TUTTOSCIENZE 14 febbraio 96


E' NATO «APE 100» Supercomputer figlio della fisica Realizzato a Roma, è il più potente d'Europa
Autore: FURESI MARIO

ARGOMENTI: INFORMATICA, FISICA
NOMI: CABIBBO NICOLA
ORGANIZZAZIONI: ENEA, INFN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Ape 100 (Array Processor Experiment)

E' nato a Frascati il supercomputer più potente d'Europa. Lo ha progettato e ha diretto la costruzione del prototipo Nicola Cabibbo, docente di Fisica teorica dell'Università romana di Tor Vergata e presidente dell'Enea (Ente per le Nuove tecnologie, l'Energia e l'Ambiente) e della Pontificia Accademia delle Scienze. Cabibbo ha chiamato il suo supercomputer Ape 100, acronimo tratto da Array Processor Experiment, ossia Esperimento di esecuzione parallela di calcolo scientifico, mentre 100 deriva dall'essere cento volte più potente del primo Ape che, realizzato sempre all'Infn, era capace di compiere un miliardo di operazioni al secondo, diventate 100 miliardi con Ape 100. Questo secondo supercomputer è il più potente d'Europa e, come il primo, è stato costruito «in famiglia» per poter risparmiare: è venuto a costare infatti un decimo della somma che si sarebbe spesa se si fosse acquistato uno di pari potenza costruito negli Usa o in Giappone. Il perché di un supercomputer di tale potenza ce lo spiega lo stesso Cabibbo: «All'inizio degli Anni Ottanta era divenuto evidente che l'unico modo per esaminare le predizioni della cromodinamica quantistica - la teoria che descrive il comportamento dei quark, componenti ultimi della materia nuceare - era la simulazione numerica della teoria stessa. Ma la potenza di calcolo richiesta è enorme...». L'Infn ha poi ceduto la licenza di fabbricazione alla Alenia- Spazio che, con il nome di Ape- Quadrics, ne ha fornito una cinquantina, distribuiti tra università italiane ed europee, complessi pubblici di ricerca, tra cui il Desy di Amburgo, e grandi enti italiani di ricerca pubblica. Gli Ape 100 vengono usati nei settori più avanzati della ricerca; all'Infn, ad esempio, nella cromodinamica quantistica, sui materiali amorfi e sui moti turbolenti dei fluidi. Anche l'Enea usa questi supercomputer nei settori d'avanguardia della ricerca scientifica e tecnologica; alcuni di essi ci sono stati indicati da Cabibbo: «All'Enea con l'Ape 100 stiamo affrontando: la modellistica dell'atmosfera; la scienza dei materiali; il trattamento di immagini; la chimica e la fisica della combustione; la visione artificiale e i plasmi». Presso l'Infn è in corso di realizzazione un supercomputer più potente, l'Ape 1000, capace di compiere mille miliardi di operazioni al secondo. «Ape 100-Quadrics - dice Cabibbo - è un esempio dell'importanza strategica della ricerca scientifica nel generare lavoro. Ricadute importanti dal punto di vista produttivo possano nascere da ricerche in apparenza lontane dagli interessi di tutti i giorni, quali gli studi sulla natura del nucleo atomico». E' prevedibile che il successo riportato da Ape si rinnoverà con il Progetto Pqe 2000, ultimamente varato dalla stretta cooperazione tra Infn, Cnr, Enea, nuclei universitari di ricerca e Alenia-Spazio. Il Progetto ha per obiettivo la realizzazione di un sistema parallelo di calcolo costituito da un supercomputer caratterizzato da soluzioni innovative in ogni campo nonché da una potenza pari a quella massima oggi raggiunta nel mondo. Mario Furesi


STRIZZACERVELLO Quadrati a pezzi
LUOGHI: ITALIA

Tagliare un quadrato in quattro pezzi uguali. Si può tagliare soltanto lungo le linee tratteggiate. In figura sono riportate due possibili soluzioni. Ne esistono altre quattro: quali sono? E


COME FUNZIONA LA SCATOLA NERA Gli ultimi dieci minuti Due registratori «ricordano» centinaia di dati
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Funzionamento della «scatola nera» a bordo degli aerei. Progetto, da Laurent Brindeau - Line + Line, The Guardian

Quando cade un aereo, gli investigatori cercano immediatamente la «scatola nera», o «Flight data recorder», che contiene la registrazione di tutto ciò che accade in volo, e quindi può aiutare a capire che cosa non ha funzionato. La «scatola», comunque, non è nera, ma giallo arancio, per facilitarne il ritrovamento tra i rottami del velivolo in caso di incidenti. «The black box», consiste in un circuito integrato stampato su una scheda (in genere sei megabyte complessivamente), avvolto in lana di roccia e sigillato in un cilindro di titanio. Questo a sua volta, è coperto di conglomerato di sughero per proteggerlo dal calore ed è chiuso in un secondo cilindro. Infine tutto quanto è chiuso in un contenitore di titanio e alluminio. Ogni aereo ha due «scatole nere»: il «voice recorder», che registra le voci e i rumori in cabina, e il «flight data recorder». Questultimo immaganiza, come i un computer vibrazioni, comportamento dei mototi, posizione del timone e delle latre parti di governo e altre migliaia di dati, rilevati centinaia di volte al secondo, con i quali spesso (ma non sempre) è possibile risalire alle cause del disastro.


MATEMATICA CURIOSA E' ancora moderno il teorema di Pitagora Ecco la storia delle sue metamorfosi attraverso duemila anni
Autore: ODIFREDDI PIERGIORGIO

ARGOMENTI: MATEMATICA
NOMI: PITAGORA
LUOGHI: ITALIA

SIAMO disposti a scommettere che, se chiediamo di nominare un teorema di matematica a caso, la maggioranza delle persone risponderà: il teorema di Pitagora. Qualcuno si ricorderà anche l'enunciato, come una filastrocca: in un triangolo rettangolo, il quadra to costruito sull'ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. Probabilmente quasi nessuno saprebbe dimostrarlo su due piedi. La storia del teorema di Pitagora testimonia sia la nascita della matematica come scienza, che la vitalità delle idee matematiche nelle loro successive trasformazioni. Già i Babilonesi, 2000 anni prima di Cristo e 1500 prima di Pitagora, ne conoscevano l'enunciato, ma la prima dimostrazione pervenutaci (che ci guarderemo bene dal propinare ai lettori in questa sede) è negli Elementi di Euclide, del 300 a.C. Prima di affrontare una dimostrazione, bisogna però avere qualcosa da dimostrare. In matematica un'idea si presenta con una intuizione spesso banale, e il teorema di Pitagora non fa eccezione. Senza nessuna pretesa di una (impossibile) verosimiglianza storica, possiamo immaginare che nel nostro caso qualcuno abbia prima o poi notato, ad esempio facendo la doccia o il suo equivalente antico, che le piastrelle quadrate del bagno si possono dividere a metà come nella figura 1: metà piastrella è un triangolo rettangolo, e due piastrelle sono uguali a quattro metà. Non tutti i frequentatori dei bagni saranno stati particolarmente sagaci, ma qualcuno prima o poi deve essersi chiesto se l'osservazione precedente fosse un accidente dovuto al fatto che le piastrelle sono quadrate, o se invece qualcosa di simile valesse anche con piastrelle rettangolari. Ecco dunque nascere la proposta di una gene ralizzazione, nella forma dell'enunciato del teorema di Pitagora. Quello che però era evidente per le piastrelle quadrate, non lo è più per quelle rettangolari (che creano una situazione come nella figura 2: interessante, ma con due rettangoli e un rombo al posto di tre quadrati). Non c'è quindi nessun motivo di credere che il passaggio dai quadrati ai rettangoli preservi la proprietà notata sopra, a meno di non trovare la convinzione in una dimostrazione. Che non deve essere particolarmente difficile, come mostra la figura 3: basta ridisporre i triangoli in modo diverso, la prova si mostra da sè. Una volta dimostrato un enunciato, il matematico vede se può andare oltre. Ad esempio, può chiedersi se è vero anche il suo inverso. Nel caso del teorema di Pitagora: se in un triangolo il quadrato costruito su uno dei lati è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sugli altri due lati, il triangolo è rettangolo? Non c'è nessun motivo a priori che faccia sì che, se un enunciato è vero, lo sia anche il suo inverso: ad esempio, può darsi che sia vero che se piove io esco con l'ombrello, senza che questo significhi che se esco con l'ombrello allora piove. Ma nel caso del teorema di Pitagora, per una fortunata coincidenza anche il suo inverso è vero: in particolare, se un triangolo ha i lati di lunghezza 3, 4 e 5 allora è rettangolo (perché 32 più 42 = 52), e questo fatto era già stato usato dai soliti Babilonesi per tracciare angoli retti (usando corde con 12 nodi posti alla stessa distanza). Le metamorfosi del teorema di Pitagora sono state molteplici nei secoli: nel 1637 Cartesio introdusse la geometria carte siana, in cui esso diventa la formula per calcolare la distanza di due punti date le loro coordinate; nel 1829 e 1832 Nicholai Lobachevsky e Janos Bolyai introdussero la geometria iperbo lica, che è caratterizzata dal fatto che il teorema di Pitagora non vale per qualche triangolo rettangolo; nel 1854 Bernard Riemann introdusse la geome tria riemanniana, che è caratterizzata dal fatto che il teorema di Pitagora vale per triangoli rettangoli piccolissimi (infinitesimi)... Questi sviluppi mostrano come un granello di sabbia possa diventare col tempo, nell'ostrica della comunità matematica, una perla che continua a risplendere nonostante la sua veneranda età. Piergiorgio Odifreddi Università di Torino


LA RIFRAZIONE Strada bagnata ma non è pioggia
Autore: CAGNOTTI MARCO

ARGOMENTI: OTTICA E FOTOGRAFIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. La rifrazione

BENCHE' sia inverno, provate a immaginare un'autostrada assolata. In lontananza il fondo stradale appare bagnato. Quando i bambini chiedono spiegazioni, di solito i genitori rispondono che l'aria calda fa sembrare bagnata la strada. A pensarci bene, è una risposta che spiega tutto senza chiarire nulla: perché l'aria dovrebbe produrre quest'illusione ottica, e solo guardando lontano, per di più? Dietro questo strano effetto troviamo un'interessante proprietà dei raggi luminosi. Passando da un mezzo all'altro, o nello stesso mezzo ma attraversando regioni con proprietà fisiche diverse, essi modificano la propria direzione. Questo fenomeno prende il nome di rifrazione. Ogni sostanza possiede, in funzione delle sue proprietà fisiche e chimiche, un indice di rifrazione, espresso da un numero privo di unità di misura. Gli indici dei due mezzi attraversati dalla luce determinano di quanto essa è deviata dalla direzione iniziale. Se la radiazione luminosa arriva alla superficie di contatto con un angolo superiore a un ben preciso angolo "critico" viene totalmente riflessa. La luce proveniente dal cielo in estate attraversa strati d'aria a temperature diverse, più caldi a quote più basse, e a causa dei loro differenti indici di rifrazione incurva la propria direzione di propagazione, fino a essere riflessa da uno strato vicino al terreno e a dare l'impressione di arrivare direttamente dalla strada. Il fondo «bagnato» non è altro che l'immagine del cielo blu. Il tremolio è dovuto alle variazioni nella rifrazione da parte dell'aria calda, e può dare l'illusione di acqua corrente. Si narra perfino di un pellicano trovato morto sull'asfalto di un'autostrada negli Stati Uniti: volando nell'assolata campagna americana aveva forse scambiato la sottile striscia della strada per un corso d'acqua, nel quale si era gettato a capofitto, probabilmente per cercare refrigerio. Oltre a questo miraggio, cosiddetto "inferiore", esiste anche un miraggio "superiore". Quando la temperatura dell'aria aumenta con l'altezza rispetto al suolo i raggi di luce provenienti da un oggetto sulla superficie terrestre e diretti verso l'alto vengono dapprima rifratti, e poi riflessi verso il terreno. A un osservatore distante daranno quindi l'illusione ottica di un oggetto molto più grande di quanto non sia in realtà. Così, in particolari condizioni atmosferiche, montagne lontanissime possono apparire enormi, e quindi vicine. L'occhio stesso sfrutta la rifrazione nel passaggi della luce dall'aria alla cornea per focalizzare l'immagine sulla retina. Ecco perché sott'acqua senza maschera è molto difficile vedere bene: la cornea e l'acqua hanno un indice di rifrazione molto simile, e la rifrazione è quasi nulla. Una maschera subacquea sul viso crea un'intercapedine d'aria che risolve il problema. La rifrazione genera curiosi "miraggi" anche nella vita quotidiana, cosicché non è necessario recarsi in un deserto, nè aspettare condizioni atmosferiche molto particolari, per osservare le strane illusioni ottiche che essa può provocare. Un semplice cucchiaino in un bicchiere d'acqua apparirà incurvato se osservato di fianco e vicino al bordo del bicchiere. Infatti la luce, cambiando il mezzo attraversato (dall'acqua all'aria), modifica la propria direzione di propagazione e dà l'impressione di un oggetto non perfettamente rettilineo. Se sul fondo del bicchiere poniamo una monetina, ne vediamo un'immagine sul pelo dell'acqua. Si tratta dell'immagine riflessa sul lato opposto del contenitore che, rifratta nel passaggio dall'acqua all'aria, si rende visibile. Porre una mano dietro il bicchiere, a contatto con il vetro, non cambia l'effetto: si vede sempre la monetina sulla superficie dell'acqua. Curiosamente, se la mano è bagnata l'effetto scompare. Sapreste dire per quale ragione, e cosa c'entra la rifrazione? E sapreste spiegare perché l'ombra di una matita immersa per metà in una bacinella d'acqua appare spezzata in due parti, sempre a causa della rifrazione? Marco Cagnotti


MEDICINA C'è un interruttore per spegnere il dolore Ecco le più recenti terapie che alleviano le sofferenze dei malati
Autore: DELFINO UGO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: OMS
LUOGHI: ITALIA

NEL 1931 il Premio Nobel Albert Schweitzer disse: «Il dolore domina l'umanità più della morte». Oggi, dopo 65 anni, il dolore acuto o cronico affligge ancora decine di milioni di esseri umani e altera la qualità della loro vita fino a renderli invalidi. E i trattamenti medici sono quasi sempre inadeguati. Esistono dolori che durano soltanto giorni: come quelli causati da traumi, postumi di operazioni, malattie che si riacutizzano. Ma il dolore che più spaventa è quello cronico, che dura mesi o anni, creando dei veri invalidi. Questa è la sorte di chi soffre di cefalee o nevralgie persistenti, nevrite post-erpetica, distrofia simpatica riflessa, dolore al basso rachide, per arrivare al dolore neoplastico. L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha calcolato che ogni anno almeno tre milioni e mezzo di persone soffrono di dolori causati da un tumore e solo una piccola parte beneficia di una terapia soddisfacente. Che cosa si può fare per cambiare questa situazione? Nel dolore acuto - in particolare in quello traumatico e post operatorio - otteniamo già ottimi risultati: i farmaci impiegati sono gli oppiacei, talvolta abbinati agli anestetici locali. In pratica, oggi la somministrazione epidurale e intratecale di minime dosi di oppiacei rappresenta il maggior contributo per alleviare il dolore nel periodo postoperatorio. Il dolore cronico - antico e terribile nemico dell'umanità - è un problema moderno ben più grave e drammatico. E' causato da patologie come le nevriti, le fibromialgie, le nevriti posterpetiche, le nevralgie della colonna spinale e da tutte le malattie su base degenerativa come le artrosi. Per fortuna oggi lo specialista dispone di mezzi e metodi quasi sempre efficaci, almeno per periodi limitati. Si tratta di terapie farmacologiche. Ma quando è necessario un trattamento prolungato, lo specialista può ricorrere alla terapia di «blocco loco- regionale» che risolve una serie di ardui problemi. Se il dolore è insopportabile e invalidante, possiamo intervenire con tecnologie e capacità umano-specialistiche modernissime e in continua evoluzione. Nella nevralgia del trigemino, del glossofaringeo e in alcune forme di dolore lombare, abbiamo la possibilità di ricorrere ai «blocchi neurolitici», eseguiti con metodiche molto precise, impiegando apparecchi radiologici, che consentono una lesione esatta del nervo responsabile della sintomatologia dolorosa: mettendolo, se così si può dire, a tacere. Per il dolore di origine infiammatoria e da edema (lombosciatalgie, cervicalgia, sciatica), e con interessamento muscolo- scheletrico (tendiniti, distorsioni, lussazioni, mialgie), disponiamo di attrezzature elettromagnetiche ad altissima affidabilità: capaci, con appositi cicli e trattamenti, di annullare queste forme di dolore senza alcuna aggressione, nè farmaceutica, nè chirurgica. Questi apparecchi sono veri gioielli della tecnologia: dotati di ampia gamma di programmi, utilizzando correnti diadinamiche e ultrasuoni, attraverso sistemi computerizzati sofisticatissimi valutano le correnti adatte ad ogni singolo paziente e praticano trattamenti mirati di analgesia, stimolazione nervosa, rilassamento, tonificazione e rieducazione muscolare. Alle soglie del 2000 possiamo dire che il dolore - specie quello cronico, un tempo invincibile - se ben diagnosticato e curato coi nuovi mezzi non è più una barriera insuperabile. Ugo Delfino Università di Torino


A TORINO Un museo della lotta al diabete
Autore: BODINI ERNESTO

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, MEDICINA E FISIOLOGIA, MUSEO
NOMI: BRUNI BRUNO, BOCHER KAREN
ORGANIZZAZIONI: OSPEDALE MARIA VITTORIA, CENTRO DI DIABETOLOGIA, MUSEO DEL DIABETE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

PARECCHI anni fa, in un corridoio accanto alla Divisione di endocrinologia all'ospedale Maria Vittoria di Torino, veniva aperto il Centro di Diabetologia, voluto dal professor Bruno Bruni. Nello stesso corridoio c'era un piccolo armadio dove Bruni, primario della Divisione, oggi in pensione, riponeva tutto ciò che riguardava la storia e la cura del diabete. Anno dopo anno il clinico continuava a mantenere a sue spese il Centro, che ha preso il nome di «Karen Bruni Bocher» (oggi conosciuto come «KB») nel ricordo della moglie Karen Bocher, prematuramente scomparsa. Dal 1984 ha sede al numero 72 di via Beaumont, nella Torino liberty. Il piccolo armadio d'ospedale si è ampliato in molte vetrine e numerosi scaffali e, dal 1989, è diventato il primo «Museo del Diabete» in Italia, e forse in Europa, superiore a quello di Bevenjen, vicino ad Hannover in Germania. Grazie alla pazienza e all'interesse storico del suo fondatore e di tanti amici e collaboratori, il piccolo Museo offre oggi ai visitatori una biblioteca che dal 1975 si è arricchita di oltre 2500 volumi (il più antico è datato 1563). Ci sono inoltre molti manoscritti, farmaci, apparecchi e strumenti scientifici di ogni epoca per la misurazione della glicemia e della glicosuria. Una bibliografia primaria e secondaria, negli indici di Schumacher (1953), di Schadewaldt (1975), di Peumery (1987) e di Von Engelhardt (1989), completa tutta la letteratura sul diabete di particolare valore storico. Tra le 150 testimonianze di vita su diabetici e diabetologi del passato, le attrezzature per la determinazione domiciliare della glicosuria, come il Diabetimetro Bottini e il Glucosimetro Syron e un non comune «Reattivo triplo» in antica boccetta. Ma anche siringhe di vetro da insulina, bollitori, iniettori automatici, contenitori autofabbricati di varia provenienza. Pezzo raro è l'autosiringa universale Lombardo per l'iniezione di insulina, usata dal meccanico-motorista diabetico Piero Barbieri, dal 1937 al 1993. Consistenti i carteggi, referti, fotografie, manoscritti e registrazioni come le perizie di Carlo Tosatto per procurarsi l'insulina nel 1944; unici gli appunti manoscritti di Stefano Lega per la fabbricazione artigianale di insulina (1943), nel Laboratorio Lipo di Torino. Ernesto Bodini


MISTERIOSA MALATTIA Attenzione alla bistecca In Inghilterra può essere infetta
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, ZOOTECNIA, ALIMENTAZIONE, SANITA', ANIMALI
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, REGNO UNITO

DA diversi anni i consumatori di carne inglesi sono torturati da un dilemma: usare liberamente la carne proveniente da allevamenti bovini britannici o ricorrere a carne di importazione? Il problema è sorto diversi anni fa con la scoperta di bovini locali affetti da un nuovo agente infettivo già conosciuto per il suo effetto sul sistema nervoso delle pecore e dell'uomo. Dico agente perché non potrei usare nè la parola batterio nè quella virus. Si tratta infatti più semplicemente di una proteina o di sostanze proteiche chiamate, a partire dal 1982, prioni (particelle infettive). Estratti di cervelli di pecore affette dalla malattia (scrapie) erano ancora in grado di produrre la malattia anche dopo il passaggio attraverso filtri con pori così piccoli da frenare i batteri. A differenza dei virus e dei batteri i prioni non hanno bisogno per riprodursi di acidi nucleici e una sola proteina è la parte integrante della particella infettiva. Secondo il modello prionico l'agente infettivo rappresenta una forma modificata di una innocua glicoproteina presente nell'organismo ospite e chiamata PrP. La conversione della forma PrP primitiva in una seconda modificata chiamata PrPSc la rende altamente infettiva e con una squisita predilezione per il tessuto nervoso. Malattie degenerative del sistema nervoso dei mammiferi come la scrapie nelle pecore, la malattia di Creutz feldt-Jacob nell'uomo e l'encefalopatia spongiforme (così chiamata per l'aspetto spugnoso del tessuto nervoso delle vittime) dei bovini sono esempi delle malattie da prioni. Una questione fondamentale, presente nella mente dei consumatori di carne bovina inglese, è la capacità o meno dei prioni di valicare la barriera tra specie di mammiferi e passare dall'animale all'uomo. Una volta raggiunto il cervello umano questa si manifesterebbe coi sintomi della malattia di Creutzfeldt-Jacob portando lentamente ma inesorabilmente l'individuo alla demenza. Il dubbio ha pervaso gli inglesi da quando la malattia da prioni fu scoperta per la prima volta nei bovini (periodo 1987-1992 in Inghilterra). L'incidenza fortunatamente molto bassa della malattia e un periodo di incubazione molto lungo (da diversi mesi fino a decine d'anni) antecedente la manifestazione dei primi sintomi nervosi rende lo studio molto difficile. D'altra parte le particolari condizioni epidemiologiche e la pericolosità dell'infezione hanno sottolineato la necessità di arrivare a una risposta definitiva circa il pericolo di trasmissione rappresentato dall'alimentazione con carni infette. Un gruppo di genetisti, neuropatologi e veterinari inglesi capeggiati da Collinge comunicano su Nature notizie più tranquillizzanti anche se non definitive circa la pericolosità della carne bovina proveniente da animali in zone affette da epidemie da neuropatie prioniche. Poiché l'agente prionico sembra essere analogo nei ruminanti, nell'uomo e nel gatto si sono utilizzati in tali ricerche sia topolini transgenici che esprimessero prioni umani che gli stessi animali transgenici ai quali si tentava di tramettere la malattia usando un omogenato di tessuto nervoso prelevato da un paziente affetto da Creutzfeld-Jacob o da cervelli bovini colpiti da neuropatia spongiforme. Il periodo di sopravvivenza negli animali inoculati, che avevano quindi la malattia, era ridotto a meno della metà di quello di topolini sani. Tuttavia non si riscontravano differenze tra i topolini transgenici non inoculati e i transgenici inoculati con l'agente dell'infezione umana o bovina. I risultati vennero interpretati dagli autori come una mancanza di successo nel trasmettere l'agente prionico ritenuto responsabile della neuropatia nei bovini e nell'uomo in animali che mediante ingegneria genetica risultavano portatori della proteina umana dei prioni e che quindi sarebbero stati in grado di convertire l'agente infettivo esterno in quello attivo per la malattia. Secondo alcuni ricercatori gli esperimenti non dimostrano ancora definitivamente l'impossibilità di trasmettere la malattia dell'animale all'uomo. Ovviamente è difficile pensare di convertire un topolino in un essere umano col cambiamento di un singolo gene, tuttavia la possibilità di produrre animali suscettibili di sviluppare «malattie umane» rappresenta uno sviluppo molto utile della genetica moderna. I consumatori inglesi leggendo questi risultati ne usciranno un po' rassicurati. Ezio Giacobini


ETOLOGIA Volpi innamorate Due cuori e una tana sicura
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI, PARCHI NATURALI
ORGANIZZAZIONI: PARCO NAZIONALE PRINCIPE ALBERTO
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, CANADA

NEL Parco Nazionale Principe Alberto, in Canada, quando infuriano le tormente di neve e la temperatura scende a quaranta gradi sotto zero, le volpi rosse (Vulpes vulpes) fanno l'amore. Non ci vuole molto ad accorgersene. Basta fiutare l'aria. Quando si sente un forte odore di muschio, è segno che una volpe rossa maschio è transitata da quelle parti e ha lasciato, con l'urina, il suo messaggio d'amore. E' questo il momento in cui due individui, un maschio e una femmina, che di solito sono cacciatori solitari, derogano dal loro abituale isolamento. Per parecchie settimane flirtano assieme. Se ne vanno in giro in coppia, accarezzandosi ogni tanto, esattamente come una coppia di fidanzati in vena di tenerezze. Finché un bel giorno la loro conoscenza si fa più intima e avviene l'accoppiamento. E' un rapporto prolungato, come succede in tutti i canidi, per la speciale struttura del pene maschile che si rigonfia in modo abnorme una volta penetrato nella vagina femminile. Ragion per cui il maschio non riesce a estrarlo se non dopo un certo tempo, quando ritorna alle sue dimensioni normali. E', anche questa, una delle tante strategie messe in opera dalla natura per garantire una fecondazione sicura. Ed è probabilmente questa prolungata intimità sessuale a cementare la coppia. Il maschio e la femmina, infatti, rimangono insieme fino a circa dieci settimane dopo la nascita dei piccoli. E bisogna riconoscere che per un individuo di abitudini solitarie come la volpe rossa è un bel sacrificio affrontato e sopportato in omaggio alla famiglia. La femmina si sente materna fin dal momento in cui incontra il suo partner: subito cerca il posto più adatto per scavare una tana accogliente che possa servirle da sala parto. La futura madre fa la sua scelta con grande oculatezza. Il luogo deve trovarsi preferibilmente sul pendio di una collina, dove la neve si sciolga prima che in pianura e la pendenza assicuri un buon drenaggio. Il terreno dev'essere morbido perché lo scavo risulti più facile. Infine deve trovarsi non lontano da una riserva d'acqua. Oltre a queste caratteristiche, le tane devono avere sempre parecchie uscite. Una misura di sicurezza più che necessaria in un ambiente infestato dai coyote e da altri numerosi predatori. Se la volpe rossa ha la fortuna di imbattersi in una tana di tasso, un complicato labirinto che si estende su due o tre piani e ha quindici o più ingressi, allora tutti i suoi problemi sono risolti. Non fa certo complimenti. Sembra sappia che il tasso per sua natura è piuttosto ospitale e che condivide la sua abitazione con le volpi senza battere ciglio. La volpe però non si accontenta di una tana sola. La prudenza non è mai troppa. Si accaparra anche altri nascondigli, sia pure di emergenza, per potervi trasportare i piccoli in caso di pericolo. La tana principale comunque diventa proprietà di famiglia per parecchie generazioni. E' lì che avviene il lieto evento, nella camera più interna, e quindi più sicura, tutta tappezzata con i morbidi peli che la madre si è strappata appositamente di dosso. Passati i cinquanta giorni della gestazione, la volpe partorisce una media di cinque piccoli. Ogni volta che un neonato si affaccia alla luce, è bene attenta a seguire il rituale di prammatica. Con i denti taglia il cordone ombelicale, libera il piccolo dagli annessi embrionali e poi incomincia a leccarlo con vigore. E' un energico massaggio che stimola l'inizio della respirazione. E pochi istanti dopo risuona nella tana il primo guaito del cucciolo. Nel Parco Nazionale Principe Alberto le nascite avvengono verso la fine di marzo o i primi di aprile. Fa ancora freddo, in quell'epoca, nella regione canadese in cui il parco si trova. E la madre tiene stretti contro la sua calda pelliccia quei cosini minuscoli, ciechi e sordi, lunghi una decina di centimetri, pesanti dagli ottanta ai centocinquanta grammi ciascuno. E' come se li avvolgesse in una provvida termocoperta che li protegge dal gran gelo circostante. Per due intere settimane la volpe non si allontana mai dai suoi figlioletti. Li allatta, li striglia, lecca l'area urogenitale e l'ano dei piccoli per stimolarne le loro funzioni fisiologiche. La sua materna abnegazione arriva al punto che si mangia perfino i loro escrementi, pur di mantenere la tana nelle migliori condizioni igieniche possibili. Quando hanno una dozzina di giorni, i volpacchiotti aprono gli occhi, le piccole orecchie incominciano a percepire i suoni ed entra in funzione il loro sistema termoregolatore. Allora la madre si decide ad abbandonarli, sia pure temporaneamente, per andare finalmente a rifocillarsi dopo il prolungato digiuno. Riprende le sue battute di caccia, pur tornando a intervalli regolari nella tana per le poppate. Verso il compimento della terza settimana i piccoli, cui sono spuntati nel frattempo i dentini di latte, possono già provare il gusto di affondarli nella tenera carne di un coniglio che la madre ha ucciso apposta per loro. E' a questo punto che si verifica un fatto strano. Quei volpacchiotti così graziosi e apparentemente così fragili, si rivelano d'improvviso feroci e incredibilmente aggressivi nei confronti dei fratelli. Così quando il padre o la madre portano le prede nella tana, il volpacchiotto dominante non solo si piglia il boccone più grosso, ma deruba spudoratamente il fratello che lo segue nella scala gerarchica. I più deboli rimangono a bocca asciutta e finiscono per morire di fame. Una volta che con questo sistema la gerarchia è solidamente costituita, l'indole dei volpacchiotti muta radicalmente. E quando incominciano a uscire dalla tana a un mese di età, rivestiti da una prima livrea rosso vivace dopo la muta infantile, a vederli così socievoli, allegri e giocherelloni, nessuno immaginerebbe di quali violenze siano stati protagonisti solo pochi giorni prima, nel segreto della tana. Isabella Lattes Coifmann


FORSE DUE SCOPERTE AL FERMILAB Fa capolino Higgs, madre di tutte le particelle E oltre i quark ci sarebbero i preoni, mattoni ancora più elementari
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: FISICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: BELLETTINI GIORGIO, CARITHERS WILLIAM, HARARI CHAIM
LUOGHI: ITALIA

ANTEPRIMA: il «bosone di Higgs», cioè la particella dalla quale dipende la massa di tutte le altre particelle, ha fatto per la prima volta qualche timida apparizione nel grande acceleratore del Fermilab, vicino a Chicago. Questa pietra angolare del mondo subatomico e della teoria che lo descrive, questa «madre di tutte le particelle» è da anni nel mirino dei fisici ma ha sempre eluso i suoi cacciatori. Ora filtra la notizia che ne sarebbero stati individuati 7 esemplari. Poco prima, un'altra notizia clamorosa era uscita dallo stesso laboratorio: forse ci sono particelle ancora più elementari dei quark, i preoni. Nessuno dei due annunci dà certezze. Ormai il lavoro dei fisici delle particelle assomiglia alla proverbiale ricerca dell'ago nel pagliaio. Si tratta di trovare fenomeni nuovi e rarissimi in mezzo a miliardi e miliardi di fenomeni conosciuti e «normali». E quando si osserva qualcosa di anomalo, ecco il dilemma: dare l'annuncio rischiando di sbagliare e di essere prima o poi smentiti, oppure prudentemente tacere rischiando di essere battuti sul tempo da qualche altro gruppo di scienziati? La particella di Higgs è prevista dal «modello standard» che già tante soddisfazioni ha dato ai fisici nello spiegare e classificare i componenti elementari della materia e il loro comportamento. Purtroppo però la teoria non ne prevede la massa. Non resta che costruire acceleratori sempre più potenti e vedere se si riesce a produrla facendo scontrare altre particelle ad altissima energia. Al Fermilab si scontrano protoni e antiprotoni. Al Cern, nell'acceleratore Lep, elettroni e positroni, ma non ancora con una energia sufficiente a produrre la particella di Higgs. Un esperimento del Fermilab, invece, ne avrebbe trovato indizi all'energia di 107 Gev, ma sette esemplari non sono sufficienti per dare sicurezze definitive. Un anno fa, sempre al Fermilab, si sono ottenute prove convincenti del quark Top. Forse la bella favola a lieto fine si sta ripetendo? I ricercatori si sono consultati: occorrerebbero almeno altri quattro mesi di esperimenti dopo i quattro anni già spesi. E alcuni gruppi di ricercatori reclamano per sè l'uso dell'acceleratore. Nel dubbio, forse si darà l'annuncio ufficiale di Higgs, rimandando le verifiche. Vedremo. Più risoluta è stata l'equipe che avrebbe scoperto le particelle che costituirebbero i quark, guidata da Giorgio Bellettini, della Scuola Normale e dell'Infn di Pisa, e dall'americano William Carithers. Negli scontri di protoni contro antiprotoni si è notato che in qualche caso le particelle rimbalzano come se urtassero un ostacolo, e a energie così alte quell'ostacolo deve essere davvero di dimensioni minime, inferiori a quelle dei quark. Si può quindi pensare che, come protoni e neutroni sono fatti di quark, i quark siano fatti con mattoni ancora più elementari, battezzati «preoni». L'idea originaria risale al fisico israeliano Chaim Harari, che però coniò la parola «riscioni», derivata dal termine ebraico per dire «primo». Un'estensione del «modello standard» avanzata da Harari interpreta sia le particelle leggere (leptoni) sia quelle a interazione forte (adroni) come se fossero fatte di «riscioni» (o preoni). E di queste particelle ci sarebbe ora qualche primo indizio sperimentale, anche se - invece - non c'è nessunissima indicazione che l'elettrone (un leptone) abbia una qualunque struttura, a riscioni o preoni che dir si voglia. D'altra parte che la materia sia fatta a scatole cinesi è ormai comprovato e non c'è limite al concetto di particella elementare: si può sempre trovare qualcosa che sta al di là, a patto di avere lo strumento per cercarlo. Una valutazione di queste due scoperte? Ci vuole ancora un po' di pazienza, e forse molta, per sapere davvero come stanno le cose. La particella di Higgs potrà essere confermata dal Lep-2 al Cern quando sarà in funzione a pieno regime, e poi dall'acceleratore Lhc che sarà pronto per il nuovo millennio. Anche i preoni attendono acceleratori ancora più potenti per rivelarsi definitivamente o per scomparire nei misteri gaudiosi delle teorie. In entrambi i casi la morale è identica: la fisica delle particelle ha bisogno di altri finanziamenti. Piero Bianucci


UN PROGETTO Ecologia umana a Torino
Autore: SCAGLIOLA RENATO

ARGOMENTI: ECOLOGIA
NOMI: MAOLUCCI ENZO
ORGANIZZAZIONI: ISA (INTERNATIONAL SURVIVAL ASSOCIATION)
LUOGHI: ITALIA

ECOLOGIA umana, scienza relativamente giovane, interdisciplinare, per capire di più l'uomo, la sua storia, il suo ambiente, la sua ipotetica funzione sulla Terra. Su questo tema ambizioso e sterminato nascerà a Torino - finanziamenti permettendo, tempi teorici due, tre anni - un parco (primo in Europa) sulle rive del Sangone, dalle parti del mausoleo della Bela Rosin. A promuoverlo è l'Isa (International Survival Association), creata una dozzina di anni fa da Enzo Maolucci. L'annuncio ufficiale verrà dato sabato 17 e domenica 18 febbraio in un convegno internazionale alla Galleria d'Arte Moderna di Torino, corso Galileo Ferraris 30. Il progetto di fattibilità e l'incontro sono sostenuti dalla Regione Piemonte, dal Comune di Torino e dal Comune di Nichelino, sul cui territorio dovrebbe sorgere il parco. Nell'area (250 mila metri quadrati), sono previsti anche la nuova sede di «Experimenta» (una mostra di divulgazione scientifica interattiva finora realizzata nel parco di Villa Gualino, sulla collina torinese) e il Planetario, da ospitare nel mausoleo (oggi quasi ridotto a un rudere) eretto nell'800 per ricordare la Bela Rosin, moglie morganatica di Vittorio Emanuele II. «Non sarà un parco da guardare - spiega Maolucci - ma in cui agire; uno spazio vivo, attrezzato, a basso impatto ambientale, in costante rinnovamento attraverso l'azione e il contributo dei visitatori, non fruitori, ma attori... Per evitare la fatale tristezza tipica di quei parchi della preistoria che finora hanno preteso di descrivere la cultura materiale e l'attività dell'uomo antico. I nostri atavismi superstiti potranno essere il veicolo di questa esplorazione paleoculturale e interetnica». Questi alcuni temi del dibattito torinese: catastrofi, energia ed evoluzione umana. Strategia di sussistenza. Comportamento culturale in contesto ecologico. Incontri con gruppi umani a rischio di estinzione. Tecnologia a basso consumo energetico. Ricerca, sperimentazione e divulgazione scientifica. Gioco, manipolazione e invenzione scientifica, i nuovi parchi interattivi. Psicologia del «paleoalieno» ed evoluzione del «neomutante». Paleoantropologia e archeologia sperimentale. Didattica della preistoria. I temi svolti nell'area del parco - all'interno di stand reali con manufatti e utensili di legno e pietra, e per mezzo di installazioni virtuali - saranno almeno una ventina: dal Paradiso Perduto (stazioni e labirinti arborei, l'habitat dei preominidi nella rappresentazione stilizzata di una foresta primordiale) ad Antropocrono (percorsi temporali del processo di ominazione), Antropotechnica, Antropobox (aula virtuale interattiva), con i principali ritrovamenti archeologici, graffiti, pitture rupestri, tombe; Paleolimpia, competizioni open di tiro esclusivamente con attrezzi preistorici (giavellotto, boomerang, arco), ricostruiti dagli stessi partecipanti, fino al Deport Site (Loisir, relax, paleosport, eco-bungalows, percorsi simulati di caccia e raccolta). E così via. Sono attesi specialisti italiani (Borrelli, Fasolo, Belfiore, Priuli, Terranova, Brusa, Sanguanini), francesi (Chevillot, David), danesi (Gronnow). Scrive Alberto Salza, paleoantropologo e divulgatore scientifico, spiegando il senso dell'iniziativa: «L'evoluzione è il motore di un Universo in cui la morte corrisponde all'equilibrio termodinamico. Il campo di battaglia dell'evoluzione è l'ambiente. Qui si scontrano il caso genetico e la necessità dell'adattamento. L'ecologia è stata erroneamente interpretata come la scienza dell'equilibrio. E' invece studio di relazioni violente tra climi e habitat che plasmano ossa, stirano tessuti, alterano geni di organismi in riproduzione. La selezione naturale determina chi vive e chi si estingue. L'ecologia è terreno di catastrofi matematiche e fisiche, dove a ogni minuscola alterazione dei parametri ambientali iniziali corrisponde una reazione a catena che trasforma individui e popolazioni...». Renato Scagliola


SCOPERTA DEI FISICI DELL'ATMOSFERA Siamo vivi per un pizzico di sale La salinità del Mediterraneo regola il clima mondiale
Autore: CANUTO VITTORIO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA, GEOGRAFIA E GEOFISICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Così «ascoltano» la temperatura degli oceani. Il disegno si riferisce a un esperimneto americano in California
NOTE: CB (Conveyor Belt)

IN un precedente articolo abbiamo visto l'esistenza, la natura e gli effetti climatici del «correntone», il tapis roulant che, formatosi nei mari del Nord Atlantico, si snoda attraverso gli oceani del globo trasportando calore e sale (nella letteratura inglese è noto come Conveyor Belt, che noi abbreviamo in CB). Nei pochi mesi che sono trascorsi, la letteratura scientifica si è arricchita di nuove ricerche sul CB ed è quindi doveroso rivisitare il problema, anche perché uno dei risultati più interessanti è dovuto a due oceanografi italiani, Artale e Pinardi. Il CB ha un flusso equivalente a 100 Rio delle Amazzoni (quest'ultimo corrisponde a 0,2 milioni di metri cubi al secondo); le sue acque sono in media 8oC più calde di quelle che scorrono verso il Sud; trasporta 1,2 petawatt di calore (1 PtW corrisponde a un milioni di miliardi di watt; per mettere questo numero in prospettiva, ricordiamo che ciò corrisponde allo 0,7 per cento dell'energia solare, 175 PtW). Questo sistema di riscaldamento naturale rende l'Atlantico del Nord 4oC più caldo delle corrispondenti latitudini nel Pacifico e questa è la ragione del clima moderato di cui gode l'Europa Occidentale. Per esempio, la temperatura invernale a Bodo (Norvegia) è di -2oC mentre a Nome (Alaska) è di - 15oC. Differenza non proprio trascurabile. Dati questi fatti, va da sè che qualora il CB dovesse attenuarsi o ancor peggio spegnersi, l'Europa diventerebbe invivibile. Abbiamo già discusso il fatto che durante l'ultima glaciazione, il CB rimase spento per riaccendersi quando questa finì 10.000 anni fa. Ricordiamo infine che la civiltà, come la conosciamo oggi sorse nello stesso periodo, con l'avvento dell'agricoltura. Che cosa potrebbe spegnere il CB? L'influsso di una grande quantità di acqua dolce. Basterebbe che una Invincibile Armada di Iceberg avesse la pessima iniziativa di sciogliersi nei mari del Nord. Ciò abbasserebbe la salinità del CB tanto da fargli perdere la densità necessaria per farlo sprofondare iniziando il circuito terrestre. L'acqua dolce galleggia invece di sprofondare negli abissi e il sale è assai più efficiente a densificare l'acqua di quanto non lo sia l'abbassamento della temperatura che segue l'evaporazione ed emissione del calore del CB. Fatta questa diagnosi, la domanda naturale diventa: quant'acqua dolce basta per infiacchire il CB? La risposta è apparsa a novembre nella rivista inglese Nature a firma dell'oceanografico tedesco Stefan Rahmstrof dell'Università di Jiel. In generale, brutte notizie. Il metodo usato è quello consacrato negli studi sul caos: si studia il comportamento di un sistema dinamico, il CB, in funzione di un parametro di controllo, in questo caso l'ammontare di acqua dolce. Ecco i risultati: 1) un flusso pari ad 1/6 del flusso del Rio delle Amazzoni spegnerebbe la corrente del Labrador ma questo evento è preceduto da quello che i teorici del caos chiamano una biforcazione di Hopf: il CB comincia a oscillare con un periodo di 22 anni, la variazione nella sua portata d'acqua è di i 3 (milioni di metri cubi al secondo) e la corrispondente variazione della temperatura è di 0,2oC. Vale la spesa sottolineare che tutto ciò succede con un flusso di acqua dolce di 1/6 (delle nostre unità, il Rio delle Amazzoni), una perturbazione a prima vista minima a un sistema che porta in media 100 di tali unità. Delicatino, il CB] 2) se ora ci pentissimo di aver «dolcificato» troppo il CB e tornassimo indietro, se gli sottraessimo l'acqua dolce che gli abbiamo dato, cosa succederebbe? Il CB non ritorna al suo stato iniziale, si accontenta di trasportare non 100 ma 75 Rio delle Amazzoni, il che tecnicamente si dice che corrisponde a un'altro stato di equilibrio. Permaloso, questo CB] 3) se aumentassimo l'afflusso di acqua dolce e arrivassimo ad 1/4, toccheremmo il punto senza ritorno. Di lì in poi il sistema precipita e un ulteriore, piccolissimo aumento lo spegne del tutto, addio Europa, fra le altre cose. Dunque il CB ha più di uno stato di equilibrio (75 e 100), soffre di fibrillazioni dal periodo di 22 anni e il tutto avviene con perturbazioni che, tutto sommato, sembrano innocue rispetto alla sua maestosa portata. Da dove può venire una perturbazione? Oltre che dagli iceberg, potrebbe essere causata dallo scioglimento del ghiaccio artico che a sua volta potrebbe essere causato da un aumento globale della temperatura dovuto all'effetto serra? La risposta è no. Il volume d'acqua artica è sui 20-30 milioni di milioni di metri cubi. Per ottenere il flusso necessario lo scioglimento dovrebbe avvenire in 10-15 anni. Ma anche se ciò dovesse succedere, il CB si spegnerebbe perché il nostro è assai lento a reagire, impiega centinaia non decine di anni. Qui arriva lo studio degli oceanografi Artale (Enea) e Pinardi (Cnr) condotto in collaborazione con due colleghi americani, Hecht e Holland. Lo studio dimostra per la prima volta che se il Mediterraneo dovesse staccarsi dall'Atlantico, il CB si spegnerebbe in meno di 200 anni. La cosa più sorprendente è che il Mare Nostrum sembrerebbe incapace di infliggere danni significativi al maestoso CB, ed invece non è così. Perché? Il Mediterraneo è un mare che, causa la grande evaporazione, è assai salato e quindi all'uscita da Gibilterra, apporta alle acqua atlantiche un «densificatore» quanto mai efficiente, il sale. Toglietegli questo sale e il CB non regge a lungo. Il risultato degli studiosi italiani ha chiare implicazioni climatiche su scala mondiale. Perturbazioni mediterranee possono avere effetti su tutta l'Europa, cortesia del CB, ma c'è di più. Infatti, lo spegnersi e accendersi del CB ha effetti globali. Studi recenti sul ghiaccio antico della Groenlandia hanno dimostrato che nel periodo in cui il CB era spento, il contenuto di metano dell'atmosfera era minimo. Poiché le sorgenti di metano alle alte latitudini erano congelate o sotto ghiaccio, l'unica sorgente erano i Tropici. Il fatto che si sia trovato poco metano dimostra che anche queste regioni erano assai secche. Ricordiamo che il metano è un fattore dell'effetto serra e quindi del clima. Quindi: Mediterraneo, CB, clima globale, una tela di ragno destinata a infittirsi sempre di più. Vittorio M. Canuto Nasa, New York


VENERDI' IL LANCIO Spieremo Eros, l'asteroide killer Una sonda verso il pianetino che ci minaccia
Autore: DI MARTINO MARIO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. La navicella «Near» della Nasa
NOTE: Near (Near-Earth Asteroid Rendez-vous)

FINORA nessuna sonda spaziale ha avuto come compito esclusivo quello di esplorare un asteroide, cioè uno di quella miriade di piccoli pianeti che affollano la regione di spazio compresa tra Marte e Giove - la cosiddetta «fascia principale» - ma che in numero di diverse migliaia sono anche presenti nelle regioni più interne del nostro sistema planetario. La navicella della Nasa «Galileo» nel suo viaggio verso Giove, dove è arrivata nel dicembre scorso, è passata a 1000 chilometri di distanza da due asteroidi (Gaspra e Ida), inviandoci le prime immagini di oggetti di questo tipo, ma, nonostante le informazioni raccolte, fra le quali la scoperta del primo satellite asteroidale, sono stati incontri molto brevi (una decina di minuti). Adesso finalmente sta per partire una sonda, «Near» (Near-Earth Asteroid Rendez- vous), che avrà come compito principale quello di esplorare a fondo un pianetino la cui orbita talvolta incrocia quella della Terra. E' l'asteroide Eros, uno dei più grandi di questa famiglia. Dalle osservazioni fatte da Terra risulta che ha un periodo di rotazione attorno al proprio asse di 5 ore e un quarto, dimensioni di 40X14X14 chilometri e una superficie a base di rocce silicacee in cui è presente una piccola percentuale di elementi metallici. Il lancio di «Near», la cui realizzazione è costata alla Nasa 115 milioni di dollari, è previsto tra due giorni, salvo rinvii dell'ultimo minuto, e il viaggio verso Eros avrà una durata di quasi tre anni. La traiettoria della sonda non sarà infatti diretta. Per contenere i costi è stata ridotta al minimo la quantità di propellente necessario nel corso della navigazione, e la Nasa ha studiato una complessa traiettoria che dapprima porterà la sonda al di là dell'orbita di Marte, nella regione della fascia principale, dove avrà un passaggio ravvicinato con l'asteroide 253 Mathilde (3 luglio 1997), quindi, dopo questo incontro, il 22 gennaio 1998, Near passerà a 500 chilometri dalla Terra, da cui riceverà una fiondata gravitazionale che la lancerà verso Eros, dove arriverà un anno dopo. Giunta a destinazione, con una manovra che rappresenta la fase più delicata della missione, la sonda si immetterà in orbita attorno all'asteroide a una distanza fra i 30 e i 50 chilometri. Gli strumenti principali di Near sono una camera Ccd ad alta risoluzione, uno spettrografo, uno spettrometro a raggi X e gamma, un laser-altimetro e un magnetometro. La camera Ccd disegnerà una mappa completa della superficie di Eros, che permetterà di distinguere particolari delle dimensioni di soli tre metri (una risoluzione da 50 a 100 volte superiore a quella delle immagini di Gaspra e Ida ottenute dalla sonda Galileo). Il compito dello spettrografo sarà quello di analizzare la composizione mineralogica superficiale, mentre lo spettrometro X e gamma farà l'analisi chimica della superficie, misurando le abbondanze di decine di elementi, che permetterà il confronto tra la composizione dell'asteroide e quella delle meteoriti. Dai dati raccolti dal magnetometro, infine, si potranno ottenere informazioni sulla struttura interna dell'asteroide e stabilire la presenza o meno di un nucleo metallico. Nell'avvicinamento ad Eros la camera Ccd ricercherà eventuali satelliti o detriti in orbita attorno all'asteroide. Le potenzialità della camera dovrebbero permettere l'individuazione di oggetti delle dimensioni di 5 metri (per confronto il satellite dell'asteroide Ida - poi chiamato Dactyl - scoperto dalla navicella «Galileo» ha un diametro di un chilometro e mezzo). Le informazioni e i dati inviati da Near potranno forse risolvere l'enigma dell'origine di alcuni tipi di meteoriti. Un problema cruciale, a cui la missione potrà forse dare una risposta, è se gli asteroidi di piccole dimensioni siano «pezzi di roccia» con densità simile a quella delle meteoriti oppure siano aggregati di frammenti collisionali conseguenti ad un impatto catastrofico. Come è ormai noto, nella fascia principale degli asteroidi possono verificarsi collisioni tra questi corpi che possono portare alla loro distruzione catastrofica. In seguito a questi eventi i frammenti più veloci si disperdono nello spazio diventando altri pianetini in orbita attorno al Sole, mentre i più lenti, sotto l'azione del reciproco campo gravitazionale, possono ricadere l'uno sull'altro e formare un corpo assimilabile a un mucchio di sassi e macigni. La fine della missione è prevista per il dicembre 1999. Così, quasi 200 anni dopo la scoperta del primo asteroide - Cerere - effettuata a Palermo da padre Piazzi la notte di Capodanno del 1801, disporremo, si spera, di informazioni che potrebbero chiarire in maniera forse definitiva alcuni dei più importanti problemi della moderna scienza planetaria. Mario Di Martino Osservatorio Astronomico di Torino


RIVOLUZIONE NELLA PALEOANTROPOLOGIA Questo è il primo italiano E forse l'europeo più antico: ha 800 mila anni
Autore: ANGELA ALBERTO

ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA, ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA
NOMI: BIDDITTU ITALO, ASCENZI ANTONIO, CASSOLI PIER FRANCESCO
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO ITALIANO DI PALEONTOLOGIA UMANA
LUOGHI: ITALIA

IL volto dell'italiano (e forse anche dell'europeo) più antico finalmente incomincia a delinearsi grazie all'Uomo di Ceprano. La scoperta, fatta mesi fa, è di quelle destinate a lasciare il segno. Saranno molte le cose da rivedere nello studio dell'evoluzione dell'uomo in Europa. Innanzitutto a causa della sua età: è probabilmente compresa tra gli 800 e i 600 mila anni, uno straordinario balzo all'indietro, nel mondo ancora poco conosciuto dei primi europei. Fino ad oggi conoscevamo l'umanità di quell'epoca solo grazie a pochi frammenti ossei. Per la prima volta è possibile, sia pure in modo parziale, ricostruire una calotta cranica e dare un'occhiata all'aspetto di questi ominidi. Ciò che sorprende di più è una fortissima «visiera» ossea sopra le orbite. E' raro vederne una così spessa (addirittura due centimetri in alcuni punti), neppure i reperti africani, ben più antichi, hanno dei tratti così massicci. La fronte è sfuggente, piatta, e il cranio si dilata ai lati. Dietro, a livello dell'osso occipitale, c'è un fortissimo rilievo osseo, o torus occipitalis, dove si agganciavano dei potenti muscoli della nuca. Se lo avessimo incontrato in vita avremmo avuto l'impressione di un uomo con la testa piatta, la fronte sfuggente con enormi spessori sopraccigliari e, probabilmente, una muscolatura molto più sviluppata della nostra. Il ritrovamento non è stato casuale ma il frutto di una lunga ricerca che da più di 40 anni vede impegnato l'Istituto Italiano di Paleontologia Umana nel Lazio, e più esattamente nella Valle del Sacco-Liri, tra Anagni e Cassino. Le circostanze della scoperta, tuttavia, sono state incredibilmente fortunate. Durante i lavori di sbancamento per la costruzione di una strada vicino alla cittadina di Ceprano, una ruspa colpisce il cranio fossile sepolto da centinaia di migliaia di anni e lo sbriciola in decine di frammenti, molti dei quali andranno perduti per sempre. Nessuno però si accorge di nulla. Qualche ora dopo, Italo Biddittu (dotato di un'esperienza quarantennale nella caccia a siti preistorici e che da anni perlustra queste zone per conto dell'Istituto), avvista quell'osso strano che emerge dal terriccio e ne capisce subito l'importanza. Per mesi vengono pazientemente ricercati e ritrovati i frammenti del cranio. E poi, per un anno, Antonio Ascenzi, accademico dei Lincei, ed esperti dell'Istituto come Pier Francesco Cassoli, ricostruiscono in laboratorio questo «puzzle» a tre dimensioni fino a giungere alla struttura definitiva. Sul terreno invece vengono intensificati gli studi del bacino e del sito: Aldo Segre e sua moglie, Eugenia Segre Naldini, specialisti di geologia quaternaria, analizzano i sedimenti e stabiliscono le stratigrafie. Ed ecco le prime sorprese. Il cranio non si trovava nel suo strato originario, ma in tempi antichissimi è rotolato in un deposito argilloso. Un deposito che purtroppo fornisce pochissime informazioni: è sterile in ossa e pollini. Anche una analisi paleomagnetica non dà risultati. Per stabilire l'età del reperto, i ricercatori dell'Istituto Italiano di Paleontologia Umana ricostruiscono la stratigrafia dell'area, scoprendo che parecchio al di sopra il cranio si trovano dei sedimenti di origine vulcanica. Le rocce e i sedimenti vulcanici sono perfettamente databili con tecniche radiocronologiche. E le analisi, effettuate immediatamente, stabiliscono l'antichità di queste sabbie vulcaniche, databili intorno a 700 mila anni. Secondo i ricercatori dell'Istituto Italiano di Paleontologia Umana, il cranio che si trova sotto questi sedimenti vulcanici sarebbe quindi più antico. C'è il forte sospetto che appartenga a uno strato sedimentario poco distante, nel quale sono stati ritrovati anche degli strumenti molto primitivi, soprattutto choppers (cioè dei ciottoli resi taglienti con pochi colpi). Con questi strumenti in quarzite, sono state rinvenute le ossa di animali oggi scomparsi, come l'Elephas trogontherii, un gigantsco proboscidato. Se l'appartenenza della calotta cranica a questo strato verrà confermata, l'antichità del reperto fossile potrebbe salire a 800 mila anni. Per il momento, prudentemente, gli studiosi dell'Istituto Italiano di paleontologia Umana ipotizzano un'età del cranio compresa tra 800 e 600 mila anni. Secondo Ascenzi il cranio, in effetti, avrebbe una morfologia e delle caratteristiche che confermerebbero questa notevole antichità. Con una sorpresa. A quell'epoca, in Africa e in Asia si trova l'Homo erectus, un formidabile cacciatore, forse il primo ad essere uscito dalla culla africana dell'umanità (anche se non tutti gli studiosi sono d'accordo). E in Europa? Nella comunità scientifica esistono pareri discordi: c'è chi ritiene che l'Homo erectus sia arrivato anche qui, altri invece no. L'Uomo di Ceprano si inserisce proprio in questo momento-chiave del popolamento dell'Europa. E la sua morfologia indicherebbe una soluzione. In effetti, accanto a caratteri molto primitivi, come lo spessore delle ossa, che supera addirittura il centimetro in alcune parti (l'osso parietale ha uno spessore compreso tra 8 e 11,5 millimetri), una enorme «visiera», la fronte sfuggente e un forte toro occipitale, mancano alcuni tipici caratteri dell'Homo erectus (una «cresta» sulla volta cranica, un forte restringimento postorbitale, un solco-retro orbitale, un profilo «a tenda», massima larghezza a livello dei mastoidi). Soprattutto, ha una capacità cranica di 1185 centimetri cubi, superiore a quella tipica dell'Homo erectus, che si aggira sui 1000 o poco più. In effetti per chi ha avuto il reperto in mano, l'impressione è stata quella di vedere il cranio di un Homo erectus con un cervello «dilatato» che ne distorce la tipica morfologia. La conclusione? La calotta cranica di Ceprano non sarebbe di un Homo erectus in senso stretto, ma di una forma tardiva, con caratteri in via di evoluzione. Hanno quindi ragione i paleoantropologi Howell e Stringer, che ritengono che l'Homo erectus tipico non sia effettivamente mai stato rinvenuto in Europa, perché solo i suoi discendenti (più evoluti) sono arrivati in un secondo momento? Secondo Ascenzi e i suoi collaboratori, la calotta di Ceprano sembra confermare questa ipotesi. Infine, una curiosità. Sopra l'occhio destro, lo spessissimo rilievo osseo della «visiera» appare danneggiato: l'Uomo di Ceprano in vita ha subito un fortissimo trauma, che però non lo ha ucciso. Una caduta? Una bastonata? Secondo Ascenzi l'unico materiale capace di produrre su osso vivo queste conseguenze (gli studiosi hanno condotto in questo senso gli esperimenti), è il corno. L'uomo di Ceprano quindi avrebbe ricevuto una cornata? A quell'epoca, la vita era tutt'altro che facile. Si moriva giovani: arrivare a 40 anni era già una bella fortuna. Oltre alle malattie, alle fratture, alle infezioni (o a scontri tra i vari gruppi) c'erano anche altri pericoli. Circa 800 mila anni fa, la Ciociaria, e l'Italia intera, erano popolate da una fauna assai diversa da quella attuale. C'erano rinoceronti, ippopotami, cervi giganti, orsi, elefanti. Era un ambiente dove in ogni momento i cacciatori primitivi potevano trasformarsi in una facile preda, forse non solamente di animali carnivori. Ossa umane macellate (molto più frammentarie) sono state recentemente rinvenute nel sito spagnolo di Atapuerca risalente all'incirca alla stessa epoca. Tutto lascia pensare che siano resti di pasti cannibalici. Alberto Angela




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