TUTTOSCIENZE 13 agosto 97


GIOCHI DI FERRAGOSTO I polimini di Golomb Un universo straordinario in un foglio a quadretti
Autore: PEIRETTI FEDERICO

ARGOMENTI: GIOCHI, MATEMATICA
NOMI: GOLOMB SOLOMON, CLARKE ARTHUR, ECK DAVID, HEIN PIET
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D.

UN semplice foglio a quadretti il punto di partenza per scoprire un universo straordinario, ricco di strutture originali e curiose, dalle quali si pu ricavare una serie di giochi divertenti. Un foglio simile a quello che aveva davanti a s Solomon W. Golomb, nel 1953 quando, giovane studente di Harvard, per superare la noia di una lezione poco interessante, incominci a tracciare una serie di figure, seguendo le linee dei quadretti. Da bravo matematico, tent di classificarle, cercando di stabilire quante fosse possibile costruirne con uno, due, tre, quattro, cinque o pi quadretti, secondo una regola molto semplice: i quadretti che le componevano dovevano avere almeno un lato in comune e si dovevano considerare equivalenti tutte quelle che si potevano sovrapporre con un movimento qualsiasi. Golomb chiam «polimini» le figure cos ottenute e in particolare chiam monomino il quadretto base, duomino l'unica figura che si pu costruire con due quadretti, trimini quelle costruite con tre quadretti, tetramini quelle con quattro quadretti, pentamini con cinque e cos via. Egli present all'Harvard Mathematics Club il suo gioco, che divenne ben presto molto popolare fra gli studenti. Fu poi Martin Gardner, il massimo esperto di giochi matematici, a rilanciarlo in tutto il mondo attraverso le pagine di «Scientific American». I dodici pentamini, riportati in figura, sono alla base di alcuni fra i pi bei giochi matematici, talmente affascinanti da meritare un'ampia citazione in uno dei racconti di Arthur C. Clarke, «Terra imperiale», dove i pentamini sono uno dei giochi preferiti dagli abitanti di Titano, il satellite di Saturno, colonizzato dall'uomo nel ventiduesimo secolo. E' il gioco che viene regalato al figlio dell'imperatore della Galassia per mettere alla prova le sue capacit.... La sfida quella di costruire un rettangolo di 3x20 quadretti utilizzando i dodici pentamini. Un'impresa difficile visto che - ricorda Clarke - esistono soltanto due soluzioni su un milione di miliardi di possibili combinazioni. Il lettore pu costruirsi i dodici pentamini con quadratini in legno o cartoncino (sono anche in vendita in tutti i negozi di giochi) e provare poi a ricostruire i rettangoli 3x20, 4x15, 5x12 e 6x10 per i quali esistono migliaia di soluzioni diverse. Riportiamo, come esempi, soltanto uno dei due diabolici rettangoli 3x20 (l'altro lo lasciamo al lettore) e uno dei tanti rettangoli 5x12. Per un approfondimento dell'argomento rimandiamo al testo fondamentale di Golomb, «Polyminoes», nella nuova edizione pubblicata recentemente dalla Princeton University Press. Una visita al suo sito su Internet sicuramente interessante: http://commsci.usc.edu/faculty/golomb.html. Chi sceglie il gioco virtuale lo pu caricare gratuitamente (insieme a diversi altri giochi) all'home page di Robert Eldridge: http://www2.hunterlink.net. au/ddrge/games/games.html. E' sorprendente l'ampio spazio che la rete dedica ai polimini, indice della loro grande popolarit.... Si veda, ad esempio, il lungo elenco di indirizzi selezionati da Lei Iat Seng, studente dell'Universit... di Hong Kong: http://home.ust. hk/philipl/omino/omino.html. Di collegamento in collegamento siamo cos arrivati alle pagine di Guenter Albrecht - Buehler, l'artista dei polimini, che realizza composizioni con tasselli in legno aventi la forma dei polimini: http://pubweb.acns.nwu. edu/qbuehler/index.html. Vediamo altri due possibili giochi sempre legati ai pentamini. Il primo consiste nella ricerca dei rettangoli 5x13, costruiti con i dodici pentamini, ma con un buco avente la forma di uno qualsiasi di questi. Riportiamo una delle tante soluzioni possibili. Il secondo stato suggerito da R. M. Robinson, matematico dell'Universit... di Berkley. Si tratta di una costruzione con i pentamini che ha battezzato il «problema della triplicazione»: si pu costruire un modello di ogni pentamino tre volte pi grande, usando nove dei pentamini di base. In questa pagina riportato l'ingrandimento del pentamino U. Un altro gioco consiste nel ricoprire, con i dodici pentamini, una scacchiera 8x8. Rimarranno naturalmente vuoti quattro quadratini in posizioni diverse, raggruppati o separati. Una delle possibili disposizioni riportata in figura. Alla pagina web di David J. Eck si trova la soluzione automatica al problema. E' sufficiente selezionare i quattro quadretti della scacchiera che devono restare vuoti e un programma in Java trova la giusta collocazione dei dodici pentamini. L'indirizzo il seguente: http://godel.hws. edu/java/pent1.html. Sempre la scacchiera pu servire per un gioco competitivo proposto da Golomb. Si deve fabbricare una serie di pentamini, ognuno dei quali combaci esattamente con i quadretti della scacchiera. A turno, due giocatori scelgono poi un pentamino, collocandolo a piacere sulla scacchiera. Perde il giocatore che non riesce pi a collocare un pezzo senza che vada a sovrapporsi agli altri. «Il gioco - dice Golomb - ha un minimo di 5 mosse, un massimo di 12 e non pu mai finire alla pari». A questo punto il lettore curioso pu allargare la sua indagine tentando di ritrovare i diversi polimini e tenendo presente che sono cinque i tetramini possibili, 12 i pentamini, come abbiamo visto, 35 gli esamini, 108 gli eptamini, 369 gli ottomini, 1285 i polimini formati da nove quadretti, 4655 quelli con dieci, 17.073 quelli con undici, 63.600 quelli con dodici quadretti e cos via. Dietro questa successione numerica c' una grande sfida matematica: non si conosce ancora la legge che collega il numero dei quadretti di partenza al numero dei polimini corrispondenti. Si pu anche passare ai polimini tridimensionali, in particolare ai sette pezzi di figura, proposti da Piet Hein, esperto in giochi danese, che li ha battezzati Cubo Soma. Con questi sette pezzi si possono fare diverse composizioni la pi semplice delle quali un cubo 3x3x3. Jay Jenicek propone, dal Texas, diverse pagine web di configurazione possibili del cubo soma, all'indirizzo seguente: http://lonestar.texas. net/jenicek/somacube/somacube.html. Per allargare ancora le frontiere dei polimini si potrebbe passare agli universi paralleli, dove al posto dei quadretti troviamo, come elementi base di nuove figure, simili a quelle che abbiamo appena visto, triangoli, equilateri, tetraedri o altri solidi e poligoni che possono creare piacevoli strutture, ma temiamo che questa nuova indagine impegnerebbe troppo il lettore in vacanza. Possiamo rimandarla alla prossima estate. Federico Peiretti


ORTI BOTANICI NEL MONDO I musei delle piante In costante aumento serre e arboreti
Autore: GRANDE CARLO

ARGOMENTI: BOTANICA
NOMI: LINNEO CARLO, CONSOLINO FRANCESCA, BANFI ENRICO
ORGANIZZAZIONI: ZANICHELLI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Oryi botanici nel mondo»

ARISTOTELE e Teofrasto, Avicenna, Plinio, Ippocrate, Galeno e Dioscoride: ripercorrere la botanica nei secoli è un viaggio affascinante che conduce lontano, in compagnia di medici e filosofi famosi. Forse deriva anche da questo la magia degli orti botanici, isole verdi di straordinaria bellezza, dove germogliano i prodigi del mondo vegetale. Già duemila anni fa, in Estremo Oriente, esistevano giardini dove i monaci Zen coltivavano piante non di stretto interesse economico, da dedicare alle divinità. Piante come le camelie, i crisantemi, la tuja orientale, la crittomeria, poi arrivate in Occidente e diventate altrettanti simboli della nostra civiltà. Nell'Europa medievale furono ancora i religiosi, nella quiete dei monasteri, a prendersi cura delle piante «terapeutiche», coltivando tra aiole geometriche le virtù delle essenze vegetali: i chiostri vennero adibiti a giardinetti di piante medicinali, detti «Herbularii». Nel Rinascimento la tradizione monastica medievale fu rilevata dalle università: sorsero i primi «Horti medici», detti anche «Horti simplicium» (i «semplici» erano gli ingredienti di origine vegetale o animale, che miscelati o da soli costituivano i preparati da impiegare nella cura delle malattie). Si trattava di giardini annessi alle università, frequentati da studenti per imparare a riconoscere il nome delle piante e le loro capacità medicinali. I giardini divennero supporto didattico e di ricerca alla disciplina botanica, mentre la professione del medico cominciò ad assumere carattere ufficiale. Il primo «orto dei semplici» italiano nacque a Pisa, nel 1543, seguito da numerosi altri in tutta Europa, primi fra tutti quelli di Padova e Firenze, nel 1545. Gli orti botanici veri e propri, non solo «orti dei semplici», sorsero solo nel Settecento, con la rivoluzione culturale del grande Carlo Linneo: il naturalista svedese elevò la botanica e la zoologia a discipline autonome, e le piante vennero studiate in sè, non più solamente in quanto mezzo di utilità e produzione. Gli «horti», che grazie alle scoperte geografiche si arricchirono di piante provenienti da tutto il mondo, sorsero anche ai tropici e nei territori coloniali. Proprio gli orti botanici nelle terre più lontane sono il tratto più affascinante di un libro appena uscito, intitolato «Orti botanici del mondo»: con quest'opera in tasca, scritta da Francesca Consolino e Enrico Banfi (edita da Zanichelli) si può fare il giro del pianeta ammirando un'ottantina di orti botanici, dal Giappone all'Australia, dall'India al Brasile, dall'Honduras allo Sri Lanka. In Cina ad esempio, vengono segnalati il «Beijing Botanical Garden di Pechino» e il «South China Botanical Garden» di Canton. Tra i piatti forti di quest'ultimo il «giardino dei bambù», con un centinaio di taxa della portentosa pianta: il bambù gigante, ad esempio, cresce anche decine di centimetri in 24 ore, e la stessa specie ha la peculiarità di fiorire molto raramente, a distanza di decine di anni, ma contemporaneamente in tutti i luoghi del mondo in cui si trova. In Australia si possono visitare i giardini botanici di Canberra, Hobart, Melbourne, Sydney. Quest'ultimo, il più antico, ebbe origine quando il capitano Arthur Philip sbarcò sulla costa orientale per costruire una colonia penale: piantata la bandiera britannica, decise di ovviare alla mancanza di frutta e verdura fresca, in quel bellissimo luogo completamente deserto, piantando in un appezzamento di terra semi provenienti da Inghilterra, Sud Africa e Sud America. La «farm cove» del capitano fu il primo nucleo dell'orto botanico di Sydney. Negli Stati Uniti spiccano il «Desert Botanic Garden» di Phoenix, nel cuore dell'Arizona (le estati caldissime e le precipitazioni scarse, spingono i vegetali ad autentiche performances di resistenza) e il Missouri Botanical Garden di St. Louis, che vanta la serra più antica degli Stati Uniti: costruita nel 1882 in stile vittoriano, ospita splendide fioriture invernali di camelie. Da non dimenticare il ricchissimo «New York Botanical Garden» del Bronx, con la monumentale serra «Conservatory», e il «Fairchild Tropical Garden» di Miami. A molti chilometri di distanza, sulla costa settentrionale di Oahu, l'isola più importante delle Hawaii, sorge l'arboreto/giardino botanico di Waimea: un'ottima occasione per verificare quanto sia decisivo l'impatto dell'uomo sulla natura. Il «Waimea Arboretum» è un paradiso all'interno del «paradiso perduto» delle Hawaii, visitato ogni anno 700 da mila persone. Il declino della bellissima ed esclusiva flora naturale hawaiana iniziò con l'arrivo dell'uomo e dei mammiferi continentali: molte piante con l'arrivo dei grossi erbivori si sono trovate spiazzate, senza il tempo di evolvere meccanismi di difesa, spine o sostanze chimiche velenose. Diversi settori sono dedicati alla flora di isole come Guam, le Mascarene e le Fiji. Dal caldo delle isole al fresco della Scandinavia: nel cuore di Uppsala c'è ancora il giardino dove Carl von Linnè iniziò a studiare la sessualità delle piante, nel 1728. Anche il «giardino barocco» è rimasto come nel Settecento, con cipressi, bossi e tassi interpretati secondo il gusto dell'epoca. Negli ultimi decenni, ricordano gli autori, c'è stato un vero boom degli orti botanici. Nel 1990 se ne contavano circa 1400, oggi il loro numero è in costante aumento. Merito della sete di conoscenza di studiosi e appassionati, ma anche della consapevolezza che le specie e gli ambienti naturali in pericolo, sono sempre più numerosi. Carlo Grande


TORINO Riaperto l'Orto del Valentino
Autore: C_GR

ARGOMENTI: BOTANICA
NOMI: GIULINI PATRIZIO, BALDAN ZENONI POLITEO GIULIAN
ORGANIZZAZIONI: ORTO BOTANICO, GRUPPO GIARDINO STORICO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

RINASCIMENTO degli orti botanici, si potrebbe definire questo momento di grande fervore degli studi sui templi delle piante. La «Rivista di Storia dell'agricoltura dell'Accademia dei Georgofili ha appena dedicato un fascicolo ad una serie di «orti agrari» italiani, tappa importantissima per la nostra agricoltura tra la fine del Settecento e la seconda metà Ottocento. Inoltre l'orto botanico di Padova, che da poco ha festeggiato i 450 anni, ha appena pubblicato a cura del Gruppo Giardino Storico diretto da Patrizio Giulini «Il giardino dei sentimenti» (Guerini e Associati), volume a cura di Giuliana Baldan Zenoni Politeo. Last but not least, riapre il tempio torinese delle piante, nel cuore del Valentino; l'Orto botanico di Torino risale al 1729, essendo l'erede diretto dell'Orto Regio creato su iniziativa di Vittorio Amedeo II accanto all'ala settentrionale del castello del Valentino. I poco meno di tre ettari, a ridosso della facoltà di Architettura, sono divisi in due parti: da un lato gli edifici che ospitano aule e laboratori del dipartimento di Biologia vegetale dell'università, dall'altra il boschetto. Proprio il boschetto, una valletta a forma di anfiteatro circondata da un centinaio di alberi sistemati negli Anni Trenta dell'Ottocento con piccole radure e scenari pittoreschi, è la novità più consistente. Come ricorda la direttrice del dipartimento di Biologia vegetale Rosanna Caramiello, è stato tolto al degrado (i vandali che saltavano la cancellata non erano più pietosi delle bombe cadute durante la guerra), e servirà tra l'altro per mostrare un lembo di «bosco planiziale» ovvero i boschi primigenii che prima dello sfruttamento agricolo occupavano la Pianura Padana occidentale. Nell'area del «boschetto» (dove ogni pianta ha un cartellino e si possono riconoscere specie piuttosto rare, dal Diospyros vir giniana alla Cidonia sinensis) è stato ricostruito uno stagno, tipico ambiente palustre della Pianura Padana. Lì vegetano piante sommerse («idrofite»), piante con organi in parte sommersi («elofite») e piante legate a suoli umidi, come i canneti (dette «igrofile»). Una vasca, che risale invece alla prima metà dell'Ottocento, e offre una collezione di piante acquatiche. Ogni fine settimana e nei giorni festivi i torinesi potranno dunque passeggiare tra gli alberi, sotto la guida di giovani laureati che illustreranno anche il «Giardino» vero e proprio, davanti agli edifici universitari. Qui, intorno a uno splendido viale ombreggiato da tre antichi e maestosi esemplari di ginkgo, di tiglio e di liriodendro, si possono ammirare aiuole «sistematiche», piante medicinali, «cultivar» di piante da frutto, esemplari di flora alpina e mediterranea, tre tipi di serre (temperata, tropicale e per piante succulente), vasche di piante acquatiche autoctone ed esotiche, e infine un angolo per la biodiversità in pericolo, dove cioè saranno protette specie in via di estinzione. Un richiamo alla fragilità di molti esemplari del regno vegetale, come testimoniano i «musei verdi», già abbastanza caduco anche senza l'intervento diretto dell'uomo. (c. gr.)


I Semplici di Pisa Il Giardino compie quattro secoli
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, BOTANICA
NOMI: VESALIO ANDREA, CESALPINO ANDREA, GERBERI FABIO
ORGANIZZAZIONI: ORTO BOTANICO DI PISA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, PISA (PI)

HA appena compiuto 400 anni l'Orto botanico di Pisa, il «Giardino dei Semplici», la più antica istituzione di questo tipo, sorta in Europa grazie al mecenatismo dei Medici. La storia dell'Orto pisano si inquadra nel rinascimento scientifico dell'epoca: Niccolò Copernico aveva scosso le concezioni geocentriche dei seguaci della dottrina tolemaica, Andrea Vesalio aveva apportato innovazioni negli studi anatomici e il Fuchs, massimo botanico dell'epoca, aveva pubblicato una sintesi e aggiornamento della «Historia stirpium». Fino ad allora la storia naturale era stata negletta. L'Orto sorse per soddisfare le esigenze didattiche e di ricerca dell'Università: «Gli studiosi debbono potere vedere le vere e viventi piante per ben imprimere nella memoria le fattezze... malagevole sarebbe stato l'andarle a cercare nei luoghi nativi... con pericolo della sanità e grande perdita di tempo». L'Università allora possedeva tre soli corsi di laurea: teologia, diritto civile e canonico, filosofia e medicina. Lo studente aveva la possibilità di scegliersi il docente essendo attivi per ogni disciplina almeno due corsi concorrenti e con il medesimo programma] Nel '500 la medicina e la botanica formavano un insieme indissolubile: il «De Materia Medica» di Dioscoride era il testo base. Erborizzazione, ossia raccolta di piante, valutazione delle specie vegetali, della loro forma e delle eventuali proprietà sono i primi passi della scienza botanica che vuole divenire autonoma depurando la medicina da una grande massa di superstizioni, orientando le scienze naturali verso le discipline sperimentali. Si utilizzavano esemplari essiccati dando origine a quello che era denominato «orto secco», un primo tentativo di classificazione delle piante anche se molto approssimativa. A poco a poco si incomincia a considerare specie cui non è legato alcun significato farmacologico e nessuno tipo di utilità. Si pongono in discussione l'autorità dei testi classici: il mitico Dioscoride, ad esempio, diventa il Deum discordiae, di lui si criticano le troppo brevi descrizioni di piante, frammentarie ed incomplete. La adeguata iconografia rappresentava un aiuto validissimo e un complemento fondamentale alle raccolte in quanto le immagini dipinte richiamavano i colori della pianta fresca che con il processo di conservazione andavano perduti. A lungo per i botanici la classificazione degli organismi vegetali è stata il problema dominante: d'altra parte già Teofrasto, discepolo di Aristotele, aveva tentato una distinzione in alberi, arbusti ed erbe sapendo, però, che una pianta può essere distinta da un'altra in base a caratteri intrinseci; Dioscoride, invece, si era basato sulle caratteristiche medicinali. Si cercava di comprendere la naturali affinità, ossia la vera, intrinseca natura di una pianta: in tal modo nasce un nuovo aspetto della botanica, la sistematica intesa nel senso più moderno: studio della diversità biologica, ricerca delle affinità, circoscrizione di «unità sistematiche». Andrea Cesalpino decisamente fa fare un passo avanti alla botanica; lo studioso aretino propone caratteri innovativi di classificazione basati sulle modalità di fruttificazione, criteri esposti in una sua celebre opera il «De Plantis» e sostiene che troppo pochi studiosi di botanica hanno congiunto la botanica con studi di filosofia senza la quale non è possibile farvi frutto alcuno perché soltanto questi consentono di individuare quella sorta di anima che chiamiamo vegetativa che serve a dare la vita e a mantenere la specie. Con stupefacente sintesi - come afferma Fabio Gerberi, attuale docente presso l'ateneo pisano, nel suo studio sul Giardino dei Semplici - Cesalpino ha individuato le parti della pianta essenziali alla vita e al suo perpetuarsi: le radici per trarre il nutrimento che mantiene in vita; le strutture vegetative epigee (cioè, «le foglie per coprire il detto punto» e i fiori «uno degli involti intorno ai frutti teneri»). Cesalpino per primo al mondo ha cercato di creare una sistematizzazione del regno vegetale aprendo la via a Linneo. In seguito si fa strada un concetto importante: non basta mai una piccola differenza per classificare in modo diverso una pianta perché luoghi diversi o modalità differenti di coltivazione possono essere all'origine della diversità. A fine Seicento sorge la biologia fiorale, si descrivono le cellule grazie al microscopio, si identificano i batteri, la struttura del legno e del seme, mentre a fine Settecento si adotta la rivoluzionaria classificazione proposta da Linneo. Accanto a tanto progresso c'è anche chi non ritiene più la scienza patrimonio esclusivo di pochi ma si preoccupa di mettere tutti in grado di conoscere da sè le piante delle nostre campagne - come scrive un botanico, il Sari - fornendo le descrizioni nel «nostro idioma natio», utilizzando «nomi triviali» o ancora chi, assai lungimirante all'inizio dell'800 si preoccupa degli effetti dannosi prodotti da un disboscamento inconsulto scrivendo che le «ubertose raccolte che danno per qualche tempo i terreni disboscati sono state un allettamento pernicioso... Quelle venerabili foreste procuravano molti vantaggi: barriera ai venti, riparo al freddo,... con la decomposizione delle foglie formavano il terreno vegetale. «Con il disboscamento le acque hanno trasportato giù anche la terra non più trattenuta dalle radici degli alberi, dopo la terra trasportano sempre parte dei sassi dal che ne segue l'innalzamento degli alvei dei fiumi donde inondazioni frequenti e copiose e come conseguenza un male che per lunghissimo tempo non sarà rimediabile». Sono concetti quanto mai attuali. Elena Accati Università di Torino


SCIENZE FISICHE. RETI GLOBALI SATELLITARI La terza era spaziale L'Alenia al lavoro per Globalstar
Autore: LO CAMPO ANTONIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
ORGANIZZAZIONI: GLOBALSTAR, ALENIA SPAZIO, CENTRO PICCOLI SATELLITI, AEROSPATIALE, ALCATEL, FRANCE TELECOM, OLIVETTI
LUOGHI: ITALIA

DA qualche tempo si parla della «terza era spaziale», quella che consentirà l'accesso allo spazio al vasto pubblico tramite reti globali di satelliti per la trasmissione dati e telefonate a terminali portatili e computer. Gli azionisti di questi consorzi, che includono alcune delle più grandi aziende elettroniche del mondo, stanno investendo 30 miliardi di dollari in questi progetti; quando questo si realizzerà, centinaia di piccoli ma efficientissimi satelliti commerciali saranno lanciati, rivoluzionando il business delle telecomunicazioni. Uno dei maggiori progetti per fornire servizi mobili personali da satellite è «Globalstar», che vede l'industria aerospaziale italiana protagonista; la Divisione Spazio di Alenia Aerospazio è responsabile per l'assemblaggio, l'integrazione e i test a Terra dei 56 satelliti della rete «Globalstar», e delle relative 112 antenne attive. Nell'ambito di questo programma, Alenia Aerospazio aveva inaugurato lo scorso gennaio il nuovo Centro Piccoli Satelliti, il primo e più avanzato del mondo per integrare e realizzare satelliti di piccole dimensioni, che giocano oggi un ruolo sempre maggiore per le reti satellitari. Questi sistemi sono infatti basati su costellazioni di decine o centinaia di piccoli satelliti che verranno collocati in orbita nei prossimi anni, e per questo vi è la necessità di produrre grandi quantità di satelliti di piccole dimensioni in tempi brevi. La visita al Centro Piccoli Satelliti di Alenia Aerospazio a Roma per un gruppo di addetti ai lavori, è diventata il primo raduno nazionale di appassionati di astronautica, organizzato in collaborazione con la Società Spaziale Italiana ISS. E' in questo Centro unico al mondo che si stanno forgiando gli apparati della rete «Globalstar», un consorzio guidato dall'americana Loral. Il sistema satellitare prevede 48 satelliti operativi, più otto di riserva, in orbita a circa 1500 chilometri di quota. Il lancio dei primi satelliti, come conferma Claudio Mastracci, di Alenia Aerospazio è previsto per fine novembre o per i primi di dicembre, con i primi quattro satelliti che partiranno con un razzo vettore americano Delta 2. L'inizio dei servizi è invece previsto per i primi del '99 e offrirà collegamenti di alta qualità a basso costo per telefonia, trasmissione dati, trasmissioni facsimile e individuazione della posizione a Terra. Globalstar permetterà inoltre di fare e ricevere chiamate su telefoni portatili in ogni parte del mondo, utilizzando la telefonia cellulare o la rete telefonica pubblica. Sempre sui sistemi di lancio, i numerosi satelliti verranno trasferiti in gruppi: «Generalmente saranno gruppi di quattro» - dice ancora Mastracci - «ma un grappolo di 12 verrà inviato il prossimo anno in Kazakhstan, per essere lanciati tutti insieme da un vettore russo Sojuz». Concorrente diretto dell'altro programma «Iridium», il cui lancio dei primi satelliti (66 per conto della Motorola) è avvenuto nei mesi scorsi, «Globalstar» semplificherà il progetto del satellite pur necessitando di molte stazioni terrestri per controllo e comunicazioni. Saranno 140 le stazioni sparse sul globo terrestre per ottenere una copertura totale e sfruttare la completa capacità dei 48 satelliti operativi. Il consorzio Loral, che basa le previsioni commerciali su 6 milioni di terminali in uso, metà mobili e metà fissi, si avvale di importanti membri europei quali Aerospatiale, Alcatel, France Telecom, e le nostre Alenia Aerospazio e Olivetti. Il Centro Piccoli Satelliti di Roma, su un'area complessiva di 6000 metri quadrati, ospita una «camera pulita» di 4000 metri quadrati continuamente controllata e mantenuta ad un tasso del 55 per cento di umidità relativa a una temperatura di 20 gradi centigradi. All'interno vi sono «isole» e aree di lavoro, dove i tecnici vestiti da infermieri operano sui vari sistemi da integrare dei satelliti. C'è anche un sito con attrezzature di prova per la verifica di funzionamento dei satelliti e delle antenne simulando le condizioni operative ambientali; il tutto collegato ad un sistema informatico che gestisce i dati, raccoglie e analizza i risultati delle prove. Senza dimenticare una camera a vuoto di metri 30 per 3,5 dove vengono provati gli elementi propulsivi dei satelliti, quelli cioè che permetteranno spostamenti orbitali e dell'assetto. I satelliti sono dei parallelepipedi affiancati da lunghi pannelli solari che si dispiegheranno una volta raggiunta la quota orbitale. Globalstar è ormai sulla rampa di lancio; alternandosi tra Cape Canaveral e Bajkonur, una schiera di satelliti targati Italia migliorerà le potenzialità dei telefonini. Antonio Lo Campo


SCIENZE FISICHE. SORDITA' Induzione magnetica a teatro
Autore: GIORCELLI ROSALBA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
NOMI: MAGNANI MAURO
ORGANIZZAZIONI: OVAL WINDOW AUDIO, ASSOCIAZIONE AUDIES
LUOGHI: ITALIA

TEATRI accessibili per chi ha difficoltà uditive: si stanno moltiplicando in Veneto le installazioni di una tecnologia statunitense dedicata ai sordi, un sistema di amplificazione ad induzione magnetica che può rendere più amichevoli le sale conferenze e le aule scolastiche, l'aeroporto, la chiesa. Dichiarata innocua per la salute, nata in Europa 40 anni fa, questa tecnologia negli Anni Ottanta è stata ripresa e raffinata negli Usa, e qui oggi largamente impiegata; per citare alcuni nomi, la Gallaudet University (università per sordi), la catena alberghiera Hilton, l'aeroporto internazionale Logan di Boston. A promuovere in Italia il sistema «Superloop» prodotto dalla statunitense Oval Window Audio, è l'Associazione Audies, fondata nel 1993 a Scorzè (Venezia) per la diffusione di cultura e tecnologie per le persone sorde, principalmente per chi è diventato sordo in età adulta. Sono quattro le installazioni attuali e presto se ne aggiungeranno altre dieci, in auditorium delle province di Venezia, Padova, Rovigo e Treviso a cura dei Lions Club locali. L'ing. Mauro Magnani, presidente di Audies, diventato gravemente sordo a 32 anni, spiega: «Basta posare un cavo lungo le pareti della sala da attrezzare; collegandolo al microfono si crea un campo di induzione magnetica di bassissima intensità ma sufficiente ad eliminare la distanza tra chi parla e chi indossa una protesi acustica: il segnale viene direttamente ricevuto dalla protesi, eliminando il disturbo del rumore di fondo. Il sistema funziona con protesi retroauricolari dotate di bobina telefonica magnetica ed impianti cocleari. Chi porta impianti endoauricolari o non adopera protesi può indossare delle cuffiette. Con un campo debole e di intensità variabile (presente solo quando si parla) non ci sono pericoli per la salute. Nei sistemi bidimensionali occorre rimanere con la testa dritta per una ricezione uniforme, problema che non si pone per sistemi a campo tridimensionale progettati per asili, scuole, stazioni, aeroporti. All'aeroporto Logan di Boston è installato un sistema 3-D sotto la pavimentazione di due sale d'attesa e ad uno sportello informazioni. In teoria, possono giovarsene le persone con una perdita uditiva fino a 80 decibel, anche se ogni sordità è un caso a sè. Rosalba Giorcelli


SCIENZE FISICHE. LA GEOMETRIA FRATTALE Per misurare la forma delle nuvole Il termine fu coniato nel 1975 da Mandelbrot
Autore: DRAGONI MICHELE

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA
NOMI: MANDELBROT BENOIT
LUOGHI: ITALIA

LINEE rette, triangoli, quadrati e circonferenze sono alcuni elementi della geometria euclidea, inventata dai Greci per descrivere il mondo due millenni e mezzo fa. Su queste forme semplici abbiamo organizzato l'ambiente urbano e rurale e la maggior parte degli oggetti della tecnologia di cui ci serviamo quotidianamente. Se però osserviamo il paesaggio naturale, notiamo che le forme geometriche predominanti sono assai più complesse e difficilmente descrivibili con gli elementi della geometria euclidea. La forma delle montagne, il percorso dei fiumi, l'intrico delle foreste, il profilo delle coste, la topografia dei fondali marini, la forma delle nuvole, la struttura delle forme biologiche animali e vegetali sono alcuni esempi. L'organizzazione di queste strutture è spesso così complessa che non è possibile descriverla specificando con equazioni la posizione di ogni loro punto, così come si fa nella geometria euclidea. La geometria frattale fornisce gli strumenti per descrivere queste forme complicate. Essa consente di definire l'insieme di punti che costituisce una data struttura tramite le operazioni che permettono di costruirla. E' un po' come descrivere il sistema solare citando la legge di gravitazione e definendo le condizioni iniziali: il resto viene di conseguenza. Il termine frattale fu coniato nel 1975 da Benoit Mandelbrot, il quale lo derivò dal latino fra ctus, che significa «rotto», «spezzato». Lo studio della morfologia terrestre ha avuto una funzione determinante nello sviluppo della nuova geometria. La definizione rigorosa dei frattali richiede considerazioni espresse nel linguaggio simbolico della matematica e precisamente della teoria degli spazi metrici. Semplificando, possiamo dire che i frattali sono forme che si ottengono come risultato di una successione infinita di trasformazioni di una data forma di partenza. Limitandoci a due dimensioni, pensiamo a tutte le immagini che si possono disegnare con una penna su un foglio di carta: sono, naturalmente, infinite. Immaginando il foglio come un insieme di punti, ciascuno individuato da due coordinate, è possibile definire operazioni che trasformino un disegno in un altro. Anche le possibili trasformazioni sono in numero infinito. Consideriamo in particolare quelle trasformazioni che rimpiccioliscono le immagini disegnate: i matematici le chiamano contrazioni. Esse hanno la caratteristica di lasciare immobile un punto del foglio, al quale l'intera immagine si avvicina restringendosi. Supponiamo di applicare ripetutamente a una stessa immagine un'operazione di contrazione. Nel limite di una successione infinita di contrazioni, ogni punto dell'immagine tenderà allora al punto fisso. Oltre a rimpicciolire, una contrazione può anche spostare la figura iniziale sul foglio. Poiché il rimpicciolimento e lo spostamento possono avvenire in misure e con modalità diverse, il numero delle contrazioni possibili è infinito. Se consideriamo non una sola, ma più contrazioni diverse, ciascuna applicata un numero infinito di volte alla figura di partenza, si produce una moltiplicazione all'infinito di tale figura, con dimensioni sempre più piccole. La figura limite che si ottiene è un frattale. Forme complesse, che per essere descritte con la geometria tradizionale richiederebbero centinaia di migliaia di numeri, possono essere specificate indicando le operazioni necessarie per costruire la figura limite. Queste possono richiedere solo qualche decina di numeri. I frattali così ottenuti si avvicinano alle strutture reali, ma - per il modo in cui sono costruiti - le loro parti sono identiche le une alle altre. Ciò in generale non è vero per le strutture reali, che nel corso della loro storia sono influenzate da tanti fattori e risultano assai più irregolari. Per ottenere frattali più vicini alle strutture reali bisogna introdurre il caso. Ciò avviene perturbando in modo casuale ogni successiva trasformazione della forma iniziale. Si ottengono così i frattali aleatori. La geometria frattale sta dando un contributo all'interpretazione di forme e processi complessi che si presentano nello studio della Terra, come in altri campi. Non solo la superficie della Terra, ma anche la complessa topografia del suo interno, che si sta svelando grazie alle tecniche di tomografia sismica, possono essere riprodotte tramite la geometria frattale. Essa consente di determinare importanti caratteristiche di un sistema anche quando, come avviene in molti casi, il meccanismo fisico che lo governa non è ancora del tutto chiarito. Michele Dragoni Università di Bari


SCIENZE FISICHE. CRISTALLOGRAFIA Ioduro di mercurio ambiguo tuttofare
Autore: DALL'AGLIO GIANNI

ARGOMENTI: FISICA
ORGANIZZAZIONI: MICROTEX
LUOGHI: ITALIA

NON sempre è chiaro ai profani che cosa faccia esattamente chi studia la crescita dei cristalli. Alcuni forse pensano al sale da cucina e si chiedono come si possa spendere soldi pubblici per attività simili a giochi da ragazzini. La realtà però è alquanto diversa. Per esempio, pochi conoscono lo ioduro di mercurio: è un composto artificiale, che non esiste in natura, di formula HgI2, che suscita l'interesse di parecchi cristallografi perché sembra destinato ad acquistare una grande importanza pratica in un futuro non troppo lontano; è infatti un sensibilissimo rivelatore di radiazioni X e gamma a temperatura ambiente, con numerose possibili applicazioni in vari campi scientifici, medici, industriali e ambientali. E' facile capire il perché: un rivelatore ad HgI2 permetterebbe ai medici di usare una minore quantità di radiazioni sui pazienti per le loro radiografie, permetterebbe misure più accurate della radioattività, anche minima, presente nell'aria o nell'acqua, o nella vegetazione, o comunque nell'ambiente. Lo ioduro di mercurio allo stato solido può presentarsi sotto diversi aspetti. Ha un diagramma di stato complicato: esiste il cosiddetto alfa-HgI2, che cristallograficamente appartiene alla classe tetragonale, di colore solitamente rosso (ed è quello con le proprietà più interessanti), e il beta-HgI2, che cristallizza nella classe rombica, di colore giallo. L'alfa-HgI2 migliore è quello cresciuto da vapore ma anche la crescita da soluzione può dare risultati interessanti. Però, nonostante anni di studio condotti in diversi centri di ricerca nel mondo (ad esempio presso il Politecnico di Zurigo e all'Università di San Paolo del Brasile), i meccanismi di crescita di tali cristalli non sono ancora ben controllabili. I problemi da risolvere riguardano soprattutto l'omogeneità strutturale, la purezza, la velocità di crescita, la forma dei cristalli, il grado di perfezione interna, la dipendenza della struttura reticolare dalla gravità. Non sono questioni di poco conto perché se si vuole che lo ioduro di mercurio dia il meglio di sè occorre che i cristalli siano di ottima qualità: senza difetti strutturali, senza impurezze, praticamente perfetti, insomma. Bisogna quindi farli crescere bene, questi cristalli, ma è un lavoro difficile, per ora. Di certo si è visto che la crescita da vapore è la tecnica che produce i cristalli migliori. Però c'è un altro inconveniente: il vapore di HgI2 che va a depositarsi sul germe cristallino per farlo crescere è riscaldato tra i 100 ed i 130 gradi C, ma a quelle temperature il cristallo di HgI2 non è rigido, anzi è piuttosto plastico e può piegarsi sotto il proprio peso; ne consegue che quando viene raffreddato fino a raggiungere la temperatura ambiente, quella cioè in cui dovrebbe essere arzillo e operativo, si è ormai deformato ed ha ridotto di molto le sue mirabolanti proprietà. Sarebbe perciò bello farlo crescere nello spazio, dove non c'è la gravità che lo appesantisce e lo deforma. Per approfondire la conoscenza di questo interessante ma ambiguo cristallo, che pare essere uno dei migliori candidati al titolo di «materiale-che-rende-bene- farlo-crescere-nello-spazio» sia in termini scientifici sia in termini economici, l'agenzia spaziale italiana Asi ha finanziato un progetto triennale dei Dipartimenti di scienze della terra e di fisica dell'Università di Genova destinato alla costruzione di un «Diffrasore». Si tratta di un elegante apparecchio da laboratorio che può misurare lo spostamento che un raggio di luce coerente (laser) subisce attraversando un fluido (soluzione o vapore) all'interno del quale stia crescendo un cristallo. Fornirà misure locali del gradiente di concentrazione del fluido nelle immediate vicinanze del cristallo in crescita. «Locale» significa che la misura è fatta in un volume molto piccolo, di poco superiore alla lunghezza d'onda della luce usata. I primi esperimenti di crescita di HgI2 da soluzione condotti presso l'Università di Genova, in collaborazione con i ricercatori svizzeri e soprattutto con i brasiliani, risalgono a cinque anni fa, e furono eseguiti su un prototipo del Diffrasore «fatto in casa» che ora appare geniale ma obsoleto. Il nuovo apparecchio, che è stato disegnato e costruito, in accordo coi cristallografi genovesi, presso il laboratorio della Microtex ad Almese, là dove la pianura torinese diventa Val di Susa, promette di essere un eccellente punto di incontro tra meccanica, ottica e scienza dei materiali. Gianni Dall'Aglio Università di Genova


SCIENZE DELLA VITA. ADDESTRATI ALLO SMINAMENTO I delfini-genieri dell'US Navy Impiegati dalla Marina anche leoni marini e orche
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: RID RIVISTA ITALIANA DIFESA, US NAVY
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, CALIFORNIA, CORONADO

QUALCHE anno fa era diventato popolare un beluga bianco, cetaceo caratteristico delle fredde acque dell'Artico, comparso invece a varie riprese sulle coste del tiepido Mar Nero; legittimo il sospetto che si trattasse di un animale fuggito da una delle basi della marina militare ex sovietica situate nei pressi di Sebastopoli. Si sa da tempo che i militari di alcuni Paesi utilizzano i mammiferi marini, ma le notizie, o meglio le ipotesi (talvolta fantasiose) in proposito sono scarse e frammentarie perché tutta la materia è top secret. Per questo è molto interessante un articolo pubblicato recentemente da «Rid - Rivista Italiana Difesa», sempre molto informata e precisa, sull'impiego dei mammiferi marini da parte della marina militare americana. Come si sa delfini, beluga, orche sono dotati di un sonar naturale, collocato nella testa nel cosiddetto «melone», che consente loro di localizzare gli oggetti sott'acqua, al buio, addirittura sotto la sabbia, di stabilirne la distanza, di definirne la forma. Ciò, unito alla sviluppata intelligenza, alla docilità e alla facilità di apprendimento, ne fa dei potenziali «soldati» straordinariamente affidabili. La Us Navy cominciò a pensare di sfruttare queste capacità fin dal '59 ma fu durante la guerra del Vietnam, quando numerose unità furono affondate nei porti da attacchi di subacquei vietcong, che si cominciò a impiegare i delfini per pattugliare le acque intorno alle navi. Alla fine degli Anni 70 gli studi sui mammiferi marini furono organizzati intorno al Marine Mammals System e le esperienze acquisite tornarono utili nella Guera del Golfo, dove delfini furono utilizzati per individuare mine e per contrastare eventuali incursori iracheni. Attualmente, secondo i redattori di «Rid», la Us Navy conta su sei gruppi di mammiferi marini addestrati per operazioni diverse. Il principale centro di addestramento è a Coronado, in California, un altro a Charleston, in Sud Carolina. I mammiferi impiegati sono Tursiopi (Tursiops truncatus, specie molto diffusa anche in Mediterraneo), delfini dal naso a bottiglia tipici del Pacifico, oltre alle otarie, ma si stanno addestrando anche altri cetacei, tra cui le orche. Vi sono poi quattro gruppi operativi. Il team Mk-4Mod0 impiega delfini addestrati a cercare e a neutralizzare mine subacquee ancorate sul fondale. Gli animali, trasportati sul luogo da bonificare su veloci motovedette dotate di una speciale cuccetta bagnata che tiene costantemente umida l'epidermide dei cetacei, si immergono tenendo in bocca una carica esplosiva; una volta individuato l'ordigno attaccano la carica al cavo e risalgono in superficie; contemporaneamente risale un segnale galleggiante che informa gli uomini della motovedetta che la carica è stata agganciata; una volta che i delfini sono tornati al sicuro sulla motovedetta la carica viene fatta esplodere. Il team Mk- 5Mod1 utilizza invece quattro otarie, o leoni marini; questi iniziarono a operare nel '76 per il recupero delle testate dei razzi Asroc che si sperimentavano nei poligoni di Charleston e di Santa Rosa; oggi collaborano al recupero di mine da esercitazione e di altri oggetti usati in questi poligoni sperimentali della Marina. Gli otto delfini del gruppo Mk- 7Mod1 sono invece addestrati a scovare le mine da fondo, ordigni che con vari sistemi vengono fatti affondare nella sabbia o nella melma, in modo da non essere individuabili dai sonar e invisibili sia ai sommozzatori che ai robot di ricerca muniti di telecamere. I delfini, abituati a cercare sotto la sabbia le loro prede, riescono invece molto bene nel compito. Sono invece gli assaltatori subacquei nemici l'obiettivo dei sei delfini del gruppo Mk-6Mod1, addestrati a localizzare e a segnalare alle unità di appoggio la presenza di incursori intorno a obiettivi di particolare rilevanza. Questo tipo di impiego fa sorgere il quesito: i mammiferi marini sono «comandati» anche a uccidere? Gli Stati Uniti hanno sempre assicurato di no, ma secondo alcune ipotesi gli animali potrebbero essere anche addestrati a togliere il respiratore agli assaltatori, a far esplodere cariche nelle loro vicinanze, addirittura a pungerli con siringhe piene di veleni potenti e a rapido effetto. Una cosa, invece, è quasi certa: cetacei e foche non sono impiegati per missioni suicide, sia pure per una ragione molto poco idealistica: addestrare questi animali costa moltissimo e non sarebbe conveniente sacrificarli per un'unica missione. Vittorio Ravizza


SCIENZE DELLA VITA. AIDS Il virus respinto dalle chemochine
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

CI sono novità interessanti a proposito dell'Hiv, il virus dell'Aids: novità che riguardano il sottile gioco di incastri del virus nelle nostre cellule, e che schiudono importanti prospettive di profilassi e di terapia. Si sa che l'aggancio delle particelle di Hiv ai nostri linfociti avviene attraverso l'affinità d'una molecola dell'involucro del virus, la glicoproteina gp120, con la molecola CD4 della membrana dei linfociti. L'involucro virale, interagendo con CD4, modifica la sua conformazione, il che gli permette un contatto intimo con la membrana dei linfociti. Così Hiv può penetrare nei linfociti e dare inizio all'infezione. Dunque CD4 è il «recettore», il ricevente che apre la porta ed accoglie il virus. Però si è sempre pensato che per l'ingresso del virus dovesse esserci qualcosa di più oltre a questo aggancio, ossia che esistessero altri recettori. Ricerche recenti lo hanno confermato. L'inizio fu casuale. Si vide che tre chemochine, indicate con le sigle Rantes, M18-1 alfa e M18-1 beta, proteggevano i linfociti dall'attacco del virus Hiv (le chemochine sono piccole molecole proteiche partecipanti ai fenomeni infiammatori). Era un effetto protettivo indiretto: le chemochine occupavano determinati recettori dei linfociti, che pertanto non potevano più essere agganciati dal virus. Infatti neutralizzando le chemochine con anticorpi la protezione scompariva. In altre parole il virus, per realizzare l'infezione, utilizza non soltanto il recettore CD4 ma anche dei co-recettori, quelli che, vedi combinazione, sono propri delle chemochine, identificati appunto per questa fortuita circostanza. Si chiarì poi che due sono i recettori delle chemochine utilizzati come co-recettori da Hiv. Durante i primi anni dell'infezione senza sintomi il virus utilizza il co-recettore CC-R5 (vedi Dragic T. e altri, Nature 1996); quando ha inizio la fase sintomatica dell'Aids il virus utilizza il co-recettore CXC-R4, esclusivamente o anche insieme con il CC-R5 (vedi Feng Y. e altri, Science 1996). Le chemochine, ripetiamo, bloccano l'ingresso di Hiv in quanto occupano recettori che il virus dovrebbe utilizzare come co-recettori. Orbene, le eventualità terapeutiche legate a questa constatazione sono evidenti. E' presumibile la possibilità di preparare chemochine somministrabili all'uomo, oppure, con procedimenti di ingegneria genetica, di fare produrre le chemochine dai pazienti stessi. Tutto questo, ben inteso, richiede per un'eventuale utilizzazione clinica ricerche che stabiliscano l'effetto antivirale delle chemochine non solo in vitro ma anche in vivo. Così si potrebbe sapere quale chemochina, o associazione di chemochine, si dovrebbe utilizzare, e in quale momento dell'infezione, in associazione o meno con la chemioterapia antivirale. Come è noto esistono soggetti dotati di resistenza naturale all'infezione da Hiv. Orbene, altra scoperta recente, la resistenza è conseguente alla assenza del co- recettore CC-R5, accertata nell'1 per 100 delle popolazioni caucasiche ma non in Africa e in Asia (vedi Samson M. e altri, Nature 1996). Ciò conferma l'importanza delle chemochine e dei loro recettori nella patogenesi dell'infezione da Hiv. I vaccini anti-Aids del futuro dovranno tenere conto di queste nuove conoscenze. In conclusione questo campo di investigazione, per il momento appena all'inizio, potrebbe essere veramente rivoluzionario per la lotta contro l'Aids. Ulrico di Aichelburg


SCIENZE DELLA VITA. GENETICA L'intelligenza è ereditaria? Le analisi su 240 coppie di gemelli svedesi
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: GENETICA
NOMI: GALTON FRANCIS
ORGANIZZAZIONI: SCIENCE
LUOGHI: ITALIA

DA oltre un secolo, cioè dai tempi dello scienziato inglese Sir Francis Galton, i neuroscienziati si sono posti la domanda di quanto le nostre facoltà cognitive dipendano da fattori ereditari e di quanto si sviluppino a causa dell'ambiente (genitori, scuola, esperienze e ambiente in genere). Come potremmo misurare il contributo dei geni alle nostre abilità cognitive? Semplice. Basta che cloniamo un individuo in modo da averne una copia perfetta garantendo così che sia geneticamente identico al fratello. Sento elevarsi cori di proteste da parte di tutti i cosiddetti movimenti per la vita per la violazione dei diritti naturali. Ci dimentichiamo però che la natura è la prima a condurre tali esperimenti ogni giorno creando gemelli identici (monozigoti) e non identici (eterozigoti). Utilizzando questo materiale umano di veri cloni, un team composto da scienziati svedesi ed inglesi ha analizzato le facoltà cognitive di 240 coppie di gemelli svedesi ottuagenari del medesimo sesso. Tali gemelli fanno parte del registro svedese che comprende il 96% di tutti i gemelli svedesi e che costituisce un patrimonio di enorme valore per studi di genetica medica. Le coppie scelte per lo studio erano costituite da soggetti in ottime condizioni intellettuali e di salute in genere. I risultati pubblicati nella rivista «Science» di giugno sono sconcertanti anche se non del tutto inattesi. Essi indicano che il fattore più importante per lo sviluppo delle nostre abilità intellettuali non è l'ambiente in cui viviamo (istruzione compresa) ma la presenza di fattori genetici che fanno strettamente parte dell'ereditarietà. Secondo i risultati i geni che ereditiamo dai nostri genitori determinerebbero per oltre il 60% il livello delle nostre facoltà intellettuali. La potente influenza dei geni si estende dalle abilità cognitive generali (ciò che definiamo intelligenza) a quelle più specifiche e caratteristiche della nostra personalità come abilità verbali, riconoscimento spaziale, velocità nell'apprendere e nel ricordare i fatti appresi e a concepire il mondo attorno a noi. I fattori genetici considerati in questo studio sarebbero particolarmente determinanti per lo sviluppo ed il mantenimento di tutte quelle caratteristiche che si associano direttamente alla funzione intellettuale di ogni giorno e che vanno dalla memoria detta di lavoro (ricordarsi delle cose apprese poco prima) fino alle abilità di tipo spaziale (riconoscere i luoghi). Ciò indicherebbe una profonda penetrazione dell'influenza genetica sui tratti personali dell'individuo. Poiché lo studio è stato eseguito su una popolazione anziana (ottantenni) i risultati suggeriscono che il contributo genetico alla nostra formazione intellettuale non diminuisca coll'età ma che si mantenga fino alla fine della vita. Cosa sappiamo di questi geni? Negli animali di laboratorio dal topolino alla drosofila (una mosca della frutta) sono già state individuate famiglie di geni legati al comportamento ed alle funzioni intellettuali. Si sospetta che alcuni di questi abbiano una funzione analoga nell'uomo. Grazie a nuove tecniche di genetica come quella utilizzata nello studio dei gemelli svedesi definita Qtl (Quantitative trait loci) sarà possibile in futuro identificare i geni responsabili non solo per l'ereditarietà di differenze cognitive ma anche studiarne la mancanza o il difetto presente in individui in particolar modo cognitivamente disabili (ritardati mentali). Usando tecniche di clonazione (se non saranno bandite definitivamente per legge) sarà possibile riprodurre in laboratorio animali portatori di difetti umani e studiare possibili metodi di correzione e terapia oggi impensabili. La vera struttura genetica dell'intelletto umano è ancora lungi dall'esser chiarita. Studi del tipo di quello dei gemelli svedesi indicano la via da seguire per scoprire la causa di difetti di sviluppo intellettuale ignorata finora ed aiutare i disabili. Il peso dell'ereditarietà sulle nostre caratteristiche individuali non diminuisce affatto l'importanza di altri fattori determinanti lo sviluppo intellettuale quali l'ambiente in cui viviamo e lavoriamo, le nostre esperienze personali dall'infanzia in poi ed il livello di istruzione acquisito. Ezio Giacobini


SCIENZE DELLA VIATA. IN BREVE Sclerodermia: in Italia mille casi all'anno
AUTORE: BODINI ERNESTO
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, MILANO (MI)

Nell'arcipelago delle malattie poco divulgate compare anche la Sclerosi Sistemica Progressiva, più comunemente nota come Sclerodermia. Letteralmente significa «pelle dura», ispessita, che tende ad aderire ai piani profondi e che non permette di far sollevare la pelle tra le dita, come quando, ad esempio, diamo un pizzicotto. La pelle delle mani di questi malati tende a formare una guaina dura che può portare all'anchilosi in flessione delle dita. La malattia può colpire inoltre gli organi interni come il cuore e i vasi arteriosi, l'esofago, il sistema gastroenterico e soprattutto i polmoni che, come la cute, tendono ad indurirsi. Può manifestarsi a qualunque età, con picchi di incidenza intorno ai 30 e ai 50 anni e con una netta predilezione del sesso femminile: le donne, infatti, rappresentano l'80-90 per cento della popolazione sclerodermica. Anche se presente in tutte le aree geografiche la sclerodermia è una malattia poco frequente ma non rara: ogni anno si verificano 10-15 casi per milione di abitanti, ma studi recenti indicano che l'incidenza della malattia è maggiore di quanto sinora sostenuto e che tende ad aumentare. Si ritiene che tale tendenza all'aumento sia dovuta alla disponibilità di mezzi diagnostici più sofisticati, in grado di individuare precocemente soprattuto i pazienti con fenomeno di Raynaud, quelli che potrebbero sviluppare la sclerodermia. Se si calcola che in Italia ogni anno si verificano circa 1000 casi, si può stabilire che le persone colpite da sclerodermia superano le 30 mila unità. Nonostante meritevoli iniziative (a Milano, in piazza S. Ambrogio 25, tel. 02/805.78.42, è molto attivo il Gruppo Italiano per la Lotta alla Sclerodermia), nel nostro Paese la malattia è tuttavia poco conosciuta; purtroppo non è diagnosticata (o diagnostica in ritardo) seppur in presenza di conclamate manifestazioni cliniche. A questo riguardo, è molto importante il coinvolgimento del medico di base. Sul tema, a Milano dal 3 al 5 ottobre, un congresso internazionale. Ernesto Bodini


BIODIVERSITA' A RISCHIO SULLE ALPI In Val Pellice le ultime sei vacche Savoiarde Scomparse dappertutto antiche razze bovine, equine, caprine
Autore: GIULIANO WALTER

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: FONDAZIONE PRO SPECIE RARA, CIPRA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, VAL PELLICE (TO)

L'arco alpino costituisce una straordinaria concentrazione di biodiversità. Basti pensare alla vegetazione e alla flora con, insieme, specie autoctone e specie artiche o nordeuropee che si sono rifugiate sulle Alpi nel corso delle glaciazioni. Pensiamo al grande numero di specie endemiche che hanno selezionato, in ambiti territoriali generalmente ristretti, un patrimonio genetico unico. Pensiamo al fatto che in un'area, come ad esempio le Alpi Marittime, relativamente modesta in termini di superficie, troviamo uno spettro vegetazionale che va dalle specie glaciali a quelle mediterranee. Per dare qualche cifra, ricordiamo le oltre 3500 specie presenti e il fatto che il 31 per cento sono endemiche. Ma questa biodiversità è a rischio. Perché le Alpi sono un ecosistema fragilissimo e molto sensibile. La perdita di biodiversità può avvenire a livello di ecosistema, con l'estinzione di specie che vivono in un determinato ambiente, oppure all'interno di una singola specie, con la riduzione della base genetica. In campo faunistico, emblematico è il caso dell'orso bruno del Trentino, ridotto a una popolazione ai limiti o forse già oltre i limiti dell'estinzione. In campo vegetale il riferimento va a quelle specie forestali che la pratica selvicolturale ha ridotto geneticamente uguali. La biodiversità è a rischio non solo per le specie naturalmente presenti nell'ambiente alpino, ma anche per talune piante coltivate e per alcuni animali domestici. Non dobbiamo infatti dimenticare che su questa base naturale di biodiversità si è innestato il lavoro di selezione svolto dall'uomo. Alle risorse genetiche agricole è dedicata una recente ricerca svolta dalla Fondazione Pro Specie Rara di San Gallo (Svizzera) su incarico della Cipra, la Commissione Internazionale per la Protezione delle Regioni Alpine. Lo studio ha evidenziato la scomparsa definitiva di due razze bovine, 14 ovine, 5 caprine. Altre sono a rischio. Tra le razze bovine lo studio segnala i casi della Burlina, della Grigia di Val d'Adige, della Pusteria, della Tarina. La razza Burlina, detta anche Binda, Boccarda, Pezzata degli altipiani, risulta essere presente in poco più di 200 capi in Veneto (Treviso, Vicenza, Altopiano di Asiago). La Grigia di Val d'Adige, presente anche con i sinonimi di Ultinger ed Etsctaler deriva dalla Grigia alpina ed è diffusa in Val d'Ultimo e Val d'Adige con poco più di 20 esemplari ed è dunque in situazione molto critica. Poco più rosea la situazione della Pusteria, diffusa in tutte le aree laterali della valle da cui prende il nome (altre denominazioni locali sono Pezzata Rossa Norica, Pustertar Schecken, Pustertalen Sprinzen, Moeltaler Rind), ma che stenta a raggiungere i 60 esemplari. La situazione più critica se la aggiudica tuttavia la razza Tarina o Savoiarda che nel nostro Paese sopravvive in soli 6 capi in Val Pellice. Se dai bovini passiamo agli equini, la razza in maggior sofferenza è sicuramente il cavallo Samolaco che sopravvive in meno di un centinaio di esemplari nella zona di Chiavenna in provincia di Sondrio. In difficoltà nella penisola (circa 100 capi) ma diffuso anche in Austria e Slovenia il cavallo di razza Norica. Tra gli ovini il maggior rischio lo corrono la pecora Brianzola (20 esemplari), la Steinschaf (40), la Bellunese, la Ciuta, la Garessina, la Tacola, la Villoesser (meno di 100 capi), la Carsolina (150), la Sampeirina (200), la razza Brogne (600 pecore), la Alpagota e la Frabosana (un migliaio di esemplari), la Pecora di Cortena (2000 capi), la Brentegana (3000 pecore). Quasi estinte, in purezza, le razze Savoiarda, la Val Badia, la Livo, la Carnica. Per i caprini le situazioni di maggior difficoltà di conservazione sono denunciate da razze come la Lafrisa Valtellinese, la Locale 4 Corna, la Roccaverano, la Sempione, la Tibetana, la Valdostana, la Vallesana, l'Istriana, la Grigio Alpina, la Bomina e la Bionda dell'Adamello. Quanto alle varietà vegetali allevate sull'arco alpino lo studio della «Pro Specie Rara» evidenzia alcuni casi che richiedono particolare attenzione: le more di gelso, le noci del Piemonte, alcune varietà di vite, di ortaggi, di fagioli, di patate, nonché di cereali, in particolare segale, orzo, grano autunnale e mais. In abbandono coltivazioni come lino, canapa e molte specie di piante medicinali. Oggi, davanti al processo di cosmopolitismo delle specie coltivate che porta alla standardizzazione del patrimonio genetico, dobbiamo preoccuparci anche della salvaguardia del germoplasma delle specie coltivate e delle razze allevate e dunque della biodiversità in campo agricolo. Fortunatamente qualche iniziativa concreta è già stata messa a punto anche su stimolo dell'Unione Europea che ha previsto, nei suoi programmi di intervento, specifici sostegni a questo settore. Non solo, ma molti parchi e aree protette hanno predisposto raccolte viventi di germoplasma, con la coltivazione di varietà tipiche ma in via di abbandono e con l'allevamento di razze bovine, equine, ovine, caprine che corrono il rischio di estinzione. In campo naturale infine diventa strategico salvaguardare, più che le singole specie, soprattutto gli habitat in cui vivono. Quindi non può che essere salutato con favore il progetto europeo Corine nel quale si inseriscono le iniziative di Bioitaly, con il censimento di biotopi che andranno a costituire la Rete Natura 2000. Walter Giuliano




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