TUTTOSCIENZE 30 aprile 97


SCIENZE A SCUOLA LE PAROLE DELL'INFORMATICA - W
AUTORE: MEO ANGELO RAFFAELE, PEIRETTI FEDERICO
ARGOMENTI: INFORMATICA, COMUNICAZIONI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

World Wide Web. E' la «ragnatela che abbraccia il mondo», il www o Web, un insieme di modalità e strumenti, ideati al Cern di Ginevra nel 1989, che semplificano la ricerca di informazioni su Internet. Quando un utente o «client» si collega a uno dei milioni di calcolatori in rete, operanti come archivi o «server», spedisce dal suo calcolatore a quest'ultimo un messaggio di richiesta. Questo messaggio è formulato facendo riferimento a un indicatore chiamato Url o «Universal Resource Locator», contenente l'indirizzo in rete del calcolatore server ed eventualmente la specificazione del documento richiesto. Il calcolatore server invia allora al cliente il documento richiesto, contenente in genere testi e immagini, e sovente anche suoni e filmati. Inoltre il documento inviato contiene parole sottolineate o «icone» ben demarcate, che fungono da riferimento ad altri documenti allocati sulla stessa macchina o anche su altri calcolatori della rete, ai quali si passa con un semplice clic del mouse sulle parole o icone stesse. Questi riferimenti sono in sostanza altre Url, che il calcolatore utilizza, in modo automatico, generalmente senza la percezione di quanto avviene da parte dell'utente, per collegarsi a un nuovo server. In virtù di questo meccanismo, migliaia di miliardi di documenti multimediali contenuti negli archivi di Internet assumono l'aspetto di un gigantesco ipertesto, dove ogni documento contiene richiami ad altri documenti ai quali si può passare automaticamente, in un processo di «navigazione» praticamente infinito. E nel quale è facile perdersi sommersi e confusi dalla immensa quantità di informazioni. Il programma utilizzato dai clienti, ossia dal «navigatore», è chiamato «browser». Il mercato offre diverse varianti di browser nell'ambito delle quali predominano il Netscape Navigator e l'Explorer della Microsoft. I documenti contenuti nei server devono essere organizzati in conformità con protocolli ben definiti e sono generalmente realizzati utilizzando un apposito linguaggio di «edizione» chiamato Html, «Hypertest Markup Language». Per avere ulteriori informazioni sul Web, sulle sue origini e sui suoi sviluppi, ci si può collegare direttamente al Cern di Ginevra, al seguente indirizzo: http://www.cern.ch/.


SCIENZE A SCUOLA. «TRAPIANTI» FAUNISTICI Nutrie: dalle Ande al Padovano Sfuggite agli allevamenti, si sono riprodotte
Autore: FABRIS FRANCA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, PADOVA (PD)

ALL'ombra della Specola, l'Osservatorio astronomico nel centro di Padova, lungo il fiume Bacchiglione, vi è un'oasi faunistica. Qui è facile osservare cigni bianchi, germani reali, oche e... nutrie. Sfuggite agli allevamenti per ricavarne pellicce (il famoso castorino), le nutrie, molto prolifiche, hanno ormai invaso i fiumi, i rigagnoli e le paludi vicine. La nutria (Myo potamus coypus) è nota con nomi diversi, tra cui miopotamo, ratto d'acqua, castoro di palude. E' un grosso rosicante della famiglia dei Capromidi, superstiti di antichissime famiglie di roditori, di cui è rappresentante tipica, dal corpo massiccio con collo grosso e corto, muso tozzo con la punta del naso e le labbra bianche o grigio chiaro e le orecchie piccole. La nutria conduce una vita legata all'acqua: nelle acque si muove con destrezza, nuotando con gli arti posteriori dai piedi palmati, mentre sulla terraferma ha movimenti lenti e goffi. Quando nuota ricorda il castoro, dal quale si distingue per la coda lunga, squamosa, tondeggiante, simile a quella di un ratto ma ricoperta di scaglie. La lanugine folta e morbida forma uno strato impermeabile. Può addirittura rimanere in immersione per cinque minuti senza respirare. Le nutrie vivono a coppie o in gruppi entro ampie tane non ramificate, scavate sulle rive delle acque dolci a circa un metro di profondità. Hanno incisivi a crescita continua molto grandi che, nella faccia anteriore, sono di un caratteristico colore rosso-marrone. E' curioso il loro modo di mangiare erbe, radici e altri vegetali, sedute sulle zampe posteriori in prossimità dell'acqua, mentre con quelle anteriori lavano accuratamente i cibi. Le nutrie sono essenzialmente vegetariane, ma non disdegnano molluschi, lumache e bivalvi. La femmina due o tre volte l'anno partorisce da 4 a 6 piccoli. Hanno sei paia di capezzoli, ai quali i piccoli possono attaccarsi tenendo il capo fuori dall'acqua e nuotando di conserva con la madre. Quando i piccoli sono in grado di nuotare da soli, la madre li tiene uniti con richiami lamentosi e, se non ubbidiscono, comincia a brontolare e ringhiare. Brontolano e ringhiano anche quando sono minacciate e, se vengono attaccate, si difendono sfoderando i grandi incisivi sporgenti. Quando pensiamo agli allevamenti ci viene in mente il loro triste fine, ma in questo caso dobbiamo ricordare che le nutrie sono originarie del Sud America dove vivono anche attualmente nelle Ande del Perù, in Cile, Paraguay e in Patagonia: nel secolo scorso hanno rischiato di estinguersi in seguito alla caccia e solo gli allevamenti hanno salvato la specie dall'estinzione. Franca Fabris


SCIENZE DELLA VITA. PREVENZIONE Diagnosi precoce per il tumore al colon Accertata la connessione tra regimi alimentari e carcinomi
Autore: RISIO MAURO, ROSSINI FRANCESCO PAOLO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: VOLGELSTEIN BERT
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA

LA frequenza del cancro del colon-retto nei Paesi occidentali e la possibilità di esplorare le minime alterazioni della mucosa intestinale mediante l'esame endoscopico del colon hanno consentito di studiare a fondo la formazione dei tumori dell'intestino. Il 90 per cento dei carcinomi colorettali inizia da anomalie della superficie mucosa, di aspetto poliposo e dimensioni variabili da pochi millimetri ad alcuni centimetri, costituite da tessuto adenomatoso di tipo tumorale, non maligno: adenomi o polipi adenomatosi. La trasformazione maligna, dapprima in forma di microscopici focolai di carcinoma contenuti nel polipo e, in fase più avanzate, di ampie zone di infiltrazione carcinomatosa della parete intestinale, è legata alla dimensione del polipo e, soprattutto, alle caratteristiche istologiche del tessuto adenomatoso. L'intervallo tra la comparsa di un piccolo polipo adenomatoso e la sua eventuale trasformazione maligna è di alcuni anni. Di qui la possibilità di limitare il trattamento delle forme iniziali di carcinoma colorettale alla sola asportazione del polipo per via endoscopica e di identificare e asportare tutti i precursori del carcinoma interrompendo la progressione tumorale nella fase premaligna. Nel 1993 i risultati del National Polyp Study Group statunitense hanno provato che l'asportazione endoscopica dei polipi riduce di oltre il 70 per cento l'incidenza di carcinoma del colon. I progressi in biologia e genetica molecolare hanno consentito al gruppo di Bert Volgelstein (Centro Oncologico Johns Hopkins di Baltimora) di reinterpretare la trasformazione adenoma-carcinoma come accumulo sequenziale di alterazioni in specifiche regioni del Dna della cellula, implicate nello sviluppo e crescita del tumore. Dati clinici ed epidemiologici hanno da tempo evidenziato una connessione tra il regime alimentare e carcinomi nel colon-retto. Mentre è nota, anche in alcuni processi molecolari, l'azione di induzione tumorale esercitata sulla mucosa intestinale da composti che si generano durante alcune procedure di cottura dei cibi, non sono mai state riportate prove dirette dell'azione cancerogena dei componenti alimentari nè informazioni convincenti sui meccanismi con cui questa azione si svolge. Un nostro recente studio condotto in collaborazione con la Rockefeller University di New York e il National Cancer Institute porta risultati significativi in questo settore della ricerca oncologica. Un gruppo di topi è stato nutrito per tutta la durata della loro vita esclusivamente con diete che riproducono il regime nutrizionale dei Paesi occidentali. Si tratta, sostanzialmente, di diete ricche di grassi animali, fosfati e polvere in calcio, denominate «Western-style diets». Gli animali così trattati hanno sviluppato un gran numero di lesioni tumorali premaligne del colon. Sono state quindi studiate le alterazioni microscopiche iniziali indotte da questi regimi dietetici della mucosa intestinale. L'aumento dell'attività proliferativa dell'epitelio mucoso contribuisce alla generazione delle lesioni tumorali nelle fasi iniziali dell'esperimento (confermando, in sede sperimentale, analoghi risultati osservati nell'uomo), ma il ruolo chiave pare da attribuire alla riduzione di un importante sistema di sorveglianza, la «morte cellulare programmata» o «apoptosi». Normalmente le cellule con anomalie tumorali vengono eliminate perché l'organismo attiva dei programmi iscritti nel loro Dna che le indirizzano rapidamente al «suicidio». Le cellule intestinali modificate dalla nutrizione a lungo termine con diete in stile occidentale eludono il controllo della «morte cellulare programmata», si riproducono in maniera incontrollata e vanno incontro alla trasformazione tumorale. Si tratta ora di identificare i meccanismi molecolari inceppati dal trattamento dietetico. Sono attualmente in studio le alterazioni indotte nei geni che, in condizioni normali, regolano e bilanciano proliferazione cellulare e «morte cellulare programmata». L'obbiettivo finale è quello di integrare razionalmente l'alimentazione con sostanze in grado di ripristinare i delicati equilibri tra le due funzioni cellulari. Nelle indagini in corso in gruppi o popolazioni umane secondo questo approccio preventivo si integra la dieta con fibre, calcio, vitamine (A, C, D, E). Nell'ultimo decennio l'attenzione dei ricercatori si è appuntata sui tumori intestinali ereditari. Almeno il 7 per cento delle neoplasie del colon deriva dalla trasmissione familiare di caratteri ereditari che predispongono o determinano l'insorgenza di carcinoma. Nella poliposi adenomatosa familiare del colon l'insorgenza di un carcinoma intestinale è preceduta dalla comparsa di centinaia di polipi che tappezzano l'intera superficie mucosa del colon. La diagnosi precoce è attualmente affidata all'individuazione mediante un semplice prelievo di sangue, del gene responsabile, il gene Apc, ereditato da uno dei genitori nella forma umana ed in questa forma presente in tutte le cellule dell'organismo. La sindrome di Lynch, invece, è una patologia ereditaria caratterizzata dallo sviluppo di carcinomi del colon-retto in età relativamente giovane, apparentemente senza polipi precursori; per quest'ultima caratteristica la sindrome è denominata «carninoma colorettale ereditario non poliposico». Nelle famiglie colpite da questa sindrome si verificano mutazioni ereditabili di uno dei geni scoperti nel 1993, deputati alla riparazione degli errori che, anche in condizioni normali, si verificano durante le operazioni di copiatura-duplicazione del Dna. Anche questa affezione può essere precocemente diagnosticata mediante l'analisi del Dna estratto da cellule del sangue. Mauro Risio Francesco Paolo Rossini


SCIENZE DELLA VITA. GENETICA Cromosomi artificiali per curare la talassemia
Autore: ERIDANI SANDRO

ARGOMENTI: GENETICA, MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: CNR
LUOGHI: ITALIA

IL clamore suscitato nei giorni scorsi dalla notizia proveniente dagli Stati Uniti circa l'avvenuto assemblaggio di due cromosomi artificiali umani ha suscitato un giustificato interesse nella stampa italiana, ma ha lasciato l'impressione che queste ricerche si facciano solo in America. Non è così, almeno in questo campo. Vi è infatti da alcuni anni un fervore di attività in Europa per la preparazione di vettori biologici comprendenti le componenti fondamentali dei cromosomi, attività documentata da eccellenti pubblicazioni; basti ricordare i lavori dei gruppi di Edimburgo e Oxford in Gran Bretagna e dei gruppi di Wurzburg e Leiden in Germania e Olanda. Anche in Italia si stanno conducendo interessanti ricerche in questo campo, particolarmente presso i Laboratori del Cnr di Milano e nell'Istituto di Genetica dell'Università di Pavia. Una iniziativa di avanguardia, per esempio, è stata quella del dicembre scorso, quando con il professor Sgaramella e il professor Cooke di Edimburgo abbiamo organizzato a Milano un meeting per documentare le ricerche in corso sui cromosomi artificiali e sulle loro possibili applicazioni. A questo convegno hanno partecipato tutti gli studiosi, europei e americani, che hanno in corso ricerche di questo tipo, compreso il professor Willard di Cleveland, che in questi giorni è alla ribalta della cronaca scientifica per il suo lavoro sui cromosomi artificiali. Oltre a puntualizzazioni sullo «stato dell'arte», si sono ascoltate nel Convegno di Milano relazioni di grande interesse sulla possibilità di utilizzare i cromosomi artificiali sia per studi biologici di base che per effettuare operazioni di trasferimento genico: possibilità quindi di inserire geni «terapeutici» in cellule di individui sofferenti di malattie ereditarie. A questo proposito un originale approccio è quello seguito da ricercatori di Pavia (De Carli e Raimondi) che hanno da tempo isolato un mini-cromosoma umano naturale e lo hanno ridotto in successivi passaggi fino alle dimensioni di un vettore cromosomico naturale. A tale struttura si sta ora tentando, in collaborazione con i Laboratori del Cnr di Milano, di «agganciare» un costrutto che comprende il gene della beta-globina umana, proprio quel gene che è difettoso nella Beta-talassemia e nell'anemia drepanocitica, malattie a grande diffusione nel nostro Paese. Il passo successivo dovrebbe consistere nell'inserimento di tale mini-cromosoma nelle cellule primitive del sangue (i precursori dei globuli rossi) e nell'accertamento che venga in esse prodotta una globina «sana». Sandro Eridani Istituto di biotecnologie avanzate, Cnr, Milano


SCIENZE FISICHE. ASTROFISICA Stelle morte fatte di neutroni Trent'anni fa la scoperta delle pulsar
Autore: MIGNANI ROBERTO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
NOMI: HEWISH ANTHONY
LUOGHI: ITALIA

PER gli astronomi, gli Anni 60 sono stati il decennio delle maggiori scoperte di questo secolo: sorgenti X extrasolari, radiazione cosmica di fondo, quasar, pulsar. La storia della scoperta delle pulsar è curiosa e vale la pena di raccontarla perché dimostra come anche nella ricerca scientifica, così come nella vita di tutti i giorni, il caso sia una componente essenziale. Siamo nel 1967 - esattamente trent'anni fa - e una giovane che preparava il dottorato all'Università di Cambridge, Jocelyn Bell, osservava il cielo con un radiotelescopio. Il suo era un lavoro piuttosto noioso, uno di quelli che, solitamente, vengono affidati agli studenti di buona volontà. Un giorno, però, il normale tran-tran delle osservazioni venne interrotto da un evento imprevisto. Jocelyn, infatti, trovò una sorgente radio molto ben localizzata nel cielo, e fin qui nulla di strano. La cosa curiosa era che l'emissione di questa sorgente era periodica, cioè si accendeva e si spegneva ritmicamente con un periodo di un secondo e 377 centesimi. Dopo i controlli di rito, Jocelyn corse tutta eccitata a raccontare la scoperta al suo professore, Anthony Hewish, che, narra la leggenda, non la prese troppo sul serio, considerando il segnale frutto di qualche interferenza o di qualche baco nell'analisi dei dati. Per fortuna, la nostra Jocelyn non era il tipo di persona che si perdeva d'animo facilmente e dopo un po' riuscì a convincere anche i colleghi più scettici che aveva scoperto veramente una sorgente radio periodica. Quale corpo celeste poteva essere responsabile di un fenomeno di questo tipo? La cosa più immediata fu pensare che il segnale fosse originato dal susseguirsi di contrazioni ed espansioni della sorgente o dalla sua rotazione su se stessa. In un caso o nell'altro doveva trattarsi di una stella anche se di natura del tutto particolare. La sorgente venne battezzata con il nome di pulsar, dalla combinazione delle parole inglesi PULSating StAR, cioè, stella pulsante. Ben presto si capì, però, che la periodicità del segnale non poteva essere originata da un'effettiva pulsazione della stella. Espansioni e contrazioni così rapide produrrebbero condizioni di instabilità nell'interno della stella ed il fenomeno sarebbe destinato a smorzarsi in tempi brevi. Le osservazioni, invece, dimostravano che il periodo della pulsar era estremamente regolare. Esclusa, quindi, la pulsazione, rimaneva solo la rotazione. Ma quale stella poteva ruotare così velocemente su se stessa senza disgregarsi sotto l'azione della sua forza centrifuga? Doveva trattarsi di una stella dalla densità estremamente elevata, pari a quella del nucleo atomico, vale a dire 100 milioni di tonnellate in un centimetro cubo. L'esistenza di una stella con queste caratteristiche era stata ipotizzata negli Anni 30. Si tratta delle stelle di neutroni, cadaveri stellari che si formerebbero dal nucleo collassato di astri molto più massicci del Sole dopo che questi sono esplosi come supernovae. Qualche mese più tardi, la scoperta della pulsar PSR0531più21 all'interno della Nebulosa del Granchio, resto dell'esplosione di supernova osservata dagli astronomi cinesi nel lontano 1054 d.C., sembrò una conferma di questa ipotesi. Da allora molte nuove pulsar sono state scoperte ed il numero totale ammonta ora a circa 800. La scoperta di nuove pulsar e lo studio costante di quelle già conosciute ha permesso di ricostruirne il percorso evolutivo. A quanto pare, le pulsar più giovani sono anche quelle che ruotano su se stesse più velocemente e, quindi, i periodi di pulsazione sono anche più brevi. Col passare del tempo, però, le pulsar tendono a rallentare e, quindi, le loro pulsazioni si fanno sempre più lente e più deboli fino a diventare, dopo qualche centinaio di milioni di anni, praticamente inosservabili. Nel frattempo, grazie allo sviluppo degli osservatori orbitanti, le pulsar sono diventate oggetto di osservazione anche in bande di lunghezza d'onda diverse da quella radio. Una ventina di esse, infatti, sono state identificate anche come sorgenti di raggi X e tra queste sette risultano essere anche sorgenti di raggi Gamma (la forma di radiazione più energetica esistente in natura). Un numero simile è stato osservato anche nella regione visuale dello spettro (dove vengono solitamente osservate le stelle «normali»). In questo caso a farla da protagonisti sono stati i telescopi dell'Eso (l'Osservatorio Europeo Australe) ed il telescopio spaziale Hubble. Anche se, finora, solo il 3 per cento delle pulsar è stato identificato fuori della banda radio, le osservazioni a diverse lunghezza d'onda sono fondamentali per chiarire gli enigmi ancora insoluti e su questa strada si muoverà la ricerca futura. Roberto Mignani Max Planck Institut, Garching


SCIENZE FISICHE. TECNOLOGIA Un successo il razzo giapponese
Autore: LO CAMPO ANTONIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: M-5
LUOGHI: ESTERO, ASIA, GIAPPONE
TABELLE: D.

I giapponesi hanno collaudato con successo, in febbraio, il nuovo razzo «M-5», che verrà usato soprattutto per il lancio di sonde dell'ambizioso progetto interplanetario nipponico. Può mettere in orbita terrestre un satellite di due tonnellate o inviare verso i pianeti una sonda-robot di 550 chilogrammi. La filosofia è quella giusta; attualmente il mercato dei piccoli satelliti è in piena espansione, così come le sonde interplanetarie che sono sempre più piccole (ma non per questo meno funzionali) per contenerne i costi. La prima che partirà con M-5 sarà «Lunar-A», pesante 540 kg., che verrà inviata verso la Luna in agosto. Poi toccherà a «Planet- B», di 550 chili, che dovrà dirigersi verso Marte, partendo dalla base di Kagoshima nel febbraio '98. Un satellite astronomico per lo studio delle sorgenti in raggi X chiamato «Astro E», pesante 1,6 tonnellate, verrà lanciato nel febbraio '99, e la mini-sonda «Muses-C», destinata a recuperare e riportare sulla Terra i campioni dell'asteroide «Nereus», partirà nel 2001. L'esplorazione che collegherà idealmente il Sol Levante ai pianeti, vedrà M-5 quale vettore, nel 2005, per una sonda simile alla «Muses C», che avrà il compito di effettuare analisi dall'orbita, e una mappa di Mercurio. L'M-5 ha tre stadi (ma può portarne un quarto), ognuno con un motore a propellente solido, realizzati dalla Nissan Motors, e va ad aggiungersi ad un altro vettore giapponese di «piccola taglia», che è l'M3-S2, e potenziando la flotta che possiede anche il J-1 e il grande e potente H-2, in grado di lanciare in futuro moduli e navette spaziali, pur essendo piuttosto costoso. Il 12 febbraio M-5 ha messo in orbita il satellite scientifico «Muses B», chiamato «Haruka»: si tratta di un radiotelescopio largo 8 metri per lo studio di sorgenti radio di galassie, quasar e pulsar e per interferometria su larga scala. Ha un'antenna formata da un fascio di cavi in molibdeno ricoperti in oro, che è stata dispiegata il 27 febbraio per ricevere le emissioni radio su frequenze fino a 22 Gigahertz. Muses B farà così da supporto per i radiotelescopi terrestri del programma VLBI Space Observatory Program; la base di interferometria su 22 Gigahertz richiede una risoluzione angolare di 60 secondi d'arco. Questo significa che i sistemi di osservazione possono distinguere un granello di riso da Roma a Tokyo. Antonio Lo Campo


SCIENZE FISICHE. PER L'ANNO SANTO San Pietro ai raggi X Restauri con tecniche d'avanguardia
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ARCHITETTURA, RESTAURO
NOMI: MADERNO CARLO, SILVAN PIERLUIGI
ORGANIZZAZIONI: ENI
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D.

TRE anni di studi e di lavoro delicatissimo per rivedere la facciata della basilica di San Pietro com'era prima che il tempo e l'inquinamento vi lasciassero le loro tracce. Un'impresa cominciata già da qualche mese sotto la direzione della Fabbrica di San Pietro, e che dovrà comcludersi entro settembre del '99, in vista dell'Anno Santo del 2000. L'impegno prevede la ripulitura, il risanamento e la conservazione dell'opera, compito che è stato assunto dall'Eni, partner scientifico e tecnologico del progetto. Primo passo: individuare i mali della facciata, costruita in travertino ma con numerosi inserimenti di materiali diversi e complicata da un gran numero di elementi architettonici, di sculture, di decorazioni. La pietra ha subito gli attacchi del tempo ma soprattutto, negli ultini decenni, quelli dell'inquinamento, assorbendo sostanze estranee che ne hanno modificato le caratteristiche originarie. Ma più in generale si tratterà di fare una revisione in profondità di tutta la struttura, antica di quasi 4 secoli, essendo stata iniziata nel 1607 su progetto dell'architetto luganese Carlo Maderno e terminata sette anni dopo; una struttura «le cui caratteristiche e il cui comportamento - ha detto presentando il piano di restauro l'architetto Pierluigi Silvan - non sono mai state studiate». Occorrerà tener conto, tra l'altro, di eventi del passato, come il cedimento che nel 1646 costrinse il Bernini a demolire il campanile che stava costruendo sulla destra, e il terremoto che il 22 marzo 1812 causò una vistosa crepa nelle volte dell'atrio e dell'aula delle benedizioni (anche la cupola subì danni); bisogna valutare gli effetti dell'invecchiamento dei materiali, delle dilatazioni termiche, delle sollecitazioni elastiche che hanno provocato e continuano a provocare lesioni in vari punti; ci sono poi i guasti dell'era moderna come l'aggressione dell'anidride solforosa, degli ossidi di azoto, dell'ozono frutto degli impianti di riscaldamento e della circolazione, l'ossidazione delle parti metalliche inserite nella pietra, a cui si aggiungono muschi, alberelli spuntati nelle fessure, guano depositato dagli uccelli e persino i fumi grassi lasciati dalle torce usate nel lontano passato. L'Eni affronterà questo groviglio di problemi antichi e nuovi sfruttando le tecniche e gli strumenti di indagine messi a punto per la ricerca petrolifera nel campo della chimica, della geologia, della metallurgia, della scienza dei materiali, del monitoraggio ambientale; in particolare applicando in un intervento di restauro molto sofisticato le conoscenze sviluppate nel campo dei fenomeni catalitici. La risonanza magnetica, usata per studiare i giacimenti petroliferi, consente di rilevare i fluidi all'interno dei materiali e di ottenere immagini tridimensionali dello stato della pietra; risultati analoghi si ottengono con la tomografia acustica che utilizza gli ultrasuoni per ottenere informazioni sui materiali rocciosi mediante immagini dettagliate dei componenti solidi e fluidi in essi presenti. Con la microscopia elettronica si studieranno gli aspetti morfologici dei materiali con una capacità di risoluzione che arriva fino alla dimensione dell'atomo; con la diffrazione a raggi X si esplorerà l'organizzazione strutturale degli atomi e delle molecole nel reticolo cristallino, indice delle proprietà chimico-fisiche e dei comportamenti dei materiali. Grazie ad analisi spettroscopiche con i raggi X o con gli elettroni si studierà lo strato superficiale dei materiali per scoprire eventuali contaminazioni, la loro gravità e le differenze tra superficie e interno, importanti per prevederne il comportamento. La facciata della basilica di San Pietro è larga 114,70 metri e alta 45,50; la superficie complessiva è di circa 6000 metri quadrati. Alla facciata sono addossate otto colonne alte 27,40 metri del diametro di 2,77 metri. Sulle colonne è appoggiata la possente trabeazione che percorre tutta la facciata e che sostiene il frontone triangolare allineato con la cupola. L'attico è sormontato dalla balaustra. Sopra di essa svettano 13 statue alte 5,70 metri; raffigurano il Redentore, S. Giovanni Battista e 11 apostoli; manca S. Pietro, la cui statua è nella piazza. A lavori ultimati la facciata di San Pietro sarà pronta a stupire i pellegrini del 2000, ma anche ad affrontare altri secoli di insidie. E' importante, per questo, prevedere il modo per preservarla il più possibile. L'Eni fornirà un sistema di sorveglianza dell'ambiente e delle strutture basato su una capillare rete di monitoraggio computerizzato che individuerà qualsiasi lesione o attacco di agenti inquinanti che possano minacciare la basilica; i dati confluiranno ad un computer dove potranno essere analizzati in tempo reale e costituire la base per i futuri interventi di manutenzione e conservazione. Vittorio Ravizza


Bussola spaziale I sensori per l'orientamento della navicella sono stati costruiti da una azienda italiana
Autore: LEONCINI ANTONELLA

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA, ASTRONOMIA
ORGANIZZAZIONI: NASA, SONDA CASSINI HUYGENS, ALENIA SPAZIO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Gli anelli di Saturno

ANCHE l'Italia va alla scoperta di Saturno: l'Asi, la nostra agenzia spaziale, partecipa alla missione «Cassini» progettata dalla Nasa e sulla sonda funzioneranno, tra l'altro, sensori stellari di navigazione costruiti dalle Officine Galileo che aiuteranno la navicella a esplorare il pianeta e le sue lune. Le Officine Galileo a suo tempo vinsero infatti una gara internazionale indetta dal Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, California, che ha preferito la società della Finmeccanica ad altre aziende europee e americane. I sensori stellari sono camere televisive ad altissima precisione e sensibilità, capaci di puntare stelle poco luminose, non visibili a occhio nudo, con lo scarto massimo di un secondo d'arco: cioè quanto un bambino visto da una distanza di 250 chilometri. I sensori stellari della «Galileo» sono strumenti già forniti a satelliti scientifici italiani (Sax) ed europei (Iso e Soho). La «Galileo» ha fornito al Jpl tre unità dal costo di 10 miliardi e mezzo di lire. La missione «Cassini» è una collaborazione internazionale. La navicella è costituita da due sonde con funzioni diverse: Orbiter e Probe. L'Orbiter, fornito dalla Nasa, contiene sofisticati strumenti scientifici per l'investigazione del sistema di Saturno: del pianeta, delle sue lune, degli anelli e della magnetosfera. Durante il lungo viaggio interplanetario che separa la Terra da Saturno registrerà il maggior numero di informazioni volando in prossimità di Giove e di Venere: a bordo, un Vims, Visible mapping spectrometer, cioè uno spettrometro ottico d'immagine, consentirà di acquisire una sofisticata documentazione fotografando l'atmosfera, il suolo di Saturno e delle sue lune. La «Huygens Probe» deriva il nome dal matematico e astronomo olandese che nel 1655 scoprì Titano, una delle lune di Saturno: il modulo sarà sganciato dall'Orbiter, atterrerà su Titano per analizzare i parametri caratteristici dell'atmosfera e del suolo di questa luna; l'Agenzia spaziale italiana ha firmato con la «Galileo» un contratto del valore di oltre 30 miliardi di lire. La navicella «Cassini», secondo le ultime indicazioni fornite dalla Nasa, sarà lanciata da Cape Canaveral il 12 ottobre del 1997. Per scoperte e notizie, però, sarà necessario attendere degli anni. L'inserimento nell'orbita di Saturno è previsto per il 2003 e gli esperimenti si protrarranno per quattro anni: quindi per conoscere i risultati definitivi della missione occorrerà aspettare il 2007. Antonella Leoncini


CURIOSITA' La tua firma nel cosmo
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, ASTRONOMIA, ELETTRONICA
ORGANIZZAZIONI: NASA, SONDA CASSINI HUYGENS, ALENIA SPAZIO
LUOGHI: ITALIA

LA missione «Cassini» porterà fino al pianeta Saturno anche due Cd-Rom. Il primo, a bordo della navicella- madre, contiene le firme autografe di centomila americani passate allo scanner dalla Nasa per tradurle in linguaggio digitale. Il secondo, sulla navicella- figlia «Huygens», reca i nomi di centomila europei inviati all'Esa via Internet. Chi lo desiderava, ha anche potuto accludere un breve messaggio, scritto o parlato. Il Cd-Rom della sonda «Cassini» orbiterà chissà per quanto tempo intorno a Saturno. Quello della «Huygens» scenderà perigliosamente nell'atmosfera del satellite Titano e forse finirà con il galleggiare in un tetro oceano di metano che, se non fosse a un miliardo e mezzo di chilometri da noi, farebbe la felicità dell'amministratore delegato dell'Italgas. In entrambi i casi, questi messaggi sono come cartoline inviate verso l'ignoto, senza alcun destinatario. Graffiti spaziali che ci parlano dell'umanissimo desiderio di lasciare una sia pur minima traccia nell'universo, del bisogno di vivere per un giorno alla «Star Trek» e della voglia di evasione che tormenta gran parte dell'umanità. Per noi italiani, poi, c'è forse una ragione in più: l'illusione di sfuggire, almeno simbolicamente, a Prodi e a Berlusconi, a Bertinotti e a La Russa, a Visco e a Dini. O anche soltanto alla Venier e a Frizzi. Quelle firme, più che messaggi a improbabilissimi extraterrestri, sono la sublimazione, in verità un po' patetica, di desideri niente affatto stravaganti. Firme a parte, l'Italia ha messo a bordo delle navicelle Cassini-Huygens anche qualcosa di più concreto. L'antenna multifrequenza ad alto guadagno, una parabola larga quattro metri, peso 100 chilogrammi, è stata realizzata da Alenia Spazio. Dovrà assicurare i contatti radio con la Terra, permettere esperimenti sulle onde gravitazionali e fare rilevazioni radar. Se considerate le condizioni ambientali nelle quali dovrà funzionare - tra 200 gradi sotto zero e 150 sopra - vi renderete conto che non si tratta di tecnologie banali. Alenia Spazio è anche responsabile del radar multimodo, dei sistemi a radiofrequenza, dell'esperimento sulle onde gravitazionali e degli strumenti per raccogliere i dati sull'atmosfera di Titano. Il lancio avverrà con un razzo Titan IV- Centaur. A prendere il volo sarà una massa di 5630 chilogrammi comprendendo i 2150 della «Cassini», i 350 della «Huygens», il generatore elettrico al plutonio e il propellente per le numerose manovre in programma. Centinaia di scienziati di 14 Paesi europei sono coinvolti nella missione. Di Titano, questo remoto mondo dal caratteristico color arancione, sappiamo davvero pochissimo. L'abbondanza di azoto nella sua atmosfera è però un fatto singolare, che lo apparenta alla Terra, l'unico pianeta che abbia conservato una grossa scorta di questo gas. Ci saranno altre affinità? Titano può davvero essere una incubatrice della vita? Piero Bianucci


MISSIONE SPAZIALE NASA-ESA 2004, una gita su Saturno Il suo satellite Titano incubatrice della vita?
Autore: DI MARTINO MARIO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: CASSINI GIOVANNI
ORGANIZZAZIONI: NASA, ESA, ASI, SONDA CASSINI HUYGENS, ALENIA SPAZIO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Saturno e la struttura dei suoi anelli

IL 12 ottobre una sonda inizierà un viaggio di sette anni per raggiungere Saturno, a una distanza dalla Terra di 1,4 miliardi di chilometri. Lo scopo è esplorare il pianeta, gli spettacolari anelli, il potente campo magnetico, i numerosi satelliti ghiacciati e la sua più grande e misteriosa luna, Titano. La missione si chiama «Cassini» in ricordo dell'astronomo Giovanni Cassini che nella seconda metà del XVII secolo studiò Saturno scoprendone 4 nuovi satelliti e lo spazio scuro tra gli anelli, tuttora chiamato «divisione di Cassini». E' un'impresa internazionale che coinvolge la Nasa, l'Agenzia Spaziale Europea (Esa), l'Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e numerosi centri di ricerca, università e industrie europee. Il progetto è coordinato dal Jet Propulsion Laboratory (Jpl) per conto della Nasa. La missione consiste di due parti: la sonda interplanetaria «Cassini», che si porrà in orbita attorno a Saturno, costruita sotto la responsabilità della Nasa, e la sonda «Huygens», dal nome del fisico olandese Christian Huygens, che scoprì Titano nel 1655, fornita dall'Esa, che, trasportata a bordo di «Cassini», si staccherà durante il sorvolo di Titano e si poserà sulla sua superficie dopo una serie di rilevazioni chimico-fisiche dell'atmosfera. Partita da Cape Canaveral, la sonda seguirà una complessa traiettoria che la porterà in vicinanza di Venere (due volte), della Terra e di Giove, dai quali otterrà le spinte gravitazionali che le permetteranno di guadagnare i circa 80 mila chilometri all'ora necessari per raggiungere Saturno. Nessuno dei razzi oggi disponibili sarebbe in grado di accelerare a questa velocità le quasi sei tonnellate complessive di «Cassini-Huygens». Raggiunto Saturno, il 1o luglio 2004, «Cassini» accenderà il suo motore principale per un'ora e mezzo per rallentare e mettersi in orbita attorno al pianeta. Cinque mesi dopo la sonda «Huygens» si separerà dall'«orbiter» dirigendosi verso Titano per immergersi nella sua atmosfera. «Cassini» continuerà la sua ricognizione del sistema di Saturno, della durata di circa 4 anni, nel corso della quale effettuerà una sessantina di orbite attorno al pianeta. In questo periodo compirà 33 sorvoli ravvicinati di Titano, almeno sei incontri con satelliti di estremo interesse scientifico, come Enceladus e Iapetus. Il sistema di Saturno è già stato visitato dalla sonda «Pioneer 11» nel 1979, seguito da «Voyager» 1 e 2 nel 1980 e 1981. Le telecamere delle Voyager scoprirono quattro nuovi satelliti, portando così a 18 il numero delle lune saturniane, la più numerosa famiglia di satelliti di tutto il sistema solare. Voyager scoprì anche che Titano possiede una densa atmosfera, composta principalmente da azoto, metano e forse argon, in cui sono state anche rilevate tracce di altri idrocarburi, idrogeno e composti dell'azoto e dell'ossigeno. Con ogni probabilità si tratta di un'atmosfera simile a quella che avvolgeva la Terra quando più di 3,5 miliardi di anni fa si svilupparono su di essa le prime forme di vita. «Cassini» getterà nuova luce sull'origine del sistema solare e ci aiuterà a scoprire la materia da cui Saturno si è formato e la sua evoluzione. L'atmosfera del pianeta è molto interessante, con venti tra i più veloci tra quelli presenti sugli altri pianeti del sistema solare. Titano, poi, nasconde misteri forse unici. Cosa sta accadendo al di sotto della sua atmosfera? I risultati di recenti osservazioni effettuate dal telescopio spaziale indicano che sulla sua superficie, dove la temperatura è di circa -180o C, sono forse presenti dei continenti e degli oceani o laghi di una miscela di etano, metano e azoto liquidi. Le reazioni chimiche che avvengono nell'atmosfera di Titano formano una varietà di molecole organiche che condensano e precipitano sulla sua superficie. Quale potrà essere l'ambiente sulla superficie di questo satellite, di dimensioni maggiori a quelle di Mercurio e Plutone, dove il ghiaccio d'acqua, a causa della bassissima temperatura, è più duro della roccia? «Cassini» e «Huygens» cercheranno di dare una risposta a questo e ad altri numerosi quesiti. Le due sonde sono le macchine meglio equipaggiate mai inviate per esplorare un altro pianeta. L'orbiter è dotato di una camera multispettrale e tre spettrometri che dall'ultravioletto all'infrarosso riprenderanno immagini e analizzeranno l'atmosfera di Saturno, la superficie dei suoi satelliti ghiacciati ed il sistema di anelli; un radar che traccerà la mappa tridimensionale della superficie di Titano; vari strumenti misureranno le particelle di polvere, le onde radio e di plasma durante la fase di crociera e attorno a Saturno. La sonda «Huygens», che pesa 350 chilogrammi, trasporta un pacchetto di strumenti per studiare l'atmosfera e la superficie di Titano. La telecamera, durante la discesa della sonda nell'atmosfera del satellite gigante, che verrà frenata da un sistema di paracadute, scatterà un migliaio di foto dell'ambiente circostante, mentre altri strumenti misureranno la velocità dei venti, la temperatura, pressione, composizione e conducibilità elettrica dell'atmosfera di Titano. Se la sonda sopravviverà all'atterraggio si spera di ottenere informazioni e immagini dettagliate della superficie del satellite. Un ruolo di rilievo nella realizzazione della strumentazione della missione è toccato all'Italia. L'Alenia Spazio, in qualità di capocommessa per conto dell'Asi, ha sviluppato l'antenna ad alto guadagno e il sottosistema di strumentazione scientifica a radiofrequenza. L'Istituto di Astrofisica Spaziale (Ias) del Cnr e le Officine Galileo hanno ideato e costruito il canale visibile dello Spettrometro a immagine visibile e infrarosso (Vims), mentre l'Università di Roma ha realizzato parte del pacchetto di strumenti per rilevare temperatura, pressione, velocità dei venti ed eventuali fulmini nell'atmosfera di Titano (Huygens Atmospheric Structure Instrument - Hasi). La «Cassini-Huygens», il cui costo complessivo supera i 2 miliardi di dollari, sarà l'ultima delle grandi missioni interplanetarie. La filosofia attuale della Nasa e delle altre agenzie spaziali è quella di realizzare missioni a basso costo, non oltre i 150 milioni di dollari, che, grazie al loro rapido sviluppo e a tecnologie dell'ultima ora permetteranno di raggiungere risultati analoghi a quelli di missioni più ambiziose, con il vantaggio che, in caso di fallimento, la perdita sarà relativamente lieve. Mario Di Martino Osservatorio Astronomico di Torino


SCIENZE FISICHE Omini verdi? Un libro di Piero Tempesti racconta la curiosa storia degli astri collassati
Autore: P_BIA

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA, LIBRI
PERSONE: TEMPESTI PIERO
NOMI: TEMPESTI PIERO
ORGANIZZAZIONI: BIROMA EDITORE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
NOTE: «Pulsar»

NON esisteva ancora un libro in italiano tutto dedicato alle pulsar, queste massicce stelle di neutroni i cui impulsi radio lì per lì furono scambiati per messaggi di «omini verdi». A trent'anni dalla scoperta ha rimediato Piero Tempesti, già astronomo all'Osservatorio di Teramo e professore di spettroscopia all'Università di Roma «La Sapienza». E lo ha fatto con un libro di piacevole lettura, ricco di informazioni e aggiornatissimo: «Pulsar», Biroma Editore, 350 pagine, 60 mila lire. Due volte il Nobel per la fisica ha premiato ricerche legate alle pulsar. La prima volta (1974) toccò a Hewish (e Ryle) per la scoperta di questi oggetti celesti. La seconda (1993) a Russel Hulse e Joseph Taylor, che nel 1975 individuarono una pulsar doppia: cioè due stelle morte superdense in orbita intorno al loro baricentro. Ognuna di esse ha una massa pari a una volta e mezzo quella del Sole ma il loro diametro è appena di una decina di chilometri. Un'orbita completa viene percorsa in 8 ore perché le due pulsar sono vicinissime (2-3 volte la distanza Terra-Luna). Il risultato è che un effetto previsto dalla relatività generale di Einstein - lo spostamento del perielio - viene molto amplificato. Nel nostro caso, il perielio slitta di 4 gradi all'anno, una quantità ben misurabile in base ai segnali radio emessi dalle pulsar. Inoltre, dall'accorciamento del perido orbitale, si può ricavare una prova indiretta dell'esistenza delle onde gravitazionali, previste anch'esse dalla relatività generale: e per aver fornito questa prova con accuratissime misure Hulse e Taylor ricevettero il Nobel. Gli accademici di Stoccolma, invece, hanno del tutto ignorato Jocelyn Bell, allieva di Hewish, che per prima, nel '67, osservò una pulsar. Come Piero Tempesti riferisce, un riconoscimento morale alla povera Jocelyn venne però proprio da Taylor: il futuro premio Nobel nel '77 le dedicò un suo trattato sulle stelle di neutroni. Piccola consolazione. (p. bia.)


SCIENZE DELLA VITA. ONCOLOGIA: NUOVE TERAPIE Cordone ombelicale tesoro da conservare
Autore: GAVOSTO FELICE

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

IL sangue del cordone ombelicale della placenta contiene cellule emopoietiche con proprietà progenitrici o staminali, cioè in grado di generare altre cellule sanguigne più mature e attive nel trasportare ossigeno, nella lotta contro le infezioni, nell'azione immunologica e nella coagulazione. Una delle prime prove fu ottenuta a Torino da Gabutti, Aglietta e Foà (Haema tologica, 1975) con la dimostrazione che dagli elementi cellulari del cordone ombelicale umano è possibile sviluppare colonie di cellule ematiche mediante coltura in vitro. Ma soltanto di recente, e dopo che la presenza di cellule progenitrici utilizzabili per trapianto era stata documentata anche nel sangue periferico, si è proposto, per lo stesso scopo, l'impiego di cellule provenienti da cordone ombelicale, più ricco degli stessi progenitori. Considerata la scarsa quantità totale del sangue di cordone, in un primo tempo se ne prospettò l'uso solo per soggetti non ancora adulti. Poi si promossero ricerche per definire tecniche di crescita in vitro delle cellule staminali da cordone, al fine di ottenerne una quantità sufficiente per ricostituire il tessuto emopoietico anche negli adulti quando viene in gran parte distrutto da un'intensa terapia antitumorale. Un importante risultato è stato ottenuto lo scorso anno, ancora una volta a Torino, da Piacibello, Sanavio, Aglietta e altri (Blood, 1997). Le cellule staminali, per essere utilizzabili, devono essere compatibili con l'organismo ricevente, cioè tollerate dal paziente nel quale vengono trasferite. Se non sono compatibili, danneggiano irrimediabilmente l'organismo che le riceve. Mentre i globuli rossi circolanti posseggono sulla loro membrana soltanto alcuni antigeni che li identificano, per cui è molto facile trovare un donatore di sangue, le cellule staminali, come tutte le altre cellule dell'organismo, sono infinitamente più complesse dal punto di vista della compatibilità, possedendo oltre un centinaio di antigeni anch'essi trasmessi dai genitori. Di conseguenza, se il donatore e il ricevente sono fratelli, la probabilità che il donatore sia compatibile è ancora abbastanza elevata (1 su 4). Invece in una popolazione casuale, la stessa probabilità è molto bassa (1 su 20.000 o meno). E' chiaro che, sul piano puramente scientifico, la situazione ideale si ha quando il paziente che ne necessita dispone di cellule staminali provenienti dal proprio cordone ombelicale. E' quindi auspicabile che un numero sempre maggiore di neonati abbia la possibilità di dotarsi, alla nascita, delle cellule del proprio cordone ombelicale adeguatamente conservate, affinché, in futuro, la maggior parte degli individui disponga di questo patrimonio. Tuttavia, una simile situazione appare attualmente non realistica, sì che è ancora più che mai necessario cercare donatori anche nella popolazione generale. E' quindi opportuna la costituzione di centri e organizzazioni idonee e legalmente abilitate alla conservazione ed all'utilizzo di cellule del cordone ombelicale, finora eliminate insieme con la placenta. Queste iniziative puntano a migliorare le possibilità di cura e di guarigione di numerosi malati affetti da tumore, spesso non definitivamente guaribili senza la ricostituzione del midollo osseo. Le banche di cordoni ombelicali stanno nascendo in tutto il mondo e si basano su due filosofie. Una prima opzione considera il materiale conservato un deposito a disposizione del donatore da utilizzare nell'eventualità che lo stesso, contragga un'affezione, o sia sottoposto a una terapia per la quale sia indicato un trapianto autologo di cellule staminali. Essa si rifà al concetto di conservazione dell'individuo descritto da Lorenz. La seconda opzione propone la raccolta e la conservazione di unità di sangue da cordone da utilizzare anche a beneficio di altri pazienti compatibili. A questo fine è prevista la tipizzazione di ogni unità di sangue cordonale prima del congelamento e l'inserimento in un computer dei dati della tipizzazione. La madre deve, di conseguenza, rinunciare ad ogni diritto di conservare il campione di sangue ad esclusivo beneficio del neonato, in qualsiasi momento della sua vita. Questa seconda iniziativa coinvolge in pieno la seconda costante di Lorenz (conservazione della specie) ed ha, da questo punto di vista, un notevole impatto di solidarietà sociale di cui la prima iniziativa è priva. Ovviamente, anch'essa è del tutto legittima, anche perché un ipotetico donatore che restasse privo delle cellule da lui donate, può trovarle attraverso il computer nel pool depositato nella banca. Sul piano tecnico, questa iniziativa dovrà disporre di una buona probabilità di reperire le cellule compatibili, per cui deve affidarsi a un'organizzazione molto efficiente, a livello nazionale o sovranazionale e disporre, a regime, di un pool di donazioni molto ampio. Le due iniziative possono coesistere, integrarsi soprattutto nel campo della ricerca e non debbono assolutamente essere considerate contrapposte. La madre, debitamente informata sugli aspetti individuali e sociali della donazione, deve poter decidere secondo coscienza e libero giudizio; il medico che l'assiste durante la gravidanza deve avere le informazioni necessarie per rispondere ai quesiti posti e sciogliere i dubbi che si possono presentare. Felice Gavosto Istituto per la ricerca e la cura del cancro, Torino


IN BREVE Ad Assago incontro sulle glicocenosi
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, ASSAGO (MI)

Sabato 10 maggio alle 10, al Centro Congressi Humana Italia, via Edison 12, Assago (Mi), primo incontro nazionale sulle glicocenosi, rarissime malattie metaboliche. I bambini affetti da tali malattie sono costretti a mangiare continuamente, giorno e notte, perché se non si nutrono ogni tre ore, vanno in ipoglicemia, rischiando convulsioni e coma. Il fisico dei piccoli infatti, non è in grado di assimilare gli zuccheri che si accumulano nell'organismo fino a diventare veri e propri veleni per fegato, reni, milza, muscoli e cervello. Tema dell'incontro: «La dietoterapia alla luce delle novità in campo nutrizionale». Relatori Rosanna Gatti, primario di pediatria al Gaslini di Genova, Cino Galluzzo e Giacomo Biasucci della clinica pediatrica del San Paolo di Milano, Rossella Parini della clinica pediatrica De Marchi di Milano e Fabrizio Seidita esperto di nutrizione enterale e rappresentante legale dell'Associazione Italiana Glicocenosi. Informazioni alla sede dell'associazione, via Matteotti 14, Assago telefono 02/ 45.70.33.34.


IN BREVE Telemetria diagnostica in cardiologia
ARGOMENTI: TECNOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

Un nuovo sistema elettrocardiografico di telemetria diagnostica, chiamato T-12, è stato presentato di recente dalla Mortara Rangoni Europe, azienda di San Giorgio di Piano (Bo). L'apparecchiatura trasmette il segnale di tutte e dodici derivazioni elettrocardiografiche in modo da permettere al cardiologo di formulare diagnosi precise. Il sistema è composto da un'unità centrale che riceve ed elabora il segnale proveniente da unità portatili (trasmettitori), collegati ai pazienti; permette il monitoraggio di cardiopatici ed ischemici, e consente al medico di disporre in ogni momento, di un elettrocardiogramma completo.


IN BREVE «Le ombre del tempo» nel parco del Mella
ARGOMENTI: DIDATTICA, METROLOGIA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, MELLA (BS)

E' stato bandito un concorso per un parco gnomonico nel parco del Mella (Brescia), ideato dall'Unione Astrofili Bresciani, per raccogliere idee e progetti per realizzare uno o più orologi solari ad uso didattico. I progetti devono pervenire entro il 31 gennaio '98 al Centro Studi e Ricerche Serafino Zani, via Bosca 24, C.P 104, 25066, Lumezzane, telefono 030/87.18.61.


IN BREVE Corsi di formazione per disabili
ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, MILANO (MI)

Corsi per disabili sono stati organizzati a Milano dall'associazione Vento Sociale, che ha ricevuto un contributo di sette miliardi dalla Regione Lombardia. Tra l'altro i corsi, coordinati da Alberto Villa della Bocconi, (inizio nel mese di maggio), comprendono giornalismo e grafica editoriale, tecnica cartografica e sistemi informativi territoriali, Internet e linguaggi Html, e si terranno nella libreria «Il giardino delle idee» in largo Augusto 8, Milano. Informazioni 02/760.18.510.


SCIENZE A SCUOLA. AL MUSEO DI SCIENZE NATURALI DI TORINO Il pianeta delle scimmia «Primates», una grande mostra sui «cugini» dell'uomo
Autore: SCAGLIOLA RENATO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
NOMI: VISALBERGHI ELISABETTA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)
TABELLE: T. Distribuzione geografica delle famiglie dei primati

LA popolazione delle scimmie, o meglio dei primati non umani, è diffusa con diverse densità, in una ampia fascia del globo, compresa grosso modo, fra il 40o parallelo nord e il 35o parallelo sud. In Europa l'ultima colonia di scimmie (bertucce), è a Gibilterra, mentre la popolazione più a nord è in Giappone. Grandissime le diversità fra le specie: dal microcebo murino e l'uistitì pigmeo che pesano meno di cento grammi, al maschio del gorilla che può superare i 180 chili. Molti quadrumani sono onnivori, altri mangiano solo pochi alimenti selezionati. I macachi sono adattabili ad ambienti diversi, da quello dell'Assam che vive fino a tremila metri d'altezza nelle foreste dell'Himalaya, al macaco di Formosa che vive sia in foreste che sulle spiagge. I Primati vivono comunque soprattutto in aree tropicali e sub tropicali; l'80 per cento è arboricolo e prospera nelle foreste pluviali, vivendo tra i dieci e in cinquanta metri d'altezza, in qualche caso senza scendere mai a terra. L'affascinante mondo dei nostri cugini è visibile al Museo di Scienze Naturali di Torino, ospitato nello straordinario edificio seicentesco dell'ex Ospedale San Giovanni Vecchio in via Giolitti 36, opera dell'architetto Amedeo di Castellamonte. «Primates», è il nome della complessa mostra multimediale che svolge il tema con video, tabelle, registrazioni sonore, esemplari impagliati, reperti osteologici, notizie storiche e scientifiche. La mostra è stata curata da Elisabetta Visalberghi del Cnr di Roma, e Marina Valente. Parte del materiale esposto proviene dalla collezione di Primatologia del Dipartimento di Biologia Animale dell'Università di Torino, che comprende oltre 500 reperti dell'8/900, raccolti da naturalisti ed esploratori in Africa e America Latina. «Una raccolta preziosa e irripetibile come del resto le altre, di uccelli, rettili e mammiferi non esposti - spiega il direttore del Museo Olindo Bortesi - perché alcuni esemplari sono estinti, altri non sono più cacciabili e perché infine è ormai quasi impossibile pensare di rifare un tale colossale lavoro di tassidermia e ricostruzione di scheletri come si faceva un tempo». Tra l'altro ci sono nel mondo specie in immediato rischio di estinzione come l'Apalemure dorato in Madagascar, il Leontocebo dalla testa nera in Brasile, (ne rimangono in tutto 200 individui allo stato selvatico), la Scimmia lanosa dalla coda gialla in Perù, il Gibbone cinerino a Giava in Indonesia, il Rinopiteco del Tonchino in Vietnam, per citarne solo alcune. «I paesi più ricchi di specie di primati - scrive la Visalberghi - sono il Brasile (77 specie), Indonesia (36 specie), Zaire (32 specie), madagascar (30). In quest'ultimo paese, patria dei lemuri, il 98 per cento delle specie sono endemiche, cioè non presenti in altre parti del mondo...Dal confronto fra la morfologia, l'intelligenza e il comportamento dell'uomo e dei Primati non umani - le specie a noi evolutivamente più vicine - possiamo capire meglio in cosa siamo differenti e in cosa siamo simili a loro». Sono già centinaia gli studenti che hanno visitato la mostra. C'è da sperare che l'esperienza non si riduca ad una specie di videogame, ma che i ragazzi si rendano conto del significato di parole come ambiente, sopravvivenze delle specie, biodiversità, rispetto di uomini, cose, animali; concetti astratti che occorre però trasferire in concreto nella vita civile. Insomma «vedere» e capire, oltre che guardare. Renato Scagliola




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