TUTTOSCIENZE 15 ottobre 97


SCIENZE A SCUOLA. RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE Diagnosi più precise con le radioonde Utilizzando l'oscillazione dei nuclei dell'idrogeno
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Come funziona la macchina per la risonanza magnetica

LA risonanza magnetica nucleare è utilizzata in medicina quando è necessario osservare gli organi interni del paziente; l'immagine che essa fornisce è simile a quella ottenuta con i raggi X ma rispetto a questa contiene in più informazioni sui tessuti molli, che nelle radiografie potebbero essere nascosti dalle ossa. Alcuni nuclei atomici si comportano come se ruotassero intorno al proprio asse, il quale ha la proprietà di allinearsi lungo un campo magnetico, come l'ago di una bussola. Nella risonanza magnetica riveste un ruolo importante l'idrogeno, il cui nucleo è costituito da un singolo protone; questo non solo perché l'asse di rotazione del protone è fortemente influenzabile da un campo magnetico ma anche perché l'idrogeno è presente nella maggior parte del materiale biologico. Se si fa girare una trottola e le si dà un lieve colpo essa non cade: il suo asse comincia a oscillare intorno alla verticale. Il fenomeno è detto precessione. Più forte è il colpo più ampia è la precessione. Allo stesso modo l'asse di rotazione di un protone può oscillare intorno alla direzione di un campo magnetico, ma solo entro un certo limite. La frequenza della precessione dipende dall'intensità del campo magnetico. Se si prende un certo numero di protoni i cui assi di rotazione siano allineati lungo un campo magnetico e se ne provoca l'oscillazione mediante un'emissione di radioonde corrispondente a una certa frequenza di precessione alcuni protoni assorbiranno energia dalle radioonde e il loro asse di rotazione si sposterà rispetto al precedente allineamento. Quando l'emissione di radioonde cesserà essi ritorneranno all'allineamento originario rilasciando a loro volta radioonde, che potranno essere captate con un sensibile ricevitore. Il campo magnetico della maggior parte delle macchine per la risonanza magnetica è prodotto da un elettromagnete; aggiungendo al campo magnetico principale un altro campo magnetico più debole è possibile misurare la frequenza della precessione in un preciso punto del corpo del paziente. L'intensità del rilascio di radioonde rivela quanti protoni sono presenti nel punto esplorato. Il modo in cui varia nel tempo l'intensità del segnale può inoltre indicare in qual modo gli atomi di idrogeno sono uniti ad altri atomi. Ad esempio, la fase di rilascio dell'idrogeno nei grassi è molto più rapida che nei muscoli, per cui l'intensità del segnale diminuisce più rapidamente. Un computer costruisce la mappa dell'intesità del segnale e della sua durata e ciò consente, per esempio, di distinguere la varie strutture del cervello.


SCIENZE A SCUOLA. STORIA DEI CALCOLATORI Dalle schede perforate al floppy disk I cartoncini potevano ospitare 80 caratteri, un dischetto un milione e mezzo
Autore: MEO ANGELO RAFFAELE

ARGOMENTI: INFORMATICA, STORIA DELLA SCIENZA
LUOGHI: ITALIA

PRIMA del 1975 i calcolatori utilizzavano come memoria di massa le schede perforate, figlie delle schede adottate da Jacquard nel suo telaio per la tessitura, poi riprese da Babbage nel calcolatore meccanico programmabile. Su una scheda perforata potevano essere memorizzati solo 80 caratteri. Nel 1975 alcuni produttori di calcolatori cominciarono a proporre il «floppy disk» o disco flessibile come memoria di massa. I primi «floppy» erano molto più grandi di quelli di oggi, misurando 8 pollici (un pollice vale 2,54 centimetri). La capacità dei primi supporti era dell'ordine di 64. 000 caratteri, per cui una sola unità equivaleva a un pacco di 800 schede, con il pregio di non richiedere una faticosa opera di riordinamento quando cadeva per terra. La tecnologia dei «floppy» è migliorata rapidamente nell'arco dei suoi primi quindici anni di vita, sino all'inizio di questo decennio. La dimensione si è ridotta agli attuali 3,5 pollici e la capacità è cresciuta, nonostante la riduzione delle dimensioni, sino a 1,44 milioni di caratteri. Il disco non è più flessibile, ma l'aggettivo «floppy» è rimasto. Oggi è possibile impaccare parecchi milioni di caratteri in un unico dischetto delle dimensioni di un «floppy» ed effettivamente qualche produttore propone supporti da decine di milioni di caratteri. Per il momento, tuttavia, il mercato non sembra aver accolto con entusiasmo le nuove soluzioni, probabilmente per la concorrenza di una tecnologia alternativa: quella del Cd-Rom. La tecnologia del «floppy disk» è la stessa dello «hard disk» di cui abbiamo parlato la settimana scorsa. Il dischetto è ricoperto da un sottilissimo strato di materiale magnetico, ove l'informazione viene scritta e letta lungo piste circolari da testine magnetiche molto simili a quelle dei ben noti registratori usati da molti anni per la musica. Di norma, su ciascuna delle due facce di un disco sono incise 80 tracce circolari. Lungo una traccia l'informazione è suddivisa in nove settori, ciascuno dei quali contiene 1024 caratteri, oltre all'indicazione del numero della traccia e del numero d'ordine del settore stesso. Di conseguenza il volume di informazione scritto su un disco è pari a 80 tracce, moltiplicato 9 settori per traccia, moltiplicato 1024 caratteri per settore, moltiplicato due facce, per un totale di 1,47 milioni di caratteri. Questo numero è leggermente superiore alla capacità netta del disco, che abbiamo visto essere dell'ordine di 1,44 milioni di caratteri; la ragione della lieve differenza è dovuta all'informazione di servizio del tipo di «numero della traccia» o «numero di settore nella traccia» che precede la parte utile di ogni settore. Oltre all'informazione di servizio, ogni traccia contiene un opportuno insieme di bit di separazione fra i diversi campi, che consentono al dispositivo di lettura una loro netta separazione. Tutta l'informazione di servizio ed i bit di separazione fra i diversi campi sono scritti, prima dell'uso del dischetto, in una fase di preparazione chiamata - ignobile inglesismo - «formattazione» . Vedremo poi come si «formatta» un «floppy disk»; è invece opportuno non imparare affatto come si formatta lo «hard disk», perché la formattazione distrugge tutta l'informazione precedentemente scritta e lo «hard disk» contiene sempre un'informazione molto preziosa, scritta dallo stesso produttore del calcolatore. A questo punto il lettore ha compreso che «floppy-» e «hard- disk» hanno molte cose in comune: i principi di funzionamento, la tecnologia, il ruolo di memoria di massa. Vedremo inoltre nelle prossime settimane che essi sono trattati con gli stessi comandi e sono visti dall'utente come segmenti della stessa realtà. L'evoluzione di questi anni ha accentuato le specializzazioni funzionali: lo «hard disk» si è sempre più strettamente integrato con gli altri circuiti contenuti nel box della macchina, inamovibile ed invisibile dall'esterno. Il «floppy disk» ha invece assunto il ruolo di veicolo di programmi e dati da un calcolatore ad un altro, anche di produttori diversi, immutabile nelle sue caratteristiche per consentire l'universalità. Così, mentre lo «hard disk» recepiva le novità della tecnologia e accresceva progressivamente la sua capacità sino ai miliardi di caratteri dei computer di oggi, anche di fascia bassa, il «floppy disk», dopo la prima fase di crescita rapidissima, rimaneva praticamente fermo a 1,44 milioni di caratteri. Un tempo, pochi dischetti erano sufficienti per contenere tutti i dati memorizzati in uno «hard disk»; oggi mille dischetti equivalgono a 1,44 miliardi di caratteri e potrebbero non bastare. Per questo, in prospettiva non molto lontana, il «floppy» morirà sostituito dal Cd. Per il momento, tuttavia, il dischetto continua a svolgere due funzioni molto importanti. In primo luogo ci consente di ricopiare dati e programmi da un calcolatore all'altro, più o meno legalmente (speriamo che i magistrati della Procura non mi leggano). In secondo luogo, permette il «back up», ossia il salvataggio del contenuto dello «hard disk» su un magazzino di riserva, anche se scomodo perché costituito da centinaia di dischetti. Ricordate che gli «hard disk» di oggi sono molto robusti, ma mediamente, ogni due o tre anni, si rompono e che 35 torinesi all'anno si buttano nel Po per non aver fatto il «back up»... Angelo Raffaele Meo Politecnico di Torino


SCIENZA A SCUOLA. VEGETALI MA... Attenti agli olii tropicali
Autore: CARDANO CARLA

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE
LUOGHI: ITALIA

SE vogliamo sfruttare al meglio le informazioni nutrizionali presenti sui prodotti, dobbiamo fare un confronto serrato: prendiamo per cominciare i cibi ricchi di amido e analizziamo le percentuali di tale carboidrato contenute: per la pasta mediamente più del 70%, per il riso quasi l'80%, per il pane scendiamo invece a valori fra 30 e 45%. Per aver subito in pugno la situazione è utile prendere atto di una caratteristica importante di un cibo e cioè se è o no già pronto per essere utilizzato. La pasta e il riso, cuocendo nell'acqua, raddoppiano o quasi triplicano il loro peso. Il pane, viceversa, viene consumato così com'è poiché ha già subito tutti i processi di preparazione. Da ciò deriva la sua minore percentuale di amido e degli altri principi nutritivi e anche, ovviamente, le minori Kcal fornite per 100 g. Che cosa dire invece di crakers, grissini, salatini? Essi mostrano un contenuto di amido prossimo al 70%, percentuale, alta, più vicina a quella della pasta che a quella del pane, pur trattandosi di cibi già pronti. Come mai? Perché la loro cottura comporta una maggior perdita di acqua rispetto al pane e una conseguente maggior percentuale di nutrienti. Ma non è tutto. Se osserviamo le quantità degli altri principi nutritivi, noteremo la presenza di lipidi in percentuale di gran lunga superiore a quella presente nella pasta e nel pane: addirittura il 10-14% contro l'1%. E, come si sa, i lipidi forniscono, a parità di peso, molta più energia, cosa che trova conferma puntuale nelle Kcal fornite dai crackers che sono superiori a quelle fornite da pane e pasta. E c'è dell'altro. Ai lipidi citati corrisponde spesso, negli ingredienti, un vago «oli vegetali». Di quali oli si tratti, in genere non è specificato se non in casi rari. Tutto sommato, quel «vegetali» suona molto rassicurante, e il pensiero va alle olive, al mais, al girasole... Esperti in scienza dell'alimentazione ritengono possa invece trattarsi di oli tropicali, e cioè dell'olio di cocco, di palma e di palmisti, peraltro anch'essi completamente vegetali. Ma omologare «vegetali» a «salutari» può riservare sgradevoli sorprese. E infatti gli oli sopraccitati sono molto ricchi in acidi grassi dannosi per la salute e cioè in acido laurico, miristico, palmitico, i tre soli acidi grassi saturi ad azione ipercolesterolemizzante. Merendine e biscotti, simili alla pasta, al pane e ai crackers per il loro alto contenuto in carboidrati, presentano percentuali di lipidi fino al 20%, e anche qui spesso corrispondenti a «oli vegetali» di origine ambigua. E se è vero che il consumo saltuario di quantità limitate di oli tropicali non contribuirà in modo significativo a farci venir l'infarto, ciò non si può dire nel momento in cui l'assunzione diventi più abbondante e protratta nel tempo. Allora è meglio evitare consumi cumulativi di biscotti, merendine, grissini, crackers e di tutti quegli snacks, desserts e prodotti che contengono «oli vegetali» non identificati] Carla Cardano


SCIENZE DELLA VITA. ANTARTIDE Balene spinte sempre più a Sud Confermato il ritiro dei ghiacci australi
Autore: CANUTO VITTORIO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, METEOROLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: G. Latitudine media del confine della calotta glaciale antartica

DOPO il vertice di Rio del 1992 le mutazioni climatiche preoccupano tutti i Paesi del mondo. Purtroppo, più studiamo il clima, più ci rendiamo conto di quanto poco lo conosciamo e di quanto si sia sinora sottovalutata questa «bestia capricciosa», come l'ha definita l'oceanografo Broecker. Un errore di cui siamo vittime consiste nel credere che i mutamenti di clima avvengano in modo graduale perché graduale è il processo con cui l'uomo influenza il clima. Quindi avremo ampiamente tempo ad adattarci. Questo atteggiamento non è minimamente giustificato dai fatti, i quali, semmai, indicano l'opposto. Il clima è infatti letteralmente saltato da uno stato all'altro in periodi non di mille, nè di cento ma di decenni quando le perturbazioni esterne raggiunsero certi valori critici. A connettere fenomeni apparentemente sconnessi sono gli oceani e i ghiacciai. Qui parleremo di questi ultimi, in particolare della calotta antartica e del suo impatto sul clima. I ghiacciai sono importanti per almeno due ragioni: 1) essi hanno una albedo (o riflettività) molto alta e quindi tendono a raffeddare; 2) funzionano da isolanti, nel senso che riducono il trasferimento di calore dall'oceano alla più fredda atmosfera. Data la loro enorme massa e volume, si potrebbe pensare che essi siano stabili e immutabili, ma non è così. L'area ghiacciata antartica è di circa 17 milioni di km2 (60 volte l'Italia), contiene circa 30 milioni di km3 di ghiaccio corrispondenti al 90 per cento del volume totale dei ghiacciai esistenti sulla Terra. La parte occidentale (a sinistra delle montagne trans-antartiche) rappresenta il 10 per cento di quella orientale e i due terzi si sono inabissati ma quello che rimane è tale che se dovesse sciogliersi farebbe innalzare il livello del mare di 6 metri. Se ciò avvenisse alla parte orientale, il mare si alzerebbe di 60 metri, un evento biblico. La parte occidentale ha subito cambiamenti notevoli: nel periodo 1974-1979, è collassata un'area di 250 chilometri quadrati; nel 1986, sono sprofondati 23.525 kmq, nell'1987, 5508 e nel 1995, 2849, quanto la superficie del Lussemburgo. Anche i cosiddetti ghiacciai «tropicali» (da 40oS a 40oN), per esempio il ghiacciaio Huascaran nel Perù, hanno subito cambiamenti. Durante l'ultima glaciazione erano discesi di 1 km più a valle. Al termine della glaciazione (circa 10.000 anni fa) e con il conseguente riscaldamento, i ghiacciai si ritirarono più a monte. In questa cornice si inserisce uno studio del geofisico australiano W.K. de La Mare apparso il 4 settembre sulla rivista inglese Nature riguardante le variazioni dei ghiacciai antartici nel periodo dal 1920 sino a oggi. Ciò che lo rende particolarmente interessante, a parte il risultato finale, è la fonte dei dati usati, le baleniere. Tali attività di pesca nella zona antartica cominciarono nel 1904 e avvengono di regola nelle regioni fra oceano e ghiaccio particolarmente attraenti grazie all'alta concentrazione di attività biologica e quindi all'abbondanza del krill di cui si nutrono le balene. La stagione baleniera inizia verso ottobre (primavera australe) e continua sino ad aprile. Il Bureau of International Whaling Statistics in Norvegia mantiene un registro di 1,5 milioni di catture catalogate seconda la data, la specie catturata e la posizione geografica. La Mare ha analizzato con metodi statistici questa banca dati per estrarne informazioni sulla possibile variazione nel tempo dell'interfaccia oceano-ghiacciaio. Nella figura vediamo rappresentata la posizione (in latitudine) di questa interfaccia dal 1931 al 1987. Come si può vedere, tale regione si è ridotta: dal 1931 al 1954 la posizione media era a -61,5oS ma si è poi spostata a Sud. Dal 1937 al 1987 la posizione media è a - 64,3oS di latitudine, 2,8o corrispondono a 5, 65 milioni di kmq, e poiché l'area totale è di 17 milioni di kmq, ciò significa un decremento dell'estensione ghiacciata del 25 per cento. C'è di più. I dati dei satelliti dal 1973 indicarono che non ci fu grande variazione dei ghiacciai. Si estrapolò il risultato e si disse che questo era vero anche prima del 1973. Invece i nuovi dati ci indicano che il grande rimpicciolimento avvenne in poco meno di 20 anni, dal 1955 al 1973. Quando i satelliti cominciarono il loro monitoraggio, il fenomeno era già avvenuto. Un ulteriore esempio che il clima può cambiare in decenni, non millenni come convenientemente continuiamo a credere, a nostro pericolo. Vittorio M. Canuto Nasa, New York


SCIENZE FISICHE. MATEMATICA L'universo di Dante visto dal geometra Nella «Divina Commedia» il cosmo è concepito come una ipersfera
Autore: ODIFREDDI PIERGIORGIO

ARGOMENTI: MATEMATICA
LUOGHI: ITALIA

IL «Paradiso» dantesco è anche il racconto di un viaggio attraverso un mondo tolemaico con una rigida struttura geometrica, che vede la Terra al centro di 9 sfere concentriche crescenti: i cieli della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno, delle Stelle Fisse e del Primo Mobile o Cristallino. Quest'ultimo, che «non ha altro dove che la mente divina» (XXVII, 109-110), ad un tempo racchiude l'universo sensibile e ne è al di fuori. Oltre il Primo Mobile è il cielo empireo, raffigurato come una simmetrica serie di 9 sfere concentriche decrescenti, che sono le sedi di Angeli, Arcangeli, Principati, Potestadi, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini e Serafini, ed il cui centro è un punto di luce abbagliante che rappresenta Dio (XXVIII, 16-18). L'universo dantesco si compone dunque di due (serie di) sfere distinte, una sensibile e l'altra celeste, i cui centri sono rispettivamente la Terra e Dio. Dante è però turbato da una mancanza di simmetria: le sfere dell'universo sensibile sono infatti tanto più perfette quanto più si allontanano dal centro terrestre, mentre quelle dell'universo celeste diventano tanto più perfette quanto più si avvicinano al centro divino. E la difficoltà non è certo risolta dalla misteriosa spiegazione di Beatrice, secondo cui l'ordine inverso delle sfere spirituali è solo apparente, e il centro divino è in realtà la sfera maggiore. Non meno problematico pare il fatto che gli universi sensibile e celeste stiano dentro due sfere (il Primo Mobile e il cielo degli Angeli) che sono fra loro disgiunte: per poter esaurire l'intero spazio esse dovrebbero infatti avere la superficie in comune, e quindi esserne una dentro e l'altra fuori. Per capire che diavolo succeda nel divino universo dantesco è bene fare un passo indietro e tornare coi piedi per terra. Se si potesse vedere l'emisfero meridionale dal Polo Sud, l'immagine che se ne avrebbe sarebbe quella di una serie di cerchi concentrici (i paralleli), che si ingrandiscono fino a raggiungere un massimo (l'equatore). Recandosi all'equatore e guardando l'emisfero settentrionale, si vedrebbe una situazione opposta: una serie di cerchi concentrici che diminuiscono, fino a raggiungere un punto (il Polo Nord). La Terra si può dunque effettivamente rappresentare mediante due (serie di) cerchi, che si devono immaginare come aventi la circonferenza dell'equatore in comune: anzi, questo si fa spesso nelle rappresentazioni cartografiche della Terra, anche se in genere i due cerchi si riferiscono non agli emisferi Nord e Sud ma al vecchio e nuovo mondo. L'universo dantesco è una rappresentazione analoga: i cerchi concentrici diventano sfere concentriche, le coincidenti circonferenze dei cerchi massimi diventano le coincidenti superfici delle sfere massime, e la sfera che rappresenta la Terra diventa una ipersfera che rappresenta l'universo. Il motivo per cui non possiamo immaginarci l'ipersfera è che sarebbe necessaria una dimensione in più: come per poter vedere il globo terrestre senza limitarsi alle due serie di cerchi si deve usare lo spazio tridimensionale, per poter vedere l'ipersfera senza limitarsi alle due serie di sfere si dovrebbe usare uno spazio quadridimensionale, che però è fuori della portata dei nostri sensi. Rimane da chiarire che cosa volesse dire Beatrice nella sua spiegazione, e come sia possibile che Dio appaia «inchiuso da quel ch'elli 'nchiude» (XXX, 12). Anche qui basterà considerare il globo terrestre: se esso fosse un fiore con lo stelo nel Polo Sud, ad esempio una «candida rosa» (XXXI, 1), al suo dispiegarsi i paralleli diventerebbero cerchi via via più grandi a mano a mano che si avvicinano al Polo Nord; e il polo stesso diventerebbe non solo un intero cerchio, ma il più grande di tutti. Analogamente, se l'ipersfera dantesca potesse dispiegarsi nello spazio a quattro dimensioni, il punto divino diventerebbe una sfera che racchiuderebbe tutte le altre. E, sorprendentemente, questo è esattamente il modo in cui noi vediamo l'universo oggi, attraverso il telescopio: lo sferico fronte di espansione delle galassie, che si trova alla distanza percorsa dalla luce dal momento del Big Bang, è in realtà l'immagine dispiegata di quel solo istante. L'universo si può dunque immaginare come una ipersfera, ossia come una coppia di sfere in espansione con i centri uno nella Terra, e l'altro nel Big Bang. Il che assegna un significato particolarmente concreto all'universo dantesco, il cui creatore viene in tal caso a coincidere per l'appunto con l'istante della creazione dell'universo, come ci si poteva d'altra parte attendere dal suo ruolo istituzionale. Piergiorgio Odifreddi Università di Torino


SCAFFALE Vicario Grazia e Levi Raffaello: «Calcolo delle probabilità e statistica per ingegneri», Progetto Leonardo, Bologna; «Manualetto Rdb», Edizioni Fag, Milano
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: MATEMATICA
LUOGHI: ITALIA

Due testi riservati agli ingegneri e agli studenti di ingegneria. Il primo introduce all'uso di metodi probabilistici e statistici nell'esercizio della professione ingegneristica (per esempio nella valutazione dei rischi). Il secondo è un'agile guida per la progettazione e la costruzione edilizia. Piero Bianucci


SCAFFALE Nicolino Nicoletta: «Il pane attossicato», Documentazione Scientifica Editrice, Bologna
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA
LUOGHI: ITALIA

John Walker inventò il fiammifero a sfregamento nel 1827. Altri lo perfezionarono introducendovi il fosforo bianco. Ne nacque una industria che si è praticamente estinta nel 1994 e che costituisce un caso em blematico nei rapporti tra la voro, salute e ambiente. Nicoletta Nicolini, ricercatrice al l'Università di Roma, racconta in modo brillante l'intera vicenda.


SCAFFALE Couper Heather e Henbest Nigel: «Come funziona l'universo», Sirio
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

Costruirsi un telescopio, una meridiana, un piccolo planetario. E poi osservare il cielo per comprendere il movimento degli astri e degli altri fenomeni celesti. In questo supplemento della rivista «Nuovo Orione» dedicato ai ragazzi Heather Couper e Nigel Henbest grazie alle loro doti didattiche trasformano l'astronomia in gioco e il gioco in scienza. In edicola e richiedibile al tel. 02-204.65.10.


SCAFFALE Accardi Luigi: «Urne e camaleonti», Il Saggiatore
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: MATEMATICA
LUOGHI: ITALIA

Perfettamente funzionante sul piano sperimentale, la meccanica dei quanti ha sempre sollevato problemi sul piano teorico e filosofico in quanto essa non si piega a una interpretazione «realistica», come avrebbe voluto Einstein, e d'altra parte conduce a paradossi e conclusioni difficili da accettare nella interpretazione «irrealistica» o «idealistica» che ne diedero Bohr e, al suo seguito, i fedeli della Scuola di Copenaghen. Luigi Accardi, 50 anni, matematico, professore all'Università di Roma Tor Vergata e all'Università di Nagoya, affronta il dilemma da un nuovo punto di vista, che si pone a monte del problema: la soluzione sta in una lettura della meccanica quantistica alla luce del calcolo delle probabilità. Il libro è scritto in forma di dialogo tra personaggi fittizi, come Candidus e Academus, e personaggi reali, come Einstein, Popper, Bell, Regge, Feynman e Bohm. Accardi discuterà prossimamente la sua tesi in un seminario al Politecnico di Torino.


SCIENZE FISICHE. FISICA Dafne, festa a Frascati Studierà le particelle sub-atomiche
Autore: LAURELLI PAOLO

ARGOMENTI: FISICA
NOMI: SALVINI GIORGIO, TOUSCHEK BRUNO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, FRASCATI (ROMA)

LA storia degli acceleratori di particelle in Italia inizia negli Anni 50 nei Laboratori nazionali di Frascati. Con Dafne, la nuova macchina appena completata, questi laboratori tornano ad un ruolo di rilievo in un campo che li ha già visti all'avanguardia, subito, alla loro nascita, sotto la guida di Giorgio Salvini, con l'elettrosincrotrone in funzione nel 1959, poi con AdA nel '61, ideato da Bruno Touschek e passato alla storia come il primo anello di accumulazione per materia e antimateria; infine con Adone, nel '69. A metà degli Anni 70 Adone partecipo', spingendo al massimo la sua energia, allo studio di una nuova, inattesa particella, la J/y che aprì la via a una nuova fisica. Purtroppo questo exploit rese anche evidente che Adone, con la sua energia e la sua intensità, non era più in grado di proseguire l'esplorazione del nuovo mondo che aveva contribuito ad aprire. Macchine di energia e dimensioni sempre maggiori servivano per proseguire il cammino. I costi avevano però ormai superato le possibilità di un Paese come l'Italia. La corsa verso le frontiere della fisica delle particelle restò quindi appannaggio di Paesi come la Germania e gli Stati Uniti o di organizzazioni plurinazionali come il Cern di Ginevra. Nello studio delle particelle elementari, un ruolo analogo e complementare a quello dell'energia può essere svolto dalla precisione delle misure, ovvero dalla capacità di mettere in evidenza fenomeni rari. In questa direzione va una nuova generazione di acceleratori, non necessariamente di altissima energia, ma capaci di produrre un'altissima frequenza di urti fra le particelle dei due fasci collidenti («fabbriche di particelle» ad alta luminosità). Dafne, nella tradizione frascatana di originalità concettuale e elevatissime prestazioni, sarà la prima di queste macchine a entrare in funzione al mondo e, sebbene sia la più piccola, operando a un'energia di circa 1 GeV (un miliardo di elettronvolt), aprirà una nuova strada. Quale contributo Dafne darà alla conoscenza del mondo delle particelle elementari? Esistono alcuni comportamenti di particelle che non hanno trovato una soddisfacente sistemazione nel quadro delle teorie attuali. Uno di questi misteri è legato al concetto di simmetria delle interazioni. Fu ipotizzato, fin dagli Anni 50, che nei processi di interazione esiste una simmetria detta Carica e Parità (CP), che è «quasi» sempre rispettata in natura. Questo vuol dire che, dato un fenomeno reale, con una certa disposizione spaziale delle particelle prima e dopo l'interazione, la sua immagine speculare rappresenta un fenomeno realizzabile se si scambia ogni particella interagente con la corrispondente antiparticella, il che equivale a cambiare ogni carica nella sua opposta. In effetti, già nel 1964, e la sua scoperta fruttò il premio Nobel ai suoi autori, un fenomeno rivelò la violazione di CP. Si scoprì che una particella instabile, il mesone K neutro, in una piccolissima percentuale dei suoi decadimenti, violava questa simmetria. Ora, questa violazione di CP sembrava fuori posto nel quadro elegante delle leggi della natura, e la sua piccolezza la rendeva ancora meno accettabile. Oggi, dopo più di trent'anni, il decadimento del mesone K resta l'unico processo osservato che violi il CP, e i suoi meccanismi non sono completamente chiariti anche a causa delle difficoltà di misura di effetti cosi piccoli. Uno degli obiettivi principali di Dafne è rappresentato dallo studio accurato di questo fenomeno. All'energia di Dafne, l'annichilazione di una coppia elettrone-positrone produce una particella neutra, la F, con vita media brevissima e i cui prodotti di decadimento sono prevalentemente coppie di mesoni K. Dafne quindi può essere considerata una copiosa fonte produttrice delle particelle che si intende studiare. A questo punto ci si può chiedere quale sia l'importanza di un fenomeno così raro e difficile da riprodurre. Una spiegazione si collega proprio alla violazione di CP. Una volta ammessa la simmetria delle leggi della natura rispetto alla carica elettrica, cioè per materia e antimateria, resta difficilmente spiegabile il fatto che l'universo sia costituito prevalentemente di materia. Oggi appare plausibile che possa essere stata sufficiente nei primi istanti di vita dell'universo una piccola asimmetria di CP a sbilanciare completamente a favore della materia la miscela dei costituenti elementari. Dafne ha richiesto soluzioni tecnologicamente avanzatissime. La sua realizzazione ha impegnato, per cinque anni, cento persone tra ingegneri, fisici e tecnici dei Laboratori di Frascati. Lo sforzo è stato reso possibile anche da una stretta cooperazione con l'industria italiana, le cui commesse, molte delle quali ad alta tecnologia, hanno assorbito più di metà dei finanziamenti di 120 miliardi di lire. Questo ruolo di promozione dello sviluppo di tecnologie nuove e sofisticate, che compete all'Infn in quanto ente di ricerca, è estrememente importante per guadagnare alla nostra industria alti livelli di competitività anche in vista degli investimenti di molte migliaia di miliardi di lire previsti per la realizzazione dei futuri progetti di macchine di altissima energia come Lhc al Cern di Ginevra. L'eccellenza del programma sperimentale, cui partecipano duecento fisici e tecnici italiani e stranieri, unito all'altissima tecnologia richiesta nella realizzazione dell'acceleratore sono stati una sfida alla potenzialità dei Laboratori di Frascati e alla loro volontà di essere competitivi nella grande corsa alla conoscenza. Paolo Laurelli Direttore dei Laboratori nazionali Infn di Frascati


SCIENZE FISICHE. CONTRO L'INQUINAMENTO L'auto riscopre il gas naturale
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, TRASPORTI, TECNOLOGIA, AUTO
NOMI: SCOLARI PAOLO, MEOMARTINI ALBERTO
ORGANIZZAZIONI: FIAT AUTO, SNAM
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
TABELLE: T. Emissioni totali di anidride carbonica nell'Unione Europea

COME combattere l'inquinamento atmosferico delle città prodotto dalle auto? La marmitta catalitica dà i suoi risultati ma, più in generale, si pensa a un'auto dotata di propulsori di nuova concezione, che consuma di meno e dunque inquina di meno. Gli incentivi dello Stato alla rottamazione, per esempio, hanno permesso di abbassare la vita media del parco auto italiano da 14,2 a 13,5 anni, con un effetto immediato sull'atmosfera in fatto di emissioni inquinanti. Si stima che i circa 600 mila nuovi veicoli immatricolati possano permettere una riduzione del 4 per cento delle emissioni di ossido di carbonio (meno 120 mila tonnellate l'anno), del 3,5 per cento di ossidi di azoto (meno 14.400 ton/anno) e del 4 per cento di idrocarburi aromatici (meno 22 mila ton/anno). Se gli incentivi alla rottamazione continueranno anche nel '98, il guadagno ambientale rispetto a questi tre valori potrà essere di un altro 3 per cento. «Le tecnologie che possono contribuire alla diminuzione dei consumi sono molteplici», spiega Paolo Scolari, direttore del settore Ambiente e politiche industriali della Fiat Auto. «Si va dalla riduzione del 10 per cento del peso globale del veicolo alla gestione elettronica del cambio, da un migliore raffreddamento del motore alla riduzione del 40 per cento del rotolamento. Tutte innovazioni che potrebbero ciascuna contribuire per un 4-5 per cento alla riduzione dei consumi. Sui motori diesel si può ottenere addirittura un risparmio netto del 15% con l'iniezione diretta ad alta pressione, come avviene già sulla nuova Alfa 156 JTD». Una vettura-laboratorio, la Punto Economy Power, presentata all'ultimo Salone dell'auto di Francoforte, con una ventina di «trucchi» tecnologici, riesce a consumare 3,6 litri di carburante su 100 chilometri, dove la media (a parità di percorso) è di 7,4 litri in Italia, oltre i 9 litri in Germania e Gran Bretagna, 12 litri in Giappone e Stati Uniti. I 4 litri scarsi di carburante per ogni 100 chilometri forse resteranno una chimera, ma la Fiat (anche in virtù di un Protocollo di intesa siglato con il ministero dell'Ambiente nell'aprile scorso, che di fatto anticipa i futuri standard europei anti- inquinamento) si è posta come obiettivo concretamente raggiungibile quota 5,9 litri entro l'anno 2005. Vale a dire una riduzione dei consumi del 20 per cento. Novità interessanti vengono anche dal fronte delle auto a metano (gas naturale). In Italia circolano circa 300 mila vetture a gas, un quarto del totale mondiale (siamo secondi solo all'Argentina), che possono contare su una rete di 293 distributori. «Grazie a un accordo Eni-Fiat, la Snam si è impegnata a raddoppiare questa rete di vendita in 2-3 anni», spiega Alberto Meomartini, vicepresidente e amministratore delegato Snam. «Investiremo circa 100 miliardi e porteremo il gas nelle stazioni di servizio, accanto ai normali distributori di benzina e gasolio, in modo da incentivare l'utilizzo del metano quale carburante alternativo». Dal canto suo la Fiat ha appositamente realizzato la Marea Bipower, la prima auto di serie che può essere alimentata sia a benzina sia a gas naturale e che arriva sul mercato proprio in questi giorni. Il sistema di alimentazione è stato interamente riprogettato e consente di mantenere invariate le prestazioni del propulsore. A gas la nuova Marea ha un'autonomia di oltre 250 chilometri e sapendo che un chilo di metano (954 lire alla pompa) ha una resa energetica equivalente a quella di 1,45 litri di benzina i vantaggi economici, oltreché ambientali, sono evidenti. Andrea Vico


E spuntarono le Eolie Come si formano gli arcipelaghi vulcanici
Autore: TIBALDI ALESSANDRO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, VULCANO, TERREMOTI
ORGANIZZAZIONI: EUROPA, ITALIA, ISOLE EOLIE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Struttura tipica di un vulcano

GUARDANDO una carta geografica delle Isole Eolie, a Nord della Sicilia, si può osservare che sono disposte a semicerchio. Ogni isola rappresenta la cima di un vulcano emerso dalle acque: Stromboli e Vulcano sono attivi, Lipari ha probabilità di risvegliarsi in quanto l'ultima eruzione è avvenuta in epoca storica, mentre le altre isole possono essere considerate completamente inattive in quanto le ultime eruzioni sono avvenute parecchie decine di migliaia di anni fa. In anni recenti, diverse campagne di studi oceanografici hanno ricostruito con grande ricchezza di particolari i fondali marini circostanti le Isole Eolie, permettendo di osservare che esistono altri vulcani completamente sommersi posti sulla prosecuzione dell'arcipelago sia verso Est che verso Ovest. L'insieme di tutti questi edifici vulcanici disegna in pianta un arco perfetto con la convessità rivolta verso Sud-Est. Archi del tutto simili sono costituiti dalle isole Marianne, situate a Est del Mar delle Filippine, dalle isole Sandwich del Sud, tra l'Antartide e la Georgia del Sud, dalle isole di Banda, tra la Nuova Guinea e l'Australia, dalle isole di Celebes, a Sud delle Filippine, e dalle isole delle Piccole Antille, tra Puerto Rico e il Venezuela. A queste ultime in particolare, appartiene il vulcano recentemente risvegliatosi dell'Isola di Montserrat. Viene spontanea la domanda: come mai tutti questi arcipelaghi presentano una geografia ad arco perfetto? La spiegazione per gli «addetti ai lavori» è conosciuta da un certo tempo, mentre numerose scoperte su questi archi sono appena state presentate nel corso di un congresso internazionale tenutosi all'Università di Adelaide, in Australia. Gli arcipelaghi citati sono tutti costituiti da vulcani cresciuti fino ad emergere dal mare, con eventuali altri vulcani sommersi come alle Eolie; ogni isola vulcanica è gradualmente cresciuta grazie alla risalita verticale di magma attraverso un sistema di fratture di alimentazione che si protende entro la crosta terrestre per parecchie decine di chilometri. Ogni isola vulcanica rappresenta quindi la proiezione in superficie del punto di origine della risalita magmatica. In questi casi il magma si forma in seguito alla discesa in profondità, lungo piani inclinati, di alcuni settori della crosta terrestre, fenomeno conosciuto come «subduzione delle placche tettoniche». Quando una parte di una placca in subduzione raggiunge una profondità sufficiente, le condizioni di alta pressione e tempertura ne permettono la fusione parziale. La porzione fusa, essendo più leggera delle rocce circostanti, inizia a salire «galleggiando» fino a raggiungere la superficie, dove dà luogo alle eruzioni. Se la superficie terrestre fosse piatta, e se le placche in sub duzione avessero sempre la forma di un piano inclinato verso l'interno della Terra, una placca raggiungerebbe la stessa profondità lungo punti la cui proiezione in superficie corrisponde ad una linea retta. Essendo in realtà la superficie terrestre sferica e alcune placche di subduzione curve con la convessità verso il basso, le condizioni di uguale profondità, e cioè di uguale pressione e temperatura necessarie alla fusione, vengono raggiunte lungo una serie di punti non rettilinei: questo avviene in quanto le zone laterali della placca in subduzione si trovano più vicine alla superficie terrestre. Le zone di fusione vengono quindi raggiunte in punti via via più avanzati lungo i bordi laterali della placca in subduzione. Il magma poi risalendo da alcuni punti lungo le zone di fusione darà luogo in superficie ad un arco. Si calcola che il fenomeno di formazione diretta del magma da una placca in subduzione avviene a una profondità dell'ordine del centinaio di chilometri, dove si raggiungono temperature attorno ai 600-700 oC. Questo magma impiega un tempo lunghissimo per risalire lungo i vari sistemi di fratture che incontra; per arrivare in superficie il viaggio del magma richiede un minimo di trentamila anni, ma può arrivare anche fino a centoventimila. Durante la lenta risalita, il magma viene a contatto con tutti gli strati di rocce che attraversa, con le quali si può localmente mischiare cambiando così le proprie caratteristiche fisico-chimiche e aumentando di volume. Alla fine la quantità di magma che arriva in superficie negli archi può essere molto grande, anche molto maggiore, secondo gli studi più recenti, di trenta chilometri cubi ogni chilometro quadrato di territorio per milione di anni. Da un punto di vista geologico sono fenomeni molto veloci: il nostro vulcano Stromboli per esempio, che è alto due chilometri e mezzo a partire dal fondale marino, è sorto in appena un centinaio di migliaia di anni, se paragonati ai circa quattro miliardi e mezzo di anni di età della crosta terrestre. Alessandro Tibaldi Università di Milano


EMERGENZE GEOLOGICHE Vesuvio, la paura rimossa L'Italia a rischio tra terremoti e vulcani
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, VULCANO, TERREMOTI, LIBRI
PERSONE: CASERTANO LORENZO
NOMI: CASERTANO LORENZO
ORGANIZZAZIONI: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. Terremoti e vulcani nel mondo T. Tipi di vulcano
NOTE: «Vulcani e terremoti»

IL terremoto dell'Umbria e delle Marche ci ha riproposto drammaticamente l'emergenza sismica, un rischio che riguarda il 45 per cento del suolo italiano. Ma l'emergenza vulcanica, benché meno frequente e più limitata dal punto di vista territoriale, potenzialmente non è meno preoccupante. In Italia e nel mondo. Mezzo miliardo di persone vivono sotto la minaccia di vulcani attivi o sonnacchiosi ma pronti a ridestarsi. Questa estate la piccola isola caraibica di Montserrat è stata inesorabilmente ricoperta dalla cenere del vulcano Soufriere e la popolazione ha dovuto fuggire. Alcune delle più affollate megalopoli sono alla portata di vulcani attivi e minacciosi, da Città del Messico a Tokyo, Manila, Giakarta, Quito; intorno al Vesuvio, che nel 79 d.C. ha mostrato tutta la violenza di cui è capace distruggendo Pompei, Ercolano e Stabia, si sono addensate in questi 1900 anni 10 milioni di persone. Quale sorta di attrazione fatale tiene avvinghiata tanta gente a questi luoghi? Il filosofo Giordano Bruno, che era nato a Nola, definì il Vesuvio «il padre della Campania», come ricorda il vulcanologo Lorenzo Casertano in un libro appena uscito («Vulcani e terremoti», Edizioni scientifiche italiane), «per l'influenza sia positiva che negativa che esso ha avuto sulla vita vegetale ed animale, e quindi anche su quella umana, che pullula e brulica alle sue falde»; qui, come altrove, il vulcano con il materiale eruttato ha creato i terreni fertili e pianeggianti che hanno attirato fin dalla più lontana antichità gli insediamenti umani, e fornito altre risorse preziose come l'abbondanza di pietra da costruzione, fonti di acqua calda, materiali utili come zolfo, boro, rame e persino oro e argento. All'alba della civiltà mediterranea l'ossidiana di Lipari, il nero vetro vulcanico duro e tagliente, fu una materia prima importantissima per ricavarne utensili, «ciò che per noi è stato l'acciaio prima, e la plastica poi», dice ancora Casertano, esportata in tutta Europa per secoli. Ma oggi, con l'aumento della popolazione del pianeta e la crescita di megalopoli sovraffollate il rischio-vulcani è diventato enorme; per la zona vesuviana, in previsione di una ripresa eruttiva che la maggioranza dei vulcanologi ritiene certa e violenta seppure non collocabile nel tempo, è stato messo a punto un complesso piano di evacuazione, sulla cui attuabilità peraltro le opinioni sono molto contrastanti. Comunque sia, il Vesuvio rappresenta un caso particolare perché è il vulcano più studiato del mondo e quindi, per quanto è possibile, anche il più conosciuto e controllato. Al contrario, la maggioranza dei 1500 vulcani attivi sulla Terra (a parte quelli sottomarini) sono situati in regioni remote, difficilmente raggiungibili, in Paesi con poche risorse da dedicare al loro studio. Le Nazioni Unite, da parte loro, hanno dichiarato gli Anni 90 decennio internazionale per la riduzione dei rischi naturali ma ovviamente non hanno molte risorse da dedicare alla vulcanologia. Si sono invece attivati i vulcanologi: la International Association of Volcanology and Chemistry of the Earth's Interior ha deciso di mettere sotto osservazione 15 vulcani particolarmente a rischio. Sono: Merapi in Indonesia, Taal nelle Filippine, Unzen e Sakurajima in Giappone, Ulawun in Papua Nuova Guinea, Mauna Loa e Rainier negli Stati Uniti (il primo nelle Hawaii il secondo nei pressi delle città di Seattle e di Tacoma nello Stato di Washington), Colima in Messico, Santa Maria-Santiaguito in Guatemala, Galeras in Colombia, Teide nelle isole Canarie, Santorini in Grecia, Riragongo in Congo e i nostri Vesuvio ed Etna. Gli scienziati hanno messo a punto metodi sempre più precisi e affidabili per prevedere le eruzioni, i singoli vulcani sono stati catalogati in varie categorie che dovrebbero avere comportamenti specifici e caratteristici; di fatto, però, ogni vulcano ha una storia a sè, la sua attività non è sempre costante ma può cambiare nel tempo. Alcuni eventi sono particolarmente insidiosi per le popolazioni, difficilmente prevedibili, praticamente incontrollabili; più che le colate laviche vere e proprie furono i gas e le cosiddette colate piroclastiche, frammenti di magma, di roccia, ceneri tipiche delle eruzioni esplosive, a mietere le vittime di Pompei; fu una cosiddetta «nube ardente» o «valanga ardente», una grande massa di materiale vulcanico accumulato alla sommità della montagna e trasformatosi improvvisamente in una frana rovente, che l'8 maggio 1902 piombò a 150 chilometri l'ora dalle pendici della Montagne Pelee, nella Martinica, e in pochi minuti rase al suolo la cittadina di Saint- Pierre uccidendo 29 mila persone (si salvò solo un negro, condannato a morte, protetto dalle mura della prigione). Fu una colata di fango o «lahars» che ricoprì Ercolano mentre la vicina Pompei veniva sepolta da cenere e lapilli. Queste colate possono avvenire sia durante l'eruzione a causa dell'acqua e del vapore acqueo emessi dal vulcano sia poco dopo a causa di violente precipitazioni, d'altronde spesso favorite dal fatto che al di sopra delle bocche eruttive vi è una forte concentrazione di ceneri finissime che agiscono come nuclei di condensazione e favoriscono la formazione di piogge. Altrettanto insidiose le colate provocate dallo scioglimento di nevi e ghiacciai durante le eruzioni di vulcani molto alti, come quelli andini; il 14 novembre 1985 in Colombia l'eruzione del Nevado del Ruiz causò una colata che spazzò via decina di villaggi e provocò 26 mila morti. E infine nell'eruzione esplosiva del Krakatoa nel 1883 fu un maremoto di violenza inaudita a provocare la maggior parte delle 36 mila vittime sulle coste dello stretto della Sonda. L'eruzione del Nevado del Ruiz era stata prevista da alcuni mesi ma le popolazioni non avevano creduto a un effetto così disastroso; le cose sono andate meglio sei anni fa nelle Filippine con il Pinatubo; la sua eruzione fu annunciata in anticipo e le popolazioni indotte ad allontanarsi. A poco a poco, quindi, la capacità di prevedere le eruzioni aumenta; aumenta anche l'attenzione delle autorità preposte alla sicurezza e la disponibilità delle popolazioni a seguirne le indicazioni. Ciò dimostra che la prevenzione è possibile anche di fronte a cataclismi che, finora, l'umanità aveva sempre subito come eventi fatali. Vittorio Ravizza


SCAFFALE «Encarta 98», cd-rom Microsoft
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: DIDATTICA, ELETTRONICA
LUOGHI: ITALIA

LA prima enciclopedia multimediale su cd-rom, «Encarta», è ora disponibile anche in lingua italiana. Microsoft mise sul mercato questa sua opera nel 1993 e da allora si calcola ne abbia venduti otto milioni di copie in 60 Paesi. La versione italiana non si limita alla lingua. L'orientamento stesso dell'opera è stato adattato al mercato italiano, con l'aggiunta e l'ampliamento di voci specifiche. Complessivamente le voci sono più di ventimila, per un totale di 6,5 milioni di parole, 150 mila collegamenti ipertestuali e 300 rimandi a siti Internet. Inoltre è incluso il dizionario «Zingarelli minore», con i suoi 59.000 lemmi. Gli elementi multimediali sono costituiti da 6400 immagini, 1900 brevi brani audio, 100 video e animazioni, 1000 carte geografiche, grafici e tabelle, 23 foto panoramiche a 360 gradi. L'aggiornamento arriva al luglio 1997. Il motore di ricerca interpreta anche eventuali errori ortografici, aiutando a trovare la parola desiderata anche quando la formulazione risulta sbagliata. Per usare «Encarta» è necessario un computer multimediale con processore 486DX o superiore, Windows 95, 8 MB di Ram e 20 MB liberi su hard disk. A complemento, entro dicembre arriveranno sul mercato anche un «DizioRom» e un «Atlante mondiale».


SCIENZE DELLA VITA. NON SOLO IN MONTAGNA Camosci sulla Costa Azzurra Piccoli branchi anche sulla riviera di Trieste
Autore: GROMIS DI TRANA CATERINA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

LA tradizione ha sempre descritto il camoscio come simbolo di grandiosi scenari montani, di agilità e destrezza nel regno silenzioso delle cime più impervie, di robustezza e coraggio nell'infuriare della tormenta tra i dirupi. Le leggende ne parlano come di cavalcatura di streghe che celebravano i loro riti sulle vette e narrano di camosci che presero i raggi della luna per colorare di rosa le rocce delle Dolomiti. E, ancora, la credenza sul camoscio albino: il cacciatore che lo ucciderà morirà entro l'anno e l'ombra bianca dalle corna d'oro apparirà di nuovo sulle cime. E' da ridimensionare questa figura che nell'immaginario di tutti vive a quote più alte degli ultimi alpeggi e che partorisce a temperature proibitive. Il camoscio alpino (Rupicapra rupica pra) è invece un animale adattabilissimo che predilige ambienti di media e bassa montagna se non è relegato dall'uomo a quote più elevate. Importanti per il suo benessere sono i versanti ripidi e rocciosi per sfuggire i pericoli, cosa che fa con grazia e leggerezza per i doni che la natura gli ha elargito (o meglio: per gli adattamenti evolutivi che la selezione naturale gli ha imposto): una possente muscolatura, con articolazioni e tendini che accompagnano elasticità a resistenza, e zoccoli che sono un modello per eccellenza di calzature da roccia: formati di un tallone morbido ed elastico particolarmente adatto ad aderire alle pietre più scivolose, hanno un bordo duro per lo spostamento sui versanti più ripidi, e una membrana che distendendosi a ponte tra i due unghioni divaricati garantisce una maggiore superficie portante sulla neve. Possiede un cuore con pareti muscolari eccezionalmente spesse, capaci di sopportare senza danno oltre 200 battiti al minuto durante le corse sfrenate, e nel suo sangue si trovano tantissimi globuli rossi, per trasportare ai tessuti la maggiore quantità possibile di ossigeno, che scarseggia ad alta quota. Se però trova un ambiente favorevole si spinge sempre più in basso, colonizza zone pastorali e arriva fino ai greti dei fiumi, come accade a una popolazione di camosci che oggi prospera a 100 metri di quota vicino a Nizza. Altri gruppi si sono spinti al Monte Baldo, all'Altopiano di Asiago, alla Sacra di San Michele all'imbocco della Val Susa, addirittura sul mare nei pressi di Trieste. I più grandi nemici dei camosci sull'arco alpino dovrebbero essere le aquile, i cacciatori e l'inverno. Ma sulle Alpi i camosci arrivano al mezzo milione, moltissimi. Le aquile in rapporto a una così grande popolazione sono poche e ben nutrite, e i cacciatori di montagna stanno diventando troppo educati alla caccia di selezione e alle severe leggi che la governano per rappresentare un reale pericolo anche nei comparti alpini dove non c'è la protezione totale dei parchi nazionali. Resta l'inverno, il principale fattore di mortalità, soprattutto per i piccoli che tendono a produrre proteine utili alla crescita, trascurando di accumulare i grassi, indispensabili scorte quando la neve dura a lungo, la dieta diventa poverissima e ogni corsa di troppo può essere fatale. Anche i maschi adulti pagano un grosso tributo alla cattiva stagione perché, dopo essersi presentati in autunno sui campi d'amore nel pieno del vigore, dimentichi della timidezza, tra furibondi inseguimenti ai rivali e rapidi rientri nei branchi di femmine da controllare, non mangiano quasi più e perdono peso ed energia. E' il sacrificio che offrono per il perpetuarsi della specie: dove il clima è più rigido il rapporto tra sessi non è pari, perché gli amori tardivi consumano le riserve dei maschi che arrivano stremati all'inverno. Le femmine sono favorite in questa selezione: dalla seconda settimana di settembre fino a dicembre, finita la lattazione, non consumano grandi energie e non diminuiscono di peso. Così, accompagnate dai piccoli di sei mesi e dai giovani dell'anno precedente, possono trasferirsi ai quartieri di svernamento, sui versanti esposti a Sud dove la neve scioglie prima e dove è facile la caduta di slavine che lasciano scoperte festuche e nardi secchi per sopravvivere. I maschi si accontentano delle zone lasciate libere e in parte si ritirano nel bosco, dove si nutrono di erbe secche, ramoscelli di arbusti, aghi di conifere. D'inverno le ore che i camosci dedicano al pascolo si prolungano perché la ricerca del cibo è impegnativa e gli organi della digestione lavorano ad un regime completamente diverso dall'estate: lo stomaco presenta un'acidità molto meno accentuata del solito, in modo che la digestione è molto più lenta ma anche più completa. Può essere pericoloso l'arrivo della primavera, quando i pascoli rinverdiscono prima che il rumine riacquisti la completa funzionalità: allora, dopo essere sopravvissuti agli stenti, possono morire per l'ingordigia e il troppo cibo. Le femmine dei camosci alpini arrivano di solito al primo parto a tre anni. Le vecchie camozze sterili, note come inutili distrazioni dei maschi nel periodo degli amori, non subiscono tanto un calo della fertilità con gli anni, quanto una sempre minore capacità di allevare i piccoli perché arrivano al parto troppo deboli dopo l'inverno. Durante la bella stagione è facile vedere alle prime luci del mattino e al tramonto i camosci al pascolo, sui versanti montuosi esposti a Nord dove i raggi del sole sono meno cocenti e dove possono sdraiarsi all'ombra durante il giorno a ruminare. L'unità sociale di base è formata da una femmina con il suo neonato e con la giovane figlia dell'anno precedente. I maschi sono solitari e di solito pascolano a quote più basse. I branchi, spesso numerosi, composti da femmine, piccoli e giovani, sono raggruppamenti occasionali: non è fissa la vedetta che con un fischio segnala il pericolo, nè lo è la funzione di capobranco in una femmina esperta che guida la fuga. I trofei dei camosci che abitano le zone più elevate sono il segno di una vita di stenti e privazioni. La bellezza o meno di questi astucci cornei a crescita continua, portati da entrambi i sessi, non ha se non in minima parte un'origine genetica; dipende invece dalla ricchezza di cibo soprattutto nei primi anni di vita, quando si formano i più lunghi anelli di crescita delle corna. I camosci delle Alpi Marittime hanno trofei più belli di quelli che vivono a quote più alte nel parco del Gran Paradiso. Quelli introdotti in Nuova Zelanda, progenie di un piccolo ceppo di montanari austriaci in origine provati nell'aspetto dalla vita durissima dell'alta quota, sono diventati i camosci più belli del mondo. Il futuro di questa specie, dopo aver colonizzato le montagne, sarà nelle vigne e tra gli olivi: qui pascoleranno maestosi animali con trofei bellissimi e si sentirà il fischio di allarme della vedetta a coprire il frinire delle cicale. Caterina Gromis di Trana


SCIENZE DELLA VITA. LISTA ROSSA WWF Animali d'Italia da salvare In pericolo tredici specie nostrane
Autore: GRANDE CARLO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ECOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: WWF
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

ANCHE la natura di casa nostra rischia di scomparire, non solo gli elefanti, le tigri, le balene e i grandi animali simbolo della natura selvaggia: ce lo ricorda il Wwf, che dopo il Libro Rosso delle Piante ha presentato la prima lista rossa dei vertebrati italiani a rischio di estinzione. Un lungo elenco, che si affianca a quello degli animali già scomparsi dall'Italia nel corso di questo secolo. Si tratta di 13 specie: una di mammiferi (la Lince delle Alpi), 10 di uccelli (l'Aquila di mare, il Gipeto - Gypaetus barbatus, che come abbiamo scritto su queste pagine era estinto sulle Alpi ma è stato nuovamente avvistato - l'Avvoltoio monaco, l'Albanella reale, il Falco pescatore, la Starna italiana, il Gobbo rugginoso, la Quaglia tridattila, la Gru e la Monachella nera) e 2 (Lucertola muraiola di Pianosa e la Lucertola campestre di Santo Stefano) sottospecie di rettili. Non consola molto scoprire che nessuna estinzione si è verificata dopo gli Anni 70 (soprattutto grazie a chi si batte per la conservazione della natura), perché le condizioni degli habitat in Italia sono piuttosto gravi: delle 343 specie studiate, il 68 per cento dei vertebrati (terrestri e di acqua dolce) italiani sono a rischio e oltre la metà delle specie tendono a diminuire. In concreto, il gruppo più in pericolo è quello dei pesci (56% delle specie italiane), seguito dai rettili e dagli anfibi. Se consideriamo però il numero delle specie a rischio, il triste primato spetta agli uccelli (170 su 261 nidificanti in Italia), che risultano la classe di vertebrati con il maggior numero di specie in pericolo nel nostro Paese. Questo accade perché gli uccelli sono comunque più numerosi rispetto agli altri gruppi. Tra i pesci sono minacciati metà dei ciclostomi (lamprede) e dei pesci d'acqua dolce, in pericolo grave sono gli Storioni cobice e ladano padano-veneti e il Carpione del Garda. Salvarli è difficile, se non impossibile, perché i loro nemici sono molti: innanzitutto bisogna lottare contro l'introduzione di specie con cui sono entrate in competizione: ad esempio il Siluro (Silurus glanis), segnalato nel bacino del Po con sempre maggiore frequenza a partire dalla fine degli Anni 70 un grosso predatore che raggiunge taglie considerevolmente superiori a quelle di qualsiasi predatore autoctono; nell'areale originario, che comprende l'Europa centrale e orientale, l'Asia occidentale, il Caucaso e l'Anatolia, può arrivare a 3-4 metri di lunghezza e 200-300 chilogrammi di peso. Ma soprattutto pesa il degrado dei nostri fiumi. Contro l'inquinamento industriale e agricolo le nostre acque sono ancora troppo indifese. E' stata ad esempio «depotenziata» la legge Merli sugli scarichi inquinanti, in quanto per gli inquinatori sono per lo più previste solo sanzioni amministrative e non più penali. Le sanzioni penali colpiscono solo le industrie che scaricano direttamente nei fiumi non se lo fanno nelle pubbliche fognature. E inoltre, in questo caso, i limiti sono incerti, perché le industrie possono ottenere deroghe dai Comuni. Inutile dire che da parte delle industrie c'è stata la «corsa alle fognature». Altri micidiali minacce sono gli sbarramenti e le dighe, che impediscono alle specie migratrici di riprodursi, la pesca e il bracconaggio, la captazione di acqua (che dissecca fiumi e torrenti), la cementificazione delle sponde e lo scavo degli alvei. Quanto agli altri gruppi, sono minacciati il 40, 8% dei rettili (di cui 4 in pericolo critico, come la Tartaruga caretta e la Lucertola azzurra dei faraglioni), il 40,5% degli anfibi (dei quali 4 in pericolo critico, come la Salamandra alpina di Aurora e il Pelobate fosco), il 39% dei mammiferi (7 sono in pericolo critico, come la Foca monaca, l'Orso bruno alpino e la Lontra), il 32% degli uccelli (18 in pericolo critico, come il Grifone, il Capovaccaio, l'Aquila del Bonelli). Con gli animali che scompaiono (quasi sempre a causa dell'attività umana, che li colpisce direttamente o più spesso ancora trasforma gli habitat naturali), diciamo addio a un equilibrio antico e ad emozioni irripetibili: ai maggiolini che si facevano correre sul tavolo da bambini, ai gamberi di acqua dolce delle gite fuori porta, al volo maestoso dei rapaci in montagna, alle nuvole di passeri in campagna che facevano il nido nei fienili e nei covoni, cancellati dalle imballatrici meccaniche. Vent'anni fa Pasolini scriveva che avrebbe dato tutta la Montedison per una sola lucciola. Carlo Grande




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