TUTTOSCIENZE 10 luglio 96


TUTTOSCIENZE MULTIMEDIA Medicina Stetoscopio e bit
Autore: PELLATI RENZO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, ELETTRONICA, COMUNICAZIONI
LUOGHI: ITALIA

ANDREMO ancora dal medico per avere una diagnosi dei nostri malanni e ottenere una terapia adatta, oppure ci rivolgeremo al nostro pc risparmiando tempo e denaro? Diciamo subito che la visita medica è insostituibile perché la semeiotica non è soltanto un elenco di sintomi. I sintomi vanno interpretati sulla base delle esperienze e delle conoscenze: il medico esclusivamente informatico è una mistificazione. Ma l'informatica sarà sempre più utile al medico, perché i computer sono strumenti che mettono in relazione i dati clinici, epidemiologici, statistici, sempre più numerosi e affinati. In passato il medico, per valutare la patologia respiratoria e cardiovascolare, poneva l'orecchio sulla schiena del paziente, faceva domande, misurava i battiti del polso. Poi è arrivato lo stetoscopio, lo sfigmomanometro, l'elettrocardiogramma, e il medico ha potuto fare diagnosi più precise. L'informatica oggi consente al medico di fare un salto di qualità perché consente di organizzare le conoscenze e l'informazione. Il computer è stato paragonato al simulatore di volo per il pilota di aereo. Gli ostacoli che impediscono una maggior diffusione della decisione clinica assistita dipendono dalle difficoltà di adattamento alle nuove procedure che oppongono i soggetti che hanno accumulato negli anni altre esperienze di lavoro e dalla mancanza di una politica che consenta di valorizzare la ricerca in questa direzione. Fanno eccezione l'Ospedale S. Giovanni di Torino e pochi altri nosocomi italiani (Pavia, Bologna, Roma, Milano) che hanno messo a punto protocolli e strumenti ormai collaudati, grazie alla collaborazione di psicologi, medici e ricercatori in informatica. Gianpaolo Molino, presidente della Esmdm (European Society for Medical Decision Making), nel corso della VI Conferenza Biennale che si è svolta a Torino ha sottolineato i problemi che dovranno essere affrontati nei prossimi anni per dare impulso a questa branca delle discipline mediche: come deve essere organizzata la conoscenza medica (dati clinici) per essere utilizzata in modo efficiente, come codificare i dati della letteratura, come usare le conoscenze in base al tempo e alle circostanze, come salvaguardare la privacy del malato. In futuro il paziente, ricoverato in ospedale, uscirà con una carta sanitaria dettagliata (magnetica, come quelle del telefono). Se il medico di fiducia avrà il lettore, potrà conoscere l'iter diagnostico e curativo eseguito in ospedale. Il medico potrà anche verificare se il sistema informatico giunge alle stesse conclusioni della sua diagnosi (autovalutazione) e delle sue prescrizioni (esami e cure terapeutiche) evitando sprechi e disorganizzazione. La macchina potrà suggerire la scelta della cura con maggior efficacia, maggior compliance, minori effetti collaterali, minori spese per la collettività. Già oggi per i trapianti d'organo non è possibile fare una lista di attesa obiettiva senza l'aiuto di un sistema informatico che consenta di valutare l'enorme massa di dati necessaria per salvare una vita. Renzo Pellati


ALLA VIGILIA DI ATLANTA La fisica delle Olimpiadi Tutte le formule che stanno dietro i record
Autore: ROCCUZZO BRUNO

ARGOMENTI: FISICA, SPORT
LUOGHI: ITALIA

NELLA metà dell'800 il professore berlinese Magnus eseguì, su incarico della Commissione prussiana di artiglieria, una serie di studi che gli permisero di misurare e dare una spiegazione alla deviazione della traiettoria dei proiettili. Questo fenomeno, noto oggi come effetto Magnus, fu citato per la prima volta in un contesto sportivo nel 1877 da lord Rayleigh in un articolo che descriveva il moto di una palla da tennis; il lavoro di Magnus influenzò anche Tait, che alla fine del secolo scorso fornì i risultati di accurati calcoli sulla traiettoria delle palline da golf. L'effetto Magnus è uno dei primi esempi di collegamento tra fisica e sport nei tempi moderni. Da allora questi due mondi si sono avvicinati sempre di più; anzi, in alcuni casi perfino sovrapposti, come nella «Formula 1», che attinge sistematicamente a risultati di esperimenti effettuati utilizzando le «gallerie del vento». Ma la fisica, e più in generale la scienza, non è solo al servizio dello sport per migliorare le prestazioni e battere l'avversario; può anche essere uno strumento di comprensione di alcune caratteristiche di una certa disciplina o della dinamica propria di un particolare gesto atletico. Le Olimpiadi che stanno per cominciare ad Atlanta rappresentano un ideale punto di partenza per tradurre in pratica questo discorso; ovviamente non desideriamo proporre di non ammirare più le gare dal punto di vista sportivo, ma semmai di considerare le prestazioni degli atleti anche con un occhio puntato alle difficoltà di tipo naturale che debbono affrontare e al modo in cui essi le risolvono. Incominciamo dalla regina delle Olimpiadi, l'atletica. Da qualche settimana Pietro Mennea è stato detronizzato: Michael Johnson sulla pista olimpica di Atlanta ha stabilito il nuovo record dei 200 metri maschili con il tempo di 19 secondi e 66 centesimi. Il tempo minimo per coprire tale distanza sarebbe in teoria minore. Gli atleti devono infatti percorrere i primi 100 metri in curva e perdono quindi dei preziosi centesimi. Per capire questo possiamo servirci di un modello abbastanza intuitivo, secondo il quale nello sprint in rettilineo intervengono due forze, una propulsiva P applicata dall'atleta e una resistiva R che tende a frenarlo; l'accelerazione di un corridore è quindi data semplicemente dalla differenza P - R divisa per la massa dell'atleta. In curva compare un nuovo termine nell'equazione del moto, l'accelerazione centripeta: dal momento che la forza propulsiva non cambia, il termine centripeto provoca una diminuzione dell'accelerazione dell'atleta, tanto minore quanto più la corsia è esterna. Infatti, è ben noto che gli atleti non gradiscono le corsie interne, dove sentono la curva troppo «stretta». Benché sia difficile dare delle stime precise, secondo alcuni calcoli l'handicap nei 200 metri tra la prima e l'ottava corsia può superare il decimo di secondo, che si traduce in una distanza superiore al metro, determinante in molte gare. E' curioso notare che gli atleti non amano troppo gareggiare in ottava corsia, la più vantaggiosa, perché si trovano per i primi 100 metri davanti agli avversari a causa della partenza non allineata. Si tratta però di una motivazione di carattere psicologico, legata al fatto di non poter vedere i rivali. Il record di Johnson rappresenta anche la più alta velocità media raggiunta da un uomo: 36,62 km/h. Gli atleti partono però tutti da fermi: quindi arrivano in realtà a velocità istantanee assai maggiori. Il «Guinness dei primati» riporta i risultati di una analisi effettuata sulla finale dei 100 metri alle Olimpiadi di Seul: dividendo la corsa in 10 intervalli uguali, si è trovato che Carl Lewis ha raggiunto in due tratti la velocità di 42,37 chilometri all'ora] Il precedente record dei 200 era stato stabilito da Mennea a Città del Messico, a un'altitudine di 2340 metri sopra il livello del mare. Chi corre deve contrastare la resistenza dell'aria; essa è proporzionale alla densità di questa e al quadrato della velocità dell'atleta. La densità diminuisce con l'aumentare della quota. A Città del Messico è pari a circa il 75 per cento di quella esistente al livello del mare. Anche in questo caso non è semplice dare risultati precisi sull'effetto dell'altitudine nelle gare. Frohlich ad esempio ha calcolato che un corridore possa essere quattro decimi di secondo più veloce a Città del Messico che a Roma nei 200 metri. Tale valore appare forse eccessivo, ma mostra comunque che il guadagno è rilevante. Non bisogna però credere che la rarefazione sia sempre un vantaggio per gli atleti. Sulle lunghe distanze, all'incirca dagli 800 metri in poi, prevalgono fattori di carattere fisiologico; i corridori respirano aria ad una pressione inferiore che a livello del mare, e ciò riduce la potenza che essi possono sviluppare. Contrastare la resistenza aerodinamica è la tattica principale delle gare di mezzofondo e fondo. Alcuni studi hanno mostrato che chi corre dietro ad altri incontra una resistenza ridotta di 1/5 - 1/2 rispetto a chi sta davanti. Per questo motivo gli atleti non vogliono fare l'andatura ma preferiscono rimanere nel gruppo e risparmiare energie per lo sprint finale. Oppure, nel caso di competizioni organizzate per battere un record, una lepre si incarica di guidare la corsa al ritmo giusto per buona parte della gara. La stessa tattica è usata nel ciclismo. I ciclisti sono, su distanze uguali, più di due volte più veloci dei corridori, e quindi incontrano una resistenza aerodinamica anche otto volte maggiore. Essa è così grande che diventa quasi impossibile per un ciclista solitario staccarsi da due o più avversari che collaborano fra di loro. Per questo motivo, la strategia normalmente usata consiste nel farsi tirare da chi sta davanti, e nel caso di fuga cercare l'aiuto di pochi altri compagni, con i quali alternarsi alla guida del gruppetto. Bruno Roccuzzo


BIOLOGIA «Io difendo il virus del vaiolo»
Autore: MARCHISIO PIER CARLO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

IN un articolo di prima pagina sulla «Stampa» dedicato al tentativo di recuperare il virus della Spagnola, l'influenza killer che costò moltissime vite umane già debilitate dalla prima guerra mondiale, Piero Bianucci qualche settimana fa fustigava il senso di onnipotenza degli scienziati. In un certo senso ha ragione, ché spesso gli scienziati sono devoti in maniera arrogante alle proprie convinzioni alle quali dedicano intere vite di lavoro. Credo tuttavia che nella grande maggioranza gli scienziati degni di questo nome siano più spesso umilmente rosi dal dubbio. E' il caso della distruzione del virus del vaiolo, malattia scomparsa dal mondo per effetto della vaccinazione. A riprova del dubbio sta il fatto che ci sono voluti anni per prendere questa decisione che in un certo senso violenta la natura. E' giusto difendersi dai colpevoli di omicidio tenendoli in galera e, nel caso dei virus, ibernandoli nell'azoto liquido, ma è comunque ingiusta la pena di morte, inferta in questo caso con la crudeltà del rogo. Cerco di spiegarne le ragioni. Nelle prospettive della medicina futura l'ingegneria geneti ca e la terapia genica occupano una posizione di primo piano. E' ancora lontana la certezza ma vicinissima la speranza che il cancro e le malattie genetiche vengano debellate da questi mezzi nel prossimo decennio. La chiave della terapia genica è l'uso di vettori genetici, spesso derivati dai virus che fanno questo di mestiere, in grado di portare in maniera accurata e specifica il loro nuovo gene alle cellule-bersaglio che ospitano il gene da sostituire. Quest'ultimo potrà così venir rimpiazzato da un gene «sano» e la cellula, assieme all'uomo che la ospita, potrà ritornare alla sua normale funzione. I vettori genetici che vengono sperimentati in tutto il mondo derivano da virus molto diversi che infettano le cellule e in molte malattie veicolano l'agente responsabile di questa o quella malattia. Con tecniche raffinate, lo scienziato, nella sua arroganza, si prende il diritto di modificare un prodotto della natura, il virus, rendendolo mansueto ma, comunque, sfruttando la sua vocazione naturale a infettare organismi complessi come le cellule. Chi ci dice che in futuro anche le proprietà dei virus del vaiolo non possano essere utilizzate per portare vita anziché morte? Non si va facendo un'operazione simile anche con il virus dell'Aids? Perché allora risuscitare il virus della Spagnola? Nella mia umiltà, o forse arroganza, sono contrario alla pena di morte inferta con il fuoco al virus del vaiolo. Teniamolo inoffensivo al freddo ma conserviamolo per un potenziale uso che se ne potrà fare, forse tra un secolo. I roghi hanno già fatto in passato gravi danni allo sviluppo della scienza... Pier Carlo Marchisio


Quanto conta avere il vento in poppa Gli effetti su corridori, discoboli, saltatori in lungo e con l'asta
Autore: B_ROC

ARGOMENTI: FISICA, SPORT
LUOGHI: ITALIA

A proposito degli effetti della resistenza dell'aria sulle prestazioni degli atleti, il vento merita un capitolo a parte. Partiamo da una considerazione ovvia, e cioè che i corridori sono più veloci se il vento soffia alle loro spalle. Cerchiamo di stimare in che misura questo effetto si manifesta. La potenza P1 consumata da uno sprinter è proporzionale alla sua massa e velocità. Egli deve però vincere anche la resistenza dell'aria, cosa che richiede una potenza aggiuntiva P2 data dal prodotto della velocità v per la forza resistente, essendo quest'ultima proporzionale al quadrato di v. Diversi studi sperimentali hanno inoltre mostrato che in uno sprinter P2 è circa 10 volte più piccolo di P1. Fatte queste premesse, consideriamo dapprima il caso concreto di Johnson che corre i 100 metri in assenza di vento. La sua velocità è di circa 10 metri al secondo (m/s), e quindi P2 è proporzionale a 10x10x10 = 1000 (m/s) cubi. Se il vento soffia a 2 m/s alle spalle di Johnson, la sua velocità rispetto all'aria diventa 8 m/s, e pertanto P2 praticamente si dimezza. Se infine Johnson è così fortunato da avere un vento a favore di 10 m/s, P2 si annulla e la potenza totale P diventa semplicemente pari a P1. In quest'ultimo caso si trova, eseguendo un semplice rapporto, che la velocità di Johnson aumenta del 10 per cento. Nelle situazioni intermedie, il calcolo implica invece la risoluzione di una equazione di terzo grado, come avrà sicuramente intuito chi mastica un po' di matematica. Anche il saltatore in lungo è aiutato dal vento, poiché incontra una minore resistenza dell'aria sia in volo che durante la rincorsa. Si può paragonare il saltatore in lungo al proiettile sparato da un cannone: la gittata è massima quando l'angolo è di 45o rispetto al terreno, e aumenta al crescere della velocità. I più smaliziati fra voi non saranno però del tutto d'accordo. Infatti, sostituendo il proiettile con l'atleta alla velocità di 10 metri al secondo, si otterrebbe un salto superiore ai 10 metri, assai maggiore del record mondiale di 8,95 metri. In secondo luogo, nel punto di massima elevazione il centro di massa dell'atleta arriverebbe alla quota di 3,5 metri rispetto al terreno] Questo paradosso è causato da una inefficienza di fondo dell'uomo, il quale non riesce a trasformare neppure la metà della sua energia cinetica, acquistata con la rincorsa, in energia potenziale (ossia in altezza rispetto al terreno), a meno che non abbia a disposizione uno strumento: ecco perché il record mondiale di salto con l'asta è 6,15 metri, mentre quello di salto in alto vale «solamente» 2,45 m. L'asta è lo strumento che aiuta gli atleti a convertire energia cinetica in energia potenziale. Un buon saltatore deve essere molto veloce, oltre che abile nell'usare l'attrezzo. Il vento, così come l'altitudine, influenza la prestazione del salto con l'asta nella misura in cui fa aumentare la velocità dell'atleta, e quindi la sua energia cinetica. Il vento, ovviamente, ha un ruolo fondamentale in un'altra disciplina olimpica, la vela. L'analisi del moto è resa più complicata, dal momento che occorre considerare l'interazione del corpo in movimento in due fluidi distinti, l'aria e l'acqua. Una barca a vela è progettata in modo da raggiungere le più alte velocità possibili in diverse condizioni meteorologiche, in particolare quando naviga sia col vento a favore che contrario. Nel primo caso, le vele compiono una forza resistente, e quindi la velocità della barca sarà sempre minore di quella del vento. Nel secondo, sia la vela che lo scafo agiscono anche da forza trainante, la cui intensità dipende dall'angolo tra la direzione della rotta e del vento. In generale, l'efficienza della vela è migliore, e quindi la velocità della barca massima, quando la rotta è perpendicolare al vento. Nella navigazione contro vento, vi è un angolo di rotta ottimale rispetto alla direzione di questo, pari a circa 40-45 gradi. Più precisamente, un teorema mostra che nella navigazione contro vento l'angolo minimo è pari alla somma degli angoli della forza resistente dello scafo e della vela. L'importanza di questo teorema è evidente: poiché le barche non possono navigare esattamente contro vento, percorrono una traiettoria a zig-zag. Riducendo le forze resistenti, da un lato si aumenta la velocità della barca, dall'altra si può rendere più chiuso il percorso a zig-zag, diminuendo in questo modo la distanza totale da coprire. Se nella corsa e nella vela il contributo del vento è massimo rispettivamente quando è alle spalle e a 90 gradi, nel lancio del disco la situazione è capovolta. Quando è in volo, un disco è soggetto solamente alla gravità e alle forze aerodinamiche. Queste ultime sono sostanzialmente di due tipi, una di resistenza al moto del disco e l'altra di sostegno. Se c'è vento, entrambe aumentano, ma il contributo della seconda è prevalente. Frohlich ha svolto calcoli interessantissimi sulla distanza raggiunta da un disco al variare delle condizioni di vento, oltre che della temperatura, dell'altitudine e perfino della latitudine. Secondo questi calcoli, un discobolo sarebbe in grado di lanciare 8,2 metri più lontano in presenza di un vento contrario di 10 metri al secondo. Per quanto detto fin qui, sembra strano che la federazione internazionale di atletica leggera imponga la limitazione di 2 metri al secondo nell'omologazione dei record di salto in lungo e corsa veloce, e non ponga alcun vincolo nelle gare di salto con l'asta e di lancio del disco. A proposito di stranezze, osserviamo infine che il vento influenza anche la gara dei 400 metri. Infatti, contrariamente all'intuizione, l'effetto negativo del vento contrario su una metà del giro di pista è sempre maggiore del beneficio che si ricava negli altri 200 metri.(b. roc.)


LA MOSTRA «EXPERIMENTA» A TORINO Ciak in laboratorio Il cinema per svelare la natura
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: OTTICA E FOTOGRAFIA, DIDATTICA
ORGANIZZAZIONI: EXPERIMENTA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

DA qualche giorno a Villa Gualino, sulla collina torinese, è di nuovo aperta la mostra di scienza interattiva «Experimenta». L'edizione '96 riprende il tema dell'anno scorso, il cinema, ma è completamente rinnovata. L'itinerario che traccia va dalla pellicola all'immagine elettronica: ci si può divertire girando qualche scena di un western tipo «Mezzogiorno di fuoco» o rilassare visitando la sezione dedicata a cinema e fumetto, ma senza dubbio il nucleo centrale è costituito dai settori dove vengono illustrate le tecniche e le applicazioni della ripresa televisiva, gli effetti speciali dell'animatronica, i sistemi multimediali e per creare immagini di sintesi. Nuovo è anche il film in tre dimensioni, il più lungo che esista in questo genere di produzione: uno spettacolo da non perdere. Ma su «Tuttoscienze» sembra logico accennare piuttosto a una sezione minore della mostra, quella dedicata al ruolo che il cinema svolge come strumento al servizio della ricerca scientifica accelerando o rallentando quei fenomeni che, per la loro velocità o per la loro lentezza, sfuggono al nostro occhio. Si sa che di solito un film viene ripreso e proiettato a 24 fotogrammi al secondo: abbiamo così l'impressione di assistere a una scena in tempo reale. Se invece si riprende ogni secondo un numero di fotogrammi maggiore di quello che poi verrà proiettato avremo un effetto di dilatazione del tempo. Al contrario, riprendendo un numero di fotogrammi minore, otterremo un effetto di contrazione. Oggi le tecnologie più avanzate consentono riprese cinematografiche a un milione di fotogrammi al secondo, dilatando il tempo di 4000 volte. Se la nostra vita si svolgesse a quel ritmo, vivremmo 300.000 anni. E, come ha documentato la rivista francese «La Recherche» nel suo numero di giugno, le tecniche laser permettono addirittura di seguire fenomeni (come certe reazioni chimiche) che durano appena un milionesimo di miliardesimo di secondo. Tra gli esempi di accelerazione visibili a Experimenta '96 è particolarmente suggestivo quello che mostra la trasformazione di un uovo di rana in un girino. L'uovo di rana ha un diametro di un millimetro e mezzo: subito dopo la fecondazione, questo minuscolo laboratorio vivente formato da una sola cellula si divide prima in due cellule, poi in quattro, in otto e così via, fino alla formazione di un girino. Scattando un fotogramma ogni ora si può accelerare il processo di 90 mila volte. Su questa stessa scala temporale la nostra vita durerebbe meno di 8 ore. Assisteremo così al meraviglioso spettacolo dell'organizzarsi e specializzarsi di decine, e poi centinaia e migliaia di cellule in una nuova creatura vivente. Neppure il fulmine è troppo veloce per le moderne tecnologie di ripresa. A Experimenta si può vedere un cortocircuito a 1 milione di volt ripreso durante il collaudo di catene di isolatori da impiegare nelle linee ad alta tensione dell'Enel. Con 5000 fotogrammi al secondo e un rallentamento di 200 volte, diventa facile seguire il percorso preferenziale della scarica elettrica, benché essa avvenga in pochi centesimi di secondo. I filmati selezionati per Experimenta '96 provengono dal Centro di Cinematografia Scientifica del Politecnico di Milano diretto da Achille Berbenni. Il Centro è nato nel 1950: in campo universitario fu il primo a introdurre la cinepresa come strumento di ricerca e di insegnamento. Sono in dotazione del Centro macchine che possono riprendere fino a un milione di fotogrammi al secondo, stroboscopi da 8000 lampi al secondo, attrezzature per riprese al microscopio e per visualizzare fenomeni invisibili tramite tecniche schlieren, shadow, interferometriche. Organizzata dall'assessorato alla Cultura della Regione Piemonte, la mostra Experimenta (viale Settimio Severo 63, tel. 660.2114) rimarrà aperta fino al 20 ottobre (lunedì riposo). Piero Bianucci


NEL 2003 Che fare sulla Space Station
Autore: LO CAMPO ANTONIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: MALERBA FRANCO
ORGANIZZAZIONI: COPIT, ATLANTIS
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

TRA poco più di un anno andrà in orbita il primo elemento che costituirà la stazione spaziale internazionale «Alpha»: un razzo russo Proton lancerà un modulo da 20 tonnellate nel novembre 1997. Quando nel 2003 la struttura sarà completata, Alpha peserà 400 tonnellate, misurerà 110 metri per 75 e orbiterà sopra le nostre teste a 420 chilometri di quota, abitata costantemente da 6 astronauti-ricercatori. All'impresa collaborano Stati Uniti, Russia, Europa, Giappone e Canada. Dell'importanza e del ruolo della stazione spaziale si è parlato venerdì scorso a Torino in una conferenza organizzata dal Copit (Comitato parlamentari per l'innovazione tecnologica) e dell'associazione Atlantis, presieduta da Franco Malerba, parlamentare europeo e primo astronauta italiano. «Ormai - dice Malerba - manca poco tempo. Noi italiani come singola nazione insieme agli Usa partecipiamo al programma con i moduli logistici, il primo dei quali verrà lanciato tra circa 500 giorni. Ma all'Agenzia spaziale italiana ci sono ancora incertezze e ritardi. Lo spazio rappresenta una realtà economica importante. La stazione Alpha moltiplicherà per 30 le opportunità di ricerca scientifica possibili attualmente in orbita. Basti pensare ai settori ormai privatizzati delle telecomunicazioni e della meteorologia: abbandonare lo spazio mette a rischio competenze industriali ormai acquisite. Speriamo quindi che l'Italia non si faccia trovare impreparata e che mantenga gli impegni». Alpha sarà un grande porto spaziale a cui verranno ancorati, oltre agli Shuttle, le capsule di emergenza (russe) e il veicolo di trasferimento orbitale ATV (Esa). Ma sarà soprattutto una officina di sperimentazioni in microgravità da parte della comunità scientifica internazionale. Tra i settori della tecnologia e della ricerca pura interessati spiccano: telecomunicazioni, osservazione della Terra, meteorologia, generazione di energia elettrica, propulsione e robotica, biologia, medicina, fisica dei fluidi, scienza della combustione e dei materiali, astrofisica delle alte energie, osservazione del Sole e dei pianeti, produzione di farmaci e parti elettroniche sofisticate. Durante la conferenza di Torino, presenti i direttori della Stazione Spaziale per conto della Nasa, dell'Esa e dell'Asi, si è fatto il punto sulla partecipazione italiana, che, oltre alla fornitura dei tre moduli logistici per il trasporto di materiali, prevede l'attracco nel 2002 del laboratorio europeo Cof (Columbus Orbital Facility) nato nel 1982 da un'idea di Ernesto Vallerani, presidente di Alenia Spazio, e del tedesco Greger. Nel progetto originale il Cof doveva essere lungo 14 metri, con varie sezioni; nell'attuale versione è lungo 6,6 metri e ha un diametro di 4,5, più o meno come il mini-modulo logistico. Antonio Lo Campo


STORIA DELLE TELECOMUNICAZIONI Nè Meucci nè Bell: Manzetti Il telefono, l'invenzione più contesa
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, COMUNICAZIONI, LIBRI
PERSONE: CANIGGIA MAURO, POGGIANTI LUCA
NOMI: MANZETTI INNOCENZO, MEUCCI ANTONIO, BELL ALEXANDER GRAHAM, MEYER MAX, ELDRED HORACE, CANIGGIA MAURO, POGGIANTI LUCA
ORGANIZZAZIONI: CENTRO STUDI DE TILLIER
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Il Valdostano che inventò il telefono»

CHI è l'inventore del telefono? Meucci, risponderà la maggior parte della gente. Meucci scippato da Bell, dirà chi ha letto «Antonio Meucci, l'inventore e il suo tempo» di Basilio Catania, pubblicato da poco dalla Stet. Qualcuno potrebbe aggiungere i nomi di Gray, di Edison, di Cushman, di Whisham, di Reis. L'inventore del telefono fu Innocenzo Manzetti, di Aosta, che «approntò un rudimentale apparecchio telefonico, supportato da energia elettrica, fin dal 1850». Lo sostengono, con molte pezze d'appoggio, Mauro Caniggia e Luca Poggianti, studiosi di storia valdostana, nel libro: «Il Valdostano che inventò il telefono», edito dal Centro studi De Tillier. Innocenzo Manzetti. Nato ad Aosta nel 1826, geometra, mago della meccanica, inventore per vocazione, cominciò a poco più di vent'anni con il «suonatore di flauto», un robot dalle sembianze umane fatto di ferro, tubi, tiranti, valvole, il volto costruito con una di pelle di camoscio e gli occhi mobili di porcellana, che muoveva le braccia, si toglieva il cappello, salutava con voce simile a quella umana e pronunciava alcune parole. Ma soprattutto, caricato come un orologio, «suona il flauto da sè», come scrisse uno sbalordito contemporaneo. Manzetti era un eclettico; costruì una «vettura automobile» a vapore che fu sperimentata sulle strade intorno ad Aosta nel 1865, una macchina per fare la pasta, un impianto per estrarre l'acqua dai pozzi delle miniere; una tecnica speciale per le costruzioni in cemento, un pantografo per riprodurre qualunque disegno ingrandendolo o rimpicciolendolo con il quale incise l'immagine di Pio IX su un chicco di riso; e poco prima della morte, avvenuta nel 1877, si occupava di un motore «destinato a funzionare senza vapore con l'aiuto di un semplice gas», un embrione di motore a scoppio. Da quando aveva creato il suonatore di flauto, e quindi si era appassionato al tema della riproduzione della voce umana, aveva cominciato a pensare alla trasmissione a distanza della parola. Un argomento su cui aveva pubblicato una memoria fin dal 1849, mentre cominciava a studiare l'elettricità e i fenomeni connessi. Gli esperimenti si susseguirono per una decina d'anni al termine dei quali fu pronto un primo rudimentale apparecchio. Nel 1861, affermano i due studiosi valdostani, Manzetti riuscì a trasmettere distintamente un discorso e un brano musicale fino a due chilometri di distanza. Per il momento solo gli amici sono a conoscenza del lavoro, ma nel 1865 cominciano a parlarne i giornali. Il 21 ottobre di quell'anno la notizia uscì anche sull'Eco d'Italia di New York e capitò sotto gli occhi di Meucci. Il libro di Caniggia e Poggianti riporta una serie di lettere in cui l'inventore toscano trapiantato in Usa rivendica di aver illustrato il suo metodo di trasmissione della voce fin dal 1860 ma definisce la sua scoperta «identica a quella del sig. Manzetti». A un corrispondente di Genova scrive: «Io non posso negare al sig. Manzetti la sua invenzione, ma soltanto far osservare che possono trovarsi due pensieri che abbiano la stessa scoperta». Meucci ottenne il brevetto del suo telefono in America solo nel 1871, lasciandolo poi decadere; Manzetti non lo chiese affatto. Era un vulcano di idee ma per inseguire le nuove abbandonava spesso quelle precedenti. Era modesto e disinteressato. D'altronde non trovò nè appoggi nè finanziamenti nella piccola Aosta del tempo, lontana anni luce dagli Stati Uniti, dove intorno al telefono si accese subito uno lotta di giganti finanziari. E infatti un concreto, seppur ambiguo interessamento al telefono di Manzetti doveva giungere proprio dagli Usa. Dapprima arrivò a visitare il laboratorio dell'inventore valdostano un misterioso personaggio (la leggenda vuole che si sia trattato di Bell) deciso a carpirne i segreti; poi, nel febbraio 1880, fu la volta di certi Max Meyer e Horace Eldred, probabili emissari di una società interessata a far dichiarare nulli in America i brevetti di Bell e di Gray. I due convinsero la vedova di Manzetti a cedere per un franco i diritti sull'invenzione con l'impegno a versarne altri 10 mila nel momento in cui la priorità del lavoro del valdostano fosse stata riconosciuta in Usa. Ma di soldi non ne arrivarono mai. Vittorio Ravizza


Documento Come funzionava
Autore: V_RA

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, COMUNICAZIONI
NOMI: MANZETTI INNOCENZO, DUPONT PIERRE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Schema dell'apparecchio ideato da Manzetti

UN ufficiale dell'esercito piemontese, Pierre Dupont, amico dell'inventore, ci ha lasciato una precisa descrizione dell'apparecchio di Manzetti. Vediamola. «Il telegrafo parlante era composto da un cornetto a forma di imbuto nel quale si trovava una lamina di ferro piazzata trasversalmente. Questa lamina vibrava facilmente sotto l'impulso delle onde sonore provenienti dal fondo dell'imbuto. Nel cornetto trovava posto anche un ago magnetizzato infilato in una bobina, posizionato verticalmente rispetto alla lama vibrante e vicino a questa. Dalla bobina partiva un filo di rame avvolto nella seta il cui secondo capo si collegava ad una bobina piazzata in un apparecchio identico a quello già descritto. Da quest'ultimo partiva un ulteriore filo elettrico che andava a collegarsi al primo. «Dunque, se in prossimità della lama del cornetto si emetteva un suono, questo suono era subito riprodotto dalla lama dell'altro cornetto. La comunicazione tra le lame delle due cornette avveniva in forza di un principio che le vibrazioni di una lama di ferro davanti al polo di un pezzo di ferro magnetizzato determinano delle correnti elettriche che durano quanto dura la vibrazione della lama. «In poche parole le onde sonore prodotte dalla voce in un cornetto, si trasformano nell'apparecchio in onde elettriche e ridiventano onde sonore nell'altro cornetto». (v. ra.)


ATTENTI AL TRUCCO In estate costa caro bere da sportivo L'«affare» di certe bevande che contengono sali e zuccheri
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, SPORT
LUOGHI: ITALIA

ALL'ARRIVO del primo caldo sui giornali e in tv, spuntano le pubblicità delle bibite «per gli sportivi». In polvere o in granuli, in tavolette o già pronte, con o senza vitamine, energizzanti o isotoniche e chi più ne ha più ne metta, i reintegratori salini negli ultimi anni, grazie anche al machismo imperante, sembrano diventati indispensabili a chi fa sport. Ma cosa sono in realtà? E poi, sono veramente utili all'organismo? Male non fanno, occorre precisarlo subito. Tutt'al più si tratta di specchietti per le allodole che promettendo di tirare su il fisico contribuiscono ad alleggerire il portafoglio (costano in media 4-6 mila lire al litro, ma un prodotto supera addirittura quota 10 mila). Tutti gli integratori hanno la stessa composizione di base: acqua, zuccheri e sali minerali. Acqua e sali (sodio, potassio e magnesio, in particolare) per compensare la sudorazione, zuccheri per rendere più appetibile la bevanda e per sostenere i muscoli con «carburante» immediatamente assimilabile. Ma zucchero è un termine generico. Maltodestrine e fruttosio sono zuccheri adatti alle fatiche sportive, mentre glucosio e saccarosio vanno bene solo in determinate situazioni. Si tratta di sostanze che vengono bruciate assai rapidamente: se la dose ingerita non viene subito consumata dai muscoli, si verifica un surplus di energia e l'organismo si adegua diminuendo la percentuale di zucchero nel sangue. Per quanto riguarda i sali, l'integrazione con questo tipo di prodotti non è sempre necessaria; occorre verificare quanti se ne perdono durante l'attività fisica in rapporto al tipo di dieta. In un bicchiere di integratore ci sono gli stessi sali contenuti naturalmente in un pasto a base di pasta all'uovo, formaggio fresco e verdura cruda. E non è certo una corsetta nel parco o una passeggiata in bicicletta che fanno andare in deficit il nostro organismo. Per creare uno scompenso tale da dover essere «curato» con un integratore occorre ben altro: non meno di 20 chilometri di corsa, 100 in bici, 3-4 ore di tennis, 2 ore filate e intense di pallacanestro o pallavolo. Cioè un'attività sportiva decisamente agonistica. Ma in tal caso provvederà l'allenatore o il medico sociale con una dieta su misura (e difficilmente si farà ricorso a questo tipo di integratori...). C'è poi un discorso di trasparenza verso il consumatore. Perché far passare per prodigiosi ritrovati ciò che in realtà è molto semplice? Perché ricorrere a un certo tipo di terminologia altisonante per dare una patina di scientificità a prodotti assolutamente naturali? L'aggettivo «isotonico», per esempio, significa semplicemente che, per una migliore assimilazione in queste bibite la concentrazione di sali è molto vicina a quella del sangue. Le etichette sono spesso capziose, non sempre spiegano se si tratta di un prodotto dietetico (e il relativo apporto calorico) e sorvolano sulle modalità di impiego (prima, durante o dopo l'attività fisica), e sulle dosi massime giornaliere (alcuni prodotti, in dosi eccessive, possono provocare diarrea). Che dire poi dell'impiego di coloranti artificiali per una bibita dipinta come naturale e salutista? Infine uno scoop. Sfidando uomini di guardia e sofisticati servizi di sicurezza, i giornalisti di «Tuttoscienze» sono riusciti a carpire l'oscura alchimia, la ricetta segretissima di tali miracolose bevande. In un litro d'acqua minerale naturale spremete un limone o un'arancia. Quindi aggiungete un cucchiaino di sale fino e 5-6 cucchiaini di zucchero (o, meglio ancora, un cucchiaio di buon miele dei nostri boschi). Mescolate per bene e avrete ottenuto l'equivalente delle costose bibite già pronte. Con due vantaggi. Sapete cosa ci avete messo dentro e, per un litro di preparato, non avrete speso più di 8-900 lire. Andrea Vico


GUFI, CIVETTE & C. Iettatori? Ma va là] Vita selvatica dei signori della notte
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ETOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA

IL guaio dei rapaci notturni (gufi, civette & compagni) è che da tempo immemorabile portano l'etichetta di «iettatori». E si sa che la cattiva reputazione è la più dura a morire. Sarà colpa dell'oscurità che ingigantisce suoni e rumori, per cui quando il canto cupo e lamentoso di un gufo o di una civetta echeggia nel cuore della notte, chi l'ascolta pensa subito a un segno premonitore del destino e che una disgrazia stia per capitargli tra capo e collo. Invece i rapaci quando fanno sentire la loro voce non pensano agli uomini. Parlano semplicemente ai loro simili, trasmettendo messaggi di vario tipo. Se è la stagione degli amori e il cantore è un maschio, invita a nozze la femmina, sia pure in toni che sembrano lugubri al nostro orecchio. Ma chissà come li percepisce la destinataria, dotata di finissimo udito? Certo, quel canto non è solo una dichiarazione di disponibilità alle nozze. E' anche un biglietto di presentazione che specifica alla interessata età, doti e specie del pretendente. E lei si regola di conseguenza. Se invece è un suono aspro, gutturale, è un avvertimento rivolto ai rivali che significa pressappoco: «Vi consiglio di girare alla larga». La voce del gufo selvatico (Strix aluco), una delle più ricche di accenti, può esprimere la collera, l'irritazione, la paura o anche la gioia di vivere. Solo quando ha fame e vuole mangiare, l'uccello diventa straordinariamente silenzioso. Non vuole tradire la sua presenza. Non c'è spettacolo più emozionante di quello che offrono gufi, civette, allocchi e barbagianni quando vanno a caccia. Dall'alto di un sostegno, scrutano dapprima all'intorno con i grandi occhi frontali, tondi come l'O di Giotto. In fatto di vista sono dei privilegiati. Invece di vedere il mondo con un occhio per volta, come fa la maggior parte degli uccelli, lo vedono contemporaneamente con tutt'e due. Hanno cioè tanto di visione binoculare, come la nostra. E per giunta possono allargare enormemente il campo visivo, ruotando la testa fino a 270 gradi, come se fosse montata su cuscinetti a sfere. Ma più che la vista, nell'oscurità quasi completa della notte serve l'udito. E anche quello è superlativo. Ai margine delle orecchie i «signori della notte» hanno certe valvole piumate che rizzandosi diventano una sorta di megafono capace di captare il minimo suono da qualunque parte provenga. Il bello è che le orecchie sono spesso asimmetriche. Una è spostata più in basso e in fuori dell'altra. Col risultato che l'uccello percepisce da un orecchio i rumori una frazione di secondo prima che dall'altro. E questo intervallo infinitesimale consente al rapace di calcolare con la massima precisione la direzione da cui proviene il suono e la distanza della preda. Una volta in possesso di questi dati, l'uccello parte all'attacco come un missile teleguidato. Vola col silenziatore. Ha le penne remiganti, quelle delle ali, circondate da sottili morbidissime barbule che annullano completamente il fruscio. Il fattore sorpresa è decisivo. Il topo o la lepre che si illudono di non essere visti perché si nascondono tra l'erba, se lo vedono capitare addosso all'improvviso. Al momento dell'atterraggio, gli artigli affilati vengono giù come il carrello di un aereo e si affondano nelle carni della preda, mentre il becco adunco dà il colpo di grazia. Non c'è possibilità di fuga di fronte a un attacco così fulmineo. In questo modo il rapace fa fuori una quantità di piccoli roditori e di altri animali. Ciascuna specie ha i suoi gusti. Così barbagianni e gufi hanno un debole per topi e ratti, la civetta delle nevi si fa scorpacciate di lemming, i cosiddetti «topi» della tundra, il gufo pescatore è ghiotto di pesce. C'è chi mangia lepri, insetti, cornacchie, serpenti. Ma tutti funzionano come incomparabili regolatori dell'equilibrio naturale, assottigliando le popolazioni in eccesso delle specie predate. Gufi, civette e compagni sono altrettanti esempi di fedeltà coniugale. Maschio e femmina rimangono uniti per tutta la vita. Perciò la scelta del partner diventa una questione della massima importanza. Le «parole» affettuose sono il primo mezzo di cui si serve il maschio per denunciare la propria specie. La femmina che lo ascolta sa benissimo che quello e soltanto quello è il richiamo giusto. Nella babele di richiami sessuali che risuonano nel bosco in primavera, è indispensabile che lo smistamento delle voci avvenga nel modo corretto, come lo smistamento dei treni in un nodo ferroviario. Se una femmina non imbrocca il partner giusto, dall'unione sbagliata nasce un ibrido sterile e allora addio alla perpetuazione della specie. Quando fra i due è avvenuta l'intesa, il maschio conferma la propria identità col rito del corteggiamento. Dopo aver intrecciato una serie di voli intorno alla futura sposa, le si avvicina e incomincia ad accarezzarla. Col becco e con gli artigli le ravvia delicatamente le penne facciali, quelle del petto e del dorso, poi le si strofina contro. E' il preludio dell'accoppiamento. Deposte le uova, la femmina passa un buon mesetto a covarle, mentre il marito si dà un gran da fare a procurarle da mangiare. Poi un bel giorno sgusciano fuori i piccoli, uno solo, due, o più raramente tre. Alla nascita hanno gli occhi chiusi e li ricopre un soffice piumino candido. Sono deliziosi. Se il piccolo è figlio unico, se ne sta buono buono, in attesa di essere imbeccato dai genitori. Ma se i nati sono due o tre, allora si scatenano come diavoletti, si spingono l'un l'altro e gonfiano le penne per assumere un aspetto baldanzoso e aggressivo nei confronti dei fratelli. Quando hanno fame, chiamano i genitori con gridolini e soffiate sommesse. La madre li sorveglia per tre settimane, mentre il padre infaticabile pensa al rifornimento viveri per la famiglia. Un po' alla volta gli uccelletti crescono, incominciano a volare, abbandonano il nido. E imparano le mille astuzie necessarie per sopravvivere in un mondo infido, seminato di insidie, di pericoli e di assurdi pregiudizi sul loro conto. Isabella Lattes Coifmann


BIOTOPI MONTANI Erbe e pascoli al microscopio In Trentino un Centro di Ecologia Alpina
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: PEDROTTI FRANCO
ORGANIZZAZIONI: CENTRO DI ECOLOGIA ALPINA DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO, CENTRO DI ECOLOGIA ALPINA, BONDONE, ECOMONT, ONU
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TRENTO (TN)

ALPI sotto osservazione. La loro salute è seguita attentamente dal Centro di Ecologia Alpina della Provincia Autonoma di Trento, in attività dal marzo 1993. Studiosi di università italiane e straniere vengono ospitati nel Centro, ricavato da un edificio ristrutturato, ex caserma austro-ungarica che domina dalle Viotte del Bondone, a 1500 metri d'altitudine, la valle dell'Adige. Il territorio circostante - prati, pascoli, foreste, vette - è oggetto di ricerca con strumentazioni sofisticate alimentate da celle solari. Si misura il flusso della linfa nei tronchi degli alberi, l'umidità del terreno, la qualità dell'aria, la capacità di assorbimento dei nutrienti da parte dei vegetali, la decomposizione dell'humus nel terreno, la crescita dell'erba, l'indice di biodiversità in un prato regolarmente sfalciato e quello di uno abbandonato. Sono allo studio ambienti da salvare come le zone umide, stagni e torbiere,ricche di vita. La montagna subisce cambiamenti impercettibili in continuazione sia per eventi naturali sia per mano dell'uomo, come quelli verificatisi negli Anni 60, che hanno incentivato l'abbandono della montagna con l'industrializzazione dell'Italia, e successivamente per la politica agraria imposta dalla Comunità Europea. «C'è più diversità biologica in un prato lavorato a fienagione che non in un prato abbandonato. E' un dovere conservare la prateria secondaria, opera secolare dell'uomo dalla preistoria ai giorni nostri», dice Franco Pedrotti, professore del dipartimento di botanica ed ecologia dell'Università di Camerino che ha realizzato la Carta della vegetazione delle Viotte di Monte Bondone, con particolare riferimento alle sue praterie ricche di erbe medicinali. Questi prati vengono falciati una volta all'anno, a fine giugno, per i bagni di fieno, un'antica pratica tradizionale del Trentino e dell'Alto Adige che consiste nell'immergersi nell'erba di montagna in fermentazione per curare alcune forme reumatiche. Questo tipo di cure fa sì che la montagna attorno al piccolo centro termale di Garniga non sia stata abbandonata e la popolazione abbia tratto da questo tipo di attività un beneficio economico. Il censimento delle erbe di un prato è fondamentale per valutare lo stato di salute di una prateria e del suo terreno. L'analisi di una vasta zona circostante le ex caserme austriache - scrive il botanico Pedrotti - evidenzia come le praterie dell'associazione Scorzonero aristatae e Agrostidetum tenuis abbiano subito modificazioni notevoli in seguito a concimazioni e semine di specie prative non autoctone come l'Arrhenatherun elatius. In aree sfalciate esiste un buon equilibrio, nelle altre si sono innescati processi di successione secondaria che hanno portato profonde modificazioni nel paesaggio vegetale delle Viotte. Una nuova associazione, il Salicetum fienagione, è stata abbandonata e altrettanto succede in aree già destinate alla lottizzazione e poi abbandonate o presso casolari disabitati. Un'altra associazione che si diffonde lungo le nuove strade che intersecano la prateria delle Viotte è il Bromus inermis o Bromo ungherese comparso in Trentino all'inizio del secolo al seguito di soldati ed animali e prolificato in aree prive di cotica erbosa: scavi di trincee, crateri di granate. Un'alternanza di foreste, boschi, radure, pascoli, praterie, è indice di una presenza eterogenea anche di fauna dove ciascun animale trova il suo habitat ideale per la riproduzione. Presso il Centro di ecologia alpina c'è anche un istituto per lo studio, l'allevamento e la riproduzione di specie animali rare e minacciate, come la coturnice e la pernice bianca, in vista di una reintroduzione in aree opportune. Vi è inoltre un osservatorio sulle malattie della fauna, che assume grande importanza per l'emergenza zecche scattata in tutte le valli del versante orientale alpino fino a 1500 metri d'altitudine dove sono infestati soprattutto i micromammiferi, gli ovini e gli ungulati. Da qui la raccomandazione di andare in montagna in modo appropriato con pantaloni lunghi e calzettoni. Una puntura di zecca oltre che ad fastidiosa può essere portatrice di malattie terribili quali l'encefalite acuta e il morbo di Lyme. Il dipartimento di botanica ed ecologia dell'Università di Camerino, dopo la carta della vegetazione, ha in via di pubblicazione la carta delle foreste di tutto l'arco alpino e una serie di volumi della flora italiana rara, estinta o in via d'estinzione, suddivisa per regione, dove sono spiegate le cause della scomparsa in un certo luogo. Il Centro di ecologia alpina Bondone sta collaborando al progetto europeo Ecomont - patrocinato dall'Onu - sullo studio dei biotopi montani, in compartecipazione con le università di Austria, Scozia e Spagna. «E' bene che i politici prestino attenzione alla montagna perché essa è fonte di acqua, energia, ricreazione e turismo - dice Paolo Chemini, entomologo e presidente del Centro -, studiarla e conoscerla è utile per prevedere il futuro, non solo delle popolazioni che la abitano, ma lo stato di salute di tutto il Paese. Pia Bassi


IN AUSTRALIA Canguri ciechi e anche pazzi? Sono migliaia i marsupiali vittime di un virus
Autore: MORETTI MARCO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA, ANIMALI, MALATI
ORGANIZZAZIONI: NATIONAL PARKS AND WILDLIFE SERVICE, AUSTRALIAN ANIMAL HEALTH LABORATORY, VICTORIAN INSTITUTE OF ANIMAL SCIENCE
LUOGHI: ESTERO, OCEANIA, AUSTRALIA, SYDNEY

CENTINAIA di migliaia di canguri ciechi corrono senza meta tra le distese disseminate d'arbusti spinosi dell'Australia. Si schiantano contro i tronchi degli alberi, finiscono nei fiumi o, più facilmente, vengono travolti sulle strade da auto che non riescono a vedere. Nell'ultimo anno, nelle aree rurali, più di un terzo degli incidenti automobilistici sono stati provocati da collisioni con marsupiali. I primi ad accorgersi dei comportamenti inconsueti dei canguri sono stati i rangers del National Parks and Wildlife Service. In soccorso del mammifero saltellante sono intervenuti i ricercatori dall'Austra lian Animal Health Laboratory e del Victorian Institute of Ani mal Science di Melbourne. In un anno di monitoraggi tra gli immensi territori di Queensland, New South Wales, Victoria, South Australia e Western Australia sono state cercate le cause ed è stata quantificata la dimensione del fenomeno. Nel solo New South Wales, lo Stato di Sidney, ci sono 200 mila canguri accecati su di una popolazione di 5 milioni di esemplari. Il dato più preoccupante riguarda però la specie grigia del Western Australia (Perth): il 30 per cento di questi marsupiali di medie dimensioni hanno perso la vista. La causa è un virus del gruppo Orbivirus, isolato solo lo scorso maggio: colpisce i nervi ottici e i tessuti connettivi degli animali provocando gravi lesioni e la cecità. Oltre agli occhi, danneggia tessuti e funzioni del cervello. Canguri pazzi oltre che ciechi? Non si sbilanciano ancora gli scienziati australiani, anche perché i comportamenti fuori norma dei marsupiali colpiti dal virus possono essere la manifestazione incontrollata del trauma seguito alla malattia. Senza contare che la cecità rende loro più difficile la ricerca di cibo e acqua nei territori semi- aridi in cui vivono e la malnutrizione indebolisce ulteriormente l'animale. Il virus pare portato da una delle centinaia di varietà di mosche della sabbia presenti in Australia e, al momento, sembra attaccare solo i marsupiali: nessun caso è stato registrato tra i milioni di capi di ovini e bovini che pascolano nel Paese. E' l'ennesima dimostrazione della superiorità genetica delle specie placentate, introdotte negli ultimi due secoli in Australia, rispetto ai marsupiali originari del continente. I prossimi passi della ricerca saranno l'esame del sangue dei canguri infetti: per isolare l'insetto portatore del virus e tracciare una profilassi capace di mettere in salvo il simbolo nazionale. Marco Moretti


DALLA BARBABIETOLA Isomalt, nuovo dolcificante Non innalza la glicemia e non contribuisce alla carie
Autore: R_PEL

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

L'UOMO ha sempre cercato di soddisfare il desiderio di sapori dolci ricorrendo, nelle varie epoche storiche, ai frutti della terra, al miele, allo zucchero di canna e di barbabietola. Oltre ai mono-disaccaridi tradizionali (glucosio, fruttuosio, saccarosio) la ricerca, oggi, ha messo a punto numerosi dolcificanti che si possono raggruppare in due categorie: polialcool (che appartengono alla famiglia dei carboidrati e sono definiti mono-disaccaridi idrogenati: sorbitolo, mannitolo, xilitolo, lattitolo), e i dolcificanti intensivi (di diversa origine), definiti anche sintetici: saccarina, aspartame, acesulfame, ciclamati. I polialcool sono meno calorici dello zucchero da tavola (circa la metà), non causano carie, hanno un potere dolcificante ridotto. I dolcificanti intensivi invece sono completamente acalorici, acariogeni e dotati di un elevato potere dolcificante. Per ottenere prodotti piacevoli, sovente è necessario associare i dolcificanti di entrambe le categorie. Fra tutti questi prodotti merita attenzione un polialcool, l'isomaltulosio idrogenato, detto anche isomalt. Isomalt si ottiene dalla barbabietola grazie all'attività enzimatica di un particolare ceppo batterico (protaminobacterrubrum), che produce uno stretto legame tra le molecole di glucosio e fruttosio costituenti il saccarosio (isomerizzazione). Successivamente il prodotto ottenuto viene idrogenato allo scopo di ottenere una soluzione acquosa neutra. In altre parole, la ricerca oggi ha trovato il modo di modificare il saccarosio proveniente dalle barbabietole e di ottenere un dolcificante più adatto alle esigenze della vita moderna. Mentre il saccarosio è un disaccaride facilmente scisso nell'organismo umano in glucosio e fruttosio, isomalt è un alcool-disaccaride, molto più stabile: nell'organismo umano la produzione di glucosio non avviene, o avviene in modo molto ridotto. Di conseguenza non innalza la glicemia, fornisce un apporto calorico ridotto del 50% rispetto al saccarosio, non costituisce un materiale utilizzabile dai microorganismi responsabili della carie. Secondo una tecnica messa a punto dall'Università di Zurigo e approvata dalla «Tooth friendly» (un'associazione, senza fini di lucro, che raggruppa studiosi in Odontoiatria), un dolcificante viene definito «non cariogeno» se il ph nell'ambito orale non scende al di sotto di 5,7, durante i 30 minuti successivi all'ingestione di cibo.(r. pel.)


TUTTOSCIENZE MULTIMEDIA. ESPLORARE INTERNET Il super-ragno di Alta Vista Un potente software estrae e ordina informazioni
Autore: LENTINI FRANCESCO

ARGOMENTI: ELETTRONICA, COMUNICAZIONI
ORGANIZZAZIONI: INTERNET
LUOGHI: ITALIA

INTERNET è grande e McLuhan è il suo profeta. Egli aveva quasi preconizzato l'avvento di un nuovo me dium che sarebbe stato al tempo stesso il contenitore, il contenuto e il mezzo per trasferirlo. Internet, appunto. Tuttavia alcuni anni fa qualcuno capì che, dato il tasso di crescita esponenziale, presto nessuno sarebbe riuscito a cavare il classico ragno dal buco. Come dominare la ridondanza informativa? La risposta è venuta dalla tecnologia dei motori di ricerca. Il termine «motore» ci dice che si tratta di particolari abbinamenti di hardware e di software capaci di produrre movimento, ossia di spostare le informazioni esistenti, rimescolarle e addirittura trasformarle. Sono in pochi oggi a padroneggiare questa tecnologia, e sono già tutti ricchi. Ma tutti sognano di costruire il motore più potente. In questa competizione - che è anche una sfida di cervelli - si è da poco inserito un nuovo concorrente. Il progetto Alta Vista comincia nell'estate del 1995 presso i laboratori americani della Digital. Siamo a Pasadena, in California. C'è una miniera d'oro chiamata World Wide Web e i primi minatori sono già al lavoro, armati dei loro setacci. Ad esempio una società chiamata Yahoo (solita coppia di genietti con poca passione per lo studio), ha una quotazione importante alla borsa di Wall Street. Un loro programma esplora incessantemente Internet e pubblica in bella forma le informazioni trovate: oro, appunto. Ma anche alla Digital si stanno attrezzando. Abbinando un «superragno» con un potente software di indicizzazione scalabile, il team di ricerca riesce a creare il più grande archivio di risorse Internet disponibile al mondo: i dati ufficiali parlano, oggi, di 30 milioni di pagine Web e 10 miliardi di parole, offerti quotidianamente a 12 milioni di visitatori (ma i numeri crescono in continuazione). Alta Vista ha una marcia in più perché lavora in modalità full-text, ossia estrae e indicizza tutte le parole di un dato documento, mentre Yahoo e gli altri si fermano alle prime righe. Per questo ci vogliono computer veloci e in grado di lavorare senza interruzione, nonché programmi intelligenti, capaci di separare il grano dal loglio: programmi come Scooter, capace di tessere una ragnatela di 2 milioni e mezzo di pagine al giorno. Per avviare il motore di Alta Vista si deve andare all'indirizzo http://www.altavista.digital.com e digitare una chiave di ricerca, ossia una frase, una parola o almeno un gruppo di lettere. Cinque secondi per digitare, molto meno per ottenere la risposta (se la rete funziona). E alcuni mesi per visitare i siti «consigliati» da Alta Vista] Così non va bene, si deve raffinare la ricerca con l'uso degli operatori logici: AND per indicare la compresenza di due o più parole e OR per indicare l'alternativa. Ma Alta Vista ammette anche l'operatore NEAR, ossia vicinanza: ad esempio «Mario NEAR Rossi» estrae i documenti in cui si trova il nominativo Mario Rossi, mentre la chiave «Mario AND Rossi» estrarrebbe anche i documenti in cui le due parole figurano separate (quindi verrebbero fuori Mario Chiesa e Paolo Rossi). Alta Vista è così potente che può essere usato per verificare lo spelling di una parola, ma anche i concorrenti come Infoseek, Lycos, Webcrawle e lo stesso Yahoo possono farlo. Per il momento, come esercitazione, provate a verificare se si scrive CDROM o CD-ROM. Basta effettuare due ricerche distinte e confrontare il numero di documenti trovati: il termine più frequente è quello giusto. Francesco Lentini


TUTTUSCIENZE MULTIMEDIA Navigando In rete tutto sul Mit
Autore: PEIRETTI FEDERICO

ARGOMENTI: ELETTRONICA, COMUNICAZIONI
ORGANIZZAZIONI: INTERNET
LUOGHI: ITALIA

IL tema che ha più spazio su Internet è certamente l'informatica. Ci sono migliaia di siti fra i quali chi procede senza una rotta precisa, rischia inevitabilmente di perdersi. Per avere un quadro generale e aggiornato della situazione si può partire dal Massachusetts Institute of Technology,http://web.mit.edu/ E' uno dei più prestigiosi centri di ricerca, presente in rete con un grande sito, organizzato in modo esemplare. Attraverso le pagine ipertestuali del Mit e i collegamenti proposti con altri siti è possibile approfondire qualsiasi argomento. Dalla pagina principale si scelga il collegamento «Computing at Mit» aprendo così il mondo della ricerca del Mit nel campo dell'informatica. Nel «Laboratorio dell'Intelligenza Artificiale» vengono, ad esempio, presentati i progetti attualmente allo studio, come il «Reinventing Computer Project» che ha come obiettivo la determinazione di nuove tecnologie hardware e software per il computer del ventunesimo secolo, oppure i progetti su robot chiamati a risolvere funzioni di ogni tipo, il «Cheap Vision Machine» per la produzione di meccanismi di visione a basso costo o il «Leg laboratory» per la progettazione di robot che possano correre e camminare. Se si continua la navigazione fra le pagine del Mit si trovano dizionari, manuali, riviste, i consigli per l'uso di Windows '95, la versione elettronica del giornale degli studenti, «The Tec», e anche pagine meno impegnative, a disposizione degli studenti, sulle manifestazioni e le iniziative dell'Università, le previsioni del tempo, illustrate da splendide cartine, e sulla vita (anche quella notturna) della vicina Boston, dove si trova il «Computer Museum» che possiede una delle più importanti collezioni di computer e robot. All'indirizzo http://www. net.org/ Il museo presenta le sue attività, oltre a un elenco aggiornato di siti informatici. A fine mese verrà inaugurato un nuovo, più completo «Computer Museum Network» che prevede, accanto alle visite virtuali del museo stesso, una storia multimediale del computer. Curiosando fra i siti segnalati dal museo, abbiamo scoperto le iniziative della Scuola di Ingegneria e Scienza Applicata dell'Università della Pennsylvania per ricordare il cinquantesimo anniversario della costruzione dell'Eniac. http://www. seas.upenn.edu/ ~museum/overview.html E' disponibile tutta la documentazione relativa al primo computer elettronico realizzato dagli ingegneri della Scuola e presentato ufficialmente al pubblico il giorno di San Valentino, 14 febbraio, del 1946. Ampio spazio è dedicato alla presentazione, nei particolari, del progetto l'«Eniac in un chip». Gli ingegneri della scuola, sostituendo valvole con transistor, hanno collocato in un chip di pochi centimetri quadrati tutti i circuiti dell'Eniac che era lungo 25 metri, alto 3, pesava 13 tonnellate e utilizzava ventimila valvole collegate da chilometri di fili. Federico Peiretti


TUTTOSCIENZE MULTIMEDIA E' nato «Internet phone» Per chiamate intercontinentali a basso costo
Autore: MEZZACAPPA LUIGI

ARGOMENTI: ELETTRONICA, COMUNICAZIONI, TELECOMUNICAZIONI
ORGANIZZAZIONI: INTERNET, AT&T, MCI
LUOGHI: ITALIA

GRAZIE ai progressi delle telecomunicazioni, oggi, in termini di semplicità e facilità di collegamento, non c'è proprio più nessuna differenza tra una telefonata al collega dell'ufficio accanto e una chiamata intercontinentale al corrispondente dall'opposto del globo. L'unica differenza sta nella bolletta. Ma chissà, in futuro anche questa «sottile» differenza potrebbe cadere a causa del cosiddetto «internet phone», un dispositivo assimilabile ad un telefono digitale da installarsi su personal computer, in grado di trasformare la voce in sequenze di bit da instradare su Internet piuttosto che sui collegamenti telefonici convenzionali, alla stregua di quanto avviene con tutti gli altri messaggi digitali, a cominciare dalla posta elettronica. Per cimentarsi in telefonate Internet basta il solito personal computer (un 486 a 66 Mhz con 8 Mbyte di memoria è più che sufficiente), una scheda audio digitale e un modem (almeno 14.400 bit al secondo) per la connessione al «provider» Internet più vicino. Poi occorre un software che lavori in simbiosi con la scheda audio per comprimere la voce digitalizzata ed effettuare il collegamento con un altro utente della rete delle reti. Le Società di software che hanno messo a punto queste tecniche sono ormai diverse, tutte americane. In genere, oltre alla conversazione il software consente l'invio di messaggi vocali in estensione all'ormai comune e diffuso e- mail, la condivisione di documenti elettronici (la cosiddetta «whiteboard», tavolo di lavoro a quattro mani), e tutta una serie di altre amenità. La qualità della voce non è straordinaria e spesso si può avvertire un certo ritardo, una specie di «singhiozzo». All'inizio gli «internet phone» erano solo «half-duplex», ovvero permettevano la conversazione in una sola direzione alla volta (ricordate le radio rice-trasmittenti, «passo-e-chiudo»?), ma la messa a punto delle tecniche di compressione e connessione sta superando questi limiti e sono già disponibili soluzioni che consentono la conversazione «full-duplex». Il prezzo, quello sì, è straordinario: a chi ha già tutti i requisiti (Pc e scheda audio) bastano poche decine di dollari per acquisire il pacchetto software. E' facile immaginare l'imbarazzo delle compagnie telefoniche tradizionali di fronte allo slogan: «Telefonate intercontinentali al costo delle tariffe urbane». Negli Stati Uniti, l'associazione degli operatori di telecomunicazioni «minori», attestati in piccole aree geografiche, ha manifestato la sua grande apprensione in merito alla minaccia rappresentata dal rapido diffondersi di queste soluzioni. E' stata formalmente richiesta alla Commissione federale delle Comunicazioni la regolamentazione dell'uso dei canali di comunicazione, eventualmente imponendo limiti al trasporto dei segnali digitali. Alcuni analisti definiscono questa richiesta un'impresa disperata, considerando che è in assoluta controtendenza alle direttive di «deregulation». Ma i grandi protagonisti americani delle telecomunicazioni (At&t e Mci, ad esempio) non sembrano così spaventati da queste novità. Le soluzioni tecniche sono interessanti - dicono - ma presentano ancora molti limiti sul fronte della standardizzazione e della qualità/capacità. Ammesso e non concesso che Internet raggiunga la diffusione della connessione telefonica ordinaria, infatti, non è certo che - per come è architettata - possa offrire le stesse garanzie. Vero, ma con maggiore probabilità, la tranquillità di questi colossi deriva dalla consapevolezza di essere già sufficientemente attrezzati - con la distribuzione di collegamenti ad alta capacità trasmissiva in vaste aree geografiche - per giocare su un terreno più ampio di «connettività globale». Con buona ragione, questo può essere considerato l'ennesimo esempio di come l'incalzare della tecnologia scombussoli l'ordine costituito delle cose, non solo per gli utilizzatori, ma sempre più spesso anche per gli stessi fornitori di strumenti e servizi. L'evoluzione tecnologica corre più veloce della capacità di riadattamento e riorganizzazione. Luigi Mezzacappa




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