TUTTOSCIENZE 16 luglio 97


SCIENZE FISICHE I NUMERI DELL'IMMONDIZIA
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, AMBIENTE, RIFIUTI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
TABELLE: T. (dati nel testo)

SCENA I (estate 1997, esterno giorno): una famigliola si gode il classico picnic domenicale. Dopo il pranzo e la pennichella di rito, è l'ora del rientro in città. Nonostante il bagagliaio dell'auto sia a pochi passi, sembra più comodo abbandonare sul prato i rifiuti: torsoli di mela, tovagliolini di carta, bottiglie d'acqua e di vino, lattine di birra, il giornale, mozziconi di sigaretta, batterie usate della radio, borse e contenitori di plastica. Scena II (stesso luogo, 100 anni dopo): un gruppo di scout sta ripulendo il prato. A parte gli avanzi di cibo e la carta, trova esattamente tutto ciò che la famiglia Rossi aveva abbandonato un secolo prima. Scena III (stesso luogo, 500 anni dopo): un giovane laureando in archeologia sta cercando reperti per la sua tesi. Senza fatica trova numerosi reperti: una lattina di birra, 3 bottiglie di plastica, diversi cocci di vetro. C'è anche una scheda telefonica perfettamente integra, mentre un furetto ha utilizzato una vaschetta di polistirolo per coibentare la sua tana. In un anno ciascuno di noi produce 350 chilogrammi di rifiuti, più o meno 1 chilo al giorno. Ma non è tanto una questione di peso, piuttosto di ingombro. Una sola persona riesce a colmare di immondizia 160 vasche da bagno l'anno. Se prendiamo in considerazione la tipica famiglia media, quella dei signori Rossi, tutto va moltiplicato per quattro: a parte l'immondizia abbandonata sul prato, in 12 mesi i Rossi riuscirebbero ad accumulare una massa di pattume tale da riempire fino al soffitto un alloggio di 100 metri quadri. Soggiorno e cucina sarebbero colmi di rifiuti organici (il 43% del totale annuo), ma un buon 22% (la stanza dei ragazzi) è composto da carta e cartone proveniente da imballaggi, quotidiani e riviste. Le materie plastiche riempirebbero a mala pena il bagno (sono in media il 7% della nostra quota annua di rifiuti), mentre lo sgabuzzino sarebbe colmo di metalli (l'alluminio delle bibite e le latte per uso alimentare) e la camera da letto dei genitori verrebbe occupata da materiali vari come vetro, farmaci, stoffa, gomma, cavi e componenti elettroniche. Ma torniamo sulla scena del delitto. Dopo un picnic sono in molti ad abbandonare sul prato il cibo avanzato. Tanto è tutta roba biodegradabile, dicono. Vero, ma fino a un certo punto, perché alcuni cibi vengono lavorati dall'uomo con sostanze artificiali che si biodegradano più lentamente. E poi provate a pensare cosa accadrebbe di un prato molto frequentato durante la domenica se tutti ci affidassimo alla biodegradabilità di certi rifiuti. Il lunedì mattina sarebbe ridotto a una discarica a cielo aperto. Che dire di tutti quei materiali praticamente eterni come plastica, vetro, alluminio e polistirolo? Senza voler criminalizzare nessuno, è bene che tutti noi riflettiamo sulla gravità di un gesto apparentemente banale come gettare in terra una lattina o un pezzo di carta anziché depositarli nei cassonetti della raccolta differenziata. Chi vuole approfondire il tema non ha che da visitare la mostra interattiva «Experimenta 97», organizzata dall'assessorato alla cultura della Regione Piemonte, aperta a Torino da sabato scorso nel parco di Villa Gualino (viale Settimio Severo 63, orario 16-24 da martedì a venerdì, sabato 15-24, domenica 10-20). Il tema della mostra, giunta quest'anno alla dodicesima edizione, è «Scienza e fantascienza». I viaggi nello spazio, ma anche la vita quotidiana, comporteranno infatti, in un futuro neanche troppo lontano, il riciclaggio integrale delle risorse già utilizzate. Andrea Vico


SCIENZE FISICHE. GLI INDISTRUTTIBILI RESTI DEL PICNIC Rifiuti: di qui all'eternità Lattine, vetri, plastica, possono resistere nell'ambiente per secoli
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, AMBIENTE, RIFIUTI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

BOTTIGLIA DI VETRO: 4.000 ANNI (O FORSE PIU') IL vetro è uno dei materiali più antichi nella storia della civiltà. Non patisce il caldo o il freddo, è facile da pulire (dunque igienico), inattaccabile alle intemperie, agli acidi o a funghi, batteri o microrganismi. Un prodotto naturale (praticamente sabbia e soda lavorate ad alta temperatura), quindi, da un certo punto di vista, non lo si può considerare un inquinante. Non reca danno all'ambiente, anzi, in un bosco si comporta come una roccia (le radici degli alberi vi si aggrappano, gli insetti vi fanno la tana) e nel mare serve come base per la costruzione di barriere coralline o come fondamenta per la casa dei molluschi. E' tutt'al più un problema di sicurezza: abbandonare un coccio di vetro all'aperto significa creare pericolo per gli animali di passaggio. Oppure è un fatto estetico: chi andrebbe a fare un picnic su un prato invaso dalle bottiglie? Il vetro è talmente facile da riciclare (basta fonderlo a temperature elevate, 1.300-1.500 gradi centigradi) che già gli antichi romani usavano raccoglierlo per rilavorarlo. Nel 1990, nell'alto Adriatico, è stato scoperto il relitto di una nave romana del II o III secolo d.C. Nella stiva c'erano anche alcuni contenitori colmi di vetro sminuzzato. Se si fosse trattato di casse piene di bottiglie andate in frantumi durante il naufragio i cocci avrebbero occupato meno della metà del volume delle casse. Invece i contenitori erano zeppi fino all'orlo, e il vetro era di molte qualità diverse. Dunque doveva essere materiale di scarto da portare in qualche vetreria per farne nuovi recipienti. A seconda delle nostre abitudini alimentari, il vetro che ognuno di noi butta via varia dal 3 all'8% del totale annuo di immondizia personale. Vale a dire da un minimo di 12 chilogrammi l'anno a un massimo di 28. Fortunatamente più della metà viene recuperato. In Italia il 54% dei contenitori di vetro per uso alimentare (acqua, succhi di frutta, marmellate, birra, vino e altri alcolici) sono riciclati. In linea con la media europea (56,3%), ma ancora distanti dalla Svizzera, prima in classifica con l'84% del vetro recuperato, dall'Olanda (77%), dall'Austria (76%) e dalla Germania (75%). -------------------------------------------------------------------- TORSOLO DI MELA: 3-6 MESI UN torsolo di mela, come buona parte dei rifiuti vegetali (frutti e verdure), è composto da cellulosa, acqua e zuccheri, tutte sostanze perfettamente naturali e facilmente riassorbibili dall'ambiente. Lasciato in un prato, il torsolo viene aggredito dagli insetti e dai batteri che se lo mangiano con gran voracità. D'estate, complice il bel tempo, un frutto si biodegrada in poche settimane (anche 15 giorni in un torrente di montagna, grazie all'erosione della corrente); d'inverno ci vuole più tempo perché il gelo rallenta l'azione dei batteri. -------------------------------------------------------------------- SIGARETTA SENZA FILTRO: 3 MESI IL mozzicone di sigaretta è composto da cellulosa e residui di tabacco bruciacchiato, sostante perfettamente biodegradabili. Sull'asfalto può resistere anche un anno, ma in un prato, l'azione combinata di luce, pioggia e microrganismi lo dissolvono in meno di 3 mesi. -------------------------------------------------------------------- SIGARETTA CON FILTRO: 2 ANNI LE sigarette col filtro impiegano minimo un anno e mezzo a biodegradarsi. Il filtro è infatti costituito da acetato di cellulosa trattato con altre sostanze artificiali che risultano poco appetibili ai batteri del terreno. Nei casi migliori qualche insetto lo sminuzza per ricavarne materiale per la propria tana. -------------------------------------------------------------------- FIAMMIFERO: 6-10 MESI Il fiammifero da cucina è fabbricato con tenero legno di pioppo che, se cade su un terreno umido, si dissolve in circa 5-6 mesi. Qualche mese in più occorre (e un torrente facilita decisamente il processo), per il cerino, composto da uno stelo di carta pressata inzuppato in una sostanza oleosa (paraffina o stearina), meno biodegradabile del legno puro. -------------------------------------------------------------------- GOMMA DA MASTICARE: 5 ANNI IL «succo» del chewing-gum (sostanze aromatizzanti, coloranti e zucchero) viene assorbito dall'organismo durante la masticazione. Quel che si butta è il supporto, composto da gomma e resine sintetiche. La gomma è un prodotto della natura, ma la sua miscela (ottima per la sua elasticità) è assolutamente indigesta a funghi e batteri. E' inoltre impermeabile: dunque anche in acqua la sua biodegradabilità non cambia. E' dannoso gettare in un prato la gomma da masticare anche perché uccelli e piccoli mammiferi rischiano di strozzarsi. Circa il 40 per cento dei rifiuti di una famiglia, ovvero una secchiata di pattume al giorno, è composto da materiale organico (avanzi e scarti di cibo) che, se raccolti a parte, potrebbero diventare compost, cioè ottimo fertilizzante per i campi, gratuito e - soprattutto] - perfettamente naturale. -------------------------------------------------------------------- FAZZOLETTO DI CARTA: 3 MESI DEI 12 miliardi di fazzoletti di carta che ogni anno vengono venduti in Italia una gran parte li ritroviamo per terra, in strada, al parco, sulla spiaggia o in montagna. Fortunatamente la carta è facilmente biodegradabile (non rimane che acqua e anidride carbonica) e, nel caso dei fazzolettini monouso, questo processo viene accelerato dal fatto che, al momento di disfarsene, sono umidi. L'acqua è l'elemento determinante per il dissolvimento della carta. Un torrente si mangia un fazzolettino in pochi giorni, mentre lo stesso materiale sepolto in un terreno asciutto può impiegare anche 6 mesi per biodegradarsi. -------------------------------------------------------------------- QUOTIDIANI E RIVISTE: 4-12 MESI Un quotidiano è fatto di carta, cioè di lignina, vale a dire una complessa catena di molecole dove abbonda lo zucchero. Dopo l'azione di alcuni batteri, questa catena si spezza in elementi base (carbonio, idrogeno e ossigeno), immediatamente assorbibili dall'ambiente. L'inchiostro si diluisce facilmente in acqua, ma è inquinante. Ugualmente accade con le riviste in carta patinata, che impiegano anche un anno prima di dissolversi. Inoltre i batteri lavorano meglio se devono aggredire una pagina alla volta: una pila di giornali legata stretta può resistere all'aperto anche 10-12 anni. Ogni giorno noi italiani buttiamo nella spazzatura 5 milioni di tonnellate di giornali, riviste e imballaggi di cartone. Durante l'intero 1994, su tutto il territorio nazionale sono state raccolte solo 200 mila tonnellate di carta. Vale a dire 548 tonnellate di carta recuperate in un giorno a fronte di 5 milioni di tonnellate sprecate. Non tutta questa carta è recuperabile. Ma se consideriamo che 150 chilogrammi di carta da macero significano salvare un albero, ogni giorno, qualora noi italiani avessimo una maggior educazione ambientale e fossimo meno pigri, potremmo risparmiare la vita a 20 mila alberi. L'Italia è il regno dei controsensi e anche l'industria della carta ha il suo. Nel 1995 le 170 cartiere italiane hanno importato da Francia e Germania circa 800 mila tonnellate di carta da macero, che hanno lavorato per rivendere come carta riciclata. Quasi la metà di questo materiale (350 mila tonnellate) è frutto delle raccolte differenziate che nell'Europa del Nord sono molto ben organizzate e dove il riciclo fa parte della mentalità dei cittadini. Se anche noi imparassimo a raccogliere la carta, potremmo rifornire autonomamente le nostre cartiere evitando che ogni anno 10-12 mila camion arrivino in Italia sulle strade della Val di Susa e del Trentino. -------------------------------------------------------------------- LATTINA DI ALLUMINIO: 20-100 ANNI IN un anno in Italia si consumano 1 miliardo e 700 mila lattine di alluminio. Una trentina a testa. Messe una dietro l'altra si arriverebbe a coprire più della metà della distanza che separa la Terra dalla Luna. Oppure, mettendole una accanto all'altra, si coprirebbe una superficie pari a quella di 1.300 campi da calcio. L'alluminio è un metallo prezioso, ormai indispensabile: è forse il metallo più diffuso come componente di oggetti d'uso quotidiano. E' praticamente inalterabile (passa dal caldo al freddo senza modificarsi), estremamente igienico (è un ottimo contenitore per alimenti), leggero, facilmente lavorabile. Inoltre, l'ossido naturale che lo ricopre lo protegge dall'azione del tempo, mantenendone invariato il peso e le caratteristiche fisiche. Proprio per questo una lattina abbandonata durante una passeggiata nel bosco può resistere decine di anni all'erosione dell'aria e della pioggia. Una latta in banda stagnata (che sono però usate raramente dall'industria alimentare e costituiscono meno del 5 per cento del totale delle lattine) è invece più veloce a dissolversi: esposta alle intemperie, la ruggine se la mangia in poco più di un anno. Per un chilo di allumino riciclato serve il 5% di energia iniziale, nonché esattamente 61 di lattine per bibita, una rete di recupero del materiale e uno stabilimento di semplice tecnologia situabile ovunque (dal processo di rilavorazione non vengono emesse sostanze inquinanti). Nella fase di recupero ne va perso un quantitativo minimo, il più basso, in percentuale, rispetto a tutti gli altri materiali riciclabili. Ma quel che più conta è l'alta economicità del processo: un chilogrammo di alluminio riciclato fa risparmiare ben il 95% dell'energia necessaria per ottenere la stessa quantità di alluminio di prima produzione. L'alluminio è riciclabile all'infinito e per ogni ciclo serve solo un ventesimo di alluminio fresco, nuovo, per mantenere inalterata la quantità e la qualità del materiale ottenuto col riciclo. Negli Usa, dove questo tipo di industria è molto ben organizzata, è stato calcolato che la vita media di una lattina è di 2 settimane: se viene acquistata in un supermercato il primo giorno del mese, dopo esser stata bevuta, buttata, recuperata, fusa e nuovamente riempita, il giorno 15 dello stesso mese sarà già in vendita sugli scaffali di un altro negozio. -------------------------------------------------------------------- CARTA TELEFONICA: 1.000 ANNI NEL 1995, nella sola Lombardia sono state vendute quasi 20 milioni di schede telefoniche. Una sopra l'altra formerebbero una torre alta 6.500 metri. Carte telefoniche, carte per il pedaggio autostradale o altre tessere magnetiche usa-e-getta, tutte hanno dimensioni standard (86 millimetri in base, 54 in altezza) e sono generalmente costruite con una lamina di polietilene spessa da un terzo a un quarto di millimetro, su cui viene incollata una striscia magnetica (lo stesso materiale dei nastri delle musicassette) che custodisce le informazioni del caso (le telefonate fatte o i pedaggi di ciascun casello...). Queste carte plastiche sono costruite in economia, dunque non c'è modo di riciclarle, l'unica via è la discarica. Per questo è importante non abbandonarle in giro, ma utilizzare le apposite cassettine che sono state montate accanto a quasi tutti i telefoni pubblici a scheda. Le carte di credito o i bancomat sono una cosa differente: sono più robuste (sono spesse mediamente 0,75 millimetri) e comunque vengono sistematicamente ritirate, per questioni di sicurezza e di tutela dei dati che la carta contiene. -------------------------------------------------------------------- BOTTIGLIA DI PLASTICA: 100-1.000 ANNI APPENA 500 grammi al mese: è quanto ogni italiano consuma in plastica per contenitori di liquidi, circa 6 chili l'anno. E' poco? Certo, detto così non è una gran cifra, ma se pensiamo al volume che i recipienti di plastica occupano le cose cambiano. Con 6 chilogrammi si fanno più di 150 bottiglie e se immaginassimo di aprire questi contenitori e unirli uno dietro l'altro potremmo ritrovarci un tappeto largo 30 centimetri e lungo quasi 50 metri. Per la loro praticità (sono igienici, perfettamente stagni, inalterabili alle intemperie, leggeri, economici...) i contenitori in Pet e Pvc costituiscono l'80-90 per cento dei rifiuti plastici delle grandi città. Sono quasi indistruttibili: l'acqua gli fa il solletico, l'aria gli fa perdere un po' di elasticità, non esiste batterio o fungo in grado di attaccarli. Bruciano con una certa facilità (in fondo la plastica è petrolio) ma restano comunque gocce di materiale nerastro e la combustione sviluppa la pericolosissima diossina. -------------------------------------------------------------------- SACCHETTO DI PLASTICA: 100-1.000 ANNI FINO a 5-6 anni fa i sacchetti di plastica erano fatti di Pet, come le bottiglie dell'acqua. Dunque erano praticamente indistruttibili. Oggi vi sono sacchetti parzialmente (e sottolineiamo parzialmente, checché ne dicano alcune pubblicità) biodegradabili perché il Pet viene mescolato con degli amidi, sostanze naturali che si sciolgono in acqua senza troppi danni per l'ambiente. Recentemente sono state realizzate pellicole plastiche fotosensibili, cioè che si 'sciolgonò alla luce intensa. Occorre comunque qualche mese e nel frattempo non è bello vedere un prato coperto di sacchetti vuoti. Inoltre questi contenitori così pratici per l'uomo sono pericolosissimi per gli animali, specie gli erbivori, che possono mangiarli mentre sono al pascolo rischiando così di morire soffocati.


SVOLTA STORICA ALLA NASA Il nostro futuro nello spazio Con lo sbarco su Marte inizia una nuova era
Autore: CANUTO VITTORIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, ASTRONOMIA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: NASA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Anatomia del Rover (caratteristiche tecniche del robot «Sojourner» ). Luogo dell'atterraggio della sonda «Pathfinder». Come arrivano le «cartoline»

DUNQUE gli abitanti della Terra hanno invaso Marte. Data storica: è avvenuto il 4 luglio 1997, festa dell'indipendenza americana. In una delle giornate più memorabili, la Nasa, ambasciatrice di tutta l'umanità, ha fatto atterrare sul pianeta rosso un piccolo robot. A Pasadena in California, dove si era riunito il gruppo direttivo della Nasa, durante tre giorni di festeggiamenti, con centinaia di visitatori di tutte le età, l'America ha dimostrato ancora una volta di essere una nazione di esploratori. Che cosa significa questa missione? Significa che è iniziata una nuova era, due, anzi: in certo senso, il Rinascimento e l'Illuminismo, contemporaneamente. Non più missioni ciclopiche come l'Apollo, in cui si misero tutto le uova in un solo paniere, imprese costose, rischiose e quindi rare. Quell'era è finita. E' iniziata un'era illuminata, realista e lungimirante. E' iniziata l'era delle missioni più piccole, più veloci e meno costose: questa è la nuova linea della Nasa. Invece di attendere finché si abbia una nave con «tutto a bordo», cosa che richiede anni di preparazione, il nuovo illuminismo prevede un viaggio a Marte ogni 26 mesi, una costruzione lenta e metodica di un grande edificio, mattone per mattone, nulla di prefabbricato da trasportarsi di peso. Poi, forse fra 20-30 anni, arriverà l'uomo, mentre nel frattempo avremo acquisito una conoscenza particolareggiata di quello che potrà diventare un nuovo habitat. Il lander con robot, ribattezzato «Carl Sagan» in onore del grande planetologo scomparso, è il primo mattone. Perché Marte? Se osserviamo il nostro sistema solare, la scelta è quasi d'obbligo. Alla nostra sinistra (planetariamente parlando), c'è Venere con una temperatura infernale di 500oC. Fonde il piombo. Non sono necessari altri commenti. Alla destra, c'è Marte, 1,5 volte più lontano dal Sole di noi, con un giorno di 24 ore e 37 minuti, con un anno di 687 giorni nostri e dove ci sono stagioni poiché il suo asse di rotazione è inclinato di 25o. Un pianeta quindi non così dissimile, un pianeta direi quasi italiano, se mi permettete un po' di sciovinismo, non solo perché porta il nome datogli dai Romani ma perché Schiaparelli portò all'attenzione mondiale con la «scoperta» dei famosi canali che fecero pensare ad una civiltà ormai scomparsa. Nasceva la domanda: c'è vita su un altro pianeta? Marte non ha potuto trattenere un granché di atmosfera a causa della sua bassa gravità (3/8 di quella terrestre) e quindi soffre di grandi escursioni termiche: la temperatura media è di -55oC, con variazioni da - 120oC a più25oC. In queste condizioni, non è chiaramente un posto vivibile, come non lo è la Luna. Ma mentre quest'ultima è biologicamente morta, Marte non lo è. C'è speranza perché ci sono i mattoni per costruire. Contiene infatti abbondanti quantità di CO2 (anidride carbonica) che, opportunamente trasformata, potrebbe generare un «effetto serra» e riscaldare il pianeta in modo costante come succede qui sulla Terra. In una prospettiva più generale, possiamo dire di avere imparato da Venere quello che non dobbiamo fare (eccessivo incremento dei gas ad effetto serra) e da Marte quello che potremmo fare, generare cioè un giudizioso ed equilibrato effetto serra, terraformando un pianeta vicino. Il sottosuolo marziano può contenere acqua, quindi idrogeno e ossigeno, elementi indispensabili e alla base di qualsiasi operazione biologica e meccanica. Tutti abbiamo sentito parlare del famoso meteorite ALH84001 trovato fra i ghiacci dell'Antartide e nei cui interstizi è stata trovata aria che ha esattamente la stessa composizione chimica dell'atmosfera che la missione Viking osservò su Marte nel 1976. Questo meteorite è ora sotto studio poiché potrebbe contenere indicazioni preziose di vita allo stato batterico su Marte. La missione del 4 luglio e l'annuncio del meteorite ALH84001 hanno dato inizio al Rinascimento delle esplorazioni spaziali. Qual è il costo? L'ultima missione «Viking» del 1976 costò 3,5 miliardi di dollari. Il «Mars Observer», che sparì nello spazio all'improvviso, costò un miliardo di dollari. Per dare una prospettiva globale, il budget annuale della Nasa è di 13 miliardi di dollari, quello della città di New York di 30 miliardi. La Nasa spende meno dell'uno per cento del bilancio annuale del governo Usa. Quanto è costata la missione Pathfinder? Non più miliardi, ma milioni: infatti, il budget annuale di questa missione è di 150 milioni di dollari, il costo del film Indiana Jones e di tanti altri film che si girano qui vicino ad Hollywood. Imprese spaziali al prezzo di film di azione] Il quadro generale è quindi quanto mai positivo. C'è però un problema serio: il trasporto, che oggi corrisponde al 61 per cento del costo. Maggiore è il peso da trasportare, più potente deve essere il vettore di lancio e quindi maggiore è il costo. Quindi occorrono nuove idee. La produzione di propellente su Marte porterebbe a una riduzione del 40 per cento. Si potrebbero quindi usare i piccoli Delta-3 invece dei mastodontici Titan o Proton. La propulsione attuale (chimica) ci porta a Marte in sette mesi. Troppo. L'assenza di gravità tende a decalcificare le ossa, rimpicciolire il cuore, atrofizzare la muscolatura, senza contare che all'arrivo ci attende una gravità che è solo un terzo di quella terrestre. E se invece di sette mesi potessimo arrivare in 90 giorni? Così propongono i fautori dell'uso di altre forme di energia di propulsione, per esempio nucleare. Tutti sappiamo che questo è un nervo scoperto della psiche pubblica ma anche se questo scoglio venisse superato, la tecnologia necessaria non sarà pronta prima del decimo viaggio a Marte. Sarà anche indispensabile imparare a vivere dei «frutti della terra», in questo caso di Marte. Gli esperimenti programmati ci diranno se sarà possibile convertire l'atmosfera di Marte ricca di CO2 onde produrre propellente. Si potrebbero generare 40 tonnellate di ossigeno liquido per fornire di propellente un veicolo di ritorno, permettendo allo stesso tempo a un equipaggio di sei persone di disporre di un rifornimento di aria per una permanenza dai 18 ai 20 mesi. Vorrei terminare questa panoramica con una considerazione di carattere generale. Io credo fermamente che l'esplorazione spaziale sia scritta nel nostro codice genetico. La vita nacque negli oceani, dove rimase fino a 600 milioni di anni fa, quando si irradiò sulla Terra, dove si trovò a dover affrontare un mostro mai visto: la gravità. La vita superò questo ostacolo e oggi camminiamo eretti, diretti dal computer più potente del mondo, il cervello umano, sede di un numero di interruttori elettro-chimici pari al numero di stelle della Via Lattea. Fra i tredici e i diecimila anni fa avvennero tre fatti importantissimi: ci visitò il meteorite ALH84001, regalandoci un esempio della vita forse batterica su Marte, terminò l'ultima glaciazione e scoppiò una supernova, che contribuì psicologicamente alla trasformazione da società nomadiche a quella agricola. Si inventarono i numeri. In questi 10 mila anni abbiamo compiuto meraviglie. E' ora che si restituisca la visita al nostro vicino Marte, ora che abbiamo fuso due epoche d'oro, il rinascimento e l'illuminismo. Vittorio Canuto Nasa, Goddard Institute New York


PARLA IL «PILOTA» DELLA SONDA «Una donna violerà il pianeta rosso»
AUTORE: PICCOLO ROBERTO
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, ASTRONOMIA, TECNOLOGIA
PERSONE: DIARRA CHECK
NOMI: REVELLINI TOMMASO, DIARRA CHECK
ORGANIZZAZIONI: NASA
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, FRANCIA, MEGEVE

SARA' una donna il primo essere umano a camminare su Marte, intorno al 2010. Parola di Check Diarra, caponavigatore della missione sul pianeta rosso, in questi giorni sulle Alpi francesi, a Megeve, per la prima conferenza dopo lo sbarco della sonda Pathfinder. Guarda il cielo e dice: «Da qui mi sento più vicino ai miei figli», riferendosi alle sonde Ulisse, Magellano, Galileo e Pathfinder che guida o ha guidato da Pasadena nell'esplorazione del Sole, di Venere, Giove e Marte. Le attenzioni maggiori sono però tutte per «Sojourner», il robot che come un segugio sta annusando la superficie marziana. «E' una macchina formidabile, lavora bene e si muove con sicurezza tra le asperità del terreno. Un miracolo di tecnologia: in soli 10 chili tre telecamere, un computer, le batterie, i pannelli solari, cinque laser di navigazione, uno spettrometro, la radio e 11 motorini collegati alle sei ruote, compresi i quattro dedicati ai cambi di direzione. Il tutto governato da una potenza di soli 6 watt]». Qual è il significato di questa missione? «Le ricerche hanno carattere chimico-geologico: sono indirizzate a conoscere la composizione e la consistenza del suolo marziano con lo scopo di fornire elementi utili all'atterraggio e al movimento, in futuro, delle astronavi e dei veicoli con equipaggio umano. Questa prima indagine che sarà perfezionata, a partire da novembre da Global Surveyor, la sonda che orbiterà attorno al pianeta costruendo, con sofisticati rilievi fotografici una cartografia generale, una topografica e una mineralogica dell'intera superficie marziana. I passi successivi spetteranno ad altre sei sonde, alcune fornite di robot che scaveranno e perforeranno il suolo alla ricerca di acqua e di forme di vita elementari». L'acqua, fa capire Diarra, è la chiave di volta di tutta l'esplorazione marziana. «Abbiamo la certezza, dopo i rilievi di Sojourner, che essa era presente un tempo in grandi quantità su gran parte dell'emisfero nord di Marte. Il robot sta in effetti percorrendo il letto di una gigantesca e violenta tracimazione oceanica di probabile origine vulcanica. Le rocce presentano evidenti segni di una erosione unidirezionale». L'acqua sarà dunque strategica per dare avvio alla costruzione di un'atmosfera che permetta una graduale abitabilità del pianeta? «Certamente. Non abbiamo ancora la prova che la vita sia stata presente o lo sia tuttora su Marte. Siamo sicuri però che essa vi sarà in futuro attraverso l'intervento dell'uomo». Un pianeta colonizzabile? «Direi proprio di sì, tenendo conto che la sua distanza dalla Terra, almeno in linea teorica, è alla portata dell'uomo». Vuol dire che vi sono ostacoli pratici ancora insormontabili all'invio di una missione umana verso Marte? «Essenzialmente due: la lunghezza del viaggio (intorno agli otto mesi), che in assenza di gravità provoca una grave decalcificazione ossea; e la forte dose di radiazioni cui sarebbe sottoposto l'equipaggio in mancanza di robuste difese. E' il peso di queste difese, oggi, la vera sfida da vincere». E l'attuale missione? «Vittoria piena] Atterraggio da manuale grazie agli airbag progettati dall'italiano Tommaso Revellini, robot perfettamente funzionante, analisi compiute, immagini perfette». Un po' di paura in qualche momento della missione? «All'atterraggio: in quel momento non puoi fare altro che pregare che tutti i calcoli siano esatti». La chiave del successo? «Una equipe affiatatissima di tecnici e scienziati la cui età media è di trent'anni». Traccie di marziani? «Solo una curiosa conformazione rocciosa che ha fatto pensare, per un attimo, ad un tavolo con sedie abbandonato dopo un veloce pic nic]...». Roberto Piccolo


SCIENZE FISICHE. ALLARME ONU Cercano l'oro, il mercurio li uccide Migliaia di minatori avvelenati nel Terzo Mondo
Autore: SANSA TITO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: VEIGA MARCELLO, ALTINO JOSE'
ORGANIZZAZIONI: ONU, UNIDO
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, AUSTRIA, VIENNA

DA quando, una ventina di anni fa, in diversi Paesi del Terzo Mondo è esplosa la febbre dell'oro, alcune zone fino allora incontaminate in Africa, in Asia e nell'America Latina sono state inquinate rapidamente dal mercurio. E' successo che improvvisati e sprovveduti cercatori nelle zone più povere e impenetrabili dei tre continenti hanno adottato, per estrarre l'oro dalla ganga, il metodo della amalgamazione con il velenosissimo mercurio, per il motivo che è il più economico e semplice dei sistemi. Così viene prodotto circa un quarto dell'oro mondiale. Milioni di persone che si sono dedicate a questa tecnica antica e insieme nuova rischiano di ammalarsi di mercurialismo, una malattia che può portare alla pazzia e alla morte. Essendo il loro lavoro semiclandestino, fuori di ogni controllo, nessuno sa quanta gente è in pericolo. Si sa soltanto che coloro che ricavano l'oro con metodi artigianali (differenti da quelli industriali adottati dai grandi produttori in Sud Africa, Stati Uniti, Australia, Russia, Canada) sono circa un milione in Sud America, altrettanti in Asia, tre quarti di milione in Africa. Tutta povera gente che impasta l'amalgama mortifera con le mani nude (perché i guanti di gomma «sono scomodi») provocando già a temperatura normale la vaporizzazione dei gas di mercurio che si disperdono nell'atmosfera e anche dopo molto tempo ricadono sulla terra sotto forma di pioggia, inquinando terreni e acque. Scienziati di una ventina di Paesi riuniti a Vienna per una conferenza della Unido (l'organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale) calcolano che negli ultimi vent'anni, da quando è cominciato il gold rush, soltanto nell'Amazzonia brasiliana il mezzo milione di cercatori locali abbia messo nella natura cinque milioni di chili di mercurio. In pericolo, secondo gli esperti, sono non soltanto quelli con «la mano in pasta», ma almeno cinque o sei volte tante persone, quelle che bevono l'acqua inquinata e mangiano gli animali e i pesci intossicati. Dice Marcello Veiga, della università della Colombia britannica di Vancouver, che l'inquinamento da mercurio, «uno dei meno conosciuti ma più seri problemi dell'ambiente», dovuto all'ignoranza e all'estrema povertà dei cercatori d'oro («la loro non è stata una scelta di piacere, è stata dettata dalla disperazione»), viene sottovalutato. I minatori (in parte donne analfabete) non credono al rischio, in quanto l'argentovivo, l'unico metallo liquido allo stato naturale, affascina da sempre le anime semplici, che lo considerano fonte di magia e dotato di poteri soprannaturali. Tanti che perfino un loro sindacalista, il brasiliano Josè Altino, furente con i medici e gli scienziati ammonitori, ne ingoiò un paio di cucchiai per dimostrare quanto fosse innocuo. Si ignora quale fine abbia fatto. Ma anche coloro che conoscono il pericolo poco se ne curano. L'importante è fare soldi, rapidamente e con poca fatica, per nutrire le famiglie, in genere assai numerose. Dei posteri, ai quali lasciano un ambiente inquinato, se ne infischiano. Lo stesso si può dire (con poche eccezioni) dei governi, ai quali fa comodo che alcuni milioni di persone siano uscite dalla miseria nera e che il gold rush abbia frenato l'inurbamento. Poco importa ai governi - hanno denunciato gli scienziati convenuti a Vienna - se oltre alla deforestazione, alla distruzione del suolo, all'inquinamento delle acque, all'avvelenamento di pesci e persone, lo sfruttamento dell'oro ha portato tutta una serie di fenomeni negativi, come diffusione di droga, delinquenza, prostituzione, malattie infettive, perfino conflitti armati. Come frenare la diffusione del mercurialismo, chiamato anche «malattia di Minamata» (dal nome di una baia a Sud di Tokyo dove nel 1962 vi fu un avvelenamento collettivo di milioni di persone), a mano a mano che la domanda di oro sui mercati mondiali va aumentando, tanto che attualmente supera del 44 per cento la produzione totale annuale di tutte le miniere del globo? La soluzione ideale - ha detto il relatore dell'Unido e organizzatore del convegno, ingegner Beinhoff - sarebbe l'adozione di sistemi industriali di estrazione, che comportano pochi rischi. Ma nel caso dei Paesi del Terzo Mondo ciò è per il momento impossibile, perché le falde aurifere sono in posti di difficile accesso, e perché occorrerebbero investimenti colossali, in contrasto con gli interessi di diverse categorie. Che fare dunque per salvare milioni di vite umane, e non soltanto nelle zone di produzione ma anche altrove, anche a migliaia di chilometri di distanza, dove piogge tossiche possono venire scaricate da nubi «al mercurio» o pesci «all'argentovivo» possono venire inscatolati da produttori poco scrupolosi? L'Unido vede un solo mezzo: ridurre la emissione di mercurio. Con tutta una serie di misure, e giuridico-amministrative e pratiche, concertate da organismi internazionali. Occorre controllare e possibilmente bloccare il traffico illegale di mercurio; poi legalizzare l'attività dei garimpeiros brasiliani e dei «lavatori d'oro» asiatici e africani mediante la creazione di appositi «centri di estrazione» (una sorta di cooperative già sperimentate con successo in Venezuela). Infine - ed è una specie di uovo di Colombo portato qui a Vienna nel Palazzo delle Nazioni Unite - se proprio mercurio deve essere, bisogna far conoscere e diffondere uno speciale alambicco che permette di catturare i mortiferi vapori. Per questo e per altri progetti (si incomincerà dalla Tanzania) la Banca mondiale ha destinato 17 milioni di dollari, circa 29 miliardi di lire. Ma è soltanto un inizio. Tito Sansa


SCIENZE FISICHE. ENERGIA ALTERNATIVA Centrale solare a concentratori ottici Accordo Usa-Israele per testare un nuovo sistema
Autore: KRACHMALNICOFF PATRIZIA

ARGOMENTI: ENERGIA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO WEIZMANN, MCDONNELL DOUGLAS
LUOGHI: ESTERO, ASIA, ISRAELE
TABELLE: D. Schema di una centrale solare a ciclo combinato con gas

LA nostra civiltà è basata sul petrolio. Pochi, però, si preoccupano del fatto che il petrolio non è inesauribile. Le scorte, allo stato attuale, vengono valutate sufficienti per poco più di cinquant'anni. Le stime naturalmente sono variabili e dipendono anche da quanto si è disposti a spendere per l'estrazione, ma l'esaurimento dei giacimenti petroliferi è vicino in termini di decenni e non di secoli. Come «Tuttoscienze» ha scritto la settimana scorsa, secondo studi recentissimi una potenziale fonte energetica di grande portata potrebbe essere costituita dagli idrati di metano. La loro consistenza, secondo le prime valutazioni, è enorme, superiore a quella di tutte le scorte degli altri combustibili fossili, carbone incluso. In questo caso il pianeta disporrebbe di una quantità di gas naturale così grande da mutare per secoli lo scenario energetico. Rimangono però alcune difficoltà tecniche nei procedimenti per l'estrazione, e i costi sarebbe comunque molto alti. La competizione tra le fonti energetiche rimane quindi aperta sul piano economico. Tra le fonti alternative, l'energia solare rimane in prima linea. Le celle fotovoltaiche, che trasformano direttamente la luce solare in elettricità, hanno incominciato a diffondersi con le navicelle spaziali, per poi giungere, con il calare dei costi, alle attuali centrali commerciali, con lunghe schiere di celle, la cui corrente continua viene trasformata in alternata e immessa nella rete. Ma anche la produzione di elettricità ottenuta concentrando i raggi solari su una caldaia, che a sua volta produce vapore per far girare una turbina e generare elettricità, ha raggiunto una sufficiente maturità tecnologica, tanto che nel marzo di quest'anno Stati Uniti e Israele hanno firmato un accordo per studiare la fattibilità commerciale di un impianto in grado di produrre fino a decine di megawatt di potenza elettrica. Le industrie interessate sono la americana McDonnell Douglas e le israeliane Ormat e Rotem; il supporto tecnico è dell'Istituto Weizmann - tramite la sua emanazione commerciale Yeda Research and Development Co.L.td. Lo stanziamento iniziale è di 5,3 milioni di dollari. La caratteristica dell'impianto è la disposizione al suolo di una serie di eliostati che fanno convergere i raggi solari su un unico riflettore issato su una torre centrale. Il fascio così ottenuto viene inviato su una matrice di concentratori ottici che moltiplicano i raggi solari da cinque a diecimila volte. Il calore ottenuto serve a far funzionare i turbogeneratori di elettricità. Tre gli aspetti innovativi rispetto ai precedenti tentativi di sfruttamento dell'energia solare. Primo: tutto l'impianto è al suolo, a parte la torre che supporta il riflettore centrale; secondariamente l'uso di un nuovo e avanzatissimo design dei concentratori in cui è specialista l'Istituto Weizmann; in terzo luogo quello che viene chiamato familiarmente «porcospino», cioè una serie di coni di ceramica disposti in speciale formazione geometrica che massimizza lo sfruttamento della luce solare. Per portare tutto ciò allo sfruttamento industriale, nel 1994, il presidente Clinton e l'allora primo ministro israeliano Rabin siglarono un accordo di lavoro comune per studiare nuove fonti energetiche volte al XXI secolo mediante la creazione di un ente che potesse sfruttare le conoscenze tecnologiche e scientifiche dei due Paesi supportati dalle grandi industrie. Il primo risultato è l'impianto in via di costruzione presso l'Istituto Weizmann di una turbina a energia solare da 2300 kilowatt. Andando allo sviluppo pratico, la McDonnell Douglas sarà responsabile dei sistemi ingegneristici, dei sistemi di controllo, delle torri, sulla base di esperienze condotte fin dagli Anni 80. La Ormat si occuperà dei sistemi di conversione della potenza. La Rotem dei sistemi di concentrazione dell'energia solare con innovativi sistemi ottici per ottenere l'aria dall'alta pressione e temperatura. L'Istituto Weizmann, tramite il suo braccio commerciale «Yeda», si occuperà del trasferimento di questa tecnologia solare dalla fase sperimentale a quella industriale. Patrizia Krachmalnicoff


SCIENZE FISICHE. TECNOLOGIA & ALIMENTAZIONE Cibi più sani con le radiazioni ionizzanti Un metodo raccomandato dall'Oms potrebbe salvare molte vite umane
Autore: BURI MARCO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ALIMENTAZIONE
ORGANIZZAZIONI: OMS
LUOGHI: ITALIA

IONIZZAZIONE: con questo termine ci si riferisce al trattamento igienizzante tramite radiazioni per gli alimenti destinati all'uomo. L'Oms, Organizzazione Mondiale della Sanità, recentemente ha presentato una pubblicazione con 500 studi scientifici a favore di questo trattamento che potrebbe far aumentare la disponibilità di cibi sicuri e quindi migliorare la salute pubblica nel mondo. Le prime sperimentazioni risalgono all'inizio del secolo, le prime applicazioni sono degli Anni 50-60 (sul cibo degli astronauti nelle missioni Apollo). L'irradiazione consiste nell'esporre i cibi per un periodo determinato sotto l'azione di raggi gamma, raggi X di o elettroni, che distruggono la maggior parte degli agenti patogeni. Le radiazioni ionizzanti sono emesse da un acceleratore di elettroni, colpiscono le molecole del prodotto esposto creando «ioni» con carica elettrica. Questo fa sì che con determinati parametri ambientali e regolando la quantità di radiazione, si possano eliminare i microrganismi dannosi. E' particolarmente indicata per alimenti solidi come le carni (pollame, pesce), cibi freschi o essiccati. L'obiettivo delle ricerche è di verificare se gli alimenti a seguito della ionizzazione presentino scorie dette radiolitiche con effetti tossici sul consumatore. Ma quarant'anni di studi in questo campo non hanno trovato differenze di scorie radiolitiche tra i cibi trattati in questo modo e con tecniche tradizionali. Come pure pericolo di radioattività addizionale, di causare cambiamenti microbiologici, nè quello di creare mutanti batterici o virali. I valori nutrizionali non differiscono mentre il rischio di perdita di alcune vitamine può essere ridotto irradiando a basse temperature o in assenza di ossigeno. L'Oms dichiara che fino al 70 per cento delle malattie enteriche, che causano il 25% dei morti nei Paesi in via di sviluppo, è causato dal cibo come veicolo dell'agente infettivo. Anche negli Usa si verificano dai 24 agli 81 milioni di infezioni alimentari con 10.000 morti (2 milioni di casi sono dovuti alla Salmonella). Nel 1993 un ceppo estremamente virulento di Escherichia Coli attraverso hamburger non perfettamente cotti ha causato la morte di 4 bambini ed il ricovero di altri 200. L'associazione americana di gastroenterologia ha proposto alla Food and Drug Administration l'uso delle radiazioni per controllare l'igienicità delle carni bovine. Attualmente in Usa le ionizzazioni si eseguono per il controllo delle spezie nella carne di maiale, del pollame, del grano e granaglie. Nel mondo 40 Stati hanno approvato l'uso delle radiazioni per molteplici tipi di alimenti. In Italia gli unici alimenti trattati in questo modo sono patate, cipolle e aglio. La regolamentazione è stata fissata da un decreto del 1973. Non vi è nessun impianto industriale nel nostro Paese mentre ce ne sono 50 nel mondo di cui 20 in Europa e stanno velocemente aumentando per gli ottimi risultati ottenuti. I prodotti trattati che troviamo nei supermercati americani, ma anche cinesi e cubani, sono etichettati appositamente e considerati oltre che più sicuri igienicamente anche di maggior valore nutritivo. Legislazione italiana permettendo, dovremo abituarci anche noi a funghi, bistecca, pasta irradiati: sapore garantito, maggior sicurezza. Marco Buri


SCIENZE DELLA VITA. GLI ALBATRI DELLE ISOLE MARION Grandi veleggiatori oceanici Un parco naturale tra Antartide e Sud Africa
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
NOMI: DU FRESNE MARION
LUOGHI: ESTERO, AFRICA, SUDAFRICA

TRA le seicento persone intervistate nella città di Johannesburg in Sud Africa, soltanto cinque sapevano dell'esistenza di uno stupendo parco naturale nelle isole Marion, che sorgono in mezzo all'oceano, tra l'Antartide e il Capo di Buona Speranza. Le scoprì nel diciottesimo secolo il francese Marion du Fresne, convinto di aver raggiunto il leggendario settimo continente. Era un vero paradiso terrestre per le foche, i leoni di mare e gli uccelli marini. E lo è tuttora, perché il clima rigidissimo e incostante, con bufere improvvise d'inaudita violenza rendono proibitivo qualunque insediamento umano. Dobbiamo a una coraggiosa spedizione scientifica sudafricana dati di estremo interesse sulla vita e il comportamento degli uccelli marini che vi nidificano, in particolare sui grandi albatri. Tre specie di Diomedeidi - è la famiglia a cui gli albatri appartengono - vengono a riprodursi nelle desolate lande delle isole Marion. Sono l'albatro fuligginoso del Sud (Phoebetria palpebrata), l'albatro dal cappuccio bianco (Diomedea caudata) e l'albatro dalla testa grigia (Diomedea chrysostoma). Ed ecco quanto gli studiosi hanno potuto osservare. Fra gli spasimanti che le si fanno attorno, è la femmina che sceglie il compagno. E' una scelta oculata perché tra gli albatri non esiste il divorzio. La coppia rimane unita vita natural durante. E, per capirsi meglio, le nozze sono precedute da un lungo periodo di fidanzamento che può durare anche sei mesi, durante i quali i due volano appaiati sulle onde spumeggianti dell'oceano. Volano ad ali spiegate, scivolando leggeri nell'aria, veleggiatori superbi. Di tanto in tanto si tuffano e col becco adunco catturano pesci, calamari e altri animali marini. Mentre la femmina prolunga la sua vacanza sui flutti, rimpinzandosi di cibo e tesaurizzando riserve per la fabbricazione dell'unico grosso uovo che andrà a deporre, il maschio torna con incredibile fedeltà al luogo dove ha nidificato nella precedente stagione riproduttiva. E' sempre un luogo assai ventilato, dove le impetuose correnti d'aria favoriscono il decollo di questi uccelli che in fatto d'apertura d'ali superano persino il grande condor delle Ande, raggiungendo nelle specie maggiori - l'albatro reale e l'albatro urlatore - tre metri e mezzo di larghezza. Una superficie enorme che non riuscirebbe a librarsi nello spazio senza il sostegno del vento. I nidi, costruiti dai maschi, sono terrapieni di forma cilindrica fatti di terriccio e frammenti vegetali. Una volta fabbricata la culla per l'uovo, o riattata quella della nidificazione precedente, il maschio attende la femmina. Lei giunge dal mare quando si sente pronta al connubio. Ma le nozze sono precedute da un rituale di corteggiamento che l'etologo Eibl-Eibesfeldt ebbe occasione di osservare nell'albatro delle Galapagos. Una serie di danze sofisticate, di rotazioni del capo, di beccate e di strofinamenti reciproci. Uno scambio di segnali visivi che equivalgono a un dialogo di questo tipo: «Cerco moglie e tu?». «Anch'io cerco marito». «Ti va di metterci assieme?». «Perché no?». «Affare fatto». E i due si accoppiano. Dopo la fecondazione marito e moglie si separano per andare a nutrirsi in mare. Fatto il pieno, la prima che ritorna a terra è la femmina. E' giunto per lei il momento di deporre il grosso fardello che la appesantisce. L'uovo pesa circa 500 grammi e richiede un periodo d'incubazione lunghissimo, il più lungo che si conosca nel mondo degli uccelli: circa ottanta giorni. In questo periodo i genitori si sobbarcano a una stressante corvee. Si danno il cambio alla cova una volta alla settimana. Mentre l'uno cova, l'altro vola in mare a rifocillarsi. Nel momento in cui l'uno arriva dall'oceano e l'altro sta per spiccare il volo, breve intermezzo di carezze per rinforzare il legame di coppia. Si lisciano reciprocamente le penne e lanciano acute grida, quasi per infondersi coraggio l'un l'altro: «Ci vuol pazienza, abbiamo un figlio da allevare». Ma il peggio deve ancora venire. Quando finalmente, dopo alcuni giorni di vani tentativi, il piccolo riesce a rompere il guscio (lo aiuta lo speciale dentino che gli è spuntato alla sommità del becco ancora molle), è incapace di nutrirsi e dipende in tutto e per tutto dai genitori. E ce ne vuole perché diventi autosufficiente] Devono passare nove lunghi mesi. Nessun pulcino necessita di cure parentali così lunghe. Questo è il motivo per cui di solito gli albatri si riproducono ogni due anni. Solo nel caso che l'uovo venga distrutto o che il piccolo soccomba prematuramente, allora la coppia fa uno strappo alla regola e si riproduce l'anno successivo. Il piccolo comunque, se vivo e vegeto, va sfamato. Ed ecco che i genitori si sobbarcano a viaggi di centinaia o addirittura migliaia di chilometri per procurargli il cibo. Ogni pasto consiste in circa due litri di una sostanziosa zuppa a base di pesci e calamari, parzialmente digerita dall'adulto e rigurgitata nel becco del piccolo. Ma, data la lunghezza del volo di approvvigionamento, il pasto arriva solo ogni tre o più giorni. A sei settimane il giovanissimo albatro sembra un grazioso piumino da cipria. Ma la sua vita è soltanto una lunga attesa tra due pasti. Ben presto però impara a difendersi. In caso di attacco, lancia contro l'aggressore una speciale secrezione gastrica oleosa. E non appena il figlio impara a autodifendersi, i genitori lo possono lasciare più a lungo senza baby-sitter. Ma non possono ancora abbandonarlo definitivamente. Bisogna che prima impari a volare e a pescare da solo. Ed è un processo lentissimo. Solo quando compie i nove mesi, il giovane albatro si cimenta nelle prime timide esperienze di volo.Così un bel giorno, preso il coraggio a quattro mani, l'uccello spalanca le ali e si accorge che miracolosamente l'aria lo sostiene. Così prova per la prima volta l'ebbrezza del volo. Sono incredibilmente confidenti i piccoli albatri delle isole Marion. Ma c'è poco da meravigliarsene. In un paese disabitato come quello, gli uomini non li conoscono ancora. Isabella Lattes Coifmann


IN BREVE Centrali eoliche in Romagna e Toscana
ARGOMENTI: ENERGIA
ORGANIZZAZIONI: RIVA CALZONI
LUOGHI: ITALIA

A San Benedetto Val di Sambro, è in fase di avanzata costruzione la centrale eolica di Monte Galletto - della potenza di 3,5 megawatt - costituita da dieci aerogeneratori Riva Calzoni. Analogo impianto è in costruzione in Toscana nel Comune di Montemignaio (Arezzo): cinque generatori per una potenza di 1,75 megawatt. Il potenziale eolico dell"Emilia Romagna è stato stimato in 100 megawatt, pari a una produzione elettrica di circa 200 mila megawattora l'anno. Dal punto di vista energetico la produzione potrebbe soddisfare la necessità di centomila utenze famigliari, con un risparmio di 44 mila tonnellate annue di olio combustibile. Economicamente vorrebbe anche dire un investimento di 200 miliardi, 1660 posti di lavoro in fase di realizzazione, e 1190 posti di lavoro/anno in fase di esercizio. La Riva Calzoni, azienda leader in Italia nella produzione di turbine eoliche, ha in avanzata costruzione altri tre impianti nel Sud: a Foiano (Salerno), Orsara (Foggia) e Vaglio (Potenza) che entreranno in funzione entro il '98. La potenza prevista in tutto è di 23 megawatt; l'investimento di 61 miliardi.


IN BREVE Pesci tropicali nel Mediterraneo
ARGOMENTI: ECOLOGIA
NOMI: RONCHI EDO
LUOGHI: ITALIA

Pesci tropicali e subtropicali provenienti dalla regione del Marocco e sud-sahariana sono sempre più frequenti nel Mediterraneo. L'allarme è di Legambiente e segue quello lanciato dal ministro Ronchi sul rischio di tropicalizzazione dell'Italia. Le specie ittiche «alloctone migranti» rinvenute nel Mediterraneo sono oltre cento e tali da esercitare una pressione notevole sulle specie autoctone. E' un segnale, secondo Legambiente, della rapida modificazione delle condizioni generali del Mediterraneo, dovuta all'aumento di temperatura indotto dal cambiamento climatico e da altri fattori come l'inquinamento e l'eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche.


TECNOLOGIE IN TV In studio uno zoo virtuale Tra artigianato e computer grafica
Autore: SCAGLIOLA DAVIDE

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
NOMI: CELLI GIORGIO. TORTA ENZO
ORGANIZZAZIONI: RAI, TV 6
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

UNA mandria di gnu polverosi attraversa il tavolo dell'impassibile etologo che sta presentando un documentario sugli orsi polari. Tre orche si tuffano dallo schermo laterale dello studio direttamente sulla scrivania trasformata in un lampo in un oceano spumeggiante sotto gli occhi indifferenti del professor Celli. Una tartaruga gigantesca esce dal cromachì alle spalle del conduttore e come un dinosauro di Spielberg minaccia di mangiargli la testa. Giorgio Celli, impassibile, continua tranquillo a parlare di felini e predatori. E' la nuova frontiera della televisione virtuale. Sono gli scherzi surreali che il regista Ezio Torta ha inventato per il popolare etologo bolognese, con il fine di movimentare un po' le cose nello studio di «Nel Regno degli Animali», fortunata trasmissione di Raitre giunta ormai al sesto anno di vita sotto la guida di Celli. Non si può insegnare nulla senza affascinare. Parafrasando Baudelaire «solo chi ci diverte è autorizzato a parlare di sè e delle cose di cui si occupa». Di questo sono arciconvinti Celli & Torta. E così in un mondo sospeso tra sogno e dimensione reale, la televisione virtuale rende giustizia allo spettacolo tv: attira l'attenzione, sottolinea, affascina e non ultimo restituisce libertà e indipendenza agli animali che compaiono sul piccolo schermo. Una scimmia ragno si nutre indisturbata su un tavolino, un coccodrillo passa dall'acqua irreale dello studio alle mangrovie del cromachì posto dietro il conduttore, con una naturalezza impressionante. Ezio Torta e Giorgio Celli, insieme allo staff del Centro di Produzione Rai di Torino e al suo creativo direttore Maurizio Ardito, hanno messo a punto un nuovo habitat per la divulgazione scientifica televisiva. Non c'è interazione tra i vari mondi - conduttore, ospiti, alter ego, animali virtuali e filmati - ma solo coesistenza. Con ingegnosi quanto artigianali sistemi di montaggio e postproduzione è stato possibile trasportare pezzi di foresta, deserto e oceano abitanti compresi, direttamente nello studio Tv 6 di Via Verdi a Torino. Giorgio Celli, etologo, professore universitario e divulgatore televisivo, durante il prossimo ciclo di trasmissioni dedicate al regno animale che comincerà a fine settembre in prima serata su Raitre, spiega che l'esser circondato da animali virtuali che fanno il loro comodo in studio mentre parla e spiega, non è solo un trucco televisivo per fascinare e stupire, ma una magia sciamanica che permetterà agli animali di sfuggire al controllo dell'uomo che ormai tenta di relegarli sempre più negli zoo, nei parchi, nelle riserve o nei documentari televisivi. «Da noi invece - continua Celli - saranno liberi di scorrazzare, seppur virtualmente, in giro per lo studio, salendo su tavoli e mobilio, tuffandosi fuori da un oblò di legno o facendo le boccacce al conduttore. Si riprenderanno in qualche modo il loro ruolo di protagonisti nel gran teatro della natura, mescolando, come nei sogni, reale e virtuale, cercando di attirare l'attenzione per farsi conoscere meglio. Per impedire al mondo reale di diventare prima o poi del tutto virtuale e che gli animali si trasformino definitivamente in fantasmi». «Tutto ciò è possibile - spiega Ezio Torta, regista e inventore di questo mondo onirico - coniugando tecniche artigianali di teatro, sceneggiatura e montaggio, con elaborazioni e applicazioni di tecnologie avanzate di computer grafica già esistenti. In realtà nello studio circolare di legno dove lavora Celli, sul momento non succede un bel niente, finché non interveniamo con gli inserti nei tre cromachì (gli sfondi colorati dove vengono proiettati i video di fianco o dietro il conduttore) e con le invenzioni filmate montate in postproduzione. Un lavoro che non comporta aggiunta di spesa o elevate perdite di tempo in lavorazione, ma che ottiene grandi impatti visuali. «Per intenderci è la medesima tecnica degli spot pubblicitari (ricordate la Firenze surreale o la Milano fiorita proposti dalla Barilla?) con meno problemi di interazione e movimento, applicata alla divulgazione scientifica. Le centinaia di milioni spesi per quel tipo di produzioni (compresi i dinosauri di Spielberg) sono necessari solo per situazioni di movimento di camera rispetto al soggetto scelto per essere inserito in un ambiente che non esiste in precedenza. Noi ci limitiamo a inserire spezzoni filmati reali individuati con cura dalle dozzine di documentari che compriamo dalle grandi case di distribuzione internazionali, che riprendano per qualche momento almeno situazioni spettacolari con un'inquadratura fissa. Poi li montiamo, scontornandoli prima con il computer (un Onyx), all'interno del parlato registrato in precedenza in studio. I movimenti degli schermi, della pedana girevole e delle quinte doubleface sono invece tutto frutto di cordini, binari e bravi macchinisti. Come a teatro o nella televisione di vent'anni fa» . Oltre alla consolidata formula degli anni precedenti e agli straordinari arricchimenti visuali, «Nel Regno degli Animali» (ricordiamo che va in onda tutta l'estate in replica con «il meglio di» ogni sabato sera su Raitre alle 20 e 40 e ogni domenica mattina alle 11), proporrà dal 30 settembre nuove rubriche battezzate l'Etologia della vita quotidiana, La galleria della scienza, Oceani in Casa, Animali in apnea e E come Ecologia. Con degli ospiti in più. Davide Scagliola


SCIENZE DELLA VITA. BIOTECNOLOGIE Da una lumachina un potente antidolorifico Riprodotte in laboratorio le molecole delle sue tossine immobilizzanti
Autore: PONZETTO ANTONIO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: COGNETIX, NEUREX
LUOGHI: ITALIA

SULLA barriera corallina, nei mari tropicali, dove pesci variopinti e sgargianti guizzano a centinaia, vive la lumaca di mare, un mollusco ricoperto da una conchiglia graziosa a forma di cono (il nome scientifico della specie è infatti Conus). Come riesce la lumachina - che non può nè guizzare veloce, nè balzare sulla preda - a nutrirsi dei mobilissimi pesci? Come una sirena essa li attira, allungando una delicatissima proboscide che ai pesci appare come una gustosa leccornia. Appena il goloso ha abboccato, la lumaca gli inietta un cocktail potentissimo composto da tossine immobilizzanti e sostanze antidolorifiche, che all'istante lo rendono incapace di muoversi, percepire dolore, agire. Buon appetito lumaca: ora puoi mangiare. Ma come ha fatto una «sciocca» lumaca a produrre farmaci più potenti ed efficaci di quelli inventati dall'intelligenza umana e dalla grande industria farmaceutica? Ha sfruttato al meglio la grande potenzialità del laboratorio di biotecnologia di cui la natura l'ha dotata, e milioni di anni di prove, durante i quali ha sviluppato la capacità di produrre tossine efficacissime. Queste sono proteine, simili per composizione a quelle prodotte da altre specie - come i ragni ed i serpenti - ma molto, molto più piccole, e perciò facili da costruire, rapide nel diffondersi nel corpo in cui sono iniettate, e attive in concentrazioni piccolissime. Non sono forse queste le doti ideali per un farmaco? Il biotecnologo va a scuola dalla lumaca di mare, e cerca di imparare da lei la soluzione di due gravi problemi: il controllo della contrazione muscolare e del dolore. Il chirurgo che deve togliere un tratto di intestino ammalato, chiede il controllo assoluto e preciso della contrazione muscolare all'anestesista, il quale si trova in un bell'inghippo, fra miscele di farmaci potenti, ma potenzialmente tossici, come i derivati del curaro. Il medico che deve controllare la crisi epilettica improvvisa (grave per la contrazione dei muscoli che controllano la lingua e l'apertura delle vie aeree) sarebbe ben felice di un farmaco ad azione immediata, proprio come quello inventato dalla lumaca. Ci sta arrivando anche l'uomo: la Cognetix di Salt Lake City, una minuscola ditta di biotecnologie, sta sperimentando l'impiego nell'epilessia di una molecola copiata da uno dei componenti delle tossime di Conus. Il dolore, lo sappiamo tutti, è una gran brutta bestia, e le armi a nostra disposizione non sono mai sufficienti, soprattutto quando il dolore è dovuto a un cancro. I farmaci antidolorifici più potenti oggi utilizzati sono i derivati dell'oppio, che tuttavia hanno degli svantaggi. In primo luogo perdono di efficacia, poco per volta, e si deve incrementare la dose; e poi tolgono anche facoltà mentali. Non così la tossina della lumaca di mare, che in un anno di impiego in 400 pazienti con dolore intrattabile da cancro e ormai insensibili alla morfina, ha ancora effetto alle stesse dosi iniziali. Per di più questa copia di una tossina della lumaca, riprodotta in laboratorio dalla Neurex di San Diego, non ha alterato nessuna delle facoltà intellettive dei pazienti trattati, nello studio in corso alla Stanford University, in California. Antonio Ponzetto




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