TUTTOSCIENZE 23 ottobre 96


NUOVO ELICOTTERO ITALIANO Una libellula da 1500 cavalli L'A109 Power, una macchina per ogni emergenza
Autore: SCAGLIOLA DAVIDE

ARGOMENTI: TRASPORTI
ORGANIZZAZIONI: A109 POWER
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D.T. Scheda tecnica dell'elicottero A109 Power

E' appena nato il pi veloce e potente elicottero biturbina leggero di questi tempi. Ed è tutto made in Italy. L'A109 Power è stato infatti progettato e realizzato negli storici stabilimenti (gi... della Siai Marchetti), dell'Agusta di Vergiate in provincia di Varese. Raggiunge i 160 nodi di velocit... (quasi 300 chilometri all'ora) e si lascia alle spalle di un buon dieci per cento gli altri biturbina della stessa categoria. E' stato presentato qualche settimana fa dalla stessa Agusta, subito dopo aver ottenuto dalla FAA (l'equivalente statunitense del nostro Registro Aeronautico Italiano) la piena certificazione. Ed è oggi il primo elicottero di questo tipo ad aver ricevuto l'abilitazione completa al volo strumentale e notturno (IFR). Nel 1997 otterr... anche la certificazione dalla britannica CAA. In realt... l'A109 Power non è un velivolo completamente nuovo, ma l'ottimo miglioramento del precedente A109, progettato e realizzato nel 1971 e gi... diffuso in pi di 600 esemplari in 40 Paesi. Vigili del fuoco, squadre di soccorso ospedaliero, alpino e urbano, eserciti, polizie e guardie costiere di tutto il mondo si avvalgono da anni dell'A109C e dell'A109K2. La tradizione aeronautica dell'Agusta risale al 1907 quando il suo fondatore, Giovanni Agusta, decoll con il suo primo velivolo. Dal 1923 in avanti la societ... cominci quindi la realizzazione di velivoli ad ala fissa. Nel 1932, grazie ad un accordo con l'americana Bell, l'Agusta entra nel mondo del volo verticale iniziando la costruzione su licenza di elicotteri per la Boeing, la McDonnell Douglas e la Sikorsky. Nel giro di pochi anni vennero ideati e prodotti anche velivoli originali (9 prototipi volanti di cui due modelli, l'A101G e l'A106 di buon successo) per uso civile e militare. L'A129 controcarro Mangusta ad esempio, concepito nel 1983, fu il primo elicottero da combattimento intera-mente progettato e realizzato in Europa. E oggi l'Agusta con l'ampliamento della famiglia degli A109 si posiziona, per tecnologia e affidabilit..., tra le pochissime industrie elicotteristi che al mondo. E, proprio grazie alle caratteristiche dell'A109 Power, gli elicotteri biturbina leggeri verranno ora impiegati sempre pi di frequente in missioni di pubblica utilit.... I due motori Pratt & Whitney PW 206C, controllati automaticamente dal sistema FADEC (Full Authority Digital Engine Control), consentono infatti prestazioni decisamente superiori: soprattutto in condizioni difficili o d'emergenza (l'A109 Power pu lavorare tra -40o e +50o) grazie alla maggiore potenza dei propulsori in grado di erogare fino a 732 SHP ciascuno. Anche la resistenza ai venti laterali è aumentata sino a raggiungere la manovrabilit... in sicurezza anche contro correnti di 50 nodi (il triplo del minimo richiesto). Il mozzo rotore in titanio, con forcelloni e pale in materiale composito e i 4 cuscinetti elastomerici (anzich i 24 esistenti nel modello precedente), conservano i vantaggi di un rotore completamente articolato, riducendo per notevolmente il peso della testa rotore (ben trenta chili in meno), il numero dei componenti e di conseguenza la manutenzione e i costi. Pure l'aerodinamica è stata migliorata; e grazie alla buona economia dei motori sono aumentati anche l'autonomia di volo e il carico utile trasportabile. L'A109 Power a seconda delle diverse configurazioni d'uso e dei serbatoi carburante (604 litri standard e 267 litri ausiliari) pu volare per circa 600, 800 e 900 chilometri con un peso massimo al decollo di 2720/3000 chilogrammi. Un'altra importante novit... è l'estrema versatilit... delle possibili configurazioni interne. La versione passeggeri pu ospitare 6 persone e 2 piloti (o 7 passeggeri e 1 pilota), mentre la configurazione di eliambulanza per esempio pu contenere 1 o 2 barelle, 2 infermieri e 1/2 piloti. Le conversioni d'uso poi sono veloci e pratiche. La cabina è stata allargata fino a 2,10 metri di lunghezza, 1,58 metri di larghezza e 1,28 metri di altezza. E' stato ricavato anche un nuovo vano laterale portabagagli di quasi un metro cubo di capienza. Il carrello retrattile è stato ridisegnato e viene ora fatto rientrare ventralmente anzich lateralmente, guadagnano spazio e aerodinamicit. ... L'avionica (l'insieme degli strumenti di controllo del volo), dispone di radar per le condizioni atmosferiche a colori, di un radar altimetrico, sistema di navigazione GPS (Ground Position System) e monitor a cristalli liquidi polifunzionali IDS (Integrated Display System) per il controllo e la visualizzazione dei parametri motori e degli al-larmi. In pi le prestazioni elevate, la migliore tecnologia e la versatilit... d'uso sono affiancate da un minor costo di gestione e manutenzione. Per ogni ora di volo si prevedono in media infatti solo 400 dollari di spesa Davide Scagliola


GLI ALLIGATORI DELLE EVERGLADES Il più grande mangia il più piccolo Unici nemici dei giovani, l'uomo e i rettili adulti
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: PARCO NAZIONALE DELLE EVERGLADES
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, FLORIDA
TABELLE: D. Muso e denti dell'alligatore del Mississippi

PARCO Nazionale delle Everglades, in Florida. Una giovane femmina di alligatore (Alligator mississippiensis) afferra con la bocca un ciuffo d'erba, lo sradica con un morso e se lo trascina fino a un mucchio d'erba e di fango. Si sta costruendo il nido. Quando il cumulo raggiunge il diametro di un metro e mezzo e l'altezza di una sessantina di centimetri, il trasporto di materiali cessa. Allora l'alligatore femmina sale in cima al mucchio e spingendo con forza i piedi riesce a scavare nel centro una depressione profonda circa trenta centimetri. A questo punto estenuata dallo stress, scivola via e va a riposarsi poco lontano nella tana scavata sulla sponda del lago da un altro alligatore, forse diecimila anni prima. La mattina dopo, non appena spunta il sole, eccola di nuovo all'opera. Ora deve deporre le uova. Sale sul nido, si accovaccia sulla cavità e vi fa cader dentro ventiquattro ovetti bianchi ellissoidali lunghi circa cinque centimetri. Poi però deve nasconderli accuratamente, con tutti i mangiatori di uova che ci sono in circolazione. Perciò mamma alligatore si dà un gran da fare a raccogliere altra erba che deposita sulla cavità fino a occultarla completamente. Il suo compito però non è ancora terminato. Bisogna fare in modo che il sole non asciughi troppo il nido. Per mantenerlo umido, il rettile ci versa su ripetutamente acqua con la coda oppure ci urina sopra nel caso che il livello dell'acqua si abbassi troppo. Il calore prodotto dalla decomposizione dei vegetali riuscirà a mantenere le uova al giusto tepore. Passano due mesi. E un bel giorno i piccoli prigionieri dell'incubatrice naturale incominciano a far sentire la loro vocina querula. La madre, che ha orecchio fino, la sente immediatamente e si affretta a rimuovere lo strato d'erba e di fango che ricopre le uova. All'interno intanto gli alligatorini si ingegnano a spaccare il guscio servendosi del dentino corneo che è spuntato loro sul naso. Quando finalmente, dopo ripetuti sforzi, riescono ad affacciarsi sulla scena del mondo, sono lunghi una ventina di centimetri (l'adulto può raggiungere i sei metri di lunghezza). Per il momento non hanno problemi di cibo. Dispongono di un biberon naturale, il sacco vitellino, che la madre ha dato loro in dote. Ma in capo a pochi giorni questa fonte alimentare si esaurisce e allora è giocoforza lasciare il nido e mettersi alle calcagna della madre. Provvederà lei a nutrirli e a tenerli sotto tutela per un pezzetto, fino a che i piccoli non saranno in grado di arrangiarsi da soli. Quando raggiunge il metro, il giovane alligatore non ha più paura dei predatori. I suoi soli nemici sono l'uomo e gli adulti della sua stessa specie. I quali hanno un brutto vizietto: sono cannibali. Ogni volta che il livello del fiume si abbassa e tutti gli alligatori si affollano nei punti più profondi, i rettili si trovano gomito a gomito e si mangiano allegramente tra loro. Il più grande mangia il più piccolo. E se non se lo mangia tutto intero, gli divora magari una zampa o la coda. E siccome il periodo più arido coincide con la stagione degli amori, diventa difficile stabilire quanta parte dell'aggressività sia imputabile alla fame o al sovraffollamento e quanta parte dipenda dalla competizione sessuale. Ciascun maschio si accoppia con varie femmine. Ma se, mentre è in dolce tete-à-tete con una delle sue belle, viene un rivale a disturbarlo, si avventa furioso contro di lui e come minimo gli spezza una mascella. Il povero sconfitto, se sopravvive, non può più catturare le prede ed è destinato a morir di fame. Gli stagni in cui vivono gli alligatori non sono «incidenti» geologici. Gli animali stessi li creano e li mantengono. In che modo? L'alligatore non fa altro che scavare il terreno con le forti zampe posteriori, sradicare ciuffi di vegetazione e trasportarli ai bordi insieme con manciate di fango e materiali vari. Così si fabbrica la tana, un tunnel lungo anche sei metri, che si viene a trovare anche un paio di metri sotto il livello del suolo. Fin tanto che vive l'alligatore non fa altro che ampliare la sua galleria, aumentarla di profondità, liberarla dalle erbacce. Così contribuisce a rendere gli stagni permanenti. Si dà la caccia all'alligatore per la sua pelle. A furia di ammazzarne, il rettile è stato completamente sterminato in molte zone degli Stati Uniti. Solo le Everglades sono rimaste una roccaforte della specie. Ma anche qui il numero degli alligatori è in netto declino. Colpa del bracconaggio che viene praticato in larga scala in barba a tutte le leggi protezionistiche. Fino agli Anni Cinquanta si vedevano nel Parco centinaia di esemplari, molti dei quali di grossa taglia. Oggi ce ne sono assai meno ed è difficile trovarne di grandi dimensioni. Di notte i bracconieri scivolano sui fiumi con le loro imbarcazioni leggere. Non appena vedono gli occhi di un alligatore che brillano nel buio, gli puntano contro una torcia elettrica e lo abbagliano. In quel preciso momento, dal fucile del bracconiere parte una scarica quasi sempre mortale. Se il colpo non va a segno, c'è il rischio che il rettile, agitandosi furiosamente, capovolga l'imbarcazione. E allora l'uomo colpisce l'animale con un netto colpo di ascia. Da un po' di tempo a questa parte sono sorti allevamenti in vari Paesi per le specie più pregiate di coccodrilli in senso lato, cioè caimani e alligatori, gaviali e coccodrilli veri e propri. Si prelevano in natura le uova dei rettili e le si fanno incubare artificialmente. Oppure si catturano e si allevano i coccodrillini appena nati. Sono «pensionanti» molto economici. Nel primo anno di vita bastano un paio di chili di cibo per sfamarne una cinquantina. All'età di tre anni vengono uccisi per ricavarne la pelle. E in certi casi anche la carne. Risultato di questa fioritura di allevamenti: è ricomparsa nel menù dei ristoranti di alcuni Paesi la voce «Brodo di coccodrillo», un'autentica «delicatesse» per il palato dei buongustai più raffinati. Isabella Lattes Coifmann


OMS Indagine sulla qualità della vita
Autore: ROVERA GIAN GIACOMO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: OMS ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA'
LUOGHI: ITALIA

L'ORGANIZZAZIONE mondiale della sanità (Oms) definisce la qualità della vita (Quality of life: in sigla «Ql») come «la percezione che gli individui hanno della loro posizione nella vita nel contesto della cultura e del sistema di valori nel quale vivono, in relazione a obiettivi, aspettative, abitudini, preoccupazioni». E' una concezione ampia, che riconosce sia la soggettività sia la multidimensionalità e cui fa riferimento una complessa rete di variabili personali: la salute fisica, lo stato psicologico, il livello di autonomia, le relazioni sociali, il tipo di lavoro, le credenze personali, l'ambiente. Per questa ragione non si può stabilire una semplice equivalenza semantica o concettuale tra «qualità della vita» e termini quali «stato di salute» fisico o mentale, «soddisfazione per la propria vita», o «benessere/malessere» . Infatti gran parte degli strumenti di misura biomedici (come i tassi di morbilità e di mortalità), nonostante forniscano misurazioni dell'impatto che le malattie hanno sull'individuo che ne è affetto, non valutano di per sè la «qualità della vita». E' pure per questi motivi che in un recente congresso internazionale svoltosi a Torino si sono discusse le metodologie, le finalità, le aree di applicazione di questo «indicatore mancante» in campo sanitario. La natura multidimensionale della nozione di «qualità della vita», rispecchiata dalla complessa struttura, è suddivisa in molti filoni di ricerca, denominati rispettivamente: a) area fisica, b) area psicologica, c) livello di indipendenza, d) rapporti sociali, e) ambiente, f) spiritualità/religione, g) credenze personali, h) aspettative, i) prospettive esistenziali. Ciascun territorio è suddiviso a sua volta in una serie di sotto-aree o sezioni, che approfondiscono in maniera specifica ciascuna delle aree indagate: ad esempio, l'area fisica include le sezioni «dolore e disagio», «energia e stanchezza», «sonno e riposo» eccetera. Le misurazioni sulla «qualità della vita» sono sviluppate in studi multicentrici con una metodologia di comparazione transculturale. Lo strumento ha strutture diverse per impieghi diversi. La parte centrale dei questionari consente di valutare la Ql in gruppi di varie popolazioni. Le versioni differenziate invece permettono una valutazione specifica della Ql di gruppi o popolazioni selezionate, in relazione a problematiche specifiche (ad esempio nei pazienti oncologici, geriatrici, nefropatici, anoressici e bulimici, psichiatrici). E' anche disponibile una versione più breve del questionario sulla Ql, finalizzata all'impiego clinico nell'ambito di studi controllati, nei quali sono necessarie valutazioni ripetute e protratte. Gli strumenti di valutazione sulla qualità della vita hanno quindi una molteplicità di impieghi: nell'ambito della pratica medica essi forniscono un ausilio prezioso per i clinici ed il personale sanitario, al fine di individuare e scegliere il trattamento adeguato tra quelli disponibili; sono fruibili per il miglioramento del rapporto tra gruppo curante- paziente-familiari e per la qualità dell'assistenza; concorrono a valutare l'efficacia di differenti interventi; aumentano l'attenzione circa gli aspetti etici e deontologici correlati alle prestazioni mediche; nel campo della ricerca possono essere indicatori in farmacoeconomia; nella elaborazione della politica socio- sanitaria introducono il monitoraggio di nuove strategie e modelli terapeutici. Per questi motivi lo studio della Ql, attraverso valutazioni riproducibili e confrontabili tra malattie differenti ed anche nel campo della prevenzione, costituisce una delle linee guida a livello assistenziale, di ricerca medica e nel rapporto col paziente, consentendo di integrare i dati «forti», ottenuti con gli strumenti di valutazione tradizionali, con dati più «flessibili» ed individualizzati. Gian Giacomo Rovera Università di Torino


CHIRURGIA Ora c'è anche il paziente virtuale Per provare su monitor interventi difficili
Autore: BIANCHI SILVIO, RAMIERI GUGLIELMO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Ricostruzione in tre dimensioni delle strutture ossee e dei tegumenti di un paziente virtuale

I chirurghi riparano strutture danneggiate, tolgono parti malate o ricostruiscono parti non funzionanti o mancanti del corpo. Per fare questo in maniera sicura ed efficace, il chirurgo deve sapere dove cercare, cosa troverà sulla sua strada e cosa il suo passaggio potrà causare. La chirurgia moderna però non si accontenta delle conoscenze anatomiche tradizionali: le complesse tecniche operatorie attuali richiedono conoscenze più approfondite e individuali, cioè proprio sul paziente da operare. Come la navigazione moderna fa ampio uso di strumenti elettronici (radar, sonar, satelliti), anche la navigazione all'interno del corpo umano si giova sempre più dell'informatica per indagare l'organismo prima di un atto chirurgico. Questo grazie agli sviluppi dei metodi di elaborazione grafica che permettono di ricostruire modelli tridimensionali e dinamici partendo dalle informazioni raccolte con la tomografia computerizzata. Di queste tecniche e delle loro applicazioni si è parlato nel Convegno internazionale «Applicazioni 3D in medicina» organizzato dalle Divisioni di chirurgia maxillo-facciale e di radiologia dell'Università di Torino, conclusosi il 6 ottobre. Oggi, grazie alle metodiche di disegno elettronico, CAD e modellazione solida, variamente modificate per adattarsi alle esigenze mediche, è possibile «montare» nello spazio, strato per strato, le informazioni dei diversi microvolumi del corpo e ricostruire sul monitor di un computer una sorta di paziente virtuale, contenente un gran numero di informazioni, anatomiche e funzionali. In questo paziente virtuale il chirurgo può muoversi liberamente per esplorare prima di un intervento l'anatomia dai più diversi punti di vista, in maniera non molto diversa da quanto fa un pilota durante l'addestramento in un simulatore di volo. Può in particolare provare a percorrere, ripetutamente ed in massima sicurezza, la futura via operatoria, «sfogliando» in sequenza i diversi strati anatomici, identificando le strutture, normali o patologiche, con facilità, grazie alla disponibilità dei dati strumentali (radiodensità, concentrazione di isotopi, tempo di rilassamento) ed evidenziando in sicurezza strutture nobili non accessibili durante l'atto chirurgico. Ma il limite ancora da superare, dal punto di vista del chirurgo, consisteva fino a poco tempo fa nella impossibilità di «toccare» e di «manipolare» le strutture, di simulare cioè realmente un intervento. Tale limite è stato recentemente superato grazie all'utilizzo in campo medico delle metodiche di replicazione solida, che permettono di costruire una replica reale del paziente o di parti del suo organismo, e che già si mostrano di grande utilità nella programmazione della chirurgia tumorale, nel trattamento delle malformazioni congenite, in traumatologia. Se il paziente virtuale offre la possibilità di visualizzare prima di un intervento molte diverse situazioni, la disponibilità di repliche solide permette invece di provare materialmente, e ripetutamente, procedure chirurgiche delicate e, tradizionalmente, irripetibili, nonché di allestire o adattare prima dell'operazione innesti alloplastici, o di modellare mezzi di sintesi (chiodi, placche), con precisione e risparmio di tempo, o addirittura di crearli direttamente partendo da un modello grafico creato elettronicamente sulla base dell'immagine in 3D. Al convegno di Torino grande interesse hanno riscosso le nuovissime tecniche per trasferire la disponibilità delle informazioni 3D al momento operatorio. Questo insieme di tecnologie viene definito «chirurgia guidata» e permette di riportare l'immagine e la posizione dello strumento chirurgico sul paziente virtuale, di modo che chi opera possa seguire su quest'ultimo il procedere del suo strumento, con il vantaggio di poter liberamente visualizzare strutture mascherate dai più diversi punti di vista. Attualmente la ricerca è impegnata nel difficile sviluppo tecnologico dei sistemi di collimazione, tramite telecamere o sensori (magnetici o ad infrarossi), tra l'immagine virtuale del paziente ed i dati riguardanti l'esatta posizione, sul tavolo operatorio, del paziente ed eventualmente degli strumenti chirurgici. L'insieme di queste tecnologie promette entusiasmanti sviluppi, con miglioramento dei risultati operatori e minori costi sociali delle procedure chirurgiche. Silvio D. Bianchi Guglielmo Ramieri Università di Torino


LA FONDO' HAHNEMANN Omeopatia, 200 anni di polemiche speranze e delusioni
AUTORE: PREDAZZI FRANCESCA
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, MEDICINA E FISIOLOGIA
PERSONE: HAHNEMANN SAMUEL
NOMI: HAHNEMANN SAMUEL
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, GERMANIA

L'OMEOPATIA compie 200 anni. Nel 1796 il medico tedesco Samuel Hahnemann elaborava una curiosa teoria, «similia similibus curantur» (i simili si curano con i simili) secondo la quale un malato per guarire deve ingerire una porzione infinitesimale di quelle stesse sostanze che in una persona sana causano i sintomi della malattia. Figlio di un pittore di porcellana di Meissen, Hahnemann era allora un medico quarantenne che viaggiava tra le maggiori città della Sassonia (Dresda, Lipsia, Gotha) sconsolato per lo stato della medicina scolastica dell'epoca. In questo non aveva torto: erano i tempi in cui la medicina procedeva a forza di salassi e dosi di velenosissimo mercurio che non di rado affrettavano la dipartita del paziente. Hahnemann fu rivoluzionario: considerando l'essere umano come un «tutto» e la malattia come disturbo della «interezza» del paziente, passava lunghe ore a fare l'anamnesi dei suoi malati, in particolareggiati colloqui, certo non comuni nella medicina del '700. L'omeopatia (Hahnemann coniò il termine nel 1807) non seguì la sorte degli innumerevoli metodi alternativi che appaiono e scompaiono nella storia della medicina, ma riuscì a conquistare un nucleo di pazienti fedeli che rimase tale nel corso degli anni, come ha documentato una mostra del Museo d'Igiene di Dresda dal titolo «Omeopatia 1796-1996. Una scienza medica e la sua storia». Curata dalla sociologa Sigrid Heinze, la mostra ha proposto una raccolta degli scritti e degli oggetti del fondatore dell'omeopatia (che a 80 anni sposò in seconde nozze la francese Melanie e aprì una farmacia omeopatica di grande successo a Parigi), nonché una nutrita documentazione sui grandi entusiasmi e sui violenti rifiuti che l'omeopatia ha suscitato. Lo scetticismo della medicina ufficiale nei confronti dell'arte terapeutica di Hahnemann si basa sul principio stesso dell'omeopatia, che somministra ai pazienti le sostanze terapeutiche diluite fino all'irriconoscibilità: nella preparazione D30 il paziente dovrebbe bere 300.000 litri di medicina per assorbire una molecola di sostanza terapeutica. Gli omeopatici rispondono che pur mancando ancora le conoscenze necessarie che spiegano il perché, non ci sono dubbi sull'efficacia della medicina omeopatica. «In Germania ci sono diversi veterinari omeopatici - dice Sigrid Heinze - e negli animali non si può certo parlare di un effetto placebo». Dal punto di vista scientifico l'efficacia della cura omeopatica viene contestata proprio per l'estrema diluzione delle sostanze attive, di origine minerale o vegetale. Il periodo più sfortunato per i medici omeopatici fu nel dopoguerra, quando la medicina ufficiale fece passi da gigante. Ma a partire dagli Anni 70, in coincidenza con alcuni clamorosi fallimenti della medicina - per esempio i bambini nati senza braccia perché le madri avevano preso in gravidanza il talidomide - in Germania si è avuta una rinascita dell'omeopatia. Ci sono oggi tremila medici omeopatici, che hanno seguito un corso della durata di tre anni, e un milione e mezzo di pazienti. Un elemento curioso nella storia dell'omeopatia è stato l'impegno inusuale dei pazienti per la «loro» medicina. Fin dal 1800 gli appassionati dell'omeopatia si organizzarono in associazioni e comitati. Ci furono anche personaggi famosi che contribuirono alla notorietà di questa forma di terapia. Goethe scriveva di un «medico meraviglioso», il maresciallo Radetzky e Beethoven si lasciarono curare da Hahnemann. Oggi il grande musicista Yehudi Menuhin è patrono della mostra («Solo un musicista può capire il potere dell'impercettibile», scrive Menuhin). Prima di lui, Paganini cercò una cura omeopatica per il fastidioso priapismo da cui era affetto: senza successo. Francesca Predazzi


Ammalarsi di MEDICINA ALTERNATIVA
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: NATURE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Omeopatia, medicina alternativa

SFIDUCIATO dai risultati della medicina ufficiale, disilluso dalla scarsa efficacia di certi farmaci o semplicemente insoddisfatto del proprio medico, un vasto settore del pubblico si rivolge a quella che viene denominata medicina alternativa. Quant'è diffuso questo fenomeno? Quali sono le sue conseguenze? Si calcola che oltre un quarto delle spese individuali in trattamenti di vario tipo in Europa sia rappresentato da farmaci non prescritti dai medici. Tra i preparati in uso, molti vengono acquistati al di fuori delle farmacie, in erboristerie o in negozi di dietetica. Per la grande maggioranza non sono mai stati accertati una reale efficacia terapeutica ed eventuali effetti tossici tramite le rigorose procedure cliniche che sono richieste in tutti i Paesi per i farmaci «ufficiali». E' quindi logico domandarsi quale possa essere la frequenza e la gravità di danni ed effetti secondari non desiderabili. Un esempio popolare è costituito da certe vitamine usate da milioni di persone in megadosi non solo completamente ingiustificate ma in certi casi pericolose. Lo stesso vale per alcuni amminoacidi venduti liberamente al pubblico perché ritenuti benefici o innocui e rivelatisi poi tossici ad alte dosi. Un esempio più recente potrebbe essere quello della melatonina, della cui tossicità sappiamo ancora poco. Una indagine compiuta in Australia e pubblicata sulla rivista Lancet (Mc Lennan, 347.569 - 573, 1996) denuncia il fatto che ormai la metà della popolazione di quel Paese ricorre a vari trattamenti non prescritti dai medici. Questi vanno dall'agopuntura alla manipolazione chiropratica, dall'omeopatia all'erboristeria. Si presume infatti da parte del pubblico che i rimedi che vanno sotto l'etichetta di medicina alternativa siano «naturali» e quindi sicuri e privi di quegli effetti collaterali non desiderabili che sono invece caratteristici di tutti i farmaci «non naturali» a seconda della dose somministrata, della malattia e del paziente. I risultati di ben due studi dimostrano che non è così, e suggeriscono la necessità di indagare in modo molto più rigoroso di quanto prescritto finora dall'autorità sanitaria sulla sicurezza di certi interventi allo scopo di definire l'importanza del problema e se necessario arginare al massimo i danni per un pubblico spesso poco o male informato. Il primo studio, riportato nella rivista Nature del 30 maggio scorso, fu compiuto da un gruppo di ricercatori della facoltà di Medicina dell'Università di Exeter in Australia. Tra i 386 soggetti che risposero a un questionario, il 91 per cento disse di essere fortemente in favore della medicina alternativa e il 96 per cento di aver provato un beneficio da questa nella qualità di vita. A sorpresa, quando gli stessi individui vennero interrogati sui risultati del trattamento, il 24 per cento denunciò di aver sofferto di effetti collaterali non desiderati da parte degli stessi trattamenti. In testa alla statistica per la massima frequenza di effetti collaterali troviamo la manipolazione chiropratica con il 16 per cento divisi in dolore, senso di stanchezza e capogiro. Al secondo posto (12,5 per cento) compare l'agopuntura, con peggioramenti, disturbi mentali, stanchezza, dolore e traumi prodotti dalla puntura stessa. Il 10 per cento degli utenti dell'omeopatia si lamenta di un peggioramento, di effetti mentali e di disturbi a carico dell'apparato digerente. L'uso di erbe cosiddette «medicinali» dimostra la frequenza più bassa di effetti collaterali cioè l'8 per cento. I dati di questo primo studio australiano confermano i risultati di un altro studio pubblicato precedentemente pure su Lan cet nel 1995 da Nordheim e Fonebo. Un secondo studio degli stessi autori australiani invece di interrogare i consumatori di medicina alternativa si rivolse a tutti i medici di base esercitanti in due cittadine (Devon e Corn wall). Il numero di pazienti raggiunto da questa seconda indagine fu di 972. Anche qui la questione principale era se il paziente avesse notato effetti collaterali indesiderabili come conseguenza della «terapia». Ben il 38 per cento riferì di aver sofferto di effetti collaterali in seguito al trattamento. In testa per frequenza (15 per cento) e soprattutto per gravità sono gli interventi manipolativi chiropratici con fratture ossee, danni gravi a strutture nervose e protrusioni dei dischi intervertebrali. L'agopuntura denunciava una frequenza molto minore e così l'omeopatia e la «medicina» delle erbe. Anche tra queste ultime si lamentavano però casi di tossicità epatica, supersensibilità ai farmaci (anafilassi) oltre a numerosi casi di disturbi probabilmente di natura psicosomatica. Più grave è certo la statistica degli interventi manipolativi sullo scheletro, con tre fratture ossee, due complicazioni neurologiche gravi quali l'emisezione del midollo spinale con paralisi (emiplegie) e una protrusione dei dischi intervertebrali. Questi dati confermano risultati riportati in precedenza dalla letteratura ortopedica e neurologica internazionale circa la pericolosità di certe manovre ad esempio nel caso in cui non sia stata ben accertata la natura del dolore (potrebbe trattarsi di metastasi ossee da tumori). I due studi australiani sono relativamente limitati nel numero dei soggetti intervistati e nella metodologia. Per questo essi potrebbero fare apparire come meno numerosi i casi di effetti dannosi della terapia. Si tratta infatti di consumatori generalmente soddisfatti (90-95 per cento) e non di coloro che hanno interrotto la terapia poiché non hanno tratto beneficio dal trattamento. Lo studio eseguito tra i medici di base è forse più attendibile in quanto prende in considerazione anche casi meno frequenti ma più gravi di effetti collaterali come fratture ossee, lesioni nervose e tossicità epatica. Entrambe le indagini ci inducono però a sospettare che la medicina alternativa non sia affatto priva di rischi come ha creduto finora il pubblico. Il rischio maggiore è sempre quello dell'omissione delle cure, cioè il sottrarre il malato a terapie mediche sperimentate e che potrebbero produrre un giovamento reale e duraturo anche a costo di inevitabili effetti collaterali. Ezio Giacobini


DROGA IN PASTICCERIA? La cioccolata agisce sul cervello come la marijuana
Autore: E_GIA

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, MEDICINA E FISIOLOGIA, BIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: NEUROSCIENCES INSTITUTE OF SAN DIEGO
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, CALIFORNIA, SAN DIEGO

SI diceva nel '700 che dopo l'oro e l'argento la cosa più preziosa giuntaci dal Nuovo Mondo fosse la cioccolata. In quell'epoca la si preparava mediante un complicato procedimento dai semi di un misterioso albero che fioriva direttamenta dal tronco anziché dai rami. Mica per nulla Linneo lo chiamò Theobroma (cioè «cibo degli dei») cacao (dalla parola indigena kakkao). L'amara bevanda originale venne prima raddolcita con peperoncini e vaniglia e poi trasformata in una sostanza solida chiamata «chocolata». In forma liquida venne usata sia dagli Aztechi come «cacahuatl» (acqua di cacao) sia dai Maya come «chocolhaa» o «acqua calda». Dalla combinazione delle due parole pare sia nata la parola spagnola «chocolata». L'anno scorso gli americani hanno speso circa 11 miliardi (di dollari) in cioccolato e gli inglesi 3 miliardi (di sterline) mentre gli svizzeri ne hanno consumato quasi 10 chili a testa. Il cioccolato contiene una sostanza molto simile alla caffeina, la teobromina, una metilxantina che come la prima esercita un effetto eccitante sul sistema nervoso centrale. Finora è stato difficile comprendere come il cioccolato possa produrre non solo il desiderio di consumarlo regolarmente (come il caffè) ma in certi individui addirittura un impellente bisogno che ricorda molto la tossicodipendenza di certe droghe. Data la presenza di sostanze caffeino-simili l'attenzione dei farmacologi si è concentrata finora sull'effetto del cioccolato su certi recettori presenti nel cervello e specializzati nell'agire proprio sulle metilxantine (caffeina, teobromina). A sconvolgere le nostre nozioni farmacologiche sulla «voglia di cioccolato» è giunto un articolo su Nature firmato da tre ricercatori italiani che lavorano al Neurosciences Institute di San Diego in California. Di Tomaso, Beltramo e Piomelli hanno scoperto, usando una tecnica raffinatissima e molto sensibile chiamata spettrometria di massa, una sostanza presente nel cioccolato dal nome di anandamide. L'anandamide, invece di agire sui recettori cerebrali sensibili alla caffeina, ecciterebbe quelli sensibili ai cannabinoidi, cioè a sostanze tipo hashish e marijuana ben conosciute per il loro effetto euforizzante. L'aumento dell'anandamide a livello cerebrale provocato dal regolare consumo di cioccolato potrebbe, assieme al noto effetto eccitante di tipo caffeinico, farci sentire anche un senso di benessere simile a quello prodotto dalle sostanze cannabinoidi e portarci lentamente verso una vera dipendenza. L'anandamide è una sostanza lipidica (grassa) normalmente presente nel cervello, nel quale avrebbe l'effetto di legarsi ai medesimi recettori cannabinoidi che agiscono a loro volta su sostanze naturali di tipo cannabinoide. L'anandamide prodotta dalle cellule nervose è secreta allo stesso modo di neurotrasmettitori chimici cerebrali già ben noti come l'acetilcolina o la dopamina. Potrebbe quindi costituire una specie di «marijuana naturale» fabbricata e usata dal cervello per darci una sensazione di benessere. Per essere sicuri che non si trattasse di un prodotto di contaminazione i ricercatori di San Diego hanno esaminato dei campioni sia di cioccolato in polvere sia di cioccolata solida provenienti da tre fabbricanti diversi. In tutti e tre sono stati riscontrati tre tipi diversi di anandamide. La domanda è ora se l'anandamide contenuta nella cioccolata sia sufficiente a renderci non solo soddisfatti e contenti o ci riduca poco a poco a dei veri «cioccodipendenti». Se ciò fosse vero ci avvieremmo forse verso una società nella quale verrà regolata e limitata non solo la vendita di tabacco e alcol ma anche quella della cioccolata, da acquistarsi esclusivamente in farmacia, e con ricetta medica.(e. gia.)


I Premi Italgas 1996 per la chimica, le scienze ambientali e le tecnologie Tra la terra e il cielo Le ricerche di Hasselmann sul clima
AUTORE: R_SC
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, CHIMICA, ECOLOGIA, TECNOLOGIA, PREMIO, VINCITORE
PERSONE: GIACOVAZZO CARMELO, HASSELMANN KLAUS FERDINAND, BASSANI FRANCO, ZERBI GIUSEPPE
NOMI: GIACOVAZZO CARMELO, HASSELMANN KLAUS FERDINAND, BASSANI FRANCO, ZERBI GIUSEPPE
ORGANIZZAZIONI: PREMIO ITALGAS PER LA RICERCA E L'INNOVAZIONE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

VENERDI' mattina, nei saloni dell'Accademia delle Scienze di Torino, si festeggeranno i vincitori del Premio Italgas '96, per la ricerca e l'innovazione. I premiati, che terranno una relazione sul loro lavoro, sono Carmelo Giacovazzo per la chimica, dell'Università di Bari, Klaus Ferdinand Hasselmann per le scienze ambientali (Max Planck Institut di Amburgo), ed ex aequo Franco Bassani, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, e Giuseppe Zerbi, del Politecnico di Milano, per tecnologie e scienze dei materiali. Il premio fu istituito per celebrare i 150 anni della Società Italiana per il Gas. Nelle sue dieci edizioni sono state presentate 496 candidature (201 di scienziati italiani e 295 stranieri). Tra i premiati nel 1992 ci fu anche l'inglese Harold W. Kroto, insignito quest'anno del Nobel per la chimica. Ed ecco brevi profili dei vincitori '96. Carmelo Giacovazzo è nato a Locorotondo (Bari) nel 1940 e si è laureato in Fisica presso l'Università di Bari nel 1966, diventando nel 1975 professore di ruolo di mineralogia. E' direttore dell'Istituto di Ricerca per lo Sviluppo di Metodologie Cristallografiche del Cnr. Ha svolto ricerche di fondamentale importanza sulla cristallografia strutturale, individuando metodi che permettono di ricavare le strutture cristalline mediante l'impiego dei raggi X. Per queste strutture, non identificabili con alcun microscopio, è riuscito a ricostruire l'immagine ad altissimo ingrandimento attraverso l'elaborazione di programmi di calcolo idonei all'individuazione della struttura di sostanze dall'enorme complessità chimica, come le macromolecole biologiche. Hasselmann è nato ad Amburgo nel 1931 e si è laureato in Fisica all'Università di Gottinga nel 1957. Docente all'Istituto di geofisica e di fisica planetaria dell'Università della California, dal 1966 è professore nell'Università di Amburgo, e dal 1975 dirige l'Istituto Max Planck di meteorologia. Nel 1988 è stato nominato direttore del Centro Tedesco di Climatologia ad Amburgo. Ha contribuito in modo decisivo al progresso della ricerca climatologica, ed è stato uno dei pionieri nello studio della dinamica delle variazioni del clima naturale, attraverso i suoi componenti-base: dagli oceani alla criosfera, alla biosfera. Franco Bassani è nato a Milano nel 1929, si è laureato in Fisica nel 1952 all'Università di Pavia. Nello stesso anno inizia la sua attività scientifica presso le Università di Milano e dell'Illinois (Usa). Dal 1956 al 1964 è professore incaricato presso le Università di Palermo e di Pavia, nonché associate physicist all'Argonne National Laboratory (Usa). Dal 1980 è ordinario presso la Scuola Normale di Pisa di cui è direttore dal '95. Dal 1990 è membro dell'Accademia dei Lincei. Ha svolto un ruolo guida nello sviluppo della Fisica della materia condensata. I suoi lavori sono rilevanti nel campo della microelettronica e della optoelettronica. Giuseppe Zerbi è nato a Saronno nel 1933, si è laureato in Chimica all'Università di Pavia nel 1956. Nello stesso anno diviene ricercatore del Cnr e assistente presso il Politecnico di Milano. Dal '68 direttore dell'Istituto di chimica delle macromolecole del Cnr, diviene nel 1975 professore di spettroscopia molecolare all'Università di Trieste e dal 1980 professore di scienza dei materiali e direttore della Scuola di specializzazione in scienza e tecnologia dei polimeri e del Laboratorio di spettroscopia e dinamica molecolare del Politecnico di Milano. Ha dato contributi all'interpretazione degli spettri vibrazionali dei materiali organici, che consentono oggi di calcolarne gli spettri in frequenza di molecole con strutture preassegnate. (r. sc.)


SCAFFALE Carotenuto Aldo: «Le lacrime del male», Bompiani
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: PSICOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

UN quadro di Moreau, «Orfeo sulla tomba di Euridice», compare emblematicamente sulla copertina dell'ultimo saggio di Aldo Carotenuto, «Le lacrime del male». Orfeo perde la sua amata due volte, e la seconda volta, quella definitiva, non può che incolpare se stesso: aveva già ottenuto la grazia, e il troppo amore gli fa gettar via ciò che ha di più caro, ricacciando tra le ombre, con dolore simmetrico, anche la persona amata. Da quel dolore Orfeo non uscirà più, neppure esercitando l'arte sublime della musica. Autore di decine di libri di psicologia analitica e studioso del pensiero di Jung noto a livello internazionale, Carotenuto sembra spostarsi sempre più verso i territori della filosofia, come indicano molti puntuali riferimenti a Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger, Jaspers, Sartre. Una filosofia, però, che per Carotenuto è «mestiere di vivere» e che affronta, questa volta, i problemi prima o poi inaggirabili della malattia, della morte, della separazione. In una parola i problemi che ci fanno toccare i limiti invalicabili dell'esistenza. Ma superando quanto ci racconta il mito di Orfeo, suggerisce il libro di Carotenuto, questi appuntamenti con il dolore possono diventare momenti dell'incessante processo di individuazione che nella psicologia analitica si identifica con l'esistenza stessa della persona. Solo la prova del male e della sofferenza può aiutarci a sopportare l'uno e l'altra facendone parte di noi stessi. Il resto è palliativo. E', se volete, Valium o Prozac. Ma le molecole di un farmaco non diventano, come le esperienze esistenziali, carne e sangue del nostro corpo.


SCAFFALE «La droga e i suoi effetti sul cervello», ed. Le Scienze
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: DIDATTICA, MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: FRASSINETI GABRIELLA
LUOGHI: ITALIA

Con il numero di ottobre della rivista «Le Scienze» (edizione italiana di «Scientific American») è andata in edicola una videocassetta intitolata «La droga e i suoi effetti sul cervello» di grande interesse didattico e - cosa rara per i documentari scientifici - interamente realizzata in Italia grazie all'impegno di Gabriella Frassineti, responsabile della produzione multimediale de «Le Scienze». Eroina, cocaina, amfetamine, marijuana, hashish, Lsd, fino all'ecstasy che da qualche anno sta dilagando nelle discoteche, sono le droghe prese in esame. Il tono è sempre rigorosamente oggettivo e prescinde quindi da ogni valutazione etica del comportamento di chi assume droghe, anche se, ovviamente, non si nascondono le conseguenze devastanti delle tossicodipendenze. L'accento è comunque sui meccanismi di azione delle molecole quando interagiscono con la delicata biochimica cerebrale. Brevi testimonianze di ricercatori, come ad esempio Alberto Oliverio, intervengono a rendere più vivace il testo di Stefano Canali. Belle le immagini (spesso tratte da apparecchiature diagnostiche a risonanza magnetica) utilizzate dal regista Maurizio Tezzon.


SCAFFALE Heidmann Jean: «Extra-Terrestri», Piemme, Casale
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA

Dalla scoperta di molecole prebiotiche nello spazio ai programmi di ricerca di esseri intelligenti extraterrestri tramite radiotelescopi, questo di Jean Heidmann, direttore dell'Osservatorio astronomico di Parigi, è il libro divulgativo più completo e aggiornato oggi disponibile sull'affascinante problema della vita nell'universo.


SCAFFALE Krauss Lawrence: «La fisica di Star Trek», Longanesi
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA

Astronavi più veloci della luce, universi paralleli, antimateria, materia esotica invisibile: un rispettabile astrofisico vi introduce scientificamente ai temi che una famosa saga fantascientifica ha reso popolari, ma al prezzo di forzature e distorsioni. Nella stessa collana, di grande utilità per chi vuole impossessarsi rapidamente delle nozioni scientifiche di base, raccomandiamo calorosamente «La scienza per tutti» di Robert M. Hazen e James Trefil. Piero Bianucci


CONFERENZA A MILANO Changeux, un viaggio tra i neuroni Ha studiato a fondo il recettore della nicotina
Autore: MALDOLESI JACOPO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, CONFERENZA
NOMI: CHANGEUX JEAN PIERRE
ORGANIZZAZIONI: ASSOCIAZIONE BRUNO CECCARELLI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, MILANO (MI)

L'«Associazione Bruno Ceccarelli» trae il suo nome da un neurobiologo, professore di farmacologia dell'Università di Milano e pioniere nello studio delle sinapsi, scomparso improvvisamente otto anni fa. Composta da un piccolo numero di «ricercatori in servizio», l'Associazione intende impegnare la sua esperienza per lo sviluppo e la valorizzazione della neurobiologia, una disciplina che in Italia rimane ancora estranea agli interessi e alle curiosità non soltanto della quasi totalità dei non addetti ai lavori ma anche di moltissimi medici e biologi. Eppure i progressi degli ultimi anni hanno cominciato a svelare processi e meccanismi che stanno alla base delle attività del sistema nervoso (non solo periferico, ma anche centrale, incluso il cervello). Esiste quindi un ampio spazio d'informazione che finora non è stato colmato. Per rispondere a questa esigenza l'Associazione, sostenuta in questa iniziativa dalla Schering Plough, ha deciso di promuovere un programma di due conferenze all'anno, in primavera e in autunno, tenute da scienziati famosi che con Ceccarelli e con i suoi allievi hanno avuto e hanno rapporti di collaborazione. La sede «naturale» delle conferenze è al Dibit, il Dipartimento di ricerca di base dell'Istituto San Raffaele di Milano, dove in aprile Paul Greengard, dell'Università Rockefeller di New York, fece il punto sulla fosforilazione delle proteine nelle cellule nervose, un processo per mezzo del quale moltissime proteine modificano la propria struttura e funzionalità, regolando così l'attività cellulare. Qualche giorno fa Jean- Pierre Changeux, dell'Istituto Pasteur e del College de France di Parigi, ha tenuto la conferenza d'autunno. La personalità di Changeux è tra le più ricche. Alla sua attività di biologo molecolare e cellulare egli affianca infatti altri interessi: per la divulgazione ad alto livello (suo è il famoso «L'uomo neuronale», edito in Italia da Feltrinelli); per l'impegno filosofico e sociale (è stato per quattro anni presidente della Commissione di Bioetica francese); per le arti figurative, in particolare la pittura francese e italiana del Sei-Settecento. La conferenza ha mostrato però che la ricerca resta il filo conduttore dell'esperienza di Changeux. Il suo campo d'azione è costituito dal recettore nicotinico, un canale ionico che, inserito alla superficie delle cellule muscolari e nervose, permette loro di rispondere a un classico neurotrasmettitore, l'acetilcolina, stimolando rispettivamente la contrazione o l'eccitazione neuronale. Il nome del recettore deriva dalla sua capacità di legare non soltanto l'acetilcolina ma anche l'alcaloide del tabacco. Anzi, il ben noto effetto gradevole della nicotina è proprio mediato dall'attivazione del recettore nel sistema nervoso centrale. Il discorso di Changeux non si è limitato però agli aspetti farmacologici. Al contrario esso si è sviluppato, riassumendo per gli ascoltatori trent'anni di ricerca, da quando il giovane ricercatore, allievo del Premio Nobel Jacques Monod, decise di applicare al recettore concetti inizialmente sviluppati lavorando su altre proteine composte da subunità, ipotizzandone una complessa regolazione spaziale (allosterica, come si dice). Punti nodali della ricerca condotta dal gruppo di Changeux, in continua competizione (ma anche in collaborazione) con altri gruppi, sono stati la purificazione della proteina recettoriale (dall'organo elettrico del pesce elettrico, la torpedine; questo organo è una specie di gigantesca placca nervosa]); la sua analisi biochimica e molecolare, con il riconoscimento delle cinque subunità e degli aminoacidi che, messi uno dopo l'altro, costituiscono le subunità stesse; l'identificazione, nel susseguirsi degli aminoacidi, di quelli responsabili dei vari aspetti del funzionamento del recettore: il legame dell'acetilcolina, l'apertura del canale e così via. I lavori più recenti sono stati condotti attraverso mutazioni puntiformi, cioè sostituzioni di un solo aminoacido (su oltre 2000]), con conseguenti drastiche e specifiche modifiche delle proprietà del recettore; e attraverso l'espressione, nel corso dello sviluppo, di altre forme di recettori nicotinici mutati capaci di modificare lo sviluppo del cervello nell'embrione di topo. La conclusione di Changeux si è focalizzata su aspetti medico-sociali, in particolare su di una forma di epilessia congenita dovuta a una mutazione puntiforme spontanea del recettore; e sulla possibilità che farmaci stimolatori del recettore possano essere impiegati nella terapia di una delle malattie che più colpiscono la nostra società, la malattia di Alzheimer. Un panorama affascinante, che ha permesso agli ascoltatori di rendersi conto di almeno due cose importanti: di come una ricerca in neurobiologia si sviluppa negli anni e nell'esperienza degli scienziati; e di come i risultati possano essere punto di partenza per nuove idee destinate a influire sempre più sul progresso dell'umanità. Jacopo Meldolesi Dibit, Milano


IN MOSTRA A TORINO Le tecnopietre Una raffinata industria dell'età preistorica esportava già i suoi prodotti in mezza Europa
Autore: LUPO MAURIZIO

ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA, TECNOLOGIA, MOSTRE
NOMI: COMPAGNONI ROBERTO
ORGANIZZAZIONI: MUSEO D'ANTICHITA' DI TORINO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

OTTOMILA anni fa, prima delle civiltà d'Egitto o di Micene, fra il Monviso e il massiccio di Voltri, lungo le rive del Po, l'Homo sapiens sapiens fondava una delle più antiche «industrie» del continente. Produceva bracciali, utensili e asce di «pietra verde» levigata: capolavori in serpentine, clogiti e giade, «esportate» in tutta l'Europa neolitica, dalle isole britanniche a Malta. Fino al 25 novembre oltre mille esemplari sono esposti al Museo d'Antichità di Torino, in corso Regina Margherita 105. La mostra, curata dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici, conduce alle origini della storia, quando l'uomo subalpino, nomade e cacciatore, divenne agricoltore e artigiano. «Era l'epoca della rivoluzione neolitica» ricorda l'archeologa Marica Venturino «segnata proprio dalla realizzazione di quelle asce. Abbatterono la foresta della Pianura Padana, per fare spazio a campi, pascoli e villaggi, che segnarono la nascita della prima società stabile». Ricerche della Soprintendenza e dell'Università di Torino dimostrano che quelle pietre, apprezzate in tutta l'Europa preistorica, sono «prodotti tipici ed esclusivi delle Alpi Nord occidentali». Assicura la Venturino: «Erano di qualità superiore rispetto ad utensili coevi d'altra origine. Perché la pietra verde impiegata era più dura ed efficace del basalto usato nel Mezzogiorno o dell'andesite lavorata nell'Est». «Anche le pietre verdi scheggiate dai nostri progenitori - spiega Roberto Compagnoni, ordinario di petrologia - in origine erano basalti, provenienti dai fondali del mare che 200 milioni d'anni fa copriva la Pianura Padana. Poi, quando si formarono le Alpi, 100 milioni d'anni fa, quei giacimenti vennero deformati e ripiegati, assumendo composizione diversa da quella iniziale, con caratteristiche peculiari, che ne denunciano la zona d'origine. Come le giade, che in Europa si trovano solo nelle Alpi Nord occidentali». Gli abitanti dal neolitico trovavano le «pietre verdi» nei fiumi, già selezionate dall'erosione delle acque. «L'uomo le riconosceva dal colore, ma le valutava soprattutto in base al peso» prosegue Compagnoni. «Le clogiti hanno un elevato peso specifico, uno dei maggiori fra le rocce. La loro struttura è compatta, tanto che alla percussione reagiscono scagliandosi, ma senza rompersi. Dure, ma non friabili, erano l'ideale per creare oggetti tenaci e tecnologicamente raffinati»: asce spesse almeno 3 o 4 centimetri e lunghe dai 5 ai 20. «In un'epoca che non conosceva ancora l'aratro - dice l'archeologo Filippo Gambari - vennero usate per dissodare i terreni e scalzare le radici degli alberi che li occupavano». Come affermarlo con assoluta certezza? «Le asce rinvenute sono state trovate in strati archeologici datati con il carbonio 14». «Altre preziose indicazioni - aggiunge Rosanna Caramiello, ordinaria di Botanica dell'Università - le offrono le stratificazioni di pollini rilevati nelle zone di scavo. Parlano di antiche foreste a querceto misto, carbonizzate da incendi volontari, provocati dall'uomo come tecnica di disboscamento. Li abbiamo accertati con carotaggi che svelano i cicli d'uso del suolo: i tipi di bosco distrutti e le successive colture. Alcuni pollini indicano persino la presenza di vegetali infestanti tipici delle zone coltivate, come il papavero o il fiordaliso. Le ortiche offrono una traccia preziosa. Amano l'azoto delle urine umane e animali. Trovare pollini d'ortica in una stratificazione archeologica permette di stabilire se quel luogo un tempo era abitato». Maurizio Lupo




La Stampa Sommario Registrazioni Tornén Maldobrìe Lia I3LGP Scrivi Inizio