Le stampanti a getto d'inchiostro danno risultati assai simili alle stampanti laser ma sono molto più economiche; inoltre sono meno rumorose perché, a parte l'inchiostro, nessuna parte meccanica tocca la carta. La testina stampante contiene sessantaquattro piccolissime camere d'iniezione terminanti in un ugello (grande la metà di un capello) rivolto verso la carta; le camere di iniezione sono piene d'inchiostro. Ogni ugello è comandato per mezzo di un segnale emesso dal software della stampante, in pratica il computer che costituisce il «cervello» della macchina. Quando un ugello viene messo in attività spruzza una minuscola macchiolina d'inchiostro sulla carta. Ogni lettera è costituita da una serie di queste macchioline che assumono la forma di una lettera dell'alfabeto, di un numero o di un altro segno qualunque. Una volta che l'inchiostro tocca la carta avviene una reazione chimica che produce una sostanza leggermente acida la quale fissa l'inchiostro impedendogli di allargarsi fino a formare una macchia indistinta. Per provocare il getto d'inchiostro esistono due modi. Nelle stampanti «termiche» ogni camera d'iniezione è provvista di un minuscolo sistema di riscaldamento; esso quando riceve il segnale dal software viene attraversato da una corrente elettrica e porta la temperatura a circa 400 gradi C e fa vaporizzare l'inchiostro; si forma così una piccola bolla che spinge l'inchiostro fuori dall'ugello e lo proietta verso la carta. Quando il sistema di riscaldamento si spegne, la bolla si dissolve richiamando nella camera dal «calamaio», o cartuccia, nuovo inchiostro per ricominciare il ciclo, il funzionamento della camera è rapidissimo: in un secondo il ciclo si ripete migliaia di volte. L'altro sistema usa al posto del metodo di riscaldamento ora descritto particolari cristalli, detti cristalli piezoelettrici che hanno la caratteristica di cambiare forma quando sono attraversati da una corrente elettrica. Su comando del software una corrente elettrica attraversa i cristalli che repentinamente aumentano di dimensione e spingono l'inchiostro fuori dall'ugello.
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, FISICA, TECNOLOGIA
NOMI: AMALDI UGO
ORGANIZZAZIONI: CERN
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, SVIZZERA, GINEVRA, ITALIA, MIRASOLE (MN)
TABELLE: D. Il centro nazionale di adroterapia oncologica che nascerà a
Mirasole
FISICA delle particelle: da un lato ricerca pura, dall'altro applicata alla cura del cancro. I due aspetti si unificano in Ugo Amaldi, impegnato nella ricerca pura al Cern di Ginevra e nella realizzazione in Italia di una macchina per l'adroterapia dei tumori. A giugno inizierà un nuovo periodo di funzionamento del Lep, l'ultimo gioiello del Cern. Il più grande collisore circolare di elettroni e positroni del mondo, inaugurato nel 1989 e lungo 27 chilometri, riceve i fasci pre accelerati e li porta ad una energia di 80 miliardi di elettroni-volt (GeV), battendo ogni record per un sincrotone del suo tipo. La scorsa estate sono state prodotte per la prima volta coppie di WpiùW--, le particelle cariche che trasmettono la forza debole e che erano state scoperte proprio al Cern nel 1983, fruttando il Premio Nobel a Carlo Rubbia. Le W sono molto pesanti: la loro massa di 80 GeV corrisponde a quella di 85 protoni o di 157.000 elettroni. Nel 1996 le W sono ritornate al Cern in grande stile, grazie al raddoppio dell'energia del Lep. Delphi, uno dei quattro esperimenti (gli altri si chiamano L3, Opal e Aleph), ha avuto la fortuna di registrare il 9 luglio scorso la prima coppia prodotta, inaugurando una nuova stagione di ricerca dopo un quinquennio di funzionamento alla soglia di produzione della Z, la compagnia neutra delle W, di massa pari a 97 protoni. Si è parlato molto di questo primo evento: una reazione - attesa ma non ancora osservata - fra un elettrone e la sua antiparticella che, scontrandosi, scompaiono producendo i due bosoni W. Questi a loro volta decadono in 4 sciami di particelle, formando le tracce fotografate dai rivelatori, gli occhi elettronici dell'esperimento. Ugo Amaldi è stato il primo portavoce di Delphi, rimasto in carica per più di dieci anni a partire dalla nascita della collaborazione nel 1980. Con le sue ricerche Amaldi ha contribuito in modo essenziale alla fisica degli ultimi trent'anni: del 1975 è la sua idea di un collisore lineare superconduttore, un tipo di acceleratore di particelle di cui oggi si parla molto. Nato a Roma nel 1934, figlio del fisico Edoardo Amaldi, Ugo Amaldi iniziò la sua collaborazione con il Cern nel 1960, lavorando per due anni su esperimenti del Ps, il sincrotrone a protoni allora appena inaugurato. Nel 1973 ritornò definitivamente al Laboratorio di Ginevra, diventando un punto di riferimento per le centinaia di giovani che vi svolgono ricerca. Qual è il bilancio della prima fase del Lep? "Abbiamo sorpassato in tutte le misure ogni previsione - spiega Amaldi -. La luminosità, cioè il numero di interazioni al secondo fra gli elettroni e le loro particelle, l'angolo di mescolanza fra le forze elettromagnetiche e deboli, la massa del bosone Z sono stati determinati con un'altissima precisione, permettendo di provare oltre ogni aspettativa la validità del Modello Standard delle particelle e delle interazioni". In particolare, Delphi per primo ha misurato la costante di accoppiamento a tre gluoni, confermando la previsione della teoria. Il Modello Standard racchiude in modo elegante la fisica delle particelle di oggi grazie alle scoperte e agli esperimenti di questi ultimi decenni, riassumendo le conoscenze e spiegando molto bene i fenomeni che si osservano. Ma la visione globale di tutto il campo della fisica mostra che il modello va completato, e con il passaggio alla seconda fase del Lep si spera di evidenziare qualcosa di nuovo. "Ogni esperimento ha registrato alcuni eventi anomali, ma lo studio è ancora in una fase preliminare ed occorreranno altri dati e alcuni anni di lavoro", spiega Amaldi. Si tratterà della particella di Higgs, l'anello mancante oggi alla teoria, di particelle supersimmetriche, teorizzate elegantemente ma non ancora trovate, oppure di altro? "Se dobbiamo giudicare dal passato, la natura ci ha abituato a scoperte inattese...". Ma oggi Ugo Amaldi si dedica quasi completamente all'adro terapia oncologica, lo studio dell'utilizzo delle particelle pesanti - formate da quark - per la terapia dei tumori, e ne ha inventato il nome stesso. "Abbiamo deciso di portare in Italia le tecniche moderne di irradiamento dei pazienti con protoni e ioni carbonio. Alla fine del 1993 ho concluso la direzione di Delphi - racconta Amaldi - e ora vorrei vedere realizzato nel nostro Paese il primo centro di protoni e ioni europeo. L'Italia ha le competenze e la storia per farlo, e siamo i più avanzati in Europa, mentre esistono già alcuni centri ospedalieri di adroterapia negli Stati Uniti e in Giappone". Più di duecento medici, fisici, ingegneri e informatici lavorano in Italia sul Programma Adroterapia, che si articola in tre attività principali: la realizzazione di un centro nazionale di adroterapia oncologica (Cnao), presso l'abbazia di Mirasole, tra Milano e Pavia, dove si svolgeranno i trattamenti terapeutici; lo sviluppo di acceleratori compatti di protoni, di dimensioni e costi contenuti, che saranno installati in sedi esistenti (il progetto Paco); la rete Rita (Rete Italiana Trattamenti Adroterapici), che collegando medici e ospedali con il Cnao permetterà lo scambio di informazioni mediche e l'identificazione dei pazienti sottoponibili al trattamento, evitando viaggi non necessari. Il San Paolo di Torino ha sostenuto la Fondazione Tera, creata da Amaldi per l'adroterapia, con 210 milioni di lire nel 1996, assegnando già altri 140 milioni: è il secondo sponsor del progetto dopo la Fondazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, che ha finanziato 600 milioni nel solo anno passato. Ma non ci sarebbero le applicazioni di alta tecnologia, con i benefici delle ricadute economiche, sanitarie e ambientali, se non fossero stati svolti in precedenza programmi di ricerca astratta, di base, sulla quale bisogna continuare ad investire. Per questo la ricerca fondamentale nei campi di punta della conoscenza è e resterà indispensabile. Davide Vité Università di Ginevra
La salute è il fondamento di una buona qualità della vita. Da come una società protegge la salute è possibile trarre valutazioni culturali, politiche, giuridiche, storiche, economiche, esistenziali. Giorgio Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi e Roberto Satolli hanno assunto il punto di vista del "valore salute" attraverso il tempo e ne hanno fatto l'aspetto unificante di un dizionario che va da A come "aborto" a Z come "zucchero". Attenzione: non è (soltanto) un dizionario di medicina, pur contenendo molte voci appartenenti a questa disciplina. Sotto il meccanismo ad accesso casuale che è l'ordine alfabetico si nasconde una storia dell'uomo vista nella sua ontologica oscillazione tra salute e malattia. Piero Bianucci
La scienza procede in due modi: a piccoli passi e a balzi improvvisi. I piccoli passi si possono fare anche con gambe corte e sono tipici del ricercatore medio. Anche i piccoli passi, per accumulo, portano a superare grandi distanze. Ma certo il genio scientifico si distingue dal fatto che procede a balzi. E i balzi spesso non possono essere capiti da chi ha gambe corte. Così, tra normalità e rivoluzione, tra artigianato e arte, tra educata accademia e sberleffo anticonformista, si dipana la storia della conoscenza. Scavando in questo dato ovvio, Di Trocchio ha messo insieme una serie di storie di incomprensioni reali e presunte tra apparato della scienza accademica e geni innovatori. Da Cristoforo Colombo al cosmologo Alton Arp, da Keplero a Marconi. Naturalmente, a guardare le cose più in profondità, la storia vera è molto più complessa. Ma l'aneddotica diverte. E paga.
ARGOMENTI: TRASPORTI
LUOGHI: ITALIA
IL vecchio dirigibile sta riprendendo quota. Rinnovato nei materiali, nella struttura, nelle prestazioni si appresta a dare un modesto ma prezioso contributo all'aviazione civile. In primavera volerà un moderno dirigibile di nuova generazione; lo "Zeppelin NT", di 7200 metri cubi. Si sta organizzando ora una competizione per dirigibili su scala europea, da tenere nel 1998. E' promossa dalla Ciel (Competitions Internationales d'Engins Legers), che ha sede a Cambourcy in Francia, nei pressi di Parigi. La competizione è inquadrata in quattro classi: 1) Modelli radiocomandati con cubatura inferiore ai 25 mc, per ambienti chiusi; 2) Modelli radiocomandati con cubatura superiore ai 25 mc per dimostrazioni all'aperto; 3) Dirigibili pilotati, con cubatura dai 300 ai 1500 mc; 4) Grandi dirigibili. Forma dell'involucro, struttura, energia, sono stati lasciati alla libera scelta dei concorrenti; affidate al loro ingegno, alla loro fantasia, alla loro inventiva. Per il gas di sostentamento si può scegliere tra elio e aria calda-elio. Possono gareggiare scuole, università, ditte e singoli, specialmente studenti e giovani. Sinora si sono iscritte due università americane, due francesi, due inglesi. Sono arrivate 33 intenzioni di partecipazione. Il primo degli italiani è Domenico Fodaro, autore di un pregevole progetto di dirigibile per alta quota. Presenterà un minidirigibile radiocomandato di sua invenzione. Si è costituito un Comitato italiano di coordinamento per la gara intereuropea per dirigibili: ha sede in Trento, presso il Museo Aeronautico Caproni. Ad esso tutti possono rivolgersi per ulteriori informazioni e per organizzare la partecipazione. Tullio Filtri
Vulcani vicini e lontani in una raccolta di articoli tratti da "Le Scienze" e aggiornati con interventi appositi sulla recente eruzione che ha sconvolto i ghiacci dell'Islanda, sul programma di evacuazione in caso di risveglio del Vesuvio e sul riuscito intervento per deviare le lave dell'Etna nel '93. A cura di Franco Barberi, vulcanologo di fama internazionale e sottosegretario al dipartimento per la Protezione civile.
"Entrò in un caffè e ne bevve uno". E' sintesi? E' umorismo? O è solo cattiva scrittura? Fatto sta che una volta mi capitò di leggere l'articolo di un collega che conteneva questa frase. Conoscendo l'autore posso dire che si trattava della terza cosa. Ma questo non esclude che fossero vere anche le prime due. L'umorismo è veloce. Quindi sintetico. La sintesi, cambiando il prolisso punto di vista abituale, spesso ha effetti umoristici. In ogni caso il sorriso è segno di salute mentale e alla salute mentale fa bene. Tautologicamente. Perciò psichiatri e psicoanalisti da tempo si applicano allo studio del comico. Franco Fasolo è tra i più attenti, e questo suo libro volutamente frammentario, misto negli spunti e nei toni, ipertestuale, rappresenta un provocatorio excursus sul tema: ancorato all'esperienza psichiatrica, ma anche sottilmente divertente per un lettore laico, senza camice e senza camicia (di forza).
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ESTERO, ASIA, INDIA
LA scienza astronomica in India è fino dall'antichità intrecciata con l'astrologia, e sovente la prima è spesso in funzione della seconda. Nelle scritture del "Rig Veda" e dall'"Atharva Veda" appaiono le prime codificazioni delle conoscenze astronomiche dei fenomeni celesti. Risale al 300 a.C. il "Jyotishavedanga", il primo testo organico su questi argomenti, dove sono introdotti per la prima volta calcoli e matematiche per la misurazione del tempo e dello spazio. A cui fa seguito, nel VI d.C., il Brihatsamhita (il " Grande Compendio"), del celebre astronomo- astrologo Varahamihira. Opera fra le più importanti della scienza indiana degli astri e che nello stesso tempo rappresenta un vero e proprio trattato di astronomia e di astrologia. Alcuni secoli dopo il maharaja di Jaipur, Sawai Jai Singh II (1686-1743), tenta di realizzare una suggestiva utopia: fa costruire giganteschi strumenti per studiare meglio il " Grande Libro del Cielo". E' il Secolo dei Lumi e anche in India si riannoda il filo rosso che, dalla Francia di Diderot e D'Alembert, si dipana attraverso il mondo nel segno della scienza e della ricerca scientifica. Inspiegabilmente a migliaia di chilometri di distanza dall'Europa il pensiero degli Illuministi fa adepti e anche in India trova studiosi e principi illuminati disposti a finanziare gli studi e la ricerca scientifica. Sawai Jai Singh II è appunto uno di questi. Appassionato di astronomia e di matematica, si circonda di esperti di queste discipline, dà vita ad una vera e propria scuola di astronomia, raccoglie testi rari su tali argomenti, chiama alla sua corte alcuni gesuiti, fra cui il portoghese Padre Figueredo che viveva a Goa. Inoltre cura personalmente la redazione delle tavole astronomiche "Zij Muhammad Shahi" ("I movimenti dei corpi celesti"). Ma soprattutto fa erigere cinque osservatori astronomici a Jaipur, Delhi, Benares, Mathura (l'unico andato perduto) e Ujjain, dotati di strumenti colossali realizzari in pietra, marmo, mattoni e arenaria. Metafisiche forme rigorosamente geometriche, di estrema eleganza architettonica e dal preciso rigore scientifico, che ancora oggi si possono ammirare in tutta la loro surreale e intrigante bellezza. Strumenti che consentono di determinare: le coordinate dei pianeti, ossia la latitudine e la longitudine, attraverso una lettura diretta (Kranti Vrit Yantra); le distanze e gli azimuth dei pianeti in rapporto alla Terra (Ram Yantra); gli azimuth in generale (Digamsa Yantra); l'ora di mezzogiorno (Narivalaya Yantra); le coordinate eclittiche (Rashivalaya Yantra); l'altezza dei corpi celesti (Unnatansha Yantra); le coordinate equatoriali di un astro, l'angolo orario e la distanza polare (Chakra Yantra); le distanze dei corpi celesti quando sono sul meridiano (Dakshino Yantra); le parti visibili della sfera celeste (Yantra Raja); la misurazione del tempo in ore, minuti, secondi (Samrat Yantra). E ancora: la longitudine, la latitudine, la declinazione, i meridiani, i paralleli, gli equinozi, i solstizi, le eclissi. Tutti e cinque gli osservatori sono chiamati Jantar Mantar. Termini derivati dal sanscrito che significano "strumenti di calcolo". Ma non contento di tutto ciò, il principe-astronomo segue personalmente la realizzazione di alcuni astrolabi in bronzo, del diametro da 1 a 3 metri ciascuno e di vario tipo (come l'astrolabium planisphaerum e quello marinum). E sempre a Jaipur costituisce una collezione unica di strumentazioni, compresi alcuni rari astrolabi, arabi e persiani, oggi conservate nei principali musei indiani, oltre che nel City Palace della "Città Rosa". E veniamo agli osservatori. New Delhi. Alla fine dell'animatissima Jampat Road, in un giardino di piante tropicali, l'osservatorio risale al 1724. Gli strumenti in mattoni dipinti di rosso hanno dimensioni notevoli. Jaipur. Accanto al City Palace, il fantasmagorico Palazzo del Maharaja della città, si trova il Jantar Mantar. L'osservatorio astronomico più completo e integro di tutta l'India, costruito dal principe-astronomo dal 1728 al 1733. Contiene 18 strumenti. Benares. Nel palazzo voluto nel 1600 da Man Singh I, raja di Amber, nei pressi del Mandir Ghat, ci sono gli osservatori astronomici (1693). Ujjain. Una delle sette città sacre dell'induismo, a 55 chilometri da Indore, conserva in Jiwajii Singh Pura Road il Jantar Mandar (1733). Pietro Tarallo
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, GENETICA
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO TUMORI DI MILANO, DIVISIONE UNIVERSITARIA DI EMATOLOGIA
DI
TORINO
LUOGHI: ITALIA
DA alcuni anni è entrato nella pratica clinica l'uso dei "fattori emopoietici di crescita". Queste sostanze, presenti fisiologicamente nel nostro organismo, possono essere somministrate dopo la chemioterapia per stimolare la rigenerazione delle cellule del sangue. L'uso dei fattori di crescita ha consentito di ridurre i rischi nella somministrazione dei chemioterapici, specialmente ad alte dosi. Inoltre, grazie ai fattori di crescita si è potuto ideare un nuovo tipo di autotrapianto, utilizzando non più le cellule midollari ma cellule prelevate dal sangue circolante in particolari fasi della terapia. E' questo l'autotra pianto di cellule periferiche, che viene ampiamente utilizzato sia nei tumori del sangue sia nei tumori solidi: ormai ha soppiantato la vecchia procedura dell'autotrapianto di midollo. Gli studi pionieristici sulla chemioterapia ad alte dosi, i fattori di crescita e l'autotrapianto di cellule periferiche furono condotti alla fine degli Anni 80 dall'Istituto tumori di Milano, in collaborazione con la Divisione Universitaria di Ematologia di Torino. Venne allora ideato uno schema innovativo, denominato Hds (High Dose Sequential), inizialmente utilizzato per le forme di linfoma a rapida crescita. I risultati furono molto soddisfacenti e in seguito questo approccio è divenuto la base per il trattamento di altri tumori in Italia e all'estero. L'esperienza maturata negli anni con lo schema Hds e l'autotrapianto di cellule periferiche ha permesso recentemente ai medici ricercatori della Divisione universitaria di Ematologia di Torino di elaborare nuove strategie terapeutiche per altre forme di linfoma. Un originale schema di terapia intensificata, ideato principalmente da Tarella, è stato applicato in linfomi follicolari, neoplasie che sinora venivano gestite con blande terapie volte principalmente a contenere l'evoluzione della malattia. Lo scopo è stato quello di ottenere la massima riduzione delle cellule tumorali e in questa ottica si è fatto un attento monitoraggio dei pazienti, basato su un sofisticato esame diagnostico molecolare. Il test, chiamato Pcr (da Polymerase Chain Reaction), individua le cellule tumorali anche quando sono in piccolissime quantità, fino a una ogni milione di cellule normali. L'analisi molecolare, messa a punto da Corradini, ha permesso di verificare che molti pazienti, circa il 70% dei casi sinora studiati, hanno ottenuto non solo la remissione clinica della malattia ma anche il ritorno alla negatività del test in Pcr. Il risultato è rilevante sotto diversi aspetti. Innanzitutto si è dimostrato che programmi intensivi con autotrapianto possono essere applicati anche in forme di linfoma ove sinora si teneva un atteggiamento terapeutico di attesa, intervenendo con trattamenti non intensivi e solo per controllare i sintomi della malattia. Inoltre il risultato dell'analisi molecolare contraddice il concetto che il linfoma follicolare sia una neoplasia con scarsa sensibilità alla chemioterapia. I risultati clinici e ancor più i risultati dell'indagine molecolare dimostrano invece che anche nei linfomi follicolari si può ricercare una forte riduzione del tumore. Il tempo e l'analisi su vaste casistiche potranno dire se questo risultato può essere il preludio di una lunga sopravvivenza ed eventualmente della guarigione. E' proprio per rispondere a questi quesiti che diversi centri ematologici italiani hanno ora intrapreso uno studio policentrico sui linfomi follicolari utilizzando lo schema ideato a Torino. Sulla stessa linea si collocano i risultati ottenuti nel mieloma multiplo in pazienti di età avanzata. Anche in questo caso si tratta di pazienti in cui sinora un atteggiamento terapeutico aggressivo era precluso a causa dei rischi di tossicità. In genere l'autotrapianto si considera eseguibile non oltre i 60 anni. Uno schema che si basa sull'uso delle cellule periferiche per l'autotrapianto è stato ideato da Boccadoro e Palumbo (ematologia universitaria, Torino) per pazienti oltre i 60 anni. Il programma, che prevede ripetute chemioterapie intensificate, ha potuto essere attuato in quasi tutti i pazienti senza particolari complicanze. I risultati preliminari sono nettamente superiori a quelli delle terapie convenzionali. In conclusione, le nuove opportunità terapeutiche, in particolare i fattori di crescita e l'autotrapianto di cellule periferiche, consentono di considerare trattamenti intensivi in un sempre maggior numero di forme tumorali ematologiche. In campo medico, soprattutto in campo oncologico, occorre avere sempre molta cautela nell'esaminare nuovi approcci terapeutici. Tuttavia, i recenti risultati ottenuti con lo schema Hds e con i suoi successivi adattamenti prospettano un reale miglioramento delle aspettative di vita di molti pazienti con tumori del sangue. Alessandro Pileri Università di Torino
ARGOMENTI: INFORMATICA
LUOGHI: ITALIA
UN articolo uscito pochi giorni fa sul "New York Times" con il titolo "Micromagneti possono rivoluzionare i computer" riportava la scoperta di molecole che si comportano come magneti, attribuendone il merito a una equipe formata da ricercatori americani e spagnoli. La notizia è certo interessante, ma in effetti le molecole in questione furono isolate per la prima volta in Polonia al principio degli Anni 80, e le loro proprietà magnetiche furono descritte in un nostro articolo uscito su Nature nel '93. I magneti sono diventati ingredienti importanti nella nostra vita di tutti i giorni: basti pensare ai servomeccanismi che ci consentono di alzare i cristalli della macchina e agli elementi delle memorie presenti nei computer con cui ci colleghiamo a Internet. In queste ultime applicazioni è necessario avere particelle magnetiche sempre più piccole per poter raggiungere densità di informazione sempre più alte. Esattamente come c'è un'intensa ricerca per capire i limiti inferiori delle dimensioni raggiungibili per un circuito elettronico, molti studiosi stanno cercando di capire quali siano i limiti inferiori delle dimensioni di una particella perché questa possa avere una magnetizzazione permanente. Ora sembra che questo limite sia stato individuato. Il magnetismo è associato all'esistenza di centri contenenti elettroni spaiati. Ogni centro ha un momento magnetico, ma ad alta temperatura l'agitazione termica fa sì che ogni magnete elementare oscilli rapidamente tra due orientazioni opposte, dando un momento magnetico nullo. Per avere una risultante non nulla, e quindi magnetizzazione permanente, è necessario che i magneti elementari non possano più oscillare liberamente, ma si orientino secondo direzioni ben precise e stabili. In altre parole i magneti elementari sono obbligati ad irreggimentarsi e comportarsi tutti nello stesso modo. La domanda su cui la scienza ora si concentra è quanto grande debbano essere i reggimenti di magneti elementari perché si possano osservare delle proprietà magnetiche massive. La scoperta fiorentina è che sotto la temperatura di ebollizione dell'elio, 4,2 K, -269oC, si possono comportare come magneti permanenti oggetti delle dimensioni di una molecola. La molecola-magnete cui fa riferimento l'articolo del "New York Times" è formata da 12 ioni manganese, 12 ioni ossido, 16 ioni acetato e acqua quanto basta. Sotto 4 K i magneti elementari sugli ioni manganese si orientano e ogni molecola si comporta come un piccolo magnete. Il polo Nord del magnete può essere su o giù, a seconda del trattamento subito. Le molecole sono bistabili e quindi è possibile immagazzinare informazione (ad esempio "su" corrisponde a 1 e "giù" a 0). Le particelle magnetiche tradizionali hanno dimensioni dell'ordine di un milionesimo di metro, mentre le molecole hanno dimensioni di circa un miliardesimo di metro. Le proprietà magnetiche restano inalterate se le molecole sono disciolte in un solvente adatto o anche in un film polimerico. Questa proprietà diversifica completamente questi nuovi magneti da quelli classici, in cui solo i cristalli hanno proprietà magnetiche massive. L'aspetto forse più eccitante di questi nuovi magneti e che, se per certi versi si comportano già come magneti grossi, in realtà sono ancora così piccoli da mostrare le anomalie affascinanti del mondo quantistico. Un oggetto macroscopico o è qua o è là, non può essere in due posti contemporaneamente. Un magnete classico può avere il suo polo Nord o su o giù e può cambiare la sua orientazione solo superando una barriera di potenziale. Nel mondo dei quanti un magnete può cambiare la sua orientazione senza superare barriere, ma scavandosi una galleria (effetto tunnel quantistico). Le nuove molecole-magneti mostrano questo comportamento quantistico a basse temperature, come è stato provato per la prima volta da ricerche di Sessoli e Novak nel 1995, poi confermate dai ricercatori americani citati dal "New York Times", e dal gruppo fiorentino in collaborazione con ricercatori di Grenoble nel 1996. Il comportamento di questi nuovi magneti a bassissima temperatura è una sfida per la teoria dei quanti stessa, che si applica agli atomi e alle molecole, e per la sua coesistenza con i modelli classici che si applicano per oggetti macroscopici. Numerosi ricercatori, tra i quali fisici teorici fiorentini, lavorano attivamente in questo campo. Quali sono le possibili applicazioni dei nuovi magneti? Certo immagazzinare informazione in una molecola è una prospettiva attraente, perché in linea teorica è possibile costruire memorie magnetiche di centinaia di gigabytes sulla testa di uno spillo. Un altro aspetto interessante è legato alla possibilità di leggere l'informazione con mezzi ottici. Misure da noi fatte in collaborazione con l'Università di East Anglia mostrano che la bistabilità delle molecole può essere misurata con un laser. La natura quantistica di questi oggetti apre la prospettiva di nuovi tipi di calcolatori quantistici, in cui gli elementi di memoria possano tenere più bit di dati simultaneamente, mentre i dispositivi attuali possono avere un solo bit alla volta. Dante Gatteschi Roberta Sessoli Università di Firenze-INCM
ARGOMENTI: BIOETICA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
ANCORA una volta la corte di cassazione ha dovuto ribadire, in una sua sentenza, il principio che il cittadino italiano, quando si ammala, ha il diritto di essere adeguatamente informato non solamente su diagnosi, prognosi e terapie, ma anche sui possibili rischi e sulle alternative terapeutiche. Ancora una volta - dunque - si ricorda ai medici il loro dovere, di cittadini italiani, di rispettare la normativa giuridica che subordina il compimento di qualsiasi atto terapeutico al consenso del paziente, che costituisce, fatti salvi i casi espressamente previsti dalla legge, un presupposto per il regolare svolgimento dell'attività medica. Con il consenso ogni cittadino esercita il proprio diritto alla salute (articolo 32 della Costituzione), esercizio che è volontario, e insieme tutela i propri diritti primari di libertà, dignità e autodeterminazione. Questi principi sono stati accolti nel nuovo Codice Deontologico dei medici italiani varato nel 1995, un codice che, garantendo il "rispetto dei diritti del paziente", sancisce il riconoscimento della sua autonomia e partecipazione attiva al processo di cura. Una riflessione su questi punti può farci intravedere il rischio che i medici, nella difficoltà di adeguarsi ai cambiamenti sociali e psicologici che investono l'attività sanitaria, passino da un atteggiamento paternalistico di beneficialità ("il bene del paziente deciso dal medico") a comportamenti giuridicamente diligenti, ma impietosi, di informazione ai loro pazienti su "tutta la verità". Entrambi questi atteggiamenti sono espressione di una gestione unilaterale del rapporto di cura, lontana da un'autentica considerazione della persona del malato. E' una sfida della medicina del 2000 quella di riuscire a integrare i progressi scientifico- tecnici con il rispetto giuridico e morale della soggettività dei cittadini e insieme salvare i valori di una buona relazione psicologica tra medico e paziente, che è ritenuta un significativo motore emotivo di ogni processo di cura. Nel contesto antropologico dell'attività sanitaria, che si connota come "rapporto di aiuto", la sola informazione diagnostico-terapeutica, per quanto corretta, non è sufficiente. Essa può mantenere la sua natura di atto medico, cioè rivolto all'interesse del paziente, solo se si realizza nel quadro più ampio di una comunicazione dotata di empatia (capacità di immedesimarsi nell'altro). Strumento per questo obiettivo è il " colloquio", che ha sue regole metodologiche. Intanto non può essere affrettato, ma è piuttosto una progressione di incontri, in cui informazione graduale e dialogo possono permettere al paziente di orientarsi e fare domande. Del resto anche il medico ha bisogno di orientarsi e di capire: capire la personalità del paziente; conoscerne l'ambiente sociale e familiare; indagarne il grado di informazione già in suo possesso. Poiché l'atteggiamento da cui partire non è di come falsificare una realtà, ma di come far arrivare una informazione comprensibile e leale sulla "verità" medica a "quel" paziente. Per fare ciò la comunicazione medica ha bisogno di tempi di ascolto, su due versanti: ascolto del paziente, delle sue ansie e aspettative; auto-ascolto del medico, per evitare di proiettare sulla situazione del paziente il proprio modo di pensare e di sentire. Seguendo queste linee-guida, anche nei casi di gravi malattie, si ritiene oggi che una informazione chiara e veritiera, oltre che adeguarsi alla normativa giuridica, possa aspirare a raggiungere obiettivi più propriamente medici: contribuire a instaurare un rapporto di fiducia e di alleanza terapeutica; svolgere un'azione di psicoprofilassi, prevenendo le dannose conseguenze psichiche dell'isolamento dei pazienti nell'ignoranza o nell'incertezza; promuovere la speranza, per favorire nei pazienti un atteggiamento attivo di partecipazione alle terapie. Giorgio Lovera Per una svista, sotto l'articolo sull'Aids pubblicato il 5 febbraio è stata omessa la firma della coautrice Adriana Albini.
ARGOMENTI: METEOROLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
A prima vista, effetto serra, colera e malaria, sembrano senza alcun rapporto causale. Invece non è così. La correlazione si sta lentamente delineando: una brutta sorpresa che ci fa capire quanto fuorviante sia pensare all'effetto serra (ES) come un ad un semplice aumento della temperatura media di 2-4oC: sono le conseguenze collaterali quelle che più ci toccheranno da vicino, dall'innalzamento del livello degli oceani allo scioglimento dei ghiacciai dell'Antartide. Inoltre questi fenomeni sono destinati a colpire popolazioni che poco o nulla hanno contribuito alla causa iniziale, che è stata invece innescata dai Paesi sviluppati: pensiamo alle decine di milioni di persone che in Egitto e in Bangladesh si troverebbero a dover affrontare un mare mezzo metro più alto. A questo scenario si aggiungono ora studi epidemiologici che ci ammoniscono che un aumento della temperatura potrebbe causare un aumento dell'incidenza di colera e malaria. Cominciamo con la malaria, una infezione trasmessa dalla femmina di zanzara (Anopheles) che ospita ben 4 parassiti malarici (Plasmodium). La femmina si infetta ingerendo sangue umano infetto per poi trasmettere il parassita ad altri esseri umani del cui sangue si nutre. Le condizioni climatiche ottimali sono: 20-30oC, umidità del 60% e temperatura invernale superiore ai 15oC. Il 95% di tutti i casi di malaria si ha nella regione del Sub-Sahara: qui ogni anno muoiono mezzo milione di bambini. La popolazione a rischio è oggi di 2,1 miliardi e le persone infette sono 270 milioni. L'effetto serra, causando un aumento della temperatura, farebbe salire la malaria verso il Nord, in regioni dove oggi i mosquitos vettori non pongono ancora un pericolo, per esempio, in Kenya e Zimbabwe. Consideriamo ora il colera, un antico flagello delle fasce più povere della società. L'etimologia più attendibile lo farebbe derivare dal greco chole (bile) e reo (scorro). Il batterio del colera, Vibrio cholerae, è trasmesso da acqua e cibi contaminati. L'infezione è già descritta in testi in sanscrito del 500 a.C., nonché in Grecia più di duemila anni fa. Un flagello antico: endemico, e di tanto in tanto epidemico. In Inghilterra arrivò nel 1849 e qui avvenne un fatto importante. Il medico della regina Vittoria, John Snow, fu il primo a capire che l'infezione era dovuta ad acqua contaminata. In un classico studio di epidemiologia, nel 1854 dimostrò che su 10.000 case, ben 315 casi di morte risultarono in case alimentate da una sorgente (Southwark and Vauxhall Company) contro 37 casi di morte in case alimentate da un'altra sorgente (Lambeth Company) meno contaminata. In Africa, nel 1991 ci furono 45.149 nuovi casi di malaria con una mortalità di 3488, circa l'8%. Un numero assai più elevato di quello in America Latina dove ci furono 251.533 nuovi casi con una mortalità di 2618, cioè dell'1 per cento. Il caso dell'America Latina è particolarmente importante perché ci ha rivelato un fattore nuovo, la relazione con il clima. Il colera arrivò in Perù nel 1991. In tre settimane si sparse su una regione costiera di 2000 chilometri; i casi riportati furono 30. 000 con 114 fatalità. Il primo caso fu a Chancay, 60 km da Lima, ed il giorno dopo a Chimbote, un porto 400 km a Nord di Chancay. L'ipotesi originale che navi ancorate al porto del Callao avessero scaricato acque contaminate non poteva essere vera data la quasi simultanea occorrenza dell'epidemia. Si capì invece che il fenomeno era dovuto alla fioritura del plancton marino a causa del fenomeno climatico El Ni~no in cui acque calde (di circa 1oC) si originano lungo le coste peruviane spostandosi verso il Pacifico (Tahiti) dove si è verificata, con vari satelliti, una vasta regione di acque calde. Per rimpiazzare tali acque, lungo le coste peruviane avviene uno spostamento verticale di acque profonde che portano alla superficie nutrienti, da qui una fioritura del fitoplancton. Usualmente il fenomeno El Ni~no (che avvenendo verso Natale prende il nome da Gesù Bambino, El Ni~no in spagnolo), è della durata media di un anno, ma nel 1990-1995 si verificò il caso più prolungato nella storia di tale fenomeno. E questo coincise con l'epidemia del colera. Il colera può diventare endemico, per esempio, in Bangladesh c'è un'epidemia annuale che coincide con la fioritura delle alghe (Anabaena) nelle acque salmastre lungo le coste. L'organismo del colera, il Vibrio cholerae, sopravvive nell'ambiente in cui si trova nascondendosi e riparandosi negli strati mucosi di svariate alghe e fitoplancton che sono molto sensibili alle condizioni climatiche prevalenti nel luogo. E' stato recentemente portato a termine uno studio durato 3 anni, dal 1987 al 1990, in Bangladesh. Si impiegarono dieci stazioni fisse, 2 corrispondenti al delta di fiumi e 8 villaggi lagunari, 46 km a Sud della capitale Dacca. Campioni di acqua ed alghe (cianobatteri, diatomi, alghe blu...) venivano prelevati ogni due settimane. Il risultato fu chiarissimo: l'abbondanza di Vibrio cholerae aumenta con l'abbondare dei copepodi (fra i più numerosi gruppi di zooplancton). Il risultato verrà presentato in una pubblicazione degli autori: Colwell, Huq, Russek-Cohen e Jacobs. Nella figura riportiamo un recentissimo risultato dove si nota una chiara correlazione fra l'incidenza di colera e l'aumento della temperatura del mare in Bangladesh. I massimi e minimi sono troppo ben correlati. Abbiamo discusso su queste pagine (4 dicembre 1996) recenti esperimenti che tenterebbero di mitigare l'effetto serra fertilizzando gli oceani con ferro che porta ad una fioritura del fitoplancton del 3000 per cento. Ma se ciò avvenisse nei pressi di terra abitata, l'incidenza colerica sarebbe catastrofica. Se e quando l'esperimento verrà discusso seriamente su scala globale, gli epidemiologi avranno molto da insegnarci, e noi molto da imparare sulla nostra complicata biosfera. Vittorio M. Canuto Nasa, New York
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, CHIMICA
NOMI: FLECKENSTEIN ALBERT
LUOGHI: ITALIA
FRA i minerali, il calcio è quello presente nell'organismo in maggior quantità: circa 1250 grammi (1,5-2 per cento del peso corporeo). Il 99 per cento si trova nelle ossa e nei denti. L'uno per cento è distribuito nei tessuti molli, dove svolge funzioni essenziali: è indispensabile alla contrazione muscolare, alla funzionalità del cuore, alla coagulazione del sangue, agisce sulla permeabilità delle membrane ed è un attivatore di numerose reazioni enzimatiche. Su tutti questi processi, che avvengono nelle cellule, il calcio agisce da interruttore, a dosi mille volte inferiori alla concentrazione extracellulare. Molte indagini hanno dimostrato che gli ipertesi hanno alterazioni dell'assorbimento e del trasporto degli ioni calcio. La maggior concentrazione di ioni calcio all'interno delle cellule della muscolatura liscia vasale, aumenta lo stato contrattile delle cellule stesse, provocando la vasocostrizione delle arterie periferiche. In altre parole: l'aumento della concentrazione di calcio a livello vascolare concorre a produrre un aumento della pressione arteriosa. Se viene a mancare il calcio di origine alimentare, l'organismo ricorre al tessuto osseo (grazie all'intervento dell'ormone paratiroideo). L'ormone paratiroideo però, facilita un eccessivo ingresso di calcio nella cellula muscolare della parete vasale. Vent'anni fa Albert Fleckenstein scoprì le possibilità d'impiego di particolari molecole ("calcio-antagonisti") che hanno lo scopo di regolarizzare il movimento degli ioni calcio attraverso le membrane e il reticolo sarcoplasmatico delle cellule che compongono il muscolo liscio vascolare. Un'ulteriore conferma dell'utilità dei calcio-antagonisti nell'ipertensione si è avuta dai risultati dello studio VHAS (Verapamil Hypertension Atherosclerosis Study) che è durato 4 anni e che ha coinvolto 79 centri italiani di cardiologia e 1443 pazienti. Lo studio, presentato a Praga qualche settimana fa, aveva lo scopo di valutare negli ipertesi l'efficacia della terapia a lungo termine nelle varie età, eventuali effetti collaterali, e soprattutto il comportamento della parete carotidea (analizzata mediante ecografia). Le pareti della carotide degli ipertesi, infatti, presentano con l'andar del tempo, alterazioni che predispongono alla formazione di trombi e alla stenosi. Regolando la pressione arteriosa con il calcio-antagonista si è visto che viene rispettata maggiormente l'integrità anatomo funzionale della parete arteriosa rispetto ad altre terapie (diuretici in particolare), senza effetti indesiderati. Il modello dello studio VHAS messo a punto da tre istituti universitari italiani (Zanchetti, Milano; Dal Palù, Padova; Leonetti, Bologna) dimostra che le concentrazioni intracellulari dello ione calcio hanno grande importanza sia nei normali processi fisiologici sia nell'ipertensione, sia in malattie associate come aterosclerosi e ischemia miocardica. Renzo Pellati
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA
LUOGHI: ITALIA
GRAN conoscitore di lingue, tra cui l'arabo, studioso di letteratura greca e latina, ricercatore di antichi testi italiani, provenzali, francesi, catalani, Francesco Redi fu anche un pioniere dei moderni studi linguistici, ebbe l'incarico di lettore pubblico di lingua toscana nello Studio Fiorentino, curò un vocabolario di voci aretine ed entrò, fra i primi, nell'Arcadia. Come prosatore scrisse le briose e umanissime Lettere, come poeta è famoso soprattutto per il ditirambo "Bacco in Toscana", lode dei vini della regione, già celebri in quei tempi, che fu seguito dall'incompiuto " Arianna inferma", dedicato alle acque. Il Redi fu nominato Arciconsolo dell'Accademia della Crusca, della quale corresse il Nuovo Vocabolario. In questo abbandonò il latino e il greco nella nomenclatura di animali, piante e minerali, introducendo termini toscani usati alla corte medicea. Se proprio era costretto a ricorrere a vocaboli classici, li ritoccava in modo che si potessero adattare alla struttura fonomorfologica della lingua italiana. Purtroppo nel lavoro al Vocabolario il celebre studioso non fu molto onesto: alterò e inventò autori e testi. Errare humanum est, perseverare diabolicum... E il nostro continuò nella frode per tutto l'arco dei quarant'anni di collaborazione al monumentale Vocabolario, lasciando così una disonorevole macchia sulla sua fama di grande uomo di cultura. (a. b.)
ARGOMENTI: MATEMATICA
LUOGHI: ITALIA
TUTTOSCIENZE ha ricevuto, in seguito al mio articolo "Pitagora K.O.", una serie di lettere risentite, a causa di un paragrafo che riporto testualmente: "La geometria della scacchiera è strana: ad esempio, in essa fallisce il teorema di Pitagora. Se infatti dividiamo la scacchiera lungo una diagonale, si ottiene un triangolo rettangolo in cui sia i lati che la diagonale hanno una lunghezza di 8 caselle: in altre parole, un triangolo retto equilatero". I lettori mi hanno accusato di lesa maestà e di eresie matematiche per aver infangato il buon nome del povero Pitagora da un lato, ed aver divulgato notizie false e tendenziose dall'altro, perentoriamente intimandomi di fare pubblica ammenda. Ma, come è noto, i criminali sono recidivi: colgo dunque l'occasione per tornare all'attacco del teorema di Pitagora, mostrando un'altra situazione in cui fallisce. Questa volta coinvolgerò, invece degli scacchisti, gli automobilisti: anch'essi adottano, per questioni di forza maggiore, una geometria che non è quella solita. Andando da un punto all'altro della città non si può infatti (fortunatamente]) procedere attraverso le case (stiamo parlando di automobili, e non di ruspe), ma si è costretti a girare attorno agli isolati, seguendo un percorso a zig-zag lungo le strade: la distanza che interessa l'automobilista non è dunque quella (euclidea) "in linea d'aria", ma quella stradale. Se l'automobilista si trova a Torino, fra le tante sfortune relative al traffico ed ai parcheggi esso avrà almeno una fortuna: a causa della disposizione romana "a scacchiera" (rieccoci]) delle vie, la distanza stradale tra due punti si può calcolare facilmente, sommando i due cateti del triangolo retto di cui il segmento congiungente i due punti costituisce l'ipotenusa. Per evitare incomprensioni è bene specificare che la distanza appena definita, benché ovviamente diversa da quella euclidea, è comunque perfettamente legittima, come dimostra il fatto che proprio essa (e non quella in linea d'aria) è registrata dal contachilometri. Ma cambiare la nozione di distanza significa anche cambiare il tipo di geometria: non c'è nulla di scandaloso in questo, poiché la matematica non è una religione. Diversamente dal vero Dio, che è unico per dogma, le geometrie sono infatti tante, e tutte ugualmente "vere": l'unica richiesta che la matematica fa è di essere consistenti con le proprie assunzioni. Vediamo allora che cosa succede nella strana geometria dell'auto. La figura 1 mostra un triangolo retto equilatero. Per andare da A a B si devono infatti percorrere sei isolati, in linea retta; e analogamente si devono percorrere sei isolati per andare sia da A a C, che da C a B, questa volta a zig-zag (facendo cioè una o più svolte di 90 gradi): tutti i tre lati hanno dunque la stessa distanza di sei isolati. L'esempio precedente mostra che nella geometria dell'auto il teorema di Pitagora è falso: l'ipotenusa ha lunghezza 6, e dunque il suo quadrato è 36; ma anche ciascun cateto ha lunghezza 6, e dunque la somma dei quadrati dei cateti è 72; non è dunque vero che il quadrato dell'ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati dei cateti. Sempre l'esempio precedente mostra che nella geometria dell'auto non è vero che triangoli isosceli hanno angoli alla base uguali: il triangolo è infatti equilatero, ma non equiangolo. Forse ancora più sorprendente è la figura 2, ottenuta raddoppiando il triangolo precedente: quello che appare come un quadrato della geometria euclidea è invece un cerchio della geometria dell'auto] La distanza stradale di ciascun punto dal centro è infatti sempre di tre isolati, come si può verificare direttamente per ciascuno dei punti evidenziati. Le varie geometrie alternative inventate dai matematici, di cui quella dell'auto non è che un esempio molto banale, non sono puri divertimenti: applicazioni a parte, che ci sono, esse mostrano ai semplici che, come direbbe Amleto, ci sono più cose in cielo e in terra di quante se ne sognino nella loro matematica. Piergiorgio Odifreddi Università di Torino
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA
NOMI: REDI FRANCESCO
LUOGHI: ITALIA
QUEST'ANNO ricorre - forse - il terzo centenario della morte di Francesco Redi, straordinaria figura di scienziato e letterato. Perché forse? Perché la controversia sull'anno in cui egli morì non è ancora stata risolta. I biografi sono infatti divisi fra il 1697 e il 1698, mentre non hanno dubbi sul giorno (1o marzo). L'incertezza è molto curiosa, visto che di lui si conoscono bene tante cose. Nato il 18 febbraio 1626, a ventun anni il Redi si laureò a Pisa in filosofia e medicina. L'anno successivo entrò al servizio dei Medici, granduchi di Toscana, di cui divenne archiatra, vale a dire medico capo, e sovrintendente alla spezieria, ma anche amico, consigliere e quasi segretario. Per conto di Cosimo III dovette perfino occuparsi dei progetti di matrimonio dell'erede. Le beghe in cui lo invischiava la vita a corte erano però compensate dai vantaggi. Uno dei granduchi, Ferdinando II, non solo si comportava da mecenate, ma seguiva personalmente le ricerche dei naturalisti. Il Redi si trovò a contatto con filosofi e scienziati, come l'anatomista e geologo danese Nicola Stenone, con cui collaborò a vari esperimenti. Fece anche parte dell'Accademia del Cimento, fondata dallo stesso Ferdinando II e dal fratello Leopoldo. La permanenza alla corte medicea gli permise di avere sottomano anche animali esotici - una preziosa rarità scientifica per quell'epoca - come scorpioni della Tunisia, cammelli, gazzelle, tigri. Su di essi fece gli esperimenti più vari, seguendo procedimenti d'indagine molto avanzati per quei tempi. I risultati erano poi riferiti in forma di lettera, in una prosa chiara ma dotta, intercalata qua e là da citazioni degli autori più svariati: Aristotele, Virgilio, Petrarca, Dante e addirittura studiosi arabi, tutti nelle lingue originali che conosceva bene. Nel 1664 scrisse una lunga lettera al conte Lorenzo Magalotti, segretario dell'Accademia del Cimento, letterato di grido e suo amico intimo. Intitolata "Osservazioni intorno alle vipere", essa condensava i risultati di oltre trecentocinquanta esperimenti. L'occasione era stata data dall'arrivo di un battello carico di vipere proveniente da Napoli. Esse servivano per preparare, nella spezieria granducale, la triaca, un medicamento allora considerato efficace per ogni male. Il Redi sfatò la credenza che il veleno fosse la bile del serpente: era invece contenuto in ghiandole poste alla base dei denti. Smentì anche che si trattasse normalmente di un liquido innocuo, destinato a diventare tossico come allora si pensava, (anche se raramente mortale), solo nel momento in cui l'animale, disturbato, vi trasferiva la sua ira. Quattro anni dopo lo scienziato pubblicò il suo capolavoro, "Esperienze intorno alla generazione degli insetti", dove dimostrava la falsità della generazione spontanea: le mosche nascono nella carne putrefatta solo quando vi siano state deposte le uova; se con carta o garza si proteggeva la carne, infatti, non vi si sviluppava nessuna mosca. Altri esperimenti, condotti su insetti e vermi presenti nella frutta, nelle galle delle piante e all'interno degli animali, dettero invece risultati contraddittori. Il Redi, ligio al principio che ogni affermazione va dimostrata, non se la sentì dunque di rifiutare in quei casi la vecchia teoria, e l'ammise in via provvisoria. Pensava di tornare in seguito sull'argomento, ma fu preceduto dal Malpighi, il quale nel 1679 dimostrò che neanche nelle galle vi era generazione spontanea. Ci vollero però altri cento anni perché Lazzaro Spallanzani la considerasse inesistente negli infusori, e cento anni ancora per le esperienze di Louis Pasteur, che la negarono anche per i batteri. Aristotele, grande fautore della generazione spontanea, continuò insomma a imporsi fino a tempi molto recenti, e va a onore del Redi l'aver cominciato a intaccarne l'autorità su questo argomento. Nel 1684 pubblicò il primo trattato sui vermi parassiti dei più svariati animali, che insieme col precedente ispirò i livornesi Giovan Cosimo Bonomo, medico sulle galee della flotta granducale, e Giacinto Cestoni, speziale e naturalista. Costoro nel 1687 sottoposero alla correzione del Redi un lavoro rivoluzionario sull'acaro della scabbia. Fino ad allora si credeva che i parassiti esterni si installassero sul corpo umano dopo che una malattia ne aveva alterato gli umori. Qui invece si sosteneva che erano proprio gli animaletti a creare la malattia] Insomma, si sovvertivano le convinzioni del tempo, sulla scia di Galileo: queste scoperte naturalistiche erano sconvolgenti almeno quanto la teoria secondo cui era la Terra che girava intorno al Sole e non viceversa. Si arrivò all'ipotesi che le malattie avessero origine da quegli organismi minuscoli di cui il microscopio - magico marchingegno inventato in quei tempi dall'olandese Van Leeuwenhoek - stava rivelando l'esistenza. Fu così aperta la strada alle teorie dei contagi, che portarono quasi due secoli dopo alle scoperte di Koch e Pasteur. L'impronta indelebile lasciata da Francesco Redi nella parassitologia è rivelata ancora oggi dal termine redia (forma larvale di certi vermi piatti), coniato come omaggio verso la metà dell'Ottocento dallo zoologo Filippo De Filippi. Anna Buoncristiani
ECCO finalmente un libro che del tema dell'energia dà una visione sistemica: si parte dal bilancio energetico del pianeta Terra investito dal flusso della radiazione solare per passare all'analisi delle destinazioni di questa energia, al metabolismo nelle specie viventi, agli accumuli di energia fossile e al loro uso, alle prospettive del problema energetico a lungo termine. Che non sono allegre, perché l'unica soluzione davvero definitiva, la fusione nucleare controllata di idrogeno in elio, rimane ancora lontanissima.
ARGOMENTI: ZOOLOGIA, MARE, STRAGE, ANIMALI, ECOLOGIA
NOMI: VINCENT AMANDA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Le varie specie di Hippocampus
BRUTTE notizie per il cavalluccio marino, da tempi immemorabili simbolo del mare. Per sua sfortuna in Cina è un ingrediente fondamentale di farmaci che curano dall'asma all'arteriosclerosi, passando per l'impotenza e la frigidità sessuale; altrove è ricercato morto o vivo come curiosità. Risultato: più di 20 milioni di esemplari pescati ogni anno, mentre ignoriamo a quanto ammonta la popolazione mondiale, e della sua biologia si conosce solo il periodo riproduttivo. Non si sa dove passa l'inverno, nè quale sia la struttura sociale durante quel periodo. Intanto gli effetti della pesca massiccia sono evidenti sia nella consistenza delle popolazioni, sempre più esigua, sia nella taglia degli animali pescati, sempre più piccola. A lanciare il grido di allarme è Amanda Vincent, la zoologa canadese che da 11 anni è votata allo studio di questi pesci. Un amore a prima vista, dal momento che il maschio del cavalluccio marino è dotato - unico nel regno animale - di un marsupio dove la femmina depone le uova che qui completano lo sviluppo embrionale, e Amanda Vincent è una scienziata con interessi per l'evoluzione della sessualità e una donna con una certa inclinazione al femminismo. Grazie alle sue osservazioni, le prime condotte in ambiente naturale, sappiamo che i cavallucci marini, 39 specie tutte appartenenti al genere Hippocampus, famiglia Signantidi, sono gli unici pesci a formare coppie monogamiche, senza cedimenti ad avventure extraconiugali. Dal Canada alla Tasmania, i cavallucci marini si riproducono durante la stagione calda lungo le coste con praterie di Posidonia, o formazioni coralline, o mangrovie. Attaccati a un'alga o a un corallo con la coda prensile, sono pressoché invisibili. Mimetici, i cavallucci marini sono i camaleonti del mare: cambiano colore a seconda dello sfondo e delle situazioni. Gli individui di una popolazione si spartiscono l'ambiente in territori, secondo una proporzione che privilegia la femmina come superficie ma che in realtà salvaguarda i bisogni alimentari di ognuno. Perché, se lui si occupa dello sviluppo, è lei che deve provvedere di nutrienti le uova. Quindi, poco meno di un metro quadro a un maschio e 10 volte di più a una femmina. Anche quando formano coppia fissa, maschio e femmina mantengono le loro dimore e salvaguardano la relazione con visite quotidiane. Come sempre avviene, tutto comincia con una tenzone fra rivali. I due lui si azzuffano sparandosi a vicenda getti di acqua, puntandosi addosso il muso appuntito come fosse un fucile. Oppure avvinghiati per la coda, si sfidano in una sorta di braccio di ferro ciascuno tirando con tutte le forze, finché, il perdente si fa marrone scuro e molla la presa. Nel mondo dei cavallucci marini il bruno scuro è il colore della sconfitta e il beige chiaro quello dell'amore. Tutto splendente di toni chiari, il vincitore si avvicina alla sua bella e con una serie di contorsioni le esibisce le sue virtù come possibile padre di famiglia. In breve le mostra la capacità del marsupio, pompando dentro acqua ed espellendola fuori a viva forza. Conquistata, lei risponde illuminandosi di toni chiari e subito i due si scambiano una promessa di matrimonio, che nel linguaggio dei cavallucci marini si esprime con una danza a minuetto. Attaccati per la coda a una stessa alga, compiono un lento giro tutto attorno; quindi, coda nella coda, si spostano su un'altra alga per ripetere lo stesso passo. Il tutto va avanti per circa 6 minuti, poi ventre contro ventre, lei infila l'ovopositore nel marsupio del compagno e vi depone circa duecento uova, che lui subito provvede a fecondare. A testimonianza che il matrimonio è stato consumato, lei ora è tutta piatta e lui ha un bel pancione. Dentro il marsupio paterno gli embrioni ricevono ossigeno e nutrimento, come nell'utero di una qualsiasi mamma di mammifero. Durante le 3 settimane della gravidanza, la femmina non abbandona il compagno, neanche se ha l'opportunità di tradirlo. Perché non lo faccia è una bella domanda, che però non c'entra con la nostra storia. Fatto sta che ogni mattina all'alba lei fa visita allo sposo incinto in un luogo prestabilito e qui, tutti splendenti di toni chiari, i due rinnovano con la danza a minuetto il patto d'amore del primo giorno. Subito dopo il parto sono pronti a un nuovo accoppiamento. Questa particolare biologia, con una lunga gravidanza, un legame stabile di coppia, nonché la vita solitaria in ampi territori, rende il cavalluccio marino un animale fragile se è soggetto, come avviene, a una pesca massiccia e se si distrugge l'ambiente costiero in cui si riproduce. Secondo le testimonianze dei pescatori filippini, i maggiori in questo settore, la resa del pescato è diminuita del 70% negli ultimi 10 anni. Non solo ce ne sono di meno, sono anche più piccoli. Nel frattempo è cresciuta la domanda e il cavalluccio marino paga con la pelle il fiorire economico della Cina. Oggi al mercato di Hong Kong vale 1200 dollari al chilo: di fronte a tali cifre non ci sono argomenti per limitarne la pesca. Secondo Amanda Vincent, non rimane che coinvolgere i pescatori nel problema, stabilendo delle regole alla pesca. Pioniere nell'esperimento il villaggio di Handumon nell'isola di Jandayan delle Filippine, i cui pescatori hanno costruito in mare speciali nursery di reti dove portano ogni maschio in gravidanza che capita nel loro pescato. Solo a parto avvenuto il maschio può essere catturato di nuovo e venduto. Per ora non si sa se e quanto questo sistema funziona. In attesa dei risultati, se ci tenete a questo pesce dal menage così speciale, evitate di incoraggiarne la pesca. Non comprate un cavalluccio marino, morto o vivo che sia.Maria Luisa Bozzi
PIU' di mille articoli pubblicati nel 1995 da "Tuttoscienze", centinaia di illustrazioni didattiche, una antologia dei servizi più significativi del telegiornale scientifico della Rai "Leonardo", un semplice ma funzionalissimo sistema di navigazione per cercare le informazioni desiderate partendo da qualche parola-chiave: è il Cd-Rom "Tuttoscienze '95 e Leonardo", pronto a girare su qualsiasi personal computer multimediale. Chi non fosse riuscito a trovarlo in edicola può ordinarne una copia contrassegno tramite il tagliando qui accanto. Il prezzo è quello dell'edicola, senza aggravi di spese postali.
ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ENERGIA
NOMI: FERRERO RICHI, CANTORE MARCELLO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)
TABELLE: C. Il «triangolo luminoso» composta dal forte di Exilles,
Fenestrelle e Sacra di San Michele
LE più recenti soluzioni dell'illuminotecnica, la poesia, arcaiche architetture religiose e militari, le montagne: sono gli ingredienti di un curioso triangolo geografico appena nato in Piemonte, a cavallo tra le Valli Susa e Chisone. I tre vertici dello scaleno alpino sono la fortezza di Fenestrelle (Val Chisone), quella Exilles (Val di Susa), e il millenario monastero della Sacra di San Michele all'imbocco di quest'ultima. Tutti e tre i monumenti sorgono isolati tra i boschi e tutti e tre sono stati illuminati di recente con poderosi impianti luce. Ultima ad uscire dalle tenebre è stata la fortezza di Exilles, a mille metri d'altezza, che a giugno diventerà sede staccata del Museo della Montagna di Torino. In questo caso i criteri di illuminazione sono stati "cinematografici", firmati da Richi Ferrero, torinese, regista del Gran Teatro Urbano, che da anni lavora con la luce. Ogni posizionamento dei fari è stato fatto a vista, con prove dirette sul campo. Alla fine sono state usate 22 lampade a ioduri metallici a luce fredda, da 1800 watt ciascuna, per non guastare le nuances naturali delle pietre, due lampade a gas che producono un tenue colore verde azzurro, " freddo", per esaltare i volumi interni della piazzaforte, e alcuni riflettori da mille watt. C'è un solo faro a vapori di sodio (arancione), che spezza l'uniformità cromatica oltre l'ingresso della ripida Strada dei Cannoni. Decine di migliaia di lumen hanno prodotto un miracolo, trasformando un tetro edificio militare sabaudo, in una specie di monastero tibetano, una magia notturna, che scompare di colpo, alle 2 quando scattano gli interruttori a tempo. L'allestimento ha tenuto conto anche di altri fattori, come l'inquinamento luminoso, non solo del cielo, ma delle foreste circostanti. I riflettori sono stati quindi opportunamente schermati o "bandierati", per non accecare nè le stelle, nè cervi e daini che popolano il parco del Gran Bosco di Salbetrand. L'immane fortezza di Fenestrelle in Val Chisone è stata invece illuminata dall'Enel, con un progetto (realizzato con simulazioni al computer), di Ferdinando Prono, un tecnico che da anni è responsabile di illuminazione pubblica e monumenti. Qui l'impresa è stata più impegnativa ancora, dato che il monumento parte dal fondo valle e s'inerpica per circa 700 metri di dislivello fino alle ridotte in quota. In questo caso sono stati posizionati 108 punti luce, lampade a vapori di alogenuri metallici a luce bianca, scartando le lampade a vapori di sodio (luce arancione), che avrebbero alterato i colori naturali. Bastioni e risalti di difesa, sono di serpentino grigio (pietra locale), con venature verdi e tracce di ferro: questi riflessi mettallici sarebbero stati in pratica oscurati. Le lampade hanno una durata media di 4/5 mila ore, che possono quasi raddoppiare grazie a stabilizzatori di corrente. La Sacra è stata illuminata per prima, già nel '94, su progetto di Marcello Cantore, ingegnere della Toelco di Caprie. Trenta i kilowattora impiegati, per 32 centri luminosi, composti da lampade accoppiate di alogenuri e vapori di sodio. Anche qui è stata fatta una simulazione al computer, salvi poi gli aggiustamenti sul campo. Grandi le difficoltà del terreno, poiché il monumento sorge a picco sulla valle, e grande cura nell'occultare fari e cavi, che risultano invisibili di giorno. Renato Scagliola