TUTTOSCIENZE 10 gennaio 96


PESCI DEL TANGANIKA Fecondazione orale dei Ciclidi Insolite strategie sessuali dell'Haplochromis
Autore: BENEDETTI GIUSTO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

SCOPERTO nel 1858 dagli esploratori Burton e Speke (resi celebri dal film «Le montagne della Luna»), il lago Tanganika è il secondo, per estensione (32.893 chilometri quadrati), del continente africano, ed il secondo al mondo per profondità: i suoi 1435 metri sono superati solo dai 1741 del lago Bajkal in Russia. Bagna quattro Stati: Tanzania, Zambia, Burundi e Zaire. Le complesse vicende geologiche che hanno portato alla sua formazione (il lago occupa una fossa tettonica della Rift Valley) e la notevole varietà di situazioni ambientali offerte da estensione e profondità, hanno condizionato in modo determinante l'evoluzione dei pesci che lo popolano, e in particolare dei Ciclidi, un gruppo ben noto agli appassionati di acquari per l'incredibile varietà di forme e di colori offerta dai suoi componenti. Forme e colori che rappresentano un vero rompicapo per i sistematici: attualmente, i Ciclidi del lago Tanganika vengono classificati in circa 200 specie, ma, nell'ambito di ciascuna di esse, esiste una grande variabilità ed è spesso assai complicato attribuire un esemplare a una specie piuttosto che a un'altra. Se la cosa è motivo di frustrazione per quanti amerebbero incasellare ogni essere vivente in un ordinato schedario, è invece motivo di giubilo per chi ama osservare l'evoluzione al lavoro: ogni differenziazione dal «modello originario» rappresenta difatti un tentativo evolutivo che sarà messo alla prova dalla selezione naturale, e che merita di essere seguito nei suoi imprevedibili sviluppi. Sistematici ed evoluzionisti non sono tuttavia le uniche categorie di studiosi a coltivare un particolare interesse per i Ciclidi del Tanganika: anche gli etologi, Lorenz e Peters in testa, hanno trovato in questi pesci affascinanti spunti di ricerca. Uno degli aspetti più rilevanti del comportamento dei Ciclidi è quello relativo alle cure parentali. Nonostante l'elevata produttività, il Tanganika è un lago molto limpido: ciò è dovuto al fatto che il plancton viene continuamente consumato dai pesci e non arriva mai a concentrazioni tali da intorbidire le acque. Ma la limpidizza rappresenta un grande pericolo per le uova e per gli avannotti, che possono essere facilmente avvistati dai predatori anche a notevole distanza. I Ciclidi, o almeno la maggiore parte di essi, hanno quindi messo a punto un efficace sistema per tutelare i primi stadi di vita della loro prole: non appena deposte, le uova vengono prese in bocca dalla femmina, e qui rimangono sino alla nascita dei piccoli. Una volta che questi ultimi siano in grado di nuotare liberamente, la madre li «sputa fuori», ma è sempre pronta a raccoglierli di nuovo in caso di pericolo (almeno fino a quando la capienza dalla cavità orale, in ciò coadiuvata della sacca giugulare, è sufficiente a contenerli). L'istinto di raccolta è molto forte, e spesso la femmina ha una tal fretta di mettere le uova al sicuro che rischia di chiuderle in bocca prima che il maschio abbia avuto il tempo di fecondarle. Ad evitare che ciò avvenga, alcune specie del genere Ha plochromis hanno messo a punto un curioso sistema: la pinna anale del maschio reca sul margine inferiore una serie di macchioline rotonde del tutto simili alle uova. La femmina, spinta dal già citato istinto, cerca di afferrare con la bocca le finte uova: a questo punto, il maschio emette lo sperma che, penetrando nella cavità orale della femmina, feconda le uova vere raccolte in precedenza. L'incubazione orale garantisce una protezione assoluta... e c'è chi ne approfitta. Si è recentemente scoperto che alcuni pesci-gatto del genere Synodontis mescolano le proprie uova fecondate a quelle dei Ciclidi: accade così che, quando la femmina raccoglie le sue uova, raccoglie anche quelle del pesce- gatto. Queste ultime hanno un ciclo di sviluppo molto rapido e, racchiusi nelle fauci di mamma ciclide, i piccoli pesci-gatto iniziano a divorarne le uova fino a rimanere gli unici inquilini della cavità orale. Così come accade nel caso dei cuculi, gli intrusi vengono protetti ed accuditi dalla madre adottiva, che sembra non accorgersi dell'inganno. Se ne accorgerà probabilmente in seguito, quando, raggiunta una certa dimensione, i Synodontis cominceranno a infastidirla con gli acuminati raggi delle pinne: a questo punto, non sarà più disposta a richiamarli in bocca al minimo segno di pericolo. Ma, ormai, i piccoli abusivi saranno già in grado di badare a se stessi. Giusto Benedetti


TARTARUGHE La Caretta nelle acque di Venezia
Autore: FABRIS FRANCA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ETOLOGIA
NOMI: MIZZAN LUCA
ORGANIZZAZIONI: MUSEO DI STORIA NATURALE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, VENEZIA (VE)

A poche miglia dalle coste intorno a Venezia, nei mesi estivi, non è difficile incontrare tartarughe marine appartenenti alla specie Caretta caretta. E' una tartaruga dalla testa straordinariamente grande, con mascelle incurvate nel mezzo ad uncino, che può superare i 120 centimetri di lunghezza e i 250 chilogrammi. Le tartarughe marine attuali, nonostante la mole, sono ben più piccole dei loro antenati. Fra i fossili del Cretaceo degli Stati Uniti vi è una tartaruga marina, l'Archelon ischyros, di oltre quattro metri di lunghezza. La Caretta ha il carapace completamente ossificato negli adulti con scaglie cornee della corazza dorsale, poste le une accanto alle altre. Il colore è bruno scuro nei giovani sia sul dorso che sul ventre, mentre negli adulti la parte ventrale è gialla bruna e quella dorsale bruno chiara. Nei giovani vi sono nelle estremità due unghie che mancano negli adulti. Le tartarughe Caretta sono carnivore e vivono quasi di continuo nel fondo del mare che solcano da abilissime nuotatrici. La loro vita di relazione è assai limitata anche se, nella deposizione delle uova, hanno comportamenti che possono sembrare astuti. Innanzitutto la scelta del territorio per i nidi viene fatta con cura e vengono scartati i luoghi che di notte presentano luci o che sono troppo rumorosi. La ricerca viene fatta seguendo un giro tortuoso (e lo si può vedere dal disegno che lasciano strisciando sulla sabbia) quasi a voler disorientare i predatori. Con gli arti posteriori scavano delle buche profonde circa mezzo metro al di sopra della zona di flusso e riflusso del mare, quindi si mettono con la coda e la cloaca sopra il nido per deporre le uova e ne espellono da 60 a 150 ad intervalli di circa 12 al minuto. Le uova sono state fecondate dal maschio uno o due anni prima. Mentre le femmine depongono le uova, i maschi le attendono nelle acque vicine e, non appena le femmine ritornano in mare, avviene l'accoppiamento, per ritornare a depositare negli stessi posti dopo due o tre anni. Nelle acque del Veneziano, anche se non è raro osservare esemplari che nuotano vicino alla costa, non sono state mai osservate in epoche recenti sicure deposizioni, ma è probabile che questo avvenisse in passato. La tartaruga marina è di norma solitaria ma può capitare di incontrare piccoli gruppi che compiono migrazioni a scopo riproduttivo. La durata dell'incubazione varia e richiede da 30 a 65 giorni. I piccoli restano per breve tempo nel guscio, quindi in massa escono per avviarsi dove l'orizzonte è più aperto, guidati dalla luce proveniente dal riverbero del mare. Purtroppo la maggior parte di essi viene predata da uccelli, ratti, cani randagi, ecc. La tartaruga Caretta è specie protetta, e del suo studio si interessa Luca Mizzan, consulente scientifico e ricercatore per la biologia e l'ecologia marina presso il Museo di storia naturale di Venezia. Franca Fabris


GOLF E FITOFARMACI Un green ecologico Manutenzione dei campi di gioco
Autore: VIETTI MARIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, SPORT, GOLF
LUOGHI: ITALIA

LE associazioni ambientaliste hanno contestato, in alcune occasioni, la costruzione e la manutenzione dei campi di golf perché temevano danni ambientali, in particolare un uso massiccio di prodotti chimici inquinanti. Vediamo di analizzare obiettivamente la situazione nei tre punti fondamentali: la scelta dei siti, la costruzione e la manutenzione. La superficie necessaria per realizzare un campo regolamentare a 18 buche è di circa 60 ettari: in Italia non è facile trovare una superficie così vasta e con le caratteristiche necessarie. Normalmente le aree sono agricole o destinate a parchi, anche se sarebbe auspicabile cercare di localizzarli in aree degradate da riqualificare. All'estero in numerosi casi si sono utilizzate aree dismesse di cave e discariche, realizzando grandi parchi con all'interno campi di golf. Se è vero che durante la costruzione dei campi la fauna può essere disturbata, è altrettanto vero che a lavori ultimati nelle fasce boscate, normalmente adottate come divisori tra le diverse «buche», troverà riparo un gran numero di animali selvatici. Per favorirne l'insediamento è bene prevedere ampie zone lasciate a macchia, con cespugli anche spinosi dove gli animali troveranno asilo e potranno nidificare. Il gioco del golf è silenzioso per eccellenza e quindi non disturba; inoltre nei campi di golf la caccia non è mai ammessa. Durante la costruzione è necessario prestare grande attenzione ai movimenti di terra e alla regimazione delle acque, al fine di non alterare gli equilibri preesistenti: in questa occasione è possibile migliorare l'assetto idrogeologico convogliando le acque in bacini di raccolta per l'irrigazione dei tappeti erbosi, che dovranno essere mantenuti verdi e freschi. Vediamo ora quale influenza ha la gestione di un campo di golf sull'ambiente: i fattori positivi sono facilmente intuibili in quanto l'area «verde» influirà favorevolmente sull'erosione del suolo, nell'ossigenazione, nell'assorbimento di inquinanti atmosferici. I fattori da verificare sono i consumi idrici, le concimazioni e l'uso dei fitofarmaci. Il consumo di acqua è molto alto e mediamente, in Italia, si aggira sui mille metri cubi al giorno per ogni campo regolamentare: questo dato non deve però allarmare più di tanto, in quanto normalmente i campi vengono costruiti in zone ricche di acque superficiali di scorrimento e con grande disponibilità di acque di falda. Inoltre nella realizzazione si creano grandi bacini artificiali che garantiscono sufficienti riserve per i periodi di siccità e offrono un ambiente adatto a numerosissimi organismi acquatici. I fertilizzanti, come in tutte le pratiche agricole, vengono usati al fine di incrementare la produzione; in questo caso ciò che si vuole mantenere ben rigogliosa è la crescita dell'erba che, tosata con diversa frequenza e altezza, assumerà l'aspetto del Rough, del Fairway o del Green. Vengono usati diversi tipi di concime contenenti prevalentemente azoto, fosforo e potassio e quindi molto simili a quelli agricoli, ma nei campi di golf si preferiscono quelli «a lenta cessione»; con questi prodotti i vari elementi non si sciolgono immediatamente alla prima pioggia ma vengono ceduti lentamente all'erba man mano che si rende necessario. Questi tipi di concime sono molto meno inquinanti di quelli tradizionali. Passiamo ora all'argomento più delicato che richiede una maggiore attenzione: i fitofarmaci. Abbiamo visto che un campo di golf non si discosta molto da una coltivazione agraria, con la differenza che il prodotto coltivato è l'erba, indispensabile per giocare; come tutte le coltivazioni deve essere protetta da malattie, parassiti e infestanti. Tra i vari metodi disponibili si devono seguire quelli che rispettano il più possibile la natura e l'ambiente in generale. L'erba, per divenire ben fitta, richiede tagli e irrigazioni molto frequenti. Uniti all'usura del gioco, questi rendono il tappeto erboso facilmente attaccabile da patogeni di origine fungina. Queste malattie possono avere una diffusione rapidissima e in breve tempo danneggiare gravemente ampie zone; pertanto è necessario prevenire tali infezioni mediante l'uso di fungicidi autorizzati per questo uso specifico. Talvolta può accadere di dover intervenire contro insetti o acari che danneggiano in qualche modo la crescita dell'erba. Gli interventi più impegnativi sono quelli da effettuare per contenere le erbe infestanti: possono essere a foglia larga, a foglia stretta, avere una consistenza più o meno coriacea, oppure morire o ingiallire nei periodi invernali. L'esigenza di avere tutta l'erba perfettamente uniforme è un'esagerazione e se ne può fare benissimo a meno su gran parte del campo, però è altrettanto vero che le zone dei greens e degli avant greens devono essere uniformi per poter sviluppare un gioco di qualità. Per avere questa uniformità e limitare al massimo la quantità di prodotti diserbanti è essenziale che il prato sia impiantato seguendo le buone regole del giardinaggio e quindi seminato in settembre su terreno perfettamente mondato da erbacce e dai loro semi. In questo modo sarà molto più agevole conservare il manto erboso integro negli anni successivi. I fitofarmaci da usare in agricoltura e sui campi di golf devono essere registrati come presidi sanitari presso il ministero della Sanità, dopo due serie parallele di valutazioni: biologico-agronomica e medico- tossicologica. In questo ambito vengono esaminati l'efficacia, la selettività, le modalità, le dosi e i settori di impiego; la tossicità verso l'uomo, gli animali e l'ambiente ed i residui nel terreno. Mario Vietti


FIUMI & BARENE Un satellite contro le piene Monitorata dall'alto l'estrazione di sabbia e ghiaia
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, TECNOLOGIA
NOMI: TOSCHI ANGELO, DOLCI ERMANNO
ORGANIZZAZIONI: ANEPLA (ASSOCIAZIONE NAZIONALE ESTRATTORI PRODUTTORI LAPIDEI E AFFINI)
LUOGHI: ITALIA

FIUMI in magra, con larghe lingue di ghiaia che emergono dal letto, a volte veri e propri isolotti. E' questo il momento più adatto per gli estrattori di inerti che vogliano valutare i depositi di sabbia, ghiaia e pietrisco lasciati dalle piene autunnali e primaverili, e quindi la quantità del materiale che può essere asportato senza danneggiare il letto naturale del fiume e le sponde. Questa valutazione ormai è possibile durante tutto l'anno grazie al satellite Landsat 5 con sensori Thematic mapper. E' dal 1990 che il satellite viene utilizzato per verificare l'estensione di area adatta all'estrazione in base ai cambiamenti degli alvei nel corso degli ultimi anni. Estendere questo sistema moderno di rilevamento a tutti i fiumi del territorio nazionale è uno degli scopi dell'Anepla (Associazione nazionale estrattori produttori lapidei e affini) che recentemente ha stilato un documento per la regimazione fluviale delle attività estrattive. Se fino a una quindicina d'anni fa sono stati alcuni scavatori a provocare danni ambientali sfruttando in modo improprio i fiumi, l'arresto dell'attività estrattiva imposta nel 1990 su tutto il bacino idrografico del Po dalle autorità competenti ha provocato danni ben più gravi, come quelli avvenuti nel novembre '94 in Piemonte, dovuti appunto all'assenza di interventi sulle aste fluviali. Angelo Toschi, coordinatore Anepla della regimazione fluviale, spiega: «L'asportazione di sabbia, ghiaia e pietrisco non deve essere finalizzata allo sfruttamento minerario. Una attività estrattiva correttamente progettata e gestita può essere il solo strumento in grado di garantire condizioni di sicurezza nei corsi d'acqua prevenendo in modo efficace esondazioni ed alluvioni». E' quindi importante «coltivare» i giacimenti di materiale inerte sedimentato per ricalibrare i tratti di fiume e opporsi agli scavi esasperati che ne provocano l'inalveamento, creando il fenomeno del canyon. La velocità dell'acqua aumenta e batte sull'argine opposto allo scavo, erodendolo. Abbattere i rischi di nuove inondazioni e danni ambientali controllando le scavazioni nei fiumi, valorizzazione del materiale estratto dai corsi d'acqua, utilizzando quello con buone caratteristiche geotecniche, previa lavorazione in impianti idonei, per gli usi di maggior pregio, quali conglomerati bituminosi e cementizi, sono le buone intenzioni dell'Anepla che si fa carico di svolgere un'azione di informazione e responsabilizzazione nei confronti degli scavatori. Studi e perizie eseguiti con i più moderni mezzi di rilevamento hanno accertato che il blocco dell'attività estrattiva in alveo ha prodotto ovunque grandi depositi che modificano pericolosamente le sezioni di deflusso delle acque. Alcuni dati: nel Po furono estratti nel 1978 circa 6 milioni di metri cubi di ghiaia, nel 1990 solo 450 mila. E' stato calcolato che attualmente nel solo tratto piacentino del Po si siano accumulati oltre 30 milioni di metri cubi di materiale inerte, per un valore di circa 175 miliardi di lire. Stime fatte per i più importanti affluenti del Po nella sola Lombardia valutano in 5 milioni di metri cubi annui la quantità di materiale da asportare. L'intervento più urgente è stato individuato in provincia di Cremona, dove sull'Adda, in soli 15 chilometri, ci sono depositi di centinaia di migliaia di metri cubi. Un piano d'intervento già eseguibile è stato approntato dai tecnici del consorzio EcoSerio, formato da otto aziende estrattive, che prevede di asportare alcuni milioni di metri cubi, dragando un tratto di 20 chilometri del fiume Serio da Ghisalba a Mozzanica. «Tenere gli alvei puliti dei fiumi soprattutto nel Nord-Italia - spiega Ermanno Dolci, geologo ed esperto di idrologia - è fondamentale perché sono tutti fiumi a rischio di esondazione. Occorre dar corso al più presto a un progetto complessivo di regimazione idraulica. Dal varo della legge 183 del 18 maggio 1989, relativa alle norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo, Autorità di bacino e Magistrato del Po hanno autorizzato solo interventi di urgenza, mai un vero programma che noi scavatori invece auspichiamo per lavorare seriamente». Pia Bassi


IL GIOCO DELLA VITA Macchine e autoriproduzione Dal «gene egoista» agli automi cellulari
Autore: ODIFREDDI PIERGIORGIO

ARGOMENTI: GENETICA, BIOLOGIA
NOMI: BUTLER SAMUEL, DAWKINS RICHARD, VON NEUMANN JOHN, CONWAY JOHN
LUOGHI: ITALIA

QUALCHE settimana fa su Tuttoscienze abbiamo sostenuto che dal dogma centrale della biologia discende che l'uovo viene prima della gallina. Questa conclusione non è piaciuta ad alcuni lettori, benché fosse già implicita in Darwin, senza dover scomodare Crick e il Dna. Ad esempio, nel secolo scorso Samuel Butler ironizzava sul darwinismo presentandolo, letteralmente, come la teoria secondo cui la gallina non è che un mezzo per la riproduzione dell'uovo. Teoria che oggi ha una riformulazione seria nel concetto di gene egoista, divulgato da Richard Dawkins in un libro del 1976, secondo cui gli organismi (uomini compresi) non sono che mezzi per la riproduzione dei geni: in particolare, non solo i geni vengono prima degli organismi, ma sono loro le vere unità della selezione naturale! In una direzione complementare, lo stesso Butler si spinse fino ad affermare provocatoriamente, nel romanzo Erewhon del 1872, che l'uomo potrebbe non essere altro che un mezzo per la riproduzione delle macchine! Un secolo dopo, l'effettiva proliferazione delle macchine sul pianeta dovrebbe spingerci a meditare seriamente su questa possibilità, e sulle proposte che Butler avanzava per rimediarvi (che invitiamo i lettori ad andare a leggere, nei deliziosi capitoli XXIII-XXV del suo romanzo). Abbandonando l'ironia di Butler, vorremmo però considerare più da vicino la possibilità che le macchine possano autoriprodursi, a rischio di offendere ancora una volta la suscettibilità di qualcuno. La risposta, positiva, avrà interessanti conseguenze per il problema da cui siamo partiti. Anzitutto consideriamo una macchina C, che sia un costruttore universale, nel senso che sappia costruire una qualunque macchina M di un certo tipo, a partire da una sua descrizione m. In particolare, la macchina C può costruire una copia di se stessa, a partire dalla propria descrizione c. Ma questa non è ancora una soluzione al problema dell'autoriproduzione: si parte infatti dalla macchina C e da una sua descrizione c, e si ottiene soltanto una copia della macchina C stessa, senza una copia della sua descrizione c. Per ovviare al problema, consideriamo allora una macchina F che sia una fotocopiatrice universale, nel senso che sappia riprodurre una copia di qualunque descrizione m. Accoppiando le macchine C ed F, se ne può ottenere una nuova A che, a partire dalla descrizione m, ne faccia una copia, costruisca M, e le inserisca la copia di m. La macchina A con la propria descrizione a è ora effettivamente autoriproducentesi, perché costruisce A e le inserisce la descrizione a. Il meccanismo appena descritto fornisce un modello della riproduzione biologica: la descrizione m svolge il ruolo di un gene (un segmento di Dna) che codifica l'informazione per la riproduzione; F (uno speciale enzima, detto Rna polimerasi) ha la funzione di duplicare il materiale genetico in un segmento di Rna; C (un insieme di ribosomi) costruisce proteine secondo l'informazione di questo segmento; A è una cellula autoriproducentesi. Naturalmente il modello è semplificato, ad esempio per il fatto che i geni contengono soltanto una codifica parziale delle informazioni necessarie per la riproduzione, il che produce copie non perfettamente identiche all'originale. Ma copie non identiche si possono ottenere anche fornendo ad A descrizioni di macchine leggermente diverse da A stessa, modellando così mutazioni di vario genere. A scanso di equivoci, il modello appena presentato per l'autoriproduzione delle macchine ha preceduto, e non seguito, il lavoro di Crick e Watson: esso è stato elaborato da John von Neumann nel 1951, come primo passo della sua effettiva costruzione di au tomi cellulari autoriproducentesi. La versione più semplice di tali automi è il cosiddetto gioco della vita, inventato da John Conway nel 1970. Esso consiste di una scacchiera illimitata: ciascuna casella si accende (nasce) ad un dato istante, se esattamente tre caselle adiacenti erano accese all'istante precedente, e rimane accesa (viva), se 2 o 3 caselle adiacenti erano accese; nel caso contrario si spegne (muore), per isolamento o sovrappopolazione. Benché il gioco fosse stato introdotto per altri motivi, si scoprì che esistono configurazioni di caselle accese che hanno la capacità di autoriprodursi, dopo un certo periodo, da un'altra parte della scacchiera. Fatto ancora più interessante, tali configurazioni possono venir raggiunte spontaneamente dall'evoluzione dell'automa, quando si parta da configurazioni casuali. Gli automi cellulari mostrano dunque che l'autoriproduzione è un fenomeno che può interessare da un lato universi particolarmente semplici, e dall'altro «organismi» non biologici. Inoltre, essa non richiede interventi miracolosi di nessun genere: ovviamente non ad ogni nascita, come pensava Cartesio, ma neppure una volta per tutte, come ci raccontano svariate mitologie, dalla Genesi al Popol Vuh. Detta più esplicitamente: la vita non è, da sola, un motivo sufficiente per credere nè all'esistenza di Dio, nè ad un ordine dell'universo. E poiché queste conclusioni possono andare contro idee ingenue sulla religione e sulla natura, non mi resta che attendere altre proteste. Piergiorgio Odifreddi Università di Torino


SCAFFALE Collins e Pinch: «Il Golem», Edizioni Dedalo
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Come funziona la scienza dal punto di vista sociologico? Quali sono le regole, anche sottintese, della comunità scientifica? Harry Collins (Università di Bath) e Trevor Pinch (Cornell University) rispondono analizzando alcuni episodi-chiave come gli esperimenti per dimostrare la relatività, la storia della «fusione fredda», la ricerca delle onde gravitazionali e la caccia ai neutrini solari latitanti.


SCAFFALE Edelman Gerlad: «Darwinismo neurale», Einaudi
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Premio Nobel per la medicina nel 1972, Edelman espone in questo denso saggio una teoria del cervello che, sulla base del concetto di derivazione darwiniana di selezione dei gruppi neuronali, spiega come il cervello si formi, si sviluppi, si evolva e funzioni. Ovviamente siamo in gran parte sul piano dell'ipotesi, come Edelman stesso chiarisce nell'ultimo capitolo. Ma se verranno definitive conferme sperimentali questa teoria segnerà una svolta in campo biologico.


SCAFFALE Zunino e Zullini: «Biogeografia», Casa Editrice Ambrosiana
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: BIOLOGIA, ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Come e perché gli esseri viventi sulla Terra sono distribuiti così come oggi possiamo osservare? E come erano distribuiti nelle epoche passate? Rispondendo fondamentalmente a queste domande, Aldo Zullini e Mario Zunino hanno dato finalmente all'Italia un testo universitario di biogeografia, una scienza alla quale contribuiscono molte discipline oltre alle due evocate dal suo nome, e in particolare l'ecologia, la paleontologia, la climatologia, la geologia. Il lavoro di Zullini e Zunino (rispettivamente dell'Università di Milano e di Palermo) si pone, nell'intenzione degli autori, tra il manuale e il trattato, e affronta sia gli aspetti teorici e metodologici della biogeografia sia, ovviamente, i suoi contenuti. Questo libro, tuttavia, per la sua gradevole leggibilità, merita un pubblico più vasto di quello degli studenti. Qualsiasi persona colta potrà imparare da queste pagine, trascorrendo molte ore in modo piacevole e intelligente.


SCAFFALE Autori vari: «Cos'è l'intelligenza?», Edizioni Dedalo
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: BIOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

ESISTONO molte definizioni dell'intelligenza ma nessuna è convincente e molte conducono a paradossi. Come osserva Richard Gregory, studioso dei processi cognitivi, «l'intelligenza è attribuita sia a coloro che devono pensare perché non sanno molto, sia a coloro che sanno molto e quindi non devono pensare». Di qui vengono già fuori due tipi fondamentali di intelligenza: quella efficiente nella comprensione delle conoscenze già esistenti e quella creativa, che porta a nuove conoscenze. Oppenheimer e Einstein ne sono due buoni esempi. Se poi si va più nei particolari, si vede che esistono vari tipi di intelligenza a seconda dell'abilità che prendiamo in considerazione: visiva, matematica, musicale, linguistica. Più in generale, l'intelligenza è flessibilità e adattamento ai problemi da risolvere: in termini evolutivi, un passo della natura per andare oltre alla rigidità dell'istinto. Questi i temi dei nove saggi raccolti in un buon libro divulgativo della Cambridge University molto opportunamente tradotto per le Edizioni Dedalo.


SICUREZZA AEREA Le valigie sospette I nuovi sistemi di controllo a terra
Autore: BOFFETTA GIAN CARLO

ARGOMENTI: TRASPORTI, TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. TNA (Thermal Neutron Analysis)

PER migliorare la sicurezza dei voli commerciali si lavora molto non soltanto sugli aerei, che hanno raggiunto livelli di affidabilità impensabili solo pochi anni fa, ma anche sulla preparazione dei piloti, dei tecnici e in generale di quanti operano a bordo o a terra. Sono continui anche i progressi tecnici sugli apparati che negli aeroporti sono strettamente collegati al volo. Nuovi mezzi per il controllo del traffico aereo sono in prova in Usa, soprattutto basati sull'uso del Gps, altri riguardano il controllo periodico dell'aereo, alla ricerca di microcariche nascoste. Ma un rischio per il quale è stato fatto finora poco o nulla è quello - per fortuna per ora improbabile - rappresentato da un attentatore suicida, utilizzato dal terrorismo internazionale. I sistemi di controllo sulla persona del passeggero e del bagaglio a mano, se ben condotti, possono garantire che non entri a bordo un'arma o dell'esplosivo, ed una procedura correttamente applicata assicura che il bagaglio consegnato al check-in non venga imbarcato se il proprietario non sale a bordo. Tutto ciò ha funzionato, più o meno bene, fino al dicembre '88, quando esplose nel cielo dell'Inghilterra la bomba portata a bordo del Jumbo del volo PanAm 103. Subito dopo la tragedia furono messe in opera, almeno in Usa e in Inghilterra, procedure più severe: tutti i bagagli dei voli transatlantici e verso Paesi non proprio sicuri attraversano una stazione a raggi X e il dieci per cento viene aperto e ispezionato a mano creando però situazioni di code e ingorghi con conseguenti ritardi. Inoltre gli addetti vengono sostituiti ogni 20 minuti perché, come è noto, il cervello umano, se non viene stimolato di tanto in tanto con un evento che interrompa il lavoro di routine, entra in uno stato di «autopilota», per usare un termine aeronautico. Possiamo verificarlo guidando un'auto a lungo su di un'autostrada rettilinea: la condotta è perfetta ma di fronte ad un evento imprevisto il tempo di reazione è ben più lungo di quello causato dallo stesso evento dopo una curva su una strada di montagna, dove il cervello è tenuto costantemente «sveglio» dal susseguirsi di eventi diversi. Ed è stato accertato che dopo mezz'ora di osservazione di uno schermo sul quale scorrono immagini non troppo chiare in bianco e nero, è difficile percepire in pochi secondi l'ombra «pericolosa». Negli ultimi anni sono state sperimentate nuove tecniche di controllo ed il progetto più promettente è risultato essere l'americano Tna (Thermal Neutron Analysis) in prova presso l'aeroporto di Gatwick a Londra, che ha dimostrato di essere in grado di scoprire piccole quantità di esplosivo nei bagagli senza alcun intervento umano. Purtroppo l'impianto è voluminoso, lento nel processare i bagagli e soprattutto estremamente costoso. Si è quindi pensato ad un processo a stadi successivi e due di questi apparati sono in prova in un grande aeroporto europeo con risultati incoraggianti. Si tratta di 5 stazioni successive. La prima esamina con un nuovo tipo di raggi X, più potente, tutti i bagagli che transitano sul convogliatore che avanza veloce (0,5 metri al secondo) e, collegato ad un computer, senza alcun intervento umano accetta una media dell'80% dei bagagli che vengono subito spediti all'aereo. Il 20% scartato va alla seconda stazione che è invece presidiata da un operatore sostituito ogni 20 minuti. La velocità è inferiore e l'operatore può far ripassare avanti e indietro il pacco sospetto per meglio identificare l'oggetto. La decisione di lasciar procedere o no è presa dall'uomo, e l'esperienza ha dimostrato che il 5% del bagaglio esaminato viene considerato «sospetto» e quindi, a questo punto, il 99% è già a bordo dell'aereo. Soltanto il restante 1% finisce alla terza stazione dove un apparato in grado di scoprire tracce anche minime di sostanze classificate pericolose, sia organiche sia inorganiche, sulla superficie esterna del bagaglio, invia automaticamente alla quarta stazione un 10 per cento di quanto ha esaminato. Alla quarta stazione gli addetti provvedono a identificare il proprietario tra i passeggeri in attesa d'imbarco, al suo interrogatorio sulla confezione del bagaglio e alla decisione di farlo aprire o, se rimangono dei sospetti, a inviarlo alla quinta stazione insieme al proprietario. Qui se ne occupa un reparto specializzato della Polizia che eventualmente apre il bagaglio fuori dall'aeroporto con le cautele del caso. Vi sono buone speranze che questo sistema venga messo in opera fra pochi anni almeno negli aeroporti più affollati mentre in quelli minori dovrebbe almeno esser applicato il sistema dei raggi X, nelle nuove versioni più potenti, effettuato manualmente da operatori sostituiti frequentemente. Gian Carlo Boffetta


ASTROFISICA Quesiti su un pianeta presunto In orbita intorno a 51 Pegasi, distante 42 anni luce
Autore: BATALLI COSMOVICI CRISTIANO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
NOMI: MAYOR MICHAEL, QUELOZ DIDIER
LUOGHI: ITALIA

UNO dei quesiti fondamentali della bioastronomia riguarda la presenza di pianeti al di fuori del nostro Sistema Solare. La logica scientifica ci porta senz'altro a una risposta positiva, ma l'evidenza sperimentale è ostacolata dalle leggi dell'ottica e dalla sensibilità degli strumenti: non esiste e non è realizzabile un telescopio in grado di far vedere, cioè di risolvere spazialmente, un oggetto cosmico di poche migliaia di chilometri in diametro a una distanza di anni luce dalla Terra. La stella più vicina a noi, la Proxima Centauri, dista ben 4,3 anni luce (1 anno luce è 63.240 volte la distanza Terra- Sole, che a sua volta è di 150 milioni di chilometri). Inoltre la luminosità di un pianeta gigante come Giove è di appena un miliardesimo rispetto a quella di una stella di tipo solare e quindi non è separabile da quella della stella centrale. L'unico modo per cercare di scoprire pianeti extrasolari è quello di usare raffinatissime misure indirette. Molto si è imparato in proposito nel 1983 tramite il primo satellite infrarosso Iras, che per la prima volta ha rivelato la presenza di materiale freddo, probabilmente pianeti in via di formazione intorno a varie stelle, fra cui Vega e Beta Pictoris. Il metodo di rivelazione indiretta si basa sulle perturbazioni generate da un pianeta gigante orbitante intorno a una stella relativamente «leggera», perturbazioni che provocano una debolissima oscillazione della stella. I due metodi seguiti sono quelli della misura astrometrica dello spostamento dell'immagine della stella rispetto al fondo di stelle distanti, e dell'effetto Doppler per misurare variazioni di velocità nella radiazione proveniente dalla stella in questione. Queste due tecniche sono complementari in quanto, maggiore è la separazione fra stella e pianeta, maggiore è lo spostamento astrometrico e minore è la variazione di velocità, e viceversa. Ma queste variazioni sono estremamente difficili da rivelare anche per un pianeta gigante. In passato sono state annunciate varie scoperte di pianeti extrasolari, ma non furono confermate e quindi non furono ufficialmente accreditate. Invece la recente scoperta effettuata da Michael Mayor e Didier Queloz dell'Osservatorio di Ginevra sembra fornire la prima evidenza verificata e confermata da vari astronomi, sia in Colorado che in California, di un pianeta extrasolare. Il pianeta orbita intorno a 51 Pegasi, stella visibile anche ad occhio nudo essendo di magnitudine 5, distante da noi 42 anni luce e molto simile al nostro Sole in quanto a tipo spettrale G4. La massa del presunto pianeta è circa 150 volte quella terrestre (metà di quella di Giove). Un pianeta di tipo gioviano, molto vicino al Sole, ha poche probabilità di consentire lo sviluppo della vita, ma non è escluso che intorno a 51 Pegasi ruotino altri pianeti di tipo terrestre. Questa scoperta, accolta con grande entusiasmo nel mondo astronomico, ha aperto una vasta gamma di quesiti in quanto il corto periodo di rivoluzione (4,23 giorni), la breve distanza dalla stella (7,5 milioni di km) e la grande massa del pianeta rappresentano una vera sfida per gli astrofisici teorici. Una cosa è certa: la tecnica vincente, che si basa sull'effetto Doppler, adottata dagli astronomi svizzeri, porterà in breve tempo alla scoperta di molti altri sistemi planetari e ciò renderà più mirata la ricerca, tramite i radiotelescopi, di segnali provenienti da eventuali civiltà extraterrestri tecnologicamente evolute (progetto Seti). Cristiano B. Cosmovici Cnr, Istituto di fisica dello spazio


ANZIANI... VECCHI... CENTENARI In corsa ai limiti della vita
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: DEMOGRAFIA E STATISTICA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

TUTTI gli indici della longevità umana dimostrano che popolazioni e individui stanno andando verso un allungamento della vita. In Giappone l'aspettativa di vita alla nascita è passata in cent'anni da 35 a 76 anni per gli uomini e a 82 per le donne. Nel 1952, basandosi sui dati recenti, Bourgcois-Pichat stimava una durata massima della vita a 78,2 anni per gli uomini. Nel 1991 Manton, usando un metodo analogo, valutava la durata massima nelle donne a 105,7 anni. Una differenza di ben 28 anni. All'inizio del secolo gli individui sopra i 65 erano meno di 20 milioni, meno dell'1 per cento della popolazione mondiale. Nel 1992 essi raggiungevano i 350 milioni, il 6 per cento circa. Si prevede che entro 50 anni il numero di ultrasettantenni raggiungerà il quinto della popolazione mondiale. In Italia all'inizio del secolo contavamo meno di 500 mila individui sopra i 75 anni, mentre oggi sono circa 4 milioni. Tra 25 anni vi saranno in Italia 153 anziani ogni 100 giovani di età inferiore ai 15 anni. I casi stimati di malattia d'Alzheimer, posti oggi tra i 300 e i 500 mila, sorpasseranno il milione (il numero di questi pazienti aumenta con l'aumentare dell'età). Quali sono i limiti della lunghezza della vita umana e le sue conseguenze? I dati attuali ci pongono di fronte a due quesiti. Il primo: assistiamo semplicemente a un prolungarsi relativo con un massimo prefissato che non si può superare perché dettato da leggi biologiche, oppure siamo di fronte a un vero progressivo allungamento della vita? Secondo quesito: se si tratta di un vero aumento dell'aspettativa di vita, esiste un limite a questo fenomeno? E allora, dove poniamo il nuovo primato di speranza di vita? Possiamo forse prolungare la durata della vita a piacere mutandone le condizioni? Il massimo assoluto d'età in un essere umano (soggetto a verifiche rigorose) è quello di una donna francese nata 120 anni fa ad Arles. Questo primato sconvolge tutti i limiti teorici posti sinora dai gerontologi. E' importante sottolineare che criteri di accertamento e verifica anagrafica hanno inesorabilmente eliminato tutti i primati precedenti vantati da anziani georgiani e armeni cultori di yogurt e tisane miracolose. In verità la maggior parte di questi primati vantati nell'ex Unione Sovietica erano di soggetti poco più che ottantenni e per di più invecchiati male. Da che cosa dipende il drastico aumento della lunghezza della vita in mezzo secolo? Se ascoltassimo gli ambientalisti più pessimisti, danni biologici da inquinamento uniti a radiazioni, urbanesimo, nutrimento meno genuino, aria meno pura dovrebbero tutti accorciarci la vita. Invece, paradossalmente, più inquinato è l'ambiente, più si allunga la vita media dell'uomo. Ciò indica un efficace e continuo fenomeno di adattamento e difesa da parte dell'organismo ai fattori tossici esterni. Tra questi meccanismi di depurazione chimica domina la produzione di enzimi epatici destinati a eliminare le sostanze nocive via via introdotte nell'organismo. Fatta questa constatazione, possiamo chiederci quali siano i fattori responsabili dell'aumento. In primo luogo, la riduzione della mortalità media, espressa sia come differimento della morte sia come diminuzione della stessa mortalità a tutte le età. Poi c'è il notevole miglioramento delle condizioni ambientali (checché ne dicano i verdi), un miglioramento costante e progressivo di condizioni quali igiene, nutrizione, vita all'aria libera e attività fisica. Le migliorate condizioni sanitarie sono direttamente correlate al progresso della medicina e della ricerca biomedica dell'ultimo mezzo secolo. A queste ultime si collega una migliore educazione del pubblico sui problemi della salute. Le possibilità di sopravvivenza per un neonato sono notevolmente aumentate a causa delle migliori condizioni di salute della gestante, che hanno procurato a loro volta migliori condizioni di vita intrauterine e un parto più sicuro. Se tutto ciò è facilmente dimostrabile con dati statistici, come rispondere alla parte più difficile del quesito: si tratta di un vero allungamento o solo di un più completo raggiungimento di limiti biologici massimi che impedirebbero ogni ulteriore avanzamento? Una valida prova scientifica della tesi che ogni specie sia caratterizzata da una vita massima specifica, secondo i grandi naturalisti (vedi Buffon), non si è mai prodotta. Al contrario, i dati sulla lunghezza massima della vita nella popolazione umana contraddicono le previsioni di quegli epidemiologi che affermavano fino a 10 anni fa che «il limite della vita umana è intorno ai cent'anni». La difficoltà nello stabilire un limite massimo deriva semplicemente dal fatto che nessuno conosce un mezzo adeguato per misurare il massimo decorso potenziale della vita, essendo questo in parte oscurato dalla mortalità. Passiamo quindi dalle previsioni più disastrose degli ambientalisti, che vedono una selezione sempre più sfavorevole a causa del peggioramento dell'ambiente, a quelle troppo ottimistiche dei genetisti, che profetizzano la scoperta di centotrentenni entro il prossimo decennio e una vita teoricamente infinita. Tra questi due estremi si piazzano diverse teorie. Si riconosce che entro certi limiti di vita ideale il 95 per cento della mortalità cadrebbe tra i 77 e i 93 anni d'età. Chi difende tale ipotesi ritiene che a partire dagli Anni 80 l'aspettativa della vita si sia stabilizzata intorno agli ottanta nei Paesi più sviluppati. Già oggi si notano gli effetti pratici di questa stabilizzazione anagrafica. Le statistiche dimostrano che in Francia la percentuale di donne ultracentenarie si è raddopppiata in 15 anni (periodo 1973/77 rispetto al periodo 1988/90) aumentandone la frequenza nella popolazione generale dall'1,1% al 2,2%. Il numero di centenari verificati è passato da circa 200 nel 1953 a oltre 3000 nel 1990 e viene valutato oggi ad oltre 5000. Di questo passo si può prevedere che essi saranno circa 10.000 nell'anno 2000 e oltre 150.000 nell'anno 2050. Immaginiamo dunque una città di soli centenari delle dimensioni di Padova o Verona a partire dal prossimo secolo. Pur aumentando l'età media del pensionamento, dai 65 anni ai 75 anni, si avranno ancora 25 anni e oltre di vita. Esistono tutti i presupposti per pensare che questi centenari avranno una vita altrettanto attiva degli ottantenni attuali. Esistono pure presupposti teorici a sostegno della possibilità che un numero limitato di persone possa raggiungere un'età ben più avanzata dei famosi cent'anni. Essi si basano sulla eterogeneità genetica della popolazione umana. Tale ipotesi contempla l'emergere di «geni per una lunga età» basandosi su dati recenti provenienti da studi sulla drosofila, un moscerino dell'aceto ben conosciuto ai genetisti. Questi studi dimostrano un «rallentamento» della curva della mortalità ad età più avanzate, con appianamento e diminuzione del rischio di morire oltre una certa età (attente, società di assicurazione!). Si tratta di un processo di stabilizzazione della mortalità sostenuto anche da modelli matematici di invecchiamento detti stocastici. Uno di questi modelli ci permette chiaramente di osservare una diminuzione della mortalità umana, una volta raggiunto il periodo di livellamento e stabilizzazione che si pone oggi intorno ai novanta. Secondo questo modello un organismo raggiungerebbe un livello massimo di autodistruzione (morte), poi il livello diventa stabile e non progredisce ulteriormente. Secondo altri, la «resistenza individuale a morire» diminuisce costantemente per ogni frazione dell'esistenza: una concezione più facilmente applicabile a organismi semplici monocellulari che a individui complessi come l'uomo e già verificabile in laboratorio nelle colture in vitro di cellule anche umane. Poiché i demografi sembrano osservare già oggi un rallentamento della curva della mortalità umana oltre una certa età, l'idea di un «decorso massimo» con mancanza assoluta di probabilità di sopravvivenza diventa sempre meno accettabile, mentre l'ipotesi di un avvicinamento progressivo asintotico (sempre al di sotto dell'unità), è un'alternativa più probabile e sostenibile dalla genetica moderna. La teoria dell'accumulo progressivo di danni cellulari e di «errori» che porterebbero l'organismo verso una sempre maggior fragilità e una aumentata morbilità-mortalità, ha utilizzato finora il concetto del limite massimo insormontabile, mai dimostrato sperimentalmente. Poiché il processo di selezione è continuo, esso diminuisce l'effetto a lungo termine (mortalità) nei superstiti, e rende possibile se non probabile il fatto che l'uomo sia ancora distante dai limiti teorici della durata della vita. Ammesso che esistano veramente. Ezio Giacobini


SCAFFALE «Atlante Zanichelli 1996», Zanichelli
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: DIDATTICA, GEOGRAFIA E GEOFISICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Eventi politico-militari e progressi scientifici fanno sì che oggi un atlante debba riportare in copertina una data per garantire la sua piena attualità. E' il caso dell'«Atlante Zanichelli 1996», derivato da un'opera svedese ma italianizzato con grande cura. Un atlante scolastico didatticamente perfetto per ciò che riguarda la fenomenologia del nostro pianeta ed estremamente aggiornato nella cartografia. Non mancano neppure alcuni semplici programmi in Basic per chi vuole applicare il computer ad alcuni problemi di tipo geografico. Piero Bianucci


PARKINSON Un piccolo passo verso nuove cure
Autore: CERVINO ANNA RITA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

IL controllo e il coordinamento dei movimenti del corpo umano e la secrezione ormonale sono alcune delle funzioni che la dopamina, un neurotrasmettitore chimico, svolge attraverso il sistema neuronale dopaminergico. Ma la sua eventuale carenza trasforma una perfetta macchina come l'uomo in un corpo scoordinato, il cui volto perde l'espressività che lo caratterizza, compare un incontrollabile tremore, diventa difficile muoversi, passeggiare, parlare e scrivere. E' il morbo di Parkinson, una malattia cronica che colpisce una persona su duecento, soprattutto uomini intorno ai 50-60 anni. La prima volta è stata individuata nel 1817 e solo recentemente un gruppo di ricerca francese è riuscito a realizzare un modello animale nel quale è stata riprodotta la malattia («Nature», 5 ottobre). Si tratta di topi privi del recettore D2 per la dopamina, che nel corso di alcuni test comportamentali manifestavano difficoltà nell'inizio e nell'esecuzione dei movimenti volontari (acinesia), lentezza dei movimenti volontari (bradicinesia) e tremore. Ma in che modo uno o più recettori per la dopamina sono coinvolti nell'insorgenza della malattia? E' bene precisare che attualmente sono noti cinque recettori di membrana in grado di legare la dopamina, ma quelli più abbondanti a livello cerebrale sono i recettori D1 e D2. Mediante essi il neurotrasmettitore agisce attivando due «vie» di fibre nervose che sinergicamente controllano il coordinamento dei movimenti e consentono ad esempio di camminare o di eseguire movimenti fini nei lavori di precisione. Per conoscere più nei dettagli le funzioni mediate dai due recettori, e di conseguenza in che modo esse sono correlate con il morbo di Parkinson, i ricercatori hanno realizzato due modelli animali che differivano per la mancanza di uno dei due recettori. I topi privi del recettore D1 non presentavano particolari caratteristiche, eccezion fatta per la comparsa sporadica di una tendenza al movimento frequente. Detto così il dato sembrerebbe non avere rilevanza, ma, paragonandolo con i dati della letteratura scientifica, esso si contrapponeva ai risultati degli studi farmacologici dove l'uso di farmaci antagonisti per il recettore D1 - ossia in grado di bloccare l'attività del recettore - determinavano la tendenza alla catalessia, una rigidità muscolare tale da impedire il movimento frequente. L'esatto opposto dei dati ottenuti nel modello animale. L'inatteso risultato deviò l'attenzione dei ricercatori verso la famiglia di topi priva del recettore D2 che, durante alcuni test comportamentali, manifestava i sintomi tipici del morbo di Parkinson. Gli studiosi non solo hanno realizzato un modello animale importante per lo studio della malattia, ma hanno anche dimostrato che i trattamenti con farmaci antagonisti determinano uno specifico blocco dei recettori D2 e non quello di altri membri della famiglia dei recettori per la dopamina. Un altro piccolo passo entra nella storia della malattia, caratterizzata da grandi intuizioni da parte di clinici e ricercatori. Dal 1817, anno in cui fu individuata la malattia, al 1960, quando alcuni scienziati dell'università di Vienna identificarono nella carenza di dopamina la causa dell'insorgenza del Parkinson, è trascorso più di un secolo. Solo allora si intuì la possibilità di una terapia sostitutiva e negli ultimi trent'anni sono stati studiati molti farmaci e forse quello più noto è la L-DOPA, un precursore della dopamina in grado di supplirne la carenza. Oggi, probabilmente, si prospetta un'ulteriore svolta. Seguendo la logica dei dati, e visto che all'inefficienza del recettore D2 si associano i tipici sintomi del morbo di Parkinson, i ricercatori vedono nei recettori D3 e D4 o altri recettori della dopamina, i bersagli ideali di nuovi approcci terapeutici. Il morbo di Parkinson è, a torto, considerato come una malattia «risolta», forse perché si confonde la sua «notorietà» - molti sanno cos'è o come si manifesta - con la certezza che sia stato raggiunto un discreto successo terapeutico. Ma non è così. Un dato per pensare: l'Italia occupa il secondo posto nella graduatoria dei Paesi con maggior numero di persone comprese nella fascia dei 50-60 anni di età. Anna Rita Cervino Istituto Negri Sud, Chieti


NEUROLOGIA Dell'anima e del cervello
Autore: CALISSANO PIETRO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, PSICOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

CHI analizza sperimentalmente il funzionamento del sistema nervoso si trova di fronte a un problema che sostanzialmente riguarda ogni essere umano. I progressi delle conoscenze nello studio della struttura e della funzione del cervello portano a concludere che anche le nostre facoltà più nobili e raffinate come il pensiero, la memoria, la volontà, sono dovute all'attività delle cellule nervose (neuroni) che costituiscono la massa del cervello. Certo non conosciamo ancora molti aspetti del funzionamento di queste cellule, e ancor meno sappiamo come, dai loro insiemi organizzati in centri, gangli, aree e così via, scaturiscono i processi mentali. Si è nella situazione di un ingegnere il quale, pur se inesperto di computer, abbia scoperto che il suo funzionamento si basa su una fonte di energia (la corrente elettrica), un insieme di elementi (microchip) di cui conosce la composizione e il modo di funzionare organizzati in reti di comunicazione capaci di elaborare l'informazione ed eventualmente di memorizzarla, e infine di un programma per utilizzare il funzionamento di quelle reti. Insomma, pur non conoscendo come è organizzato nei dettagli quel computer, e tantomeno come funziona quel programma (il cosiddetto software), l'ingegnere sa che in esso non vi è nulla di miracoloso, anche se le sue prestazioni sono formidabili. Ora, se possiamo concludere che il pensiero, la coscienza e tutte le altre nostre facoltà «intellettuali» sono proprietà che scaturiscono dall'attività dei nostri neuroni, dobbiamo concludere che esse si dissolveranno con l'arresto del funzionamento del cervello, cioè con la morte. Sembra una conclusione sconsolante quanto ovvia, e tuttavia ho avuto modo di osservare che essa si scontra con opinioni o preconcetti vari. I credenti di numerose religioni spesso effettuano una specie di identificazione o di sovrapposizione tra il concetto di anima, quello di autocoscienza e quello di pensiero in generale. E poiché, attribuiscono proprietà immateriali all'anima, sono portati ad attribuire uguali connotati anche a quell'insieme di processi nervosi che ci permettono di pensare e di essere coscienti, al tempo stesso, di quest'operazione. Ciò che allevia di più la sofferenza terrena è la speranza che una volta liberati dal fardello del corpo potremo sempre godere della nostra identità spirituale fatta di pensieri, memorie, affetti che potranno ricongiungersi con quelli già presenti nell'aldilà. E' chiaro, quindi, che attribuire «materialità» a questi stati mentali equivale a negarne la sopravvivenza al corpo. Questa identificazione fra il concetto di anima e quello di pensiero in senso lato è in fondo modificabile, poiché, una volta chiarito l'equivoco semantico, il credente avrà modo di riappropriarsi del concetto di anima immortale dissociandone le origini e il significato da quello del pensiero come oggi viene inteso. Anche se questo muore con il corpo, l'anima, che è immateriale, sopravviverà in eterno. Ma se per il credente questo dilemma è risolvibile con la fede, questa fuga non è comprensibile per una vasta schiera di studiosi laici che, pur non credendo nell'esistenza di un'anima in senso religioso, sostengono una netta dicotomia fra quelle che si definiscono attività cerebrali (il movimento di una gamba, la percezione di un suono) e attività «mentali» come, appunto, il pensiero e l'autocoscienza. Ciò non stupisce se consideriamo che gli stessi testi enciclopedici, a partire da quello espressione dell'illuminismo più classico, fino a quelli moderni, compiono quella già definita come confusione semantica. La definizione dell'anima che più di frequente si trova, infatti, è questa: «origine e centro del pensiero, del sentimento, della volontà e della stessa coscienza morale». Si possono trovare versioni differenti, ma di solito vi è sovrapposizione fra il concetto di anima e quell'insieme di attività cerebrali che definiamo come pensiero. Non a caso il mondo della medicina, a livello accademico, è ancora diviso in due corpi di insegnamento distinti e talvolta in contrasto: gli psichiatri, con le numerose varianti basate sulla parola psiche (psicologi, psicoanalisti) ed i neurologi, che si occupano delle attività cerebrali. La tesi della dicotomia mente/cervello costituisce, a mio avviso, una variante laica della confusione operata dai credenti fra mente e anima. Sia chiaro, ancora oggi filosofi e scienziati di grande valore sostengono questa dicotomia e vi sono teorie scientifiche sulla natura dei processi mentali che si ispirano alla teoria dei quanti, nata dalla fisica e divenuta una quasi metafisica impiegata anche per interpretare i processi mentali. L'insistenza su questo atteggiamento, tuttavia, ha un riflesso concreto, un impatto talvolta spiacevole nella vita quotidiana di molti esseri umani che soffrono di malattie che colpiscono il cervello. Perché finché si continuerà a sostenere questa dicotomia, vi saranno neurologi che saranno orientati a trattare esclusivamente con farmaci anche le più complesse affezioni che colpiscono il pensiero e gli umori. E vi saranno psichiatri o psicoanalisi che, sulla base dell'assunto che i processi mentali non hanno base materiale, si ostineranno a trattare pazienti che soffrono di malattie inequivocabilmente dovute a cause «organiche» con terapie basate esclusivamente sul colloquio. E' giunto il tempo che questi due schieramenti non si contrappongano più e concepiscano insieme degli incontri nei quali non si dibattano più questi problemi come se si trattasse di dogmi religiosi, ma come dilemmi scientifici da affrontare con la sperimentazione. Pietro Calissano II Università di Roma a Tor Vergata


DONNE E SPORT Instabili equilibri ormonali Alterazioni funzionali ovariche delle atlete
Autore: TRIPODINA ANTONIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SPORT, DONNE
LUOGHI: ITALIA

UN'ATTIVITA' sportiva molto intensa può in alcune giovani atlete turbare il delicatissimo e sofisticato sistema neuro-ormonale che regola la funzione ovarica. Il turbamento può manifestarsi con un ritardo della pubertà e del menarca (primo flusso mestruale) quando l'attività sportiva inizia in un'età molto precoce (come accade nella ginnastica o nella danza), oppure con cicli più rari (oligomenorrea), o del tutto assenti per un periodo più o meno lungo (amenorrea secondaria), quando l'attività è svolta in un'età più avanzata. E' un evento che si manifesta con sempre maggiore frequenza, stante anche il crescente numero di donne che si dedicano alla pratica sportiva, non solo agonistica, e in modo direttamente proporzionale alla durata e all'intensità dell'attività. Un esempio classico è quello di un gruppo di donne che percorsero 600 chilometri a piedi in 60 giorni durante una spedizione al polo Nord (1986): tutte le componenti ebbero la sospensione dei flussi e un'ipotrofia della ghiandola mammaria. La riduzione dell'impegno fisico determina un ritorno alla normalità. La disfunzione è più frequente nelle atlete che praticano attività di tipo aerobico (o di resistenza, soprattutto la corsa) a causa, secondo un'ipotesi, di una maggiore e più rapida perdita di tessuto adiposo. In effetti, il grasso corporeo ha una sua ben precisa funzione nell'equilibrio ormonale generale: è nel suo interno che avviene la conversione degli androgeni in estrogeni, che a loro volta esercitano un'influenza sul sistema ipotalamo-ipofisario. L'importanza del grasso corporeo è tale che, secondo la «critical fat hypothesis», ne sarebbe necessaria una percentuale (almeno il 17 per cento) minima per la comparsa del menarca, e una (almeno il 22 per cento) per il mantenimento di un normale ciclo. L'«ipotesi adiposa» non è tuttavia condivisa da tutti per queste osservazioni: in alcune ragazze si è avuto un ritorno alla normalità dei flussi rallentando gli allenamenti, senza tuttavia che in esse si verificasse alcuna variazione di peso; in altre il ciclo mestruale si è sempre mantenuto regolare, pur in presenza di una percentuale di grasso estremamente bassa (addirittura intorno al 4 per cento): in altre ancora si sono manifestate alterazioni del ciclo pur in condizioni di peso normale. E' stata allora avanzata l'«ipotesi stress», situazione che sconvolge, acutamente e cronicamente, gli equilibri ormonali e si verifica facilmente nelle giovani donne. Ma anche questa ipotesi non convince in pieno, essendovi fanciulle che svolgono attività altrettanto coinvolgenti da un punto di vista emotivo (come le musiciste, aspiranti concertiste), ma non presentano di solito alterazioni della funzione ovarica. Alcuni ricercatori hanno dato la colpa alle diete ipocaloriche prive di carne, le quali sarebbero associate a un deficit della produzione di progesterone, più di quanto non accada con una dieta di pari apporto calorico ma con carne. Con ogni probabilità le alterazioni del ciclo che compaiono nel corso di intensa attività sportiva sono il risultato di una combinazione di vari fattori, che incidono in modo diverso, in ragazze geneticamente predisposte: il calo di peso (con le alterazioni nella produzione ormonale periferica), lo stress (con i sommovimenti ormonali che certamente comporta) e forse altri fattori esogeni (come ad esempio, diete non ben equilibrate). Tutti questi possibili fattori convergono nel perturbare il normale funzionamento dell'asse ipotalamo-ipofisi- ovaio, con la conseguenza di una mancata ovulazione e una ridotta secrezione ciclica di progesterone. Quest'ultima è considerata causa della precoce perdita di massa ossea osservata in alcune di queste giovani donne, non assimilabile a quella che si osserva in menopausa, non essendovi carenza di estrogeni, ma anzi un iper-estrogenismo relativo (la normale produzione di estrogeni non è compensata da una adeguata produzione di progesterone). In alcuni rari casi di amenorrea sono stati riscontrati livelli molto bassi anche di estrogeni. Sono situazioni un po' più preoccupanti per l'ulteriore effetto negativo sull'osso e sul metabolismo lipidico, solo in parte compensati dall'esercizio fisico stesso, che è bene cercare di risolvere rapidamente, consigliando una netta riduzione degli allenamenti, un aumento di assunzione di calcio (almeno 1500 mg al giorno) ed eventualmente una terapia estro-progestinica sostitutiva (ma dopo aver escluso, con indagini molto accurate, altre possibili cause). In ultima analisi, forse non sono lontani dal vero coloro che vedono in queste alterazioni funzionali delle ovaie un significato finalistico: in situazioni di estremo impegno fisico, così come in condizioni di magrezza esagerata (come nell'anoressia nervosa), viene bloccata la possibilità procreativa, in quanto un'eventuale gravidanza sarebbe un carico non sostenibile dall'organismo. Antonio Tripodina


ETOLOGIA Ma dove nidificherà mai il Chiurlo? Trampoliere, migratore, due soli nidi trovati in Siberia 80 anni fa
Autore: FRAMARIN FRANCESCO

ARGOMENTI: ETOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

SEMBRA impossibile che nel 1995 non si sappia ancora dove nidifica un'intera specie d'uccelli europei. Eppure è così per il Chiurlo dal becco sottile o Chiurlottello, un trampoliere dal lungo becco arcuato. Due soli nidi vennero trovati 80 anni fa nelle torbiere siberiane poco a Est degli Urali, fra la steppa e la taiga. Poi nient'altro. Allora la specie non era rara: in autunno molti uccelli migravano a Sud e svernavano in Iran e Iraq, altri invece passavano sui Balcani e sull'Italia per fermarsi in Nordafrica. La popolazione era però in declino, anzi cominciava a precipitare, senza che le ragioni fossero chiare. E' vero che gli habitat umidi lungo i percorsi migratori cominciavano a scarseggiare e anche la caccia aveva le sue responsabilità, ma nessun'altra specie di trampolieri ha subito un calo così drastico. Attualmente l'intera popolazione è stimata fra 50 e 250 individui: a questi livelli il comportamento sociale della specie aggrava la situazione, e anche le chances che gli uccelli si incontrino nelle aree di riproduzione sono scarse. Fino a pochi mesi fa alcuni individui svernavano regolarmente in un unico luogo noto del Marocco, ma ora, per controllare la specie, non resta che raccogliere le poche osservazioni sparse nei Paesi dove passa - impresa non facile e di pochi risultati. L'Italia è il terzo Paese per numero di avvistamenti recenti, e quest'anno ha avuto la fortuna di ospitare per oltre due mesi uno stormo di 20 Chiurlottelli: un record che spinge a sperare e continuare ad agire. Ma come? Intanto le zone umide di sosta e svernamento, ormai individuate, andrebbero non solo tenute sotto osservazione, ma protette. La tutela venatoria poi, che esiste sulla carta, va messa in pratica, perché non capiti come nel 1987, quando due esemplari furono uccisi nella ex Jugoslavia da cacciatori italiani. Ma che fare nelle aree di nidificazione in Siberia, dove non vi sono state modifiche ambientali apprezzabili e non vi è traccia di Chiurlottelli? E' stato supposto che i due nidi trovati nel 1914 fossero periferici nell'areale della specie, centrato probabilmente più a Sud nelle steppe del Kazakhstan. Queste sono ormai tutte coltivate ed è forse nei loro ultimi ritagli di natura che andrebbero cercati gli ultimi Chiurlottelli. Un caso simile di quasi estinzione c'è in America: il Chiurlo esquimese. Nel secolo scorso questo trampoliere nidificava nella tundra artica di Canada e Alaska e si contava a milioni nei punti di sosta della migrazione autunnale, che lo portava prima sulla costa atlantica nordamericana e poi nelle pampas argentine (un viaggio di 15.000 km!). In primavera esso tornava attraversando la pianura del Mississippi ed era oggetto di intensa caccia. Fu questa forse la causa principale del fatto che già alla fine del 1800 la specie era pressoché scomparsa. In seguito e nonostante la protezione venatoria, la specie non si riprese più, forse perché dopo il 1950 sia le grandi praterie degli Usa, sia le pampas furono messe a coltura. Oggi non si conosce alcun sito di nidificazione nè di svernamento del Chiurlo esquimese, ma negli ultimi 30 anni vi sono stati sporadici avvistamenti sulle coste del Texas in primavera e nell'areale artico in autunno. Qualche Chiurlo esquimese potrebbe dunque sopravvivere, ma è considerato virtualmente estinto. Speriamo che non lo segua anche il «cugino» europeo... Francesco Framarin


FARMACOLOGIA Una pervinca contro i tumori E' il «Catharanthus roseus» del Madagascar
Autore: P_B

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, BOTANICA
NOMI: FABRE PIERRE
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO DI CHIMICA DELLE SOSTANZE NATURALI
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. Le molecole della pervinca

E' un piccolo fiore insignificante, ma prezioso, la pervinca del Madagascar «Catharanthus roseus»: racchiude in sè proprietà che inibiscono la riproduzione delle cellule cancerogene e che permettono, soprattutto, di curare certe leucemie acute nei bambini e il diffusissimo carcinoma della mammella. Nei laboratori dell'Istituto di chimica delle sostanze naturali del Cnrs di Gif-sur-Yvette (Francia) nel 1972 sono state isolate due sostanze contenute nelle foglie della pervinca: la vincristina e la vinblastina, che successivamente furono tradotte in farmaci antitumorali naturali (come il già noto taxolo estratto dall'albero del tasso). Successive ricerche condotte dall'Istituto di oncologia e di immunogenetica di Villejuif in collaborazione con i laboratori Pierre Fabre fruttarono nel 1970 la nuova molecola vinorelbina, commercializzata nel 1989 sotto il nome Navelbine. Questo farmaco ha la capacità di bloccare la mitosi (divisione cellulare) delle cellule tumorali in una fase fondamentale della moltiplicazione cellulare con effetti collaterali (nausea, vomito, caduta di capelli) estremamente ridotti rispetto ad altri farmaci. La chemioterapia è ben tollerata da parte degli ammalati per gli effetti collaterali minimi e inoltre il farmaco allunga di qualche mese la sopravvivenza assicurando una buona qualità di vita. Per ottenere un chilogrammo di vinorelbina sono necessarie 50 tonnellate di foglie fresche. Fortunatamente la pervinca del Madagascar non è una pianta rara ed è facilmente coltivabile anche in altri Paesi della fascia equatoriale come il Vietnam. Grazie a colture selezionate e a tecniche di laboratorio sofisticate, oggi si può ottenere un chilogrammo di farmaco da venti tonnellate di foglie. Le proprietà officinali della pervinca del Madagascar sono note da alcuni secoli. E' accertato, tra l'altro, che i naviganti delle isole del Pacifico non si imbarcavano senza una buona scorta di foglie, che venivano masticate per lenire i morsi della fame e meglio sopportare le fatiche delle lunghissime traversate.(p. b.)




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