TUTTOSCIENZE 18 giugno 97


SCAFFALE Polidoro Massimo: «Misteri», ed. Eco, Varese
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA

Che cosa c'è di vero nella «maledizione» di Tutankhamen, nella pericolosità del Triangolo delle Bermude, nelle profezie di Nostradamus, nel miracolo di San Gennaro, nel mostro di Loch Ness? Poco, o meglio, niente, come è facile immaginare. Ma è tale la speculazione su presunti «misteri» da parte di ciarlatani di vario tipo, che è bene non liquidare questi argomenti con un'alzata di spalle e, anzi, documentarsi bene, in modo da disporre di argomenti fondati a difesa della corretta informazione e di una sana razionalità.


UN CONFRONTO APERTO Un problema di massa critica
AUTORE: GALLINO LUCIANO
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: LA STAMPA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
TABELLE: T. Gli interventi su La Stampa nel dibattito sulla ricerca scientifica
NOTE: IL DIBATTITO SULLO STATO DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA IN ITALIA TEMA: IL DIBATTITO SULLO STATO DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA IN ITALIA

L'AMPIO dibattito sullo stato della ricerca scientifica e tecnologica in Italia svoltosi su questo giornale mostra quanto la questione sia sentita dal governo, dai vertici del mondo industriale e dai ricercatori. Nonostante la diversità delle posizioni, mi pare che tre punti abbiano attirato la maggior quota di attenzione e di consensi: la necessità di una collaborazione più stretta tra Stato e industria, tra ricerca pubblica e ricerca nell'impresa; la riorganizzazione del sistema di ricerca pubblico; le modalità di indirizzo del sistema ricerca nel suo insieme. Questi tre punti, a ben vedere, sono altrettante articolazioni di un unico problema: come concentrare risorse umane e finanziarie allo scopo di raggiungere, in un maggior numero di settori della ricerca scientifica e tecnologica di quanto oggi non avvenga, la massa critica necessaria per conseguire risultati teorici e applicativi di rilievo. Se si pensa al complesso di risorse economiche e intellettuali rappresentato dal sistema universitario, è evidente che se si arrivasse a combinare una maggior quota di esse con analoghe risorse dell'industria, la massa critica sarebbe in parecchi casi a portata di mano. Ma una simile accumulazione sinergica difficilmente si attua per decreto, o mediante incentivi automatici rivolti indistintamente a tutti i soggetti interessati, come prevede il disegno di legge Bersani. Per realizzarla occorrono apposite strutture. Ci vogliono anzitutto luoghi di dialogo e di mediazione, ossia organismi nei quali rappresentanti del mondo universitario e dell'industria si incontrino regolarmente per capire che cosa interessa all'uno e all'altra, quali linee di ricerca incoraggiare, come ripartire i costi e i benefici. V'è inoltre bisogno di accrescere il numero di centri di ricerca specializzati dove ricercatori provenienti dall'università e dall'industria possano per periodi consistenti lavorare a progetti comuni. Tali centri debbono certamente avere una sede fisica. Ma nell'età delle reti telematiche e del lavoro cooperativo assistito dal calcolatore non vi dovrebbero essere difficoltà a distribuirli largamente sul territorio. Al fine di costruire le strutture in parola, di mediazione e cooperazione permanente tra pubblico e privato, novità interessanti potrebbero venire dal disegno di legge Bassanini 1, ricordato da Prodi. La necessità di concentrare le risorse su programmi di ricerca meno numerosi ma più corposi appare ancora più tangibile se si parla di riformare il complesso del sistema pubblico formato dagli atenei, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e da altri enti. Il ministro Berlinguer ha ricordato nel suo intervento l'impegno a questo fine del ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica. Bisogna peraltro rendersi conto che, nella realtà della vita dei corpi universitari, spezzare il circolo vizioso dei finanziamenti a pioggia sarà impresa asperrima. Le componenti principali di esso sono l'irrefrenabile vocazione di troppi docenti a lavorare da soli, e il desiderio degli apparati pubblici - nei consigli dei quali siedono molti docenti - di non scontentare nessuno. Il risultato è arcinoto. Si chiedono 50 milioni per fare una ricerca che comunque è sottodimensionata; se ne ricevono 5 a testa perché i fondi disponibili più di tanto non permettono, e invece di far la ricerca si compra qualche libro e si va a un paio di convegni. La nuova regolamentazione degli interventi di cofinanziamento al 60 e al 40% dei programmi di ricerca intra e inter-universitari varato di recente dal Murst appare effettivamente intesa a spezzare tale circolo vizioso. Resta da vedere come si riuscirà a concentrare su pochi programmi aventi la dovuta massa critica la modesta cifra di 150 miliardi contesa da una cinquantina di sedi universitarie, ovvero da un migliaio o giù di lì di dipartimenti. Gli interventi di natura regolativa e strutturale sono indispensabili per rafforzare la collaborazione università/industria e accelerare la riforma del sistema di ricerca pubblico. Rimane comunque aperto un problema che è politico prima che legislativo od organizzativo: stabilire chi e come decide l'ordine di priorità dei programmi di ricerca su cui indirizzare le risorse disponibili. Se solo si guarda al tasso di disoccupazione, vien subito fatto di dire che bisogna dare priorità uno alle ricerche che promettono di creare per il futuro il maggior numero di posti di lavoro. Il guaio è che nessuno può dire quali saranno le ricadute in termini occupazionali di un dato programma di ricerca a distanza di due o di dieci anni. In tutti i casi un contributo efficace per determinare gli ordini di priorità bisognerebbe cercarlo nell'elaborazione di grandi visioni industriali e tecnologiche - giusto quelle che all'Italia mancano da almeno quarant'anni. Una possente visione tecnologica è stata quella delle «autostrade dell'informazione», lanciata in Usa dal vicepresidente in pectore Al Gore nelle presidenziali del '92, che fece intravedere di colpo ad attori eterogenei come produttori di informatica, compagnie telefoniche e case cinematografiche che avevano davanti un immenso terreno comune in cui fare buoni affari. E una grande visione tecnologica fu quella dei calcolatori di quinta generazione, le cosiddette «macchine pensanti», lanciata dal ministero giapponese del commercio e dell'industria nel 1981 con traguardo al 1991. Dal punto di vista scientifico il programma, va notato, fu un gigantesco flop. Ma esso favorì una poderosa integrazione di sforzi tra imprese, università e Stato, che portò l'industria informatica giapponese ai primi posti nel mondo. A proposito di concentrazione di risorse: che ne direbbe il ministro Berlinguer di concentrare le sue energie, che tutti gli riconoscono essere fuori del comune, sul Murst, lasciando ad altri il gravissimo onere rappresentato dal ministero della Pubblica Istruzione? Sappiamo che vi sono buone ragioni per porre sotto un unico potere di indirizzo il Murst e il Mpi. Ma osiamo dire che di fronte all'importanza vitale che presenta il rilancio della ricerca e l'innovazione scientifica e tecnologica per il futuro prossimo del Paese, paiono sussistere ragioni ancor più stringenti per sostenere che un ministro il quale concentrasse esclusivamente in tale compito tutto il suo impegno politico, la sua capacità di organizzazione e di stimolo, la sua passione civile, renderebbe un servizio al Paese. Luciano Gallino


PROPOSTA FEDERCHIMICA Scegliere le priorità
AUTORE: SQUINZI GIORGIO
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: LA STAMPA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
TABELLE: T. I punti discussi
NOTE: IL DIBATTITO SULLO STATO DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA IN ITALIA TEMA: IL DIBATTITO SULLO STATO DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA IN ITALIA

VORREI riprendere alcuni temi del dibattito sulla ricerca svoltosi su «La Stampa» nelle scorse settimane. Un punto già messo in rilievo da Franco Bernabè è il recupero della ricerca al suo ruolo naturale: la creazione di valore aggiunto e la capacità di competere, fornendo strumenti mirati per l'innovazione e la crescita. Se ci limitiamo ad alcune osservazioni di superficie, è difficile comprendere come sia possibile che il nostro Paese, pur investendo così poco in ricerca e sviluppo, risulti tra i sette Paesi più industrializzati del mondo, davanti ad esempio alla Gran Bretagna, che pure risulta al 3o-4o posto in termini di intensità di R&S (ricerca e sviluppo). La risposta più semplice e più pericolosa che possiamo darci è che siamo leader in settori che non richiedono molta attività di ricerca e, quindi, possiamo in fondo convivere con questa situazione: le risorse sono scarse; probabilmente diminuirenno in futuro; il mondo accademico continuerà a riceverne poche per tante attività che non servono a produrre svilupppo per il Paese ma solo titoli e pubblicazioni per il prestigio di chi li propone; le imprese faranno quello che possono, ma non sono nella gran parte dei casi in grado di generare cash flow adeguato all'auspicato salto verso attività ad alto contenuto di tecnologia. In realtà, come ha osservato Prodi dalle pagine di questo giornale, al di là dell'indubbia forza del nostro Paese nei settori tipici del made in Italy, che è stato fattore trainante per la ricerca applicata, nei prossimi anni le occasioni più significative di occupazione, di lavori qualificati e redditizi continueranno a venire soprattutto dallo sviluppo delle tecnologie innovative. Da subito è necessario che il Paese dedichi ad esse grande attenzione, sapendo però che non si può puntare su tutto. E' necessario fare scelte di priorità. Una prima richiesta al governo è quella di individuare linee strategiche al più presto e di destinare la maggior parte delle scarse risorse pubbliche ai settori prioritari, trovando anche i modi per sostenere la fase di sviluppo, che, come dice Gallino, è la più onerosa. Scegliere è difficile (e talvolta doloroso), ma è necessario. Del resto le imprese, in particolare le grandi multinazionali, hanno dato negli ultimi anni un esempio in questo senso, riorganizzando la ricerca a livello mondiale su alcuni centri di eccellenza funzionali al core business. Riterrei doveroso che un analogo processo di razionalizzazione iniziasse nella ricerca pubblica italiana, dove l'attività di alcuni enti dovrebbe essere orientata in coerenza con le linee strategiche scelte. Come nelle imprese, gli obiettivi e le priorità della ricerca pubblica non devono essere immutabili. Devono essere rivisti periodicamente ed eventualmente corretti. Premessa necessaria è un meccanismo di verifica dei risultati che permetta di selezionare i singoli progetti e far avanzare i più promettenti. Per facilitare lo sviluppo dell'innovazione, sarebbe opportuno introdurre dei meccanismi strutturali che permettano ai ricercatori dei centri di ricerca pubblica di partecipare, come avviene in tutti i Paesi avanzati, allo sviluppo di nuove imprese che valorizzino le attività svolte nei laboratori. Più esattamente, occorrerebbe mettere a fuoco azioni rivolte ai tre aspetti, che incidono su questo problema: il primo prevede la sensibilizzazione dei ricercatori sul piano della cultura d'impresa; il secondo riguarda l'incentivazione dello scambio di ricercatori tra pubblico e privato; il terzo deve prefigurare l'incontro tra ricerca e capitali di rischio, in modo da promuovere gli investimenti nell'innovazione. Lo Stato deve avere un ruolo di promotore della cultura scientifica nel Paese. Troppo poco si fa nelle scuole di ogni ordine e grado ed anche, in generale, per la divulgazione scientifica, al fine di stimolare la curiosità dei nostri giovani per la scienza e la tecnologia. Non esiste una ricerca forte in un Paese con una struttura industriale debole, ma al contrario, una forte industria stimola anche una forte ricerca. Da qui la necessità di imprimere una accelerazione alla competitività dell'industria nazionale. Le leve a disposizione del governo sono di carattere economico-finanziario-fiscale: alleggerimento degli oneri sul costo del lavoro degli addetti e incentivazioni fiscali, prevalentemente sotto forma di credito di imposta, a sostegno dell'attività di ricerca e sviluppo, come è già stato anticipato nei recenti documenti di Confindustria. Ed anche incentivi a chi collabora con le Università e i centri di ricerca pubblici. Riferendomi al settore industriale che rappresento e che conosco meglio, vorrei ricordare come Federchimica sta dicendo da anni che la chimica è fatta per oltre il 50% del suo fatturato da piccole e medie imprese, che sono sempre più impegnate sul fronte dell'innovazione. Le ricerche di Federchimica ci dicono che la grande novità degli ultimi cinque anni è il crescente numero di imprese chimiche italiane che stanno, spesso con successo, cercando di rompere il vincolo dimensionale. Che cercano di diventare imprese «medie», con la dimensione giusta per cogliere le nuove opportunità e per competere nel mercato globale. Quasi sempre lo stimolo viene dalla necessità di cogliere a pieno i vantaggi dell'internazionalizzazione; e proprio dal confronto con i concorrenti sui mercati esteri si evidenzia la necessità di innovare di più. Le imprese hanno bisogno di assistenza e soprattutto di poter contare su un sistema pubblico di ricerca e formazione adeguato agli orientamenti industriali. In sostanza, nella chimica si può essere piccoli, medi o grandi, ma occorre perseguire due imperativi: quello della crescita, perché l'alternativa alla crescita è l'arretramento, e quello dell'innovazione, perché nella chimica non si cresce senza ricerca. La consapevolezza di queste verità ha portato Federchimica a dare alla «innovazione» un'enfasi particolare e a sviluppare varie iniziative di collaborazione fra mondo industriale e mondo della ricerca. L'ultima di tali iniziative è il «Club delle Tecnologie», realizzato dal nostro Centro per l'Innovazione e la Ricerca Chimica (Circ) d'intesa con il Cnr, le Camere di Commercio di Milano e Torino e Assolombarda, al fine di stimolare Pmi, ricercatori e manager a presentare progetti nelle tecnologie avanzate alla comunità industriale e finanziaria del Paese. E' un piccolo passo verso la direzione della concretezza e del pragmatismo. Se tutti, istituzioni, imprese, università, intraprenderanno questo cammino, sarebbe meno arduo portare il Paese all'appuntamento con la competitività del terzo millennio. Giorgio Squinzi


Pochi soldi, niente meritocrazia Sull'università, scelte contraddittorie
AUTORE: BERLUCCHI GIOVANNI, MAFFEI LAMBERTO, MELDOLESI JACOPO, RIZZOLATTI GIACOMO, STRATA PIERGIORGIO
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: LA STAMPA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
NOTE: IL DIBATTITO SULLO STATO DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA IN ITALIA TEMA: IL DIBATTITO SULLO STATO DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA IN ITALIA

SU «La Stampa» del 28 maggio Luciano Gallino ha ricordato l'estrema arretratezza del nostro sistema ricerca e le disastrose conseguenze per l'economia. Recentemente, la prestigiosa rivista Science, usando diversi indici di valutazione, ci ha classificati intorno al 20o posto al mondo per produttività scientifica. La risposta di Romano Prodi è giunta puntuale a dare ragione a Gallino, pur facendo rilevare che l'inversione di tendenza è già cominciata proprio con il suo governo. A sostegno di questa tesi Prodi cita una serie di iniziative, già sotto forma di disegni di legge, che a suo parere ci hanno traghettato da una politica del dire a una politica del fare. Non entriamo nel merito di queste buone intenzioni. Ad alcune ha replicato il Premio Nobel Dulbecco su «La Stampa» del 31 maggio, dove, a proposito del disegno di legge Bersani per il trasferimento di 9000 miliardi per investimenti tecnologici alle imprese, dice: «A Prodi dico che aiutare le imprese in generale - secondo il disegno di legge Bersani - è sbagliato: come ho spiegato, è la ricerca di base che fa le scoperte e sono poi queste che rivoluzionano le imprese». E' invece importante ricordare ciò che Prodi ha già fatto in questo anno. 1) Il Senato ha approvato un disegno di legge sui concorsi universitari che va contro ogni forma di meritocrazia. 2) Il Cnr, il principale ente di ricerca non universitario, ha avuto una decurtazione di 38 miliardi su un bilancio effettivo già indecoroso per un Paese del G7. Renato Dulbecco dichiara di non ricevere più fondi dal Cnr da 18 mesi e a questo punto medita di lasciare l'Italia. Finora ha potuto lavorare grazie a fondi privati della Fondazione Telethon raccolti ogni anno con l'aiuto di una maratona televisiva. 3) Un recente decreto legge (n. 669) poi rientrato in parte anche per le minacce di dimissioni irrevocabili di presidi e direttori di dipartimento di Torino, proibiva alle università di spendere più del 90 per cento di quanto speso nell'anno precedente, con conseguenze esiziali proprio per le attività non di routine, come la ricerca avanzata: e ciò, come na osservato Nicola Tranfaglia, in totale contrasto con l'affermazione governativa secondo la quale la scuola dovrebbe essere una priorità assoluta. 4) E' stato messo in moto dal ministero dell'Università un nuovo meccanismo altamente centralizzato per finanziare la ricerca in tutte le discipline, non solo scientifiche, ma anche umanistiche. Si tratta di 150 miliardi per una popolazione di cinquantamila docenti. Per rendersi conto dell'inadeguatezza economica basta pensare che il Giappone ha stanziato quest'anno 190 miliardi esclusivamente per le ricerche sul cervello] Per questo finanziamento il governo ha comunque accettato una annosa richiesta dei ricercatori, cioè che le proposte siano valutate da esperti anonimi. Si tratta di una pratica largamente adottata da molti anni, non solo all'estero ma anche in Italia da altre amministrazioni pubbliche, come l'Istituto Superiore di sanità, o private, come Telethon. Data l'inadeguatezza dei formulari previsti sarà però pressoché impossibile documentare in poche righe la qualità del gruppo e l'interesse per la ricerca proposta. Inoltre per tutto lo scibile umano i valutatori anonimi verranno scelti dauna sola commissione di cinque esperti nominati dal ministro. Non c'è bisogno di avere esperienza diretta per immaginare quale alta specializzazione sia necessaria per identificare per ogni progetto valutatori fortemente competenti e affidabili. A più riprese nella campagna elettorale, e anche in una intervista a «Science», Prodi aveva sostenuto che nessun Paese può sopravvivere con più di una generazione di «stupidi», promettendo priorità assoluta alla ricerca. Che ci sia urgenza di interventi qualificati lo dimostra anche il dibattito che si è svolto sulle pagine de «La Stampa». Anche tenendo conto di Maastricht e delle ristrettezze finanziarie, ci si domanda se quanto abbiamo visto finora del governo, qui riassunto soltanto in modo esemplificativo, non vada nella direzione contraria. Giovanni Berlucchi Lamberto Maffei Jacopo Meldolesi Giacomo Rizzolatti Piergiorgio Strata


Le colpe dell'arretratezza Politici e industriali, dove eravate?
AUTORE: DE ALFARO VITTORIO
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: LA STAMPA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
NOTE: IL DIBATTITO SULLO STATO DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA IN ITALIA TEMA: IL DIBATTITO SULLO STATO DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA IN ITALIA

CI risiamo. Sembra ancora una volta, a leggere Franco Bernabè, amministratore delegato dell'Eni, su «La Stampa» del 3 giugno, che l'arretratezza tecnologica dell'Italia sia dovuta a una spiccata tendenza del ricercatore italiano all'astrattezza e ad una antica (verrà dalla Magna Grecia?) tendenza alla speculazione astratta, a non sporcarsi le mani. E' purtroppo innegabile che in Italia siamo indietro, quanto a tecnologia; ancora peggio: rispetto alle posizioni degli Anni Cinquanta, quando ancora ci difendevamo bene in molti settori allora di punta, siamo stati scavalcati da molti altri Paesi; e sì che partivamo da una condizione di relativo privilegio. Si può proprio parlare, senza mezzi termini, di arretramento tecnologico, con conseguenze ben percepibili sulla cultura nazionale. Ma davvero le persone che conoscono i fatti ritengono che questo arretramento sia da imputare alla prevalenza della scienza di base? Davvero noi ricercatori di base saremmo così potenti? Il debole sviluppo tecnologico è dovuto al desiderio dei nostri giovani di stare al calduccio in confortevoli istituti universitari? Non credo che sia così. Vi sono invece alcune - tante - decisioni prese negli ultimi 40 anni che condizionano il quadro attuale. E non sono state prese da ricercatori troppo ansiosi di darsi alla geometria algebrica o alla teoria delle particelle, ma piuttosto da enti industriali e ambienti politici. Si ritiene veramente che la fine della collaborazione tra privati e pubblico sulla ricerca avanzata elettronica e nucleare rappresentata dai laboratori di Ispra sia dovuta alla tendenza astratta dei ricercatori italiani? E l'affare Ippolito del '63, anche quello è stato montato dagli stessi irrimediabili teorici? E il ridimensionamento della nostra industria chimica anche? E chi ha rallentato l'introduzione della televisione a colori? Siamo noi che abbiamo liquidato l'industria elettronica e i calcolatori? Siamo noi ad aver rigettato sullo Stato ogni progetto a lungo termine riguardante l'energia nucleare prima, e ad aver poi organizzato un referendum che proibisce la realizzazione di centrali nucleari? Magari ci accuseranno anche di aver sabotato l'aereo di Mattei nel 1962. E, visto che io sono poco informato, vorrei anche sapere che cosa hanno fatto le grandi imprese e i governi per suscitare in Italia efficienti simbiosi e iniziative la cui assenza è imputata da alcuni al carattere della ricerca di base italiana. Potrei sapere quanto hanno investito i grandi enti tecnologici, nei passati 30 e più anni, per promuovere ricerca non direttamente connessa ai loro interessi immediati, ma in grado di suscitare, o di aiutare, quella collaborazione tecnologica a lungo respiro tra industrie e ricerca che tutti desideriamo? Sono stati fondati istituti di ricerca misti? Promosse fondazioni scientifiche? Sarei felice che si discutesse con cifre in mano, che venissero paragonate a quelle di altri Paesi sviluppati. Nè si può far colpa al sistema della ricerca fondamentale di essere autoreferente; se l'autoreferenza è sul piano mondiale, cosa si vuole? Interpellare gli scienziati di Andromeda? Evidentemente i grandi impianti della fisica mondiale sono stati progettati, in Usa o in Giappone o in Italia, sulla base delle necessità interne della scienza. Ma gli scienziati hanno spiegato, alle comunità nazionali e ai politici, fini e destinazioni degli investimenti; e i governi nell'approvare hanno tenuto conto della tecnologia e del lavoro indotti, e hanno scelto tra diversi investimenti scientifici, naturalmente; ma il giudizio sui fini scientifici è sempre dato dalla comunità scientifica internazionale. E che altro si deve fare? Non mi risulta che chi ha deciso di impiantare il Fermilab presso Chicago o il Cern a Ginevra abbia chiesto il parere alla Edison o alla Oerlikon per referenza scientifica. La scienza di base è fatta così. Nè il problema è di scegliere tra le somme spese per la ricerca scientifica di base e quelle necessarie a suscitare ricerca applicata di alto livello e collaborazione con le imprese. E' semmai vero il contrario: una buona ricerca fondamentale, inserita nel contesto internazionale, è uno degli elementi necessari per la ricerca applicata: prepara persone di alto livello da utilizzare in campi diversi e suscita alta tecnologia. Ma la tecnologia va promossa con paziente lavoro e investimenti, in collaborazione tra pubblico e privato. Troppo spesso si è demandata allo Stato ogni forma di investimento sulla ricerca a lungo termine, quando si sa benissimo che la ricerca di Stato non può da sola suscitare quell'atmosfera necessaria a compiere la delicatissima collaborazione tra ricerca, tecnologia e applicazione. Troppo spesso, se si proponeva uno sforzo per impiantare un laboratorio di ricerca applicata, la risposta era una sola: vogliamo commesse dallo Stato e allora ce ne interesseremo. L'idea di investire è venuta in mente a pochi. Certo non può venire in mente alla ricerca di base, che non ha fondi per fare investimenti. E allora sarà meglio smettere di ripetere formulette e tutti insieme, come comunità nazionale, pensare seriamente al futuro prendendo lezione dal passato. Da quello vero, però. Vittorio De Alfaro


A caccia dei migliori Come reclutare nuove intelligenze
AUTORE: BERNARDINI CARLO
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: LA STAMPA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
NOTE: IL DIBATTITO SULLO STATO DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA IN ITALIA TEMA: IL DIBATTITO SULLO STATO DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA IN ITALIA

LA ricerca scientifica di base, riguardante cioè i fondamenti delle conoscenze indipendentemente da obiettivi specifici di «utilità sociale», si è sviluppata in tutti i Paesi avanzati costituendo una forte tradizione di impegno intellettuale internazionale. Nei Paesi dove esistono condizioni materiali per lo sviluppo, è ormai ampiamente dimostrato che un robusto sostegno alla ricerca di base è la condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per avere ricadute tecnologiche di grande interesse economico e sociale. Compito dell'università e degli enti di ricerca è quello di creare le condizioni, appunto, necessarie ad ogni successiva prospettiva di più o meno vasto interesse pubblico: queste condizioni, nel loro aspetto «necessario», hanno carattere di investimento a lungo termine e si identificano facilmente nell'esistenza di un «vivaio» sempre rifornito di giovani di alta qualità scientifica in un contesto di ricerca di punta internazionalmente apprezzata. Ma, perché queste condizioni siano anche sufficienti, occorre che il terreno a cui gli effetti della ricerca di base possono espandersi sotto forma di ricadute sia anch'esso coltivato e ricettivo, pronto a ricevere know-how e a metterlo a frutto. Questo è ciò che è accaduto negli Stati Uniti o in Giappone, ma anche in Francia, in Germania e nel Regno Unito, grazie a una tradizione industriale non gretta, cioè disposta al rischio creativo e al cambiamento e non interessata al solo profitto. In tutti questi Paesi i laboratori privati svolgono attività di qualità non inferiore a quella realizzata con il supporto pubblico; la mentalità, in quei laboratori, è più vicina a quella della scienza che non a quella del mercato. Ma non è, purtroppo, ciò che è accaduto in Italia: da noi, l'industria è ormai arrivata a contendere alla ricerca di base finanziamenti pubblici già ben magri, senza avere - salvo casi marginali anche se non insignificanti - alcuna certificazione di affidabilità per pretenderli, cioè senza capacità di spesa per l'innovazione di prodotto; sembra quasi che i nostri imprenditori pensino che con i soldi sottratti alla ricerca «accademica» sia possibile «comprare» capacità innovative di prodotto, come accade per le assai meno impegnative innovazioni di processo, per le quali sono particolarmente versati. Stando agli accenti usati da alcuni interlocutori del dibattito aperto da questo giornale, sarebbe più coerente arrivare a chiedere la chiusura dell'università e degli enti pubblici prospettando l'egemonia delle attività di formazione culturale da parte delle strutture addette alla produzione di beni. Ma non sembra il caso di dare fiducia già a pretese assai più modeste. La storia recente è ricca di episodi. Vi sono persino casi, come quello dell'Eni, in cui l'ente ha dimostrato di non saper gestire strutture di ricerca che, pure, erano state allestite con il concorso di persone dedite alla ricerca fondamentale. Rigidità e burocrazia basterebbero già da sole a denunciare la mancanza di tradizioni consolidate di ricerca applicata; ma dobbiamo aggiungere miopia e incapacità di spendere rischiando qualcosa, per capire come mai le condizioni create da un'eccellente ricerca di base da noi non sono sufficienti a creare ricerca applicata e sviluppo. Ora, ciò che mi sembra urgente è che il mondo industriale mostri a proprie spese un minimo di ricettività. Chieda pure agevolazioni fiscali, chieda consulenze a condizioni vantaggiose, ma non peschi nelle casse della ricerca fondamentale: come si diceva una volta, è come bruciare mobili preziosi per scaldarsi. Se la ricettività avrà connotati dignitosi, simili a quelli del mondo della ricerca, anche i migliori potranno essere tentati dall'avventura: a patto che possano interagire liberamente con il loro ambiente intellettuale naturale e che possano sentirsi immersi senza eccessivi svantaggi in una comunità internazionale. E' difficile, per un ricercatore, capire come si possa concepire il futuro di una ricerca applicata in luoghi governati da avvocati, manager del settore economico, o anche professori senza altre note curricolari che quella di essere stati vicepresidenti di squadre di calcio, licenziatori di personale eccedente, parenti di leader politici e simili. Carlo Bernardini


SCAFFALE Coyne, Giorello, Sindoni: «La favola dell'universo», Piemme
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
LUOGHI: ITALIA

IN ogni tempo l'uomo si è interrogato sull'origine e sul senso dell'universo. Ha tentato risposte religiose, filosofiche, scientifiche. O, più o meno consapevolmente, ha mescolato queste tre prospettive. In realtà da sempre le domande sull'universo ne nascondono un'altra, che riguarda il significato della nostra stessa esistenza. George V. Coyne, un gesuita che è anche astronomo di fama mondiale (dirige la Specola Vaticana e il Dipartimento di astronomia dell'Università dell'Arizona), Giulio Giorello, filosofo della scienza all'Università di Milano, ed Elio Sindoni, fisico nucleare nella stessa università, hanno raccolto e coordinato in questo volume una serie di riflessioni filosofiche, teologiche e scientifiche sul problema cosmologico. Segnaliamo i contributi di Emanuele Severino, John D. Barrow, Margherita Hack, Geoffrey Burbidge, Alberta Rebaglia e del regista Ermanno Olmi.


SCAFFALE Nazzaro Antonio: «Il Vesuvio: storia eruttiva e teorie vulcanologiche», Liguori
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA
LUOGHI: ITALIA

Molto si è discusso sul piano di emergenza preparato dalla Protezione civile in vista di una eventuale nuova grande eruzione del Vesuvio: c'è chi ne sostiene l'efficacia e chi invece trova criticabile l'eccessivo ottimismo sui tempi di previsione dell'evento catastrofico e sulla possibilità di spostare le 700 mila persone minacciate in altri luoghi. Comunque stiano le cose, una miglior conoscenza del comportamento di questo vulcano nel passato non può che rendere più efficace la difesa della popolazione nel caso di nuovi parossismi. Antonio Nazzaro, vulcanologo dell'Osservatorio Vesuviano, in questo volume ci presenta una completissima rassegna storica di tutti gli eventi documentabili, dall'epoca antecedente l'esplosione del 79 dopo Cristo alla grande eruzione del 1631 fino ai fenomeni più recenti. Un'opera scientifica, ma anche di avvincente lettura.


SCAFFALE «Filosofia della fisica», editore Bruno Mondadori
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: EPISTEMOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Nel nostro secolo la fisica ha offerto innumerevoli spunti alla riflessione filosofica: basti pensare al peso epistemologico del «principio di incertezza» di Heisenberg, ai problemi morali sollevati dalla bomba atomica, ai risvolti filosofici della teoria della relatività, della meccanica quantistica e della cosmologia. In questo volume a più mani (Bergia, Dalla Chiara, Dorato, Ghirardi, Giuntini, Pauri e Giovanni Boniolo, che ne è anche il curatore) i molti punti di contatto tra fisica e filosofia sono per la prima volta affrontati e discussi in modo organico e approfondito. Un invito importante, tra l'altro, all'incontro tra le «due culture». Nella stessa collana, di Marco Mondadori e Marcello D'Agostino, segnaliamo «Logica».


SCAFFALE Harris John: «Wonderwoman e Superman», Baldini & Castoldi
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: BIOETICA
LUOGHI: ITALIA

Tecnologia della riproduzione, ingegneria genetica, clonazione: la scienza ha reso l'uomo padrone del proprio destino biologico. Sollevando problemi etici fondamentali. Questo libro ne discute con equilibrio. Segnaliamo anche «Lezioni di bioetica», ed. Ediesse, con contributi di Berlinguer, Callari, Galli, Lecaldano, Oliverio, Rodotà e Viano. Piero Bianucci


SCIENZE FISICHE E intanto Rubbia va in Spagna... Sperimenterà il suo «amplificatore di energia»
Autore: BRESSAN BEATRICE

ARGOMENTI: FISICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: RUBBIA CARLO
ORGANIZZAZIONI: CERN
LUOGHI: ITALIA

IL programma di ricerca dell'«amplificatore d'energia» (AE), il progetto del Premio Nobel Carlo Rubbia per l'eliminazione dei rifiuti radioattivi e la produzione di energia sviluppato al Cern dal 1993 ad oggi, è giunto ad un passo decisivo. Due mesi fa è nata Laesa (Laboratorio del Amplificador de Energia - Sociedad Anonima): una società creata in Spagna allo scopo di reperire i fondi necessari alla realizzazione del progetto, cui partecipano non solo grossi gruppi industriali come l'Ansaldo, ma anche organismi come il Centro di ricerca sviluppo e studi superiori in Sardegna. E il 20 giugno, venerdì, Rubbia presenterà al Consiglio del Cern le conclusioni scaturite dalle ricerche preliminari finora svolte. La differenza fondamentale tra l'amplificatore di energia e un reattore nucleare come quelli delle attuali centrali atomiche è rappresentata dal fatto che la reazione di fissione non è autosostenuta, ma attivata da una continua immissione di neutroni. Questi ultimi vengono prodotti dall'impatto di protoni, accelerati prima da un acceleratore lineare e successivamente da un ciclotrone, su un bersaglio di piombo e combustibile nucleare. Ciò significa che se l'acceleratore si ferma, anche la reazione si ferma, impedendo così incidenti come quello che è successo a Cernobil. In questo modo si realizza una cascata nucleare indotta in un sistema detto «sottocritico». L'idea chiave per l'incenerimento delle scorie radioattive è data all'azione combinata di due fattori: utilizzare come combustibile una mistura di torio ed elementi transuranici (tutti gli elementi più pesanti dell'uranio, nonché prodotto indesiderato delle attuali centrali), piuttosto del convenzionale uranio e, come moderatore, piombo fuso al posto dell'acqua leggera. Ciò permette infatti l'utilizzo di neutroni veloci, e non «termici» come per un reattore tradizionale, i quali rompono più facilmente i nuclei dei materiali radioattivi. In altre parole neutroni che lavorino in uno spettro di energia molto elevato. La generazione attuale di reattori produce grossi quantitativi di rifiuti radioattivi che hanno un tempo di vita media molto lungo, dell'ordine di un milione di anni. Si tratta essenzialmente di due classi di scorie: i frammenti di fissione (la cui attività iniziale è dominata dallo stronzio e dal cesio, che decadono dopo circa 30 anni), meno dannosi perché rappresentano un decimillesimo della radiotossicità, e i transuranici, la cui caratteristica principale è di mantenere un grado di radio attività assai elevato anche dopo migliaia di anni e quindi di essere molto più pericolosi dal punto di vista ambientale. Il torio non è di per sè fissile, ma sotto l'effetto dei neutroni può essere trasformato in uranio 233, che è un isotopo fissile dell'uranio altamente energetico. Da quest'ultimo si generano altri neutroni che continuano questo processo fino all'eliminazione totale di tutto il combustibile. In sostanza diversi sono i motivi per i quali l'inceneritore a neutroni veloci dell'AE può rappresentare una valida alternativa sia ai depositi geologici delle scorie radioattive (oggi nelle piscine di raffreddamento o nelle miniere di salgemma), sia alle tradizionali centrali nucleari. In primo luogo è stato calcolato che, estraendo dai rifiuti nucleari in maniera elettrochimica gli elementi trans uranici e bruciandoli, si potrebbe recuperare ben l'8 per cento dell'attuale domanda di energia spagnola. La separazione congiunta di tutti i transuranici eviterebbe inoltre la raccolta di grossi quantitativi di plutonio, presenti oggi in maniera massiccia nelle scorie radioattive e disponibili per scopi militari. Il prossimo passo sarà la realizzazione del prototipo del Linac per accelerare protoni fino a 30 megaelettronVolt (MeV) e quindi iniettarli in un ciclotrone per raggiungere energie dell'ordine di 400 MeV. Si prevede che l'amplificatore di energia vero e proprio raggiunga 1 Gi gaelettronVolt (GeV), valore in corrispondenza del quale la produzione di neutroni è proporzionale all'energia del fascio. Si tratterebbe di impianti di piccola taglia, adiacenti ai reattori convenzionali, evitando così ogni rischio connesso al trasporto dei rifiuti radioattivi. Basterebbero solo 7 amplificatori di energia da 800 mega watt termici per eliminare in 37 anni le scorie già esistenti e quelle che verranno prodotte fino al 2029 dai 9 reattori che oggi forniscono alla Spagna un totale di 7,1 gigawatt elettrici. Senza contare il fatto che il costo capitale di un singolo impianto sarebbe di gran lunga inferiore a quello di un deposito geologico. Tutto questo è realizzabile senza grosse innovazioni tecnologiche. Per esempio le cavità superconduttrici dell'acceleratore, che permetteranno ai protoni di raggiungere valori di energia relativistici, potrebbero essere realizzate a partire dalla tecnologia già nota e applicata nel Large Elet tron Positron Collider del Cern di Ginevra. Beatrice A. Bressan


SCIENZE DELLA VITA. STRANEZZE TRA LE ONDE I pesci con le ali Alcune specie volano sull'acqua
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

NEL nostro linguaggio vi sono dei modi di dire assolutamente impropri. Noi diciamo «mi sento come un pesce fuor d'acqua» per significare «mi sento a disagio». Ma chi l'ha detto che tutti i pesci si sentano a disagio fuor d'acqua? Prendiamo, ad esempio, gli Exocoetus obtusirostris, lunghi una ventina di centimetri, dal dorso azzurro brillante e dai fianchi argentei. Improvvisamente li si vede guizzare fuor d'acqua e «volare» nell'aria per parecchi metri, prima di rituffarsi in mare. Mentre «volano» le loro grandi pinne pettorali allargate sembrano ali. E sono proprio queste finte ali le superfici portanti che consentono ai pesci di planare nell'aria. Nei loro «voli» superano facilmente distanze di una cinquantina di metri in tre secondi, il che equivale a una velocità di circa 60 chilometri all'ora. Durante la volata si mantengono di solito a circa un metro di altezza ma in certi casi, quando il vento li asseconda, possono salire fino a cinque metri dalla superficie dell'acqua. Se gli exocetidi si accontentano di planare mantenendo le pinne pettorali distese ed immobili, ci sono anche dei pesciolini lunghi da sei a otto centimetri che hanno realizzato il «volo battente», quel volo caratterizzato dal battito ritmico delle ali - in questo caso delle pinne - tipico delle farfalle e di molti uccelli. Sono i gasteropeleci. Dopo una rincorsa di qualche metro, si sollevano dalla superficie dell'acqua come aliscafi in miniatura, volano per alcuni metri battendo velocemente le pinne e producono un ronzio chiaramente udibile, simile a quello che fanno colibrì o calabroni. I gasteropeleci si possono tenere negli acquari domestici, purché si abbia l'accortezza di coprire la vasca con una fine rete metallica, a scanso di spiacevoli sorprese. I pesciolini infatti, a vasca scoperta, potrebbero tentare una rocambolesca evasione prendendo il volo. E niente di più facile che finiscano in bocca al gatto di casa. Non è detto però che uscir dall'acqua significhi necessariamente volare. Ci sono anche i pesci «podisti» che, a differenza dei volatori, si concedono soggiorni più lunghi fuor d'acqua. Questi inconsueti viandanti terrestri posseggono dispositivi di vario tipo che assicurano la persistenza di un certo grado di umidità nelle branchie (gli organi respiratori) e sulla pelle attraverso la quale avviene una parte degli scambi respiratori. Solo in questo modo riescono a debellare i due maggiori pericoli che li minacciano: asfissia e disseccamento. Per potersi muovere in terraferma, alcuni hanno le pinne curiosamente trasformate in puntelli e, per quanto la loro andatura non sia la più ortodossa, si può dire che «camminino» sul terreno asciutto. Così fanno i pesci d'acqua dolce del genere Clarias, affini ai pesci- gatto. Vivono nei piccoli corsi d'acqua dell'Africa e dell'Asia meridionale. Hanno uno dei raggi di ciascuna pinna pettorale particolarmente sviluppato e su questi due raggi, uno per lato, il pesce si appoggia nelle sue camminate. Quando si seccano i corsi d'acqua in cui vivono, i Clarias non si perdono d'animo e filosoficamente si mettono in cammino alla ricerca di un altro bacino d'acqua. Li si vede allora procedere sul terreno asciutto puntellandosi sulle due pinne pettorali, come se camminassero con la stampelle. Naturalmente non potrebbero concedersi queste passeggiate in terraferma se non possedessero organi respiratori ausiliari che permettono loro di immagazzinare aria direttamente dall'atmosfera. Così come li possiede l'anabate (Anabates testudineus), un pesce lungo una trentina di centimetri, diffuso in tutta la fascia indomalese. E' un corridore di tutto rispetto capace di percorrere all'asciutto anche duecentocinquanta metri in pochi minuti. Si racconta di lui che si arrampichi perfino sugli alberi come un trenino a cremagliera. Ma nessun ricercatore ha potuto confermare una simile asserzione scaturita evidentemente da una fantasia troppo fervida. Ha vita anfibia anche il Lophalticus kirki, lungo appena nove centimetri, che abita le acque costiere del Mar Rosso e dell'Africa orientale. Ogni tanto, quando sente i morsi della fame, esce dall'acqua per farsi uno spuntino a base di alghe. E pensate un po' dove se le va a prendere. Attende la bassa marea e quando le rocce rimangono allo scoperto, lui va a grattare coscenziosamente le alghe che le rivestono. Per evitare il disseccamento, ogni tanto fa un bel tuffo nell'acqua, poi ritorna tranquillamente alla sua mensa erbivora. Si attacca alle rocce con le pinne. La presa è saldissima, grazie alle pinne ventrali, stranamente trasformate in una sorta di pinza e alla pinna anale diventata addirittura un provvidenziale uncino. Un esempio strabiliante di adattamento evolutivo. Ma i più bizzarri tra questi pesci anfibi sono certamente i perioftalmi che vivono nel paesaggio apocalittico della foresta a mangrovie, tipico di tante zone tropicali del Vecchio Mondo. In quelle distese fangose dove fiumi, mare e fango si confondono in un grigiore stagnante, si vedono frotte di questi allegri pesciolini variopinti che avanzano in terraferma, spiando i dintorni con i grossi occhi sporgenti. Sono mobilissimi e indipendenti l'uno dall'altro come quelli del camaleonte, efficientissimi per la visione aerea, grazie alla loro capacità di accomodamento per la percezione degli oggetti vicini. L'abbandono temporaneo del proprio ambiente naturale da parte di questi pesci intraprendenti è indubbiamente un comportamento fuori norma, in aperta contraddizione con tutte le buone regole di vita ittiologica. Si tratta con ogni probabilità di un adattamento secondario, che ricorda alla lontana ciò che avvenne nelle remote ere geologiche allorquando animali marini passarono dalla vita acquatica alla vita terrestre, modificando gradatamente le strutture del proprio organismo. I pesci fuor d'acqua debbono affrontare problemi di non facile soluzione, come la respirazione e la locomozione in ambiente aereo e li affrontano in molti modi diversi, con la versatilità che contraddistingue sempre madre natura. Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE DELLA VITA. SPEDIZIONE ZOOLOGICA Anfibi e rettili «inediti» in Europa Portati dal Madagascar, sono visibili a Genova
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
NOMI: JESU RICCARDO, SCHIMMENTI GIOVANNI
ORGANIZZAZIONI: ACQUARIO DI GENOVA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, GENOVA (GE)

DALL'Acquario di Genova alle foreste del Madagascar: una spedizione zoologica ha studiato per due mesi la ricca e particolarissima fauna della grande isola africana scoprendo specie sconosciute fino ad oggi e portando in Italia esemplari di anfibi e rettili che i frequentatori del «parco marino» genovese saranno i primi a vedere in Europa. Riccardo Jesu e Giovanni Schimmenti sono partiti a fine gennaio per sfruttare la stagione delle piogge, durante la quale gli animali sono più attivi e visibili. Come si sa, il Madagascar, staccatosi nell'era paleozoica dal continente africano, ha potuto preservare una flora e una fauna specifiche, con specie «antichi» (basta ricordare i lemuri) che altrove sulla Terra si sono ormai estinte. Un patrimonio oggi è in grave pericolo a causa della deforestazione. Obiettivo dei due zoologi dell'Acquario genovese sono stati gli anfibi e i rettili, oltre ai pesci delle acque interne. Affrontando condizioni spesso molto difficili, Jesu e Schimmenti hanno percorso dapprima il massiccio dello Tsaratanana, risalendo per cento chilometri il fiume Sambirano e raggiungendo la foresta primaria a 1300-1500 metri di quota; un ambiente in cui è stato difficile operare per le continua piogge, per i corsi d'acqua resi insidiosi dalle rapide e dalla presenza di coccodrilli, ma intatto e sconosciuto; i due zoologi hanno rinvenuto 13 specie di anfibi di 7 generi diversi e 13 specie di rettili (scinchi, camaleonti, gechi e serpenti) di 8 generi diversi. Per sottolineare il tasso di novità dei risultati della spedizione basta dire che delle 26 specie solo per 5 è stata possibile l'attribuzione di una posizione sistematica certa mentre per le altre occorrerà uno studio approfondito per la corretta collocazione. Secondo obiettivo è stata la riserva Tsingy de Bemaraha, nella parte centro-occidentale dell'isola, caratterizzata dalla foresta decidua sub-umida. Qui sono state individuate 6 probabili nuove specie di anfibi di 4 generi diversi, 3 specie di rettili, e due nuove specie di pesci di acqua dolce. Alcuni esemplari sono stati portati all'Acquario; qui, nei laboratori sottostanti la parte aperta al pubblico, sarà compiuta una ricerca sulla riproduzione che coinvolgerà sia studiosi dell'Acquario stesso sia quelli dell'università malgascia di Antananarivo, la capitale del Madagascar. Terzo territorio studiato, quello della «foresta spinosa» di Anakao; oggetto della ricerca, già avviata negli anni scorsi, una tartaruga locale, la Pyxis arachnoides arachnoides, mai studiata nel suo ambiente. Si tratta di una tartaruga terrestre che può raggiungere i 16 centimetri e che è caratterizzata da un piastrone munito di due parti mobili, anteriormente e posteriormente, che consente all'animale di chiudersi interamente nel carapace; è questo stratagemma che consente alla Pyxis arachnoides, attiva soltanto per i pochi mesi durante la stagione delle piogge quando crescono le foglie di cui si nutre, di trascorrere in sicurezza la stagione secca con le sue elevate temperature. La Pyxis arachnoides è ora esposta nell'Acquario insieme ad altri animali portati dalla spedizione; tra essi la Brooke sia perarmata, piccolo camaleonte (massimo 10 centimetri) proveniente dalla foresta sub- umida degli Tsingy de Bamaraha, che prende il nome dalla cresta di spine che porta sul dorso e ai lati della testa e che per questo suo aspetto minaccioso è oggetto di timori superstiziosi da parte della popolazione locale. Altra presenza interessante quella dello Steno phis citrinus, un colorato serpente notturno lungo un metro al massimo che vive sugli alberi, identificato per la prima volta dai ricercatori dell'Acquario genovese nel '95, gran divoratore di gechi. Di insetti si nutre invece il Chalarodon madaga scariensis, piccolo iguanide (20 centimetri) delle savane della parte occidentale dell'isola, solitario e irascibile e che, a differenza della maggior parte degli animali della zona, non teme il caldo ma preferisce le ore più torride della giornata per mettersi in caccia. La spedizione genovese è l'inizio di un programma per la tutela della biodiversità dell'isola che vedrà coinvolti, insieme con studiosi italiani, anche rivercatori malgasci e che proseguirà nei prossimi anni. Vittorio Ravizza


SCIENZE DELLA VITA. PER GLI AMANTI DELL'ESOTICO Ideato un congegno anti-squalo Difende i bagnanti creando un tenue campo elettrico
Autore: MORETTI MARCO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
NOMI: CHARTER GRAHAM, BURGESS GEORGES
ORGANIZZAZIONI: NATAL SHARK BOARD, INTERNATIONAL SHARK FILE
LUOGHI: ITALIA

CON le vacanze esotiche torna la paura degli squali, già alimentata nel nostro immaginario da celebri film hollywoodiani. Finire sbranati in mare è però molto improbabile. A fronte di centinaia di milioni di bagnanti, ogni anno in tutto il mondo si registrano da 70 a 100 attacchi a persone con una punta massima di 15 morti. E anche il «pericolosissimo» Pacifico, dove vivono alcune delle specie più aggressive - come il grande squalo bianco, il tigrato e l'abbronzato, che trovandosi di fronte a un uomo lo attaccano per istinto - offre dati confortanti: dal 1803 in Australia sono stati registrati circa 300 attacchi mortali, solo 8 tra il 1982 e il 1996. Viceversa, ogni anno vengono pescati 100 milioni di esemplari delle 370 specie di squali presenti negli oceani per rifornire il mercato ittico. Dall'Australia alla California la bianca polpa di squalo è servita in tutte le salse. E i cinesi li pescano per preparare la loro zuppa di pinne di pescecane. Il pericolo è stato ulteriormente ridotto con l'invenzione del Protective Oceanic Device (Pod): un congegno portatile che protegge chi lo usa con un campo magnetico capace di tenere lontani gli squali. Dopo lunghe sperimentazioni, il Pod - inventato da Graham Charter, dirigente del sudafricano Natal Shark Board - è stato presentato lo scorso febbraio. Verificato che i pescecani reagiscono anche a grande distanza a segnali elettrici a basso voltaggio, si è costruito un congegno capace di creare attorno al nuotatore un campo elettrico del raggio di 7 metri. Lo alimenta una batteria ricaricabile a 90 volt (dura 75 minuti), collegata via cavo a una sonda applicata a una delle pinne. La corrente emessa non è percepibile dagli esseri umani, nè sembra essere dannosa: alcuni sistemi antisqualo a cavi elettrici, sperimentati alcuni anni fa in Sud Africa, furono abbandonati perché rischiavano di fulminare i bagnanti. Non tutti però sono convinti dell'efficacia del Pod: Georges Burgess, direttore dell'International Shark File dell'University of Floridàs Museum of Natural History ha dichiarato che «è un buon primo passo, ma non è il salvavita che stiamo cercando». In attesa della commercializzazione del Pod o di ancor più sofisticati dissuasori, per evitare i pescecani si possono seguire alcune regole elementari. Gli squali si nutrono di pesce e non di carne umana; hanno però un olfatto sviluppatissimo: avvertono l'odore del sangue e di altre secrezioni fino a un chilometro di distanza e ne sono attratti. Negli oceani Pacifico, Indiano e Atlantico è perciò meglio che non si bagni chi ha ferite sul corpo, nè le donne mestruate, ed è bene non urinare in mare. Per evitare d'incontrarli è bene sapere che gli squali preferiscono le acque torbide e ricche di pesce a quelle limpide e di solito non nuotano dove s'infrangono le onde: il regno del surf. I pesci morti attirano gli squali: evitate di bagnarvi vicino a porti di pesca, pescherecci o anche semplici pescatori nel caso puliscano i pesci sulla riva. Le statistiche dicono che la stragrande maggioranza degli attacchi avviene fra le 3 del pomeriggio e le 9 di sera, l'ora più critica è il tramonto, sono invece rarissimi gli incidenti durante il mattino. Chi volesse altre informazioni, può leggere il bel volume di Piero e Alberto Angela «Squali» (Mondadori, 138 pagine, 48 mila lire), corredato dalle splendide fotografie di Alberto Luca Recchi. Marco Moretti


SCIENZE DELLA VITA. E' TORNATO A NAVIGARE Fogar, l'uomo-macchina «La mia vita appesa alla tecnologia biomedica»
Autore: FOGAR AMBROGIO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, MEDICINA, VELA
NOMI: CABIATI IRENE
ORGANIZZAZIONI: ASSOCIAIZONE MIELOLESI
LUOGHI: ITALIA

Ambrogio Fogar ha appena concluso il suo giro d'Italia in barca a vela. Ad ogni tappa ha tenuto una conferenza per rac cogliere fondi a favore dell'As sociazione mielolesi. A Irene Cabiati ha rilasciato questa te stimonianza in cui spiega come la sua vita dipenda oggi dalla tecnologia biomedica. L'INCIDENTE mi ha paralizzato e mi ha tolto la possibilità di respirare. Quando l'auto si è capovolta il mio cuore si è fermato. Per fortuna c'era un elicottero dell'organizzazione della gara che stava passando proprio di lì, in quel momento. Un medico mi ha dato tre scosse elettriche, il cuore è ripartito poi mi hanno messo le ginocchia sul torace e con una pompa a mano mi hanno tenuto in vita manualmente soffiando aria ai polmoni. Da Mosca sono stato trasportato a Milano in stato di incoscienza. Poi è incominciato il mio pellegrinaggio per gli ospedali. Al San Raffaele di Milano mi hanno messo una specie di gabbia per bloccare la spina dorsale rotta; poi mi hanno trasferito in Svizzera, dove ci sono i centri più avanzati per para e tetraplegici e infine in Francia, sulla Manica. Qui mi hanno applicato lo stimolatore del nervo frenico che sollecita ogni sei secondi il diaframma. Mi hanno messo due placche sotto pelle con degli elettrodi: le placche vengono comandate da un computer esterno regolabile. Il computer è alimentato da batterie che vanno ricaricate ogni quattro giorni. Al mio rientro in Italia, a Milano, mi hanno proposto molte macchine per ausilio alla mia totale infermità: ho provato il computer vocale, che riconosce la voce e scrive automaticamente - ha 2000 parole in memoria - ma il mio problema è che non ho la voce costante perché non respiro più autonomamente, per cui spesso il computer non riconosce le parole. Ho rinunciato al computer ma non a scrivere: detto articoli e libri a mia sorella. Oltre allo stimolatore, ho un respiratore: di notte ogni tanto mi collego con il tubo che pompa aria. Lo faccio per dare riposo al diaframma. Divento una specie di robot perché sono attaccato a questa macchina. Ho la sensazione di essere vivo solo perché c'è lei, mentre con lo stimolatore elettronico sono più autonomo, posso muovermi posso girare. In più ho un umidificatore, utilissimo perché spesso l'abbondanza di secrezioni si alterna a una secchezza dei bronchi e dei polmoni. Un'altra macchina importante è il misuratore della quantità d'aria che respiro per vedere se l'elasticità dei polmoni è sufficiente ad assorbire l'aria che mi serve. Queste sono le macchine che mi aiutano a vivere. La cosa principale, comunque, è lo stimolatore del nervo frenico: mi rende autonomo, non nella respirazione, ma nei movimenti. Un altro accessorio importante per la mia vita da tetraplegico è il materasso antidecubito costituito da tante piccole camere d'aria che si gonfiano e si sgonfiano a seconda di come le infermiere mi spostano sul letto. E' efficacissimo, non ho mai avuto piaghe da decubito pur essendo da quattro anni e mezzo sul letto. Materasso e macchine a bordo della barca sono installate in vani autobloccanti. Un generatore di corrente dà energia allo stimolatore che mi permette di respirare. Ho anche altri due piccoli generatori di emergenza. La tecnica e la ricerca nel campo elettronico hanno dato un aiuto fondamentale a persone come me anche se in Italia soltanto dieci persone hanno uno stimolatore. Ciò che conta comunque è che non mi sono perso d'animo. Continuo a fare progetti, a trasformare i ricordi da trappole in trampolini da cui partire per nuovi sogni. Uno di questi è stato il giro d'Italia a vela, che non vede più un Ambrogio protagonista egocentrico delle sue imprese, ma un viaggiatore che porta a conoscenza di tanti italiani cosa significa l'interruzione del midollo spinale. Noi in Italia siamo alcune decine di migliaia, in carrozzina, ma se ne vedono molto pochi in giro perché tanti non hanno voglia di uscire e forse aspettano passivamente l'ultimo giorno; ma tanti non possono uscire per il semplice motivo che non hanno denaro sufficiente per un assistente che li accompagni a fare una visita a un museo o una chiesa. Il motivo di questo viaggio non è soltanto propagandare e fare conoscere il nostro problema. L'obiettivo è anche raccogliere contributi per dare una mano e quelli che oltre a essere stati duramente colpiti dal destino non hanno autonomia economica. Respiratore e umidificatore li paga l'Usl. L'operazione per mettere lo stimolatore al nervo frenico costa qualche decina di milioni, in parte rimborsati. Però non tutti possono accettare lo stimolatore perché non per tutti il nervo frenico funziona allo stesso modo. Quindi è un ostacolo fisico più che economico. Ciò che veramente manca sono le persone che ti devono aiutare in ogni momento della tua vita. Quindi questo viaggio è stato completamente diverso dai precedenti: il vero scopo è quello di mettere a disposizione un po' della mia notorietà a difesa e a vantaggio di coloro che si sentono tagliati fuori dalla vita. Siamo pur sempre vivi; metteteci alla prova, possiamo ancora essere utili. Ambrogio Fogar


SCIENZE DELLA VITA. PICCOLI PROGRESSI Nuove armi contro la malattia di Alzheimer Si cerca di sciogliere l'amiloide, la causa della demenza
Autore: FARIELLO RUGGERO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: THOMAS JEFFERSON UNIVERSITY, NEW ENGLAND JOURNAL OF MEDICINE
LUOGHI: ITALIA

GRANDI progressi si sono fatti nell'individuare le alterazioni sia nella biochimica sia nella struttura del cervello che caratterizzano la malattia di Alzheimer ma i meccanismi intimi che causano le alterazioni sfuggono ancora. Una persona su 10 tra gli affetti da Alzheimer è colpita da una delle forme ereditarie della malattia. Le forme familiari e quelle sporadiche sono indistinguibili sul piano dei sintomi. E' quindi possibile che la comprensione dei meccanismi causali delle une serva anche per le altre. L'anno scorso sono stati individuati, su quattro cromosomi diversi, i geni responsabili della trasmissione dell'Alzheimer. Fattore comune a questi geni è che tutti hanno a che fare, direttamente o indirettamente, con una beta proteina chiamata App, precursore dell'amiloide. Normalmente, giacché tutti produciamo App, la proteina si ricicla, ma nella malattia essa ha una spiccata tendenza a frammentarsi in una catena di 42 aminoacidi che si depositano in strati compatti tra le cellule del cervello formandovi dei nuclei attorno ai quali altre scorie metaboliche e detriti provenienti dai neuroni vengono calamitati. Questi depositi formano le placche senili, un'alterazione patologica tipica dei cervelli affetti da Alzheimer. Che la App sia un fattore importante nella genesi della malattia di Alzheimer è ammesso da quasi tutti gli esperti, ma quanto la App influisca sulla demenza non si sa. In altre parole, molti scienziati non sono convinti che anche qualora si rimuovesse tutta la proteina amiloide abnorme dal cervello malato, questo possa migliorare. Ci potrebbe ora essere una via per poter rispondere a questa fondamentale domanda e, nel caso di risposta positiva, si aprirebbe uno spiraglio per un trattamento efficace dell'Alzheimer. Proteine amiloidi si depositano anche in altri organi del corpo in molte malattie croniche, tra cui alcune leucemie. Sperimentando un nuovo farmaco antitumorale della serie chimica delle antracicline, la iododoxorubicina, questa venne somministrata a un paziente leucemico con imponenti depositi di amiloide negli organi periferici. Vi fu un netto miglioramento delle condizioni associato a una riduzione importante dei depositi di amiloide. Risultati analoghi si ebbero in altri pazienti con varie forme di amiloidosi periferica, cioè non nel cervello. In esperimenti di laboratorio questo antitumorale non solo previene i depositi di amiloide ma può disaggregarli, cioè sciogliere l'amiloide. Altri studiosi in America hanno osservato che il Rosso Congo, una sostanza usata per colorare l'amiloide nei preparati istologici, e la crisammina possiedono proprietà simili. E' ora apparso un articolo secondo il quale la iododoxorubicina è stata in grado di allungare il tempo di sopravvivenza di piccoli roditori sperimentalmente infettati con un prione, cioè con un agente che causa malattie come quella della mucca pazza, anch'essa caratterizzata da depositi di amiloide nel cervello. Per la cura dell'Alzheimer sono ora disponibili alcuni farmaci in Giappone, Usa e Inghilterra. In aprile, un articolo sul New England Journal of Medi cine suggerisce che la somministrazione di vitamina E e/o di selegilina, un farmaco usato contro il Parkinson, possano ritardare il ricovero in case di cura per i pazienti di Alzheimer. Anche se accolti con grandi fanfare e clamore, i risultati di tutte le terapie ora disponibili dimostrano benefici davvero minimi e il loro significato pratico è discutibile. E' infatti sostenibile anche la posizione di chi puntualizza come altro non facciano se non prolungare di qualche tempo le pene dei pazienti e le sofferenze dei familiari. Nessun trattamento sinora usato o in fase di sviluppo è rivolto a contrastare quello che può essere un meccanismo importante nel causare la malattia, nè incide sostanzialmente sul suo decorso. La strada da percorrere è lunga. L'industria farmaceutica è ora impegnata a sintetizzare nuove molecole modificando la iododoxorubicina, sì che sia mantenuta la proprietà disaggregante nell'amiloide, ma si perda la capacità di uccidere le cellule, tipica di un farmaco antitumorale. La via è incerta, ma uno spiraglio si è aperto. Ruggero G. Fariello Thomas Jefferson University, Usa


IN BREVE Benzene, killer metropolitano
ARGOMENTI: CHIMICA, ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Secondo i risultati della campagna di monitoraggio sul benzene svolta del Wwf in sei città italiane, le metropoli sono più velenose di quanto si pensasse. «Mediamente - dicono i tecnici - i cittadini hanno respirato nella giornata del campionamento, tanto benzene quanto ne avrebbero respirato fumando 11 sigarette a Torino, 13 sigarette a Milano, 10 a Roma, 15 a Napoli, 5 a Firenze, e 5 a Napoli». L'indagine è stata affettuata con la collaborazione di 400 ragazzi tra gli 8 e i 18 anni, che hanno portato addosso per 24 ore, dei campionatori passivi. I dati sono stati analizzati dalla società Analysis di Todi e dall'Unità Operativa di medicina del Lavoro dell'Usl 31 di Sesto San Giovanni. Il 90 per cento dei campioni validi variava dai 18,1 ai 24,3 microgrammi al metro cubo, mentre la soglia sanitaria sarebbe zero, essendo il benzene una sostanza cancerogena accertata. Enrico Davoli, del Laboratorio di farmacologia e tossicologia dell'Istituto Mario Negri di Milano, ricorda che «il benzene è una delle poche sostanze chimiche catalogate nella classe 1 della International Agency for Research on Cancer, cioè fra le sostanze sicuramente cancerogene per l'uomo: in una grande città l'85 per cento del benzene presente nell'aria deriva dai gas di scarico degli autoveicoli».


IN BREVE Archeologia a Imola
ARGOMENTI: ARCHEOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Grotte, acque sorgive, fiumi e laghi come sacrari dell'uomo: residenze della divinità non sono solo chiese e templi, e tanti resti dell'antichità preromana lo testimoniano. Il bel catalogo della mostra archeologica «Acque, grotte, e Dei» (fino al 13 luglio nei Chiostri di San Domenico a Imola), documenta i resti affascinanti degli antichi culti in Romagna, Marche e Abruzzo, praticati dai Sabini, dagli Umbri, dai Piceni. Genti che diedero un'impronta importante al formarsi della cultura italiana, come dimostrano impressionanti coincidenze: la data della festività cristiana nel santuario di Corfinio, ad esempio (provincia dell'Aquila), coincide con quella dedicata nell'antichità a Ercole.


IN BREVE Angela e Baroni due asteroidi
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: ANGELA PIERO, BARONI SANDRO
ORGANIZZAZIONI: UNIONE ASTRONOMICA INTERNAZIONALE
LUOGHI: ITALIA

Piero Angela e l'astrofilo milanese Sandro Baroni hanno ora un asteroide che porta il loro nome. Lo ha deciso l'Unione Astronomica Internazionale a riconoscimento della loro attività per diffondere la scienza.


SCIENZE DELLA VITA. RICERCA AMERICANA Per le donne una seconda vita dopo la fertilità Il 1997 è l'anno della menopausa. Ed è all'insegna degli estrogeni
Autore: PELLATI RENZO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: HENDERSON VICTOR, PAGANINI HILL ANNALIA, AMADUCCI LUIGI
ORGANIZZAZIONI: FONDAZIONE GIOVANNI LORENZINI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Campagna nazionale sulla salute della donna in menopausa

IL 1997 è l'anno della «Campagna nazionale sulla salute della donna in menopausa», promossa dalla Fondazione Giovanni Lorenzini con il patrocinio delle più importanti società scientifiche italiane. L'interesse per la menopausa (in Italia 3.600.000 donne hanno un'età tra 50 e 59 anni) è più che giustificato: oggi la speranza di vita della donna si è molto allungata (82 anni), e il periodo che segue la menopausa dura ormai quanto l'età fertile, mentre all'inizio del secolo la speranza di vita era di appena 44 anni. E' ormai certo che la riduzione di estrogeni che si verifica in questa particolare età della donna può favorire le malattie cardiovascolari (la più frequente causa di morte in età post- menopausa) e l'osteoporosi, una delle cause predominanti di invalidità e di perdita di autonomia. Ma nonostante i suoi benefici effetti, la terapia sostitutiva a base di estrogeni è seguita in Italia solo dal 3 per cento delle donne, contro il 30 per cento degli Stati Uniti e il 15-20 per cento di Francia e Germania. Recenti studi pubblicati su «Archives of Internal Medicine» (ottobre '96) ci dicono che la terapia ormonale sostitutiva può ridurre anche il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer. L'indagine è stata condotta su 8877 donne (si tratta dello studio più ampio pubblicato su questa patologia) da Victor W. Henderson e Annalia Paganini- Hill dell'Università of Southern California, Los Angeles. Analizzando la storia clinica di questi soggetti e facendo un paragone tra i casi di persone affette da demenza (riscontrata in 248 casi) e i casi appaiati per anno di nascita e di morte in cui questa condizione non si era verificata, gli autori calcolano che il trattamento con estrogeni riduce di un terzo il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer. Ancor più recentemente uno studio svolto in Italia nell'ambito del Progetto finalizzato «Invecchiamento» del Cnr (novembre '96) diretto da Luigi Amaducci (della Clinica neurologica dell'Università di Firenze) su un campione di 2816 donne (di età compresa fra i 65 e gli 84 anni) ha confermato che la malattia di Alzheimer è stata diagnosticata nello 0,4 per cento delle donne che avevano fatto uso di estrogeni, contro il 3,2 per cento delle donne che non erano state sottoposte a terapia sostitutiva post-menopausale. I meccanismi con cui gli estrogeni possono esercitare effetti benefici nella malattia di Alzheimer includono sia effetti sistemici che diretti sul sistema nervoso centrale. A livello cellulare è stato dimostrato in sistemi in vitro che gli estrogeni sono in grado di regolare il metabolismo del precursore di beta aniloide, la proteina che costituisce le placche caratteristiche della malattia di Alzheimer. Accanto a questo meccanismo, vi potrebbe essere da parte degli estrogeni un'azione di tipo neurotrofico. E' nozione comune che le alterazioni ormonali che caratterizzano il ciclo si accompagnano a modificazioni dell'umore e che la depressione è rara nella seconda metà della gravidanza, caratterizzata da livelli costantemente elevati di estrogeni. L'unico punto controverso è la possibilità che si verifichi un aumento del rischio di carcinoma mammario, per cui la prescrizione va valutata caso per caso. I dati epidemiologici disponibili sottolineano che l'uso di estrogeni è privo di rischi aggiuntivi per trattamenti compresi nei 5 anni. Renzo Pellati


SCIENZE DELLA VITA. RICERCA TELETHON Distrofia muscolare un passo verso la cura
Autore: T_S

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: COSSU GIULIO, BUCKINGHAM MARGARET, MAVILIO FULVIO
ORGANIZZAZIONI: TELETHON, CELL, NEURON
LUOGHI: ITALIA

RICERCHE finanziate da Telethon stanno producendo importanti progressi nella comprensione dei meccanismi che controllano la formazione dell'apparato muscolo-scheletrico, aprendo nuove prospettive per la cura delle distrofie muscolari. L'ultimo passo avanti è stato compiuto nel laboratorio diretto da Giulio Cossu, del dipartimento di istologia ed embriologia medica dell'Università La Sapienza di Roma: qui, in collaborazione con Margaret Buckingham dell'Istituto Pasteur di Parigi, è stato identificato il ruolo di due geni nella formazione delle cellule muscolari. I risultati sono usciti su riviste prestigiose come «Cell» e «Neuron». Gli studi di Cossu e della Buckingham hanno portato a capire come una cellula embrionale si trasformi in una cellula muscolare (mioblasto). Il processo è determinato da segnali inviati alle cellule destinate a divenire mioblasti da strutture come il tubo neurale (il futuro midollo spinale) e l'ectoderma (la futura epidermide). Questi segnali sono costituiti da piccole molecole rilasciate dalle cellule vicine, capaci di attivare il programma di differenziazione nei precursori del muscolo. Questi ultimi rispondono «accendendo» due geni, Myf-5 e Pax-3, che sembrano pilotare la cascata di segnali intracellulari che portano infine la cellula a formare fibre muscolari contrattili. Si è infatti dimostrato su modelli sperimentali che l'assenza di entrambi i geni determina l'incapacità di formare i muscoli del corpo e degli arti. Con Fulvio Mavilio dell'Istituto Telethon di terapia genica di Milano, i ricercatori di Roma stanno ora cercando di trasformare questa scoperta in una vera e propria cura della distrofia muscolare. (t. s. )




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