbero trovarsi sui 15 miliardi di anni luce. La concezione dei Keck risale al 1977 e si deve a Jerry Nelson, dell'Università di California. Allora la tecnologia non era in grado di fornire specchi da dieci metri di diametro lavorati con precisione ottica, cioè al decimillesimo di millimetro. Nelson pensò dunque di accostare 36 specchi esagonali da 1,8 metri, applicando un'idea già proposta dall'italiano Guido Horn D'Arturo negli Anni 30. L'insieme dei 36 specchi mantiene una perfetta curvatura sotto la spinta di tre pistoni controllata in tempo reale da un computer che elabora i dati fornitigli da 168 sensori. In questo modo gli specchi conservano la giusta posizione entro lo scarto massimo di 5 milionesimi di millimetro. La superficie di raccolta della luce raggiunge i 76 metri quadrati, 150 mettendo insieme i due strumenti, da confrontare con i 20 dello storico telescopio di Monte Palomar. Diventano così osservabili stelle dieci miliardi di volte più deboli di quelle al limite della visibilità a occhio nudo. Ognuno dei due telescopi pesa 300 tonnellate, le cupole che li proteggono sono alte 25 metri. Il tutto al prezzo, non modico, di un miliardo di dollari: tre quarti offerti dalla Keck Foundation, un quarto fornito dall'Università della California e dal Caltech. L'isola ha due vulcani principali. Il Mauna Kea dorme da migliaia di anni, il Mauna Loa è in attività permanente. All'Osservatorio si sale passando per un colle tra i due crateri. Da una foresta di eucalipti si sale alla prateria di Parker Ranch e di qui all'arido deserto della cima. Le indicazioni sono scarse, la strada è poco più di una pista, 25 chilometri di terra battuta e soltanto gli ultimi due chilometri asfaltati, perché la polvere disturberebbe le osservazioni. Il primo ad apprezzare la qualità di questo balcone sull'universo fu il famoso astronomo americano Gerard Kuiper, che già nel 1964 pensò di mettervi un piccolo telescopio per osservare i fenomeni meteorologici di Venere, Marte, Giove e Saturno. Nel 1979, sul picco più alto, fu installato il primo grande telescopio, un riflettore da 3,6 metri frutto di una colaborazione franco-canadese. Questo strumento è tuttora competitivo grazie alla sua ottica adattiva: le turbolenze dell'aria vengono analizzate 1000 volte al secondo e in tempo reale un computer provvede a restaurare le immagini correggendo, cento volte al secondo, la forma di uno specchietto largo 80 millimetri e spesso 2. Grazie a questa tecnologia, derivata da ricerche fatte per il progetto dello "scudo spaziale" voluto da Reagan, ricerche allora sotto segreto militare ma declassificate dopo la dissoluzione dell'Urss, qualche settimana fa Francois Roddier è riuscito a osservare le eruzioni dei vulcani di Io, uno dei quattro maggiori satelliti di Giove. Qual è il ruolo dei grandi telescopi della nuova generazione in rapporto al telescopio spaziale "Hubble" e al suo successore, che potrebbe diventare operativo intorno al 2010? Fred Chaffee, direttore del Keck Observatory, non ha dubbi: la capacità di raccogliere grandi quantità di luce per tempi molto lunghi, cosa necessaria se si deve ottenere lo spettro di sorgenti debolissime, rimarrà sempre il punto di forza dell'astronomia fatta dal suolo. Il telescopio spaziale è insuperabile nell'avvistare gli oggetti celesti più remoti, ponendo nuovi problemi agli astronomi; ma per approfondire le ricerche e risolvere i problemi occorrono i grandi telescopi terrestri. In ciò Mauna Kea ha ancora davanti a sè alcuni anni di dominio assoluto, poi il testimone passerà al Vlt dell'Osservatorio australe europeo. Il primo dei suoi 4 telescopi viene montato proprio in questi giorni. Piero Bianucci


SCIENZE DELLA VITA. ETOLOGIA DELLO STALLONE Carattere, potenza, bellezza La vita di branco e lo stress dell'allevamento
Autore: BURI MARCO

ARGOMENTI: ETOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

SE vi è capitato di osservare dei cavalli selvaggi vi sarete forse accorti che nel loro placido modo di brucare conservano un attento controllo su ciò che accade intorno a loro. Guardando meglio possiamo notare che uno, in particolare, è più vigile e reattivo: lo stallone. Nell'organizzazione sociale del cavallo libero, infatti, un singolo stallone è dominante sul suo branco. Le femmine del gruppo, spesso meno di sei, si dividono in "matriarca", che in genere è la favorita, e le altre, che sono sottomesse anche alla fattrice prediletta. Da dove proviene il fascino dello stallone? Lo stallone esprime, esaltandole, tutte le caratteristiche peculiari del cavallo. L'essenza di questo animale ha radici antichissime: giunta inalterata ai giorni nostri, si riflette in ogni suo movimento. Nevrilità, carattere e potenza si delineano nel suo comportamento, sono racchiusi nella sua mole per esplodere all'improvviso in forme di vitalità sempre diverse. E' sufficiente osservare il preciso e possente disegno dei suoi muscoli per riportarci a galoppate nelle praterie, nelle steppe, nei deserti. Basta fissare la fulgida vivacità del suo sguardo per trovarci immersi nella profonda libertà dell'essere e stupirci di come solo questo animale sia un frammento di storia che vive accanto a noi. Cerchiamo ora di capire i suoi comportamenti più comuni e più segreti. I cavalli sono in natura gregari e sociali perché in questo modo aumenta la sicurezza della loro sopravvivenza sia per la distribuzione del cibo sia per ridurre il pericolo dei predatori. Lo stallone è molto aggressivo verso altri maschi maturi che si avvicinano alle femmine e ai piccoli del suo nucleo familiare, in special modo durante il periodo del calore. Il maschio dominante galoppa intorno al gruppo tenendo le cavalle e la prole nel branco, e proteggendoli da chi li aggredisce o da un altro stallone che si avvicina. Galoppa in cerchio con orecchie basse, mento esteso in avanti, muovendo la testa su e giù per incutere timore agli avversari. Al momento di un eventuale attacco da parte dell'altro maschio si ingaggia un vero incontro di lotta con impennate, morsi, sgroppate e calci diretti all'avversario. Il vincitore continua a dominare oppure si alterna al comando. Lo stallone rimane per anni con le sue femmine. I puledri sono svezzati dalle fattrici verso i nove mesi di età. Spesso, però, lo "yearling" continua a stare vicino alla madre per più tempo, specialmente se femmina; perché i maschi verso i diciotto mesi raggiungono la pubertà e, se intraprendenti sessualmente, possono venire scacciati dal branco dallo stallone dominante. Così alcuni maschi giovani formano un loro gruppo di scapoli o con altre femmine giovani fuoriuscite anch'esse dal nucleo originario. Questi maschi sono in attesa comunque di subentrare a qualche stallone vecchio o formarsi un proprio gruppo familiare. Se le riserve di cibo sono abbondanti, più gruppi familiari si radunano formando branchi anche molto numerosi. Gli stalloni tendono a marcare un territorio che è da loro difeso. Lo fanno molto spesso generalmente urinando dove altri hanno già deposto le loro urine e accumulando le feci in una zona ben delimitata. Questi sono messaggi di controllo per gli altri soggetti del branco o per cavalli esterni che passano in quella zona. Tutti i cavalli del gruppo rotolandosi sul terreno si impregnano di questi odori che danno quindi un elemento di riconoscimento olfattivo al branco stesso. L'approccio o corteggiamento dello stallone si manifesta con l'ispezione olfattiva e tattile della femmina (lipcurl), dapprima a livello generale e poi dei suoi genitali esterni, accompagnata, a volte, da leggeri morsi, sbruffi respiratori e vocalizzi brevi ed intensi. La risposta biochimica di questi atti è nella capacità di produzione, da parte dei testicoli, di ormoni androgeni quali testosterone, diidrotestosterone e androstenedione. Caratteristica peculiare dei maschi della razza equina è la presenza, anche, di grandi quantità di estrogeno. La fase del corteggiamento, molto importante ma a volte sottovalutata, può durare fino a 15-20 minuti prima che lo stallone sia pronto alla monta vera e propria con piena erezione e contrazione dei muscoli della groppa come preparazione al salto. Con l'avvento delle tecniche di inseminazione artificiale, per concreti motivi di ordine gestionale degli stalloni, si sono venuti a creare, a volte, disturbi del naturale atteggiamento del maschio. L'uso della vagina artificiale può interrompere bruscamente quella catena di atti utili al normale controllo, anche psicologico, della manifestazione sessuale corretta. Lo stallone può soffrire, così, di una serie di patologie comportamentali che tendono ad inibirne l'attività riproduttiva. L'eccitazione eccessiva, per esempio, si riscontra quando l'animale non ha tempo di conoscere a fondo l'ambiente che lo circonda e le cavalle che deve coprire. Reagisce così con grande eccitazione, forte libido ma senza sicurezza e serenità nell'approccio sessuale. Ciò può provocare eiaculazioni con numero più basso di spermatozoi attivi e quindi diminuzione della fertilità. Altra causa è la mancanza di libido derivante spesso da un pesante sfruttamento dello stallone. La fretta o l'imperizia dell'uomo nelle monte controllate, a volte è causa di traumi locali che provocano reazioni di insofferenza verso l'atto sessuale e il disinteressamento all'approccio con le femmine. Anche l'eccessiva aggressività verso altri cavalli e persone, è in genere collegata all'isolamento a cui lo stallone è costretto per la maggior parte del tempo nella sua vita di allevamento. A tutto ciò si può ovviare rimettendolo in libertà per un certo periodo affinché riprenda una vita di relazione più naturale con femmine, altri cavalli ed ambiente circostante. Probabilmente la strada futura per la miglior gestione degli stalloni negli allevamenti, sarà nell'accettare la tecnologia che si affaccia prepotentemente nel campo biologico, fatta salva la serietà negli intenti e nell'applicazione pratica. Dall'altra parte occorrerà approfondire la conoscenza e il rispetto della natura di questo animale. Solo un giusto insieme di questi approcci potrà conservare intatto il fascino, frutto di potenza e bellezza, che ha accompagnato lo stallone in tutta la sua evoluzione. Marco Buri


SCIENZE DELLA VITA. CULTIVAR IN RIPRESA Ritorna il vecchio castagno, anche transgenico Un albero che, oltre a produrre frutti, ha fornito nei secoli un prezioso legname
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
NOMI: BOUNOUS GIANCARLO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

E'tempo di castagne, da sempre considerate come un frutto prezioso, esportate dai romani al di là delle Alpi, alimento importante, prima che fosse importata la patata, per l'elevato valore nutritivo. Sono composte di amido, zuccheri e una piccola percentuale di sostanze azotate, di grassi, di fosforo e sono ricche di vitamine B e C. Sono state in passato alimento integrativo o sostitutivo del grano grazie alla farina che se ne ricavava o come frutti da minestra al pari dei legumi, specialmente della fava. Per il consumo oggi si impiegano le cultivar note come Marroni, di cui esistono vari tipi, da quelle fiorentinesi a quelle di Pavullo, di Chiusa Pesio, di Cervasca, di Spoleto, di Avellino. L'albero di castagno ha un tronco corto ma possente, con rami che si espandono armoniosamente rendendo la chioma imponente; può raggiungere trenta metri di altezza, fino a quindici di circonferenza e vivere oltre mille anni. Oltre al cibo il castagneto ha fornito all'uomo una incredibile quantità di attrezzi da lavoro. E' ancora facile vedere case rurali con tavole di castagno di lunghissima durata perché il castagno è resistentissimo alle intemperie. Con la corteccia si costruivano grondaie, canali per condurre l'acqua agli orti, mentre i tronchi più vecchi sono stati usati come travi per tetti, o per fare madie, porte, pavimenti, piatti, secchielli, mortai, ciotole. La coltura del castagno ha conosciuto, dopo un grande favore, un periodo di declino e di abbandono in tutta l'Europa per effetto del cancro corticale causato dal parassita fungino Endothia parasitica e soltanto recentemente ha mostrato segni di ripresa. Si stanno ripristinando vecchi impianti e realizzando nuovi frutteti anche utilizzando ibridi parzialmente resistenti alle malattie. In tale contesto - afferma Giancarlo Bounous dell'Università di Torino, uno dei massimi studiosi di questa specie - il miglioramento genetico riveste un ruolo fondamentale per ottenere nuove cultivar di qualità per quanto concerne il frutto e il legname. Ovviamente le finalità del miglioramento genetico del castagno sono funzionali alla destinazione del prodotto, frutto o legno, e della tecnologia adottata nel processo produttivo: meccanizzazione della raccolta, prodotto venduto fresco o trasformato. Le risorse genetiche derivano essenzialmente da otto specie del genere Castanea tra cui la C. sativa (castagno europeo) di cui esistono estese foreste impiantate nel corso di millenni che si estendono dal Caucaso attraverso Turchia, Grecia e Paesi balcanici all'Italia, la Francia, la Spagna, il Portogallo e l'Inghilterra meridionale. Anche se la C. sati va è sensibile al mal dell'inchiostro e al cancro corticale, esistono genotipi con particolare resistenza al fungo. Sono disponibili copiose e varie risorse genetiche in molte regioni del nostro Paese, vi è però il rischio di perderle; quindi si impone la necessità della conservazione per mantenere geni e sistemi genetici di pregio. In Italia il problema è complicato dal fatto che sussistono centinaia di nomi, sinonimi e omonimi di varietà selezionate per le peculiari qualità delle castagne. Quindi il lavoro da affrontare è moltissimo; tuttavia negli ultimi anni sono stati avviati programmi di selezione basati su tecniche avanzate quali la selezione precoce, l'impiego di marcatori genetici, le mappe genomiche, gli incroci di ritorno e la selezione ricorrente. E ci sono anche tecniche per ottenere piante transgeniche. Elena Accati


SCIENZE DELLA VITA. NEL SALENTO Una rarità botanica: la Centaurea
Autore: CARTELLI FEDERICO

ARGOMENTI: BOTANICA
ORGANIZZAZIONI: SOCIETA' BOTANICA ITALIANA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

SULL'"Informatore botanico italiano" (quadrimestrale della Società Botanica Italiana), è stato segnalato il primo ritrovamento nel nostro Paese di "Centaurea pumilio L.", pianta catalogata come rarità europea su tutti i bollettini botanici. La specie esotica è tipica della regione mediterranea orientale (Turchia) e delle coste Nord-africane. Il ritrovamento, risalente comunque a diversi anni fa prima che fosse ufficializzato dal mondo scientifico, è avvenuto lungo il litorale ionico meridionale della penisola salentina. La pianta è un'asteracea perenne la cui altezza varia da quattro a venti centimetri. Le foglie basali picciolate, in rosetta, hanno consistenza carnosa; mentre i capolini, di due-tre centimetri di diametro, sono caratterizzati da squame con margine cartilaginoso. Ogni capolino possiede due tipi di fiori tubulosi: quelli esterni, sterili e più lunghi, sono roseo-lillacino; i fiori interni invece, fertili e più corti, sono biancastri con gli apici delle antere di colore violaceo. Un censimento ha calcolato la consistenza attuale della "Centaurea pomilio L." in circa 500 individui, di cui almeno un terzo di notevoli dimensioni, distribuiti su una superficie di quasi 2000 metri quadrati. Gli individui giovani, presenti con alta percentuale (80%), dimostrano un'ottima vitalità della popolazione. Il futuro di questa pianta, la cui fioritura inizia alla fine di aprile e dura per tutto agosto, è però incerto. L'area su cui è stata rinvenuta è soggetta a continui fenomeni erosivi. L'estremo litorale ionico-salentino è infatti costituito, in prevalenza, da un substrato sabbioso di origine sedimentaria che poggia su calcareniti facilmente degradabili per l'azione incessante del vento e del mare. Si aggiunga che la zona del ritrovamento, specie durante la stagione estiva, è sottoposta a una consistente frequentazione turistica che spesso, involontariamente, è causa di danno per l'ambiente. Attualmente, non si sa come sia sorta la stazione salentina con gli esemplari di Centaurea. Sono in corso studi biosistematici su campioni per stabilire se si tratta di una stazione relitta oppure di una recente introduzione. Federico Cartelli


SCIENZE DELLA VITA. MEDICINA Il mal di testa ora si può vedere Una nuova tecnica permette di studiare l'emicrania
Autore: PINESSI LORENZO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Registrazione di un attacco di emicrania nella fase acuta e nei giorni seguenti (Brain Mapping)

L'emicrania è una malattia diffusa e spesso di difficile diagnosi: in mancanza di alterazioni osservabili, il medico può far conto solo su quanto riferisce il paziente. Non esistono esami di laboratorio che permettano di diagnosticare la malattia con certezza. In passato si è cercato di studiare l'emicrania valutando le modificazioni indotte dalla crisi sul flusso ematico cerebrale e si sono usati metodi relativamente grossolani, come quelli dello Xenon 133 o misurazioni doppler, con risultati discordanti. Più recentemente è stato possibile mettere in evidenza modificazioni del metabolismo cerebrale in corso di crisi emicranica tramite la tomografia ad emissione di positroni (Pet). Queste tecniche, molto costose, sono disponibili solo in pochi laboratori e difficilmente possono essere utilizzate per la diagnosi della malattia. Lo sviluppo delle tecniche di neurofisiologia clinica ha permesso, negli ultimi anni, di studiare in modo accurato ed innocuo le crisi emicraniche. Sono state messe a punto nuove metodiche neurofisiologiche come il brain mapping, lo studio dei potenziali evocati evento-correlati e la magnetoencefalografia che hanno consentito di visualizzare meglio le crisi emicraniche, ottenendo preziose informazioni sul meccanismo delle stesse. L'obiettivo del brain mapping è quello di fornire una valutazione quantitativa dell'attività elettrica cerebrale. Tramite apposite mappe elaborate con scale di colore è possibile ottenere una rappresentazione grafica del segnale Eeg tradizionale, evidenziando anche minime anomalie elettriche. Questa metodica non invasiva, oggi disponibile in alcuni laboratori, ha permesso di capire meglio il meccanismo della malattia. Anche il Laboratorio del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Torino ha registrato, tramite apposite apparecchiature (Brain Electrical Activity Mapping) le modificazioni indotte dalla crisi emicranica sull'attività elettrica cerebrale. Sull'emisfero colpito dalla crisi compare un progressivo rallentamento dell'attività elettrica fisiologica (l'attività alfa) che viene sostituita, in particolar modo durante le crisi di emicrania con aura, da attività patologica lenta in banda theta e delta. Tale attività elettrica lenta si localizza spesso in zone specifiche del cervello. Le alterazioni elettriche evidenziate possono durare per molti giorni. Le immagini a lato illustrano la comparsa e l'evoluzione di una crisi emicranica in un giovane paziente. I potenziali evocati evento- correlati (Event Related Potentials) valutano i meccanismi cerebrali che provvedono all'elaborazione degli stimoli ambientali. Sono potenziali a lunga latenza, detti anche potenziali endogeni o cognitivi, che riflettono la complessa attività svolta dal cervello nell'ambito dei processi decisionali. All'università di Munster, in Germania, il gruppo di ricerca di Stefan Evers ha applicato queste metodiche ad un vasto gruppo di pazienti emicranici ed ha dimostrato anomalie dei processi cognitivi anche al di fuori delle crisi. I potenziali evocati visivi evento-correlati sono risultati significativamente alterati negli emicranici con una importante compromissione dei processi di adattamento cognitivo. Il trattamento con alcuni dei farmaci utilizzati nella profilassi dell'emicrania è in grado di normalizzare le anomalie bioelettriche evidenziate. Una metodica del tutto innovativa per valutare l'attività cerebrale è costituita dalla magnetoencefalografia. In questo caso viene registrata l'attività magnetica generata dal cervello e non più l'attività elettrica. I campi neuromagnetici sono costituiti da segnali estremamente deboli in rapporto al rumore di fondo ma forniscono informazioni preziose anche su strutture situate nella profondità del cervello. In Italia l'unica apparecchiatura magnetoencefalografica è disponibile presso il Cnr a Roma. Lo studio dell'attività neuromagnetica nei pazienti emicranici ha confermato l'esistenza di importanti alterazioni del metabolismo cerebrale durante la crisi. Questi studi rivelano che il cervello emicranico è caratterizzato da uno stato persistente di ipereccitabilità e di ipersensibilità a diversi stimoli, esogeni ed endogeni. Anche le risultanze dei più recenti studi genetico-molecolari, che hanno evidenziato anomalie dei canali ionici di membrana, collocando l'emicrania tra le "canalopatie" concordano su questo possibile meccanismo di malattia. La progressiva diffusione di queste metodiche permetterà una migliore diagnosi dell'emicrania così come lo studio di farmaci più efficaci e selettivi. Lorenzo Pinessi Direttore Centro Cefalee Università di Torino


SCIENZE A SCUOLA. COSA C'E' NEL COMPUTER File come Può essere un testo, un'immagine, o musica E deve avere un nome di non più di otto caratteri
Autore: MEO ANGELO RAFFAELE

ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Esempio di organizzazione dei file in un personal computer

L'UNITA' fondamentale di informazione nel colloquio fra l'uomo e il calcolatore oppure, entro lo stesso calcolatore, fra un programma e un altro, è il "file". File è sinonimo di documento. Documento può essere un testo, un'immagine, un testo corredato di immagini o, anche, come vedremo quando parleremo di personal computer multimediali, anche un brano musicale o un filmato. Un file è identificato da una denominazione, come Articol3.Doc, costituito dal nome vero e proprio a sinistra del punto, che è bene non contenga più di 8 caratteri o cifre, e da un'estensione, composta da 3 caratteri al massimo, che, come vedremo, indica la tipologia del documento ed è utilizzata automaticamente dal sistema operativo e da altri programmi. Il nome del file è scelto dall'utente nel momento della sua prima creazione. Spesso gli informatici attribuiscono ai loro documenti nomi di fantasia, come Pippo e Pluto (quando diventerò rettore del Politecnico, nell'aula magna farò porre un busto di Pippo, il più ricorrente dei protagonisti del mondo dell'informatica). Altri scelgono nomi selezionati dal lessico del turpiloquio, di cui non presento nessun esempio, perché questo articolo diventerebbe illeggibile da signore e signorine. Altri ancora, rivelando poca fantasia, usano tecniche enumerative e chiamano i loro file con nomi standard, come File1, File2, e così via, fino a File827 e oltre. Tutte queste pratiche sono sconsigliabili, perché dopo un anno di lavoro qualunque utente ha generato centinaia di file ed è opportuno che il nome del file ci aiuti nella ricerca. Così, ad esempio, una lettera al veterinario per esporgli i problemi di salute del gatto è bene si chiami Gattomal.let e un articolo su "La Stampa" dedicato alle rotture di scatole del mondo moderno potrebbe essere battezzato Tommasei.doc (come li chiamava Leopardi, rivelando più stile di Sgarbi, ma meno amore per Tommaseo). La politica di attribuire ai file dei nomi semanticamente pregnanti non è comunque sufficiente quando si ha a che fare con centinaia di file. Per questo motivo quasi tutti i sistemi operativi offrono all'utente gli strumenti per organizzare i file entro una struttura gerarchica nella quale sia più facile muoversi nella fase di ricerca. Questa struttura è organizzata ad albero, un albero un po' singolare con la radice in alto e le foglie in basso, come vediamo nella figura in alto che rappresenta una parte dell'organizzazione del mio personal computer. Per comprendere meglio la stessa figura, cerchiamo di seguire i tortuosi percorsi mentali di un accademico. Ho deciso di suddividere i miei documenti in quattro cartelle; la prima, chiamata Ricerca, conterrà i miei articoli scientifici, o presunti tali; la seconda, di nome Accademi, sarà utilizzata per l'attività accademica; la terza, Corsi, conterrà le carte relative agli insegnamenti; ed infine la cartella Varie sarà dedicata ai documenti che non rientrano nelle categorie precedenti. Poiché i documenti relativi ai Corsi sono numerosi, ho deciso di suddividere la cartella Corsi in un certo numero di sottocartelle. La sottocartella Unionind contiene il materiale del corso di alfabetizzazione informatica che sto tenendo all'Unione Industriale; a sua volta questa cartella è stata suddivisa nelle cartelle dedicate al capo, Dagoberto Brion, e agli sponsor. Infine, la cartella Sponsor è stata suddivisa in tre comparti, a cui sono stati assegnati i nomi Bav, Siemnixd e Intesa, come contrazione su 8 caratteri o meno di Banco Ambrosiano Veneto, Siemens Nixdorf e Intesa. Un percorso discendente sull'albero, che parte dalla radice, prende il nome di "path" o "cammino". Un esempio di "path" è /Corsi/Unionind/Sponsor/Siemnixd. Un "path" è in sostanza l'indirizzo di una cartella sull'albero del file system. Spesso l'indicazione di un "cammino" è preceduta dalla specificazione dell'unità di memoria di massa contenente il file system. Tale specificazione è generalmente formulata come A: per indicare il floppy disk; B: per un eventuale secondo floppy; C: per lo hard disk o una sua partizione; D: o E: per un'eventuale seconda o terza partizione dello hard disk. In ogni istante del lavoro, vi è un "path corrente" o "cammino corrente" che è l'indirizzo della cartella su cui si sta lavorando. E' importante tenere sempre a mente il "path corrente", perché i comandi del sistema operativo fanno generalmente riferimento a tale indicazione. Come abbiamo già visto, il Dos o "Disk Operating System" è stato il primo sistema operativo per il personal ccomputer, sviluppato da Bill Gates nel '79. Un importante sottoinsieme dei comandi del Dos consente all'utente di creare, poco alla volta, il suo "file system", di riempire le cartelle e di gestire il tutto. Elenco i primi tre, invitando il lettore a provarli sul calcolatore. 1) Dir. Prende il nome da "directory", o "direttorio", "indice", che fu il primo nome dato alla cartella. Il comando ordina al sistema operativo la visualizzazione del contenuto della cartella indicata. Esempio: Dir C:/Corsi/Unionind/Sponsor/Bav ordina al sistema la visualizzazione dei nomi dei documenti contenuti nella sottocartella Bav della sottocartella Sponsor della sottocartella Unionind della cartella Corsi dello hard disk. 2) Cd (o "Change Directory"). Cambia il "path corrente". Ad esempio, dopo aver impartito il comando Cd C: /Ricerca/Voce il direttorio o "path corrente" sarà /Ricerca/Voce sul file system dello hard disk. 3) Md (o "Make Directory"). Aggiunge una sottocartella nella cartella indicata. Ad esempio, il giorno in cui Bill si offrirà come sponsor delle nostre lezioni, scriveremo: Cd C:/Corsi/Unionind/Sponsor, per definire il direttorio corrente; e poi Md Microsof per dare una sorella a Bav, Siemnixd e Intesa. Angelo Raffaele Meo Politecnico di Torino




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