TUTTOSCIENZE 13 dicembre 95


METEOROLOGIA Tempo e neve in diretta Un barometro con... telecamera
Autore: MINETTI GIORGIO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: TELECOMMERCIALE ALPINA, CANALE 5, TELEMONTECARLO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Come funziona una stazioen meteo automatica

UNA previsione meteorologica locale è tanto migliore quanto più sono numerose le stazioni di rilevamento. Le moderne stazioni meteo sono automatiche: come si vede dal disegno, i dati raccolti da barometro, igrometro, pluviometro, anemometro, termometro e piranometro (misuratore della radiazione solare) vengono trasmessi via radio al centro di raccolta. Il radiotrasmettitore è alimentato da celle fotovoltaiche. Rispetto a queste stazioni, ormai molto diffuse, la Provincia di Trento sta compiendo in questi giorni un altro passo avanti nell'automazione dei rilevamenti meteo in tempo reale: si tratta del «Panorama Camera», che consiste in una serie di telecamere orientabili in tutte le direzioni, sistemate attualmente in punti strategici di 12 note località sciistiche del Trentino e puntate sulle piste di sci. Le telecamere, sistemate su tralicci metallici e protette in bocce di vetro fino a -40 C, riprendono e trasmettono via satellite, a diffusione locale o nazionale, le immagini delle piste di sci, fornendo un quadro della sciabilità in tempo reale in tutta la valle. Le riprese verranno diffuse da dicembre ad aprile con la rubrica «Pianeta neve» ogni giorno tra le 8 e le 9,30 e nel primo pomeriggio del giovedì e del venerdì. In un primo tempo ci si servirà di una Tv locale (Telecommerciale Alpina), in un secondo tempo la diffusione sarà nazionale, tramite il satellite «Astra» da Canale 5 a Telemontecarlo. Una carrellata finale di tutte e dodici le stazioni sciistiche chiuderà il servizio, completato in didascalia dai dati meteo locali (altezza, neve, temperatura, vento) consentendo agli sciatori di scegliere di primo mattino verso quale località puntare. Giorgio Minetti


CHI SA RISPONDERE?
LUOGHI: ITALIA

Q - E' in uso ancora oggi offrire un bicchier d'acqua a chi ha subito una forte emozione. E' un gesto di compartecipazione senza alcuna finalità oppure quel sorso d'acqua svolge la funzione di ristabilire, sia pure in minima parte, un equilibrio? Q - Qual è la vera causa della nebbia? Q - Perché gli oggetti porosi appaiono più scuri quando sono bagnat _______ Risposte a: «La Stampa-Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure al fax 011-65.68.688


LA PAROLA AI LETTORI Fermi? Sì, ma solo per la fisica classica
ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA

E' possibile stabilire in maniera assoluta (cioè indipendente mente dal punto di vista dell'os servatore) se un corpo è fermo o in movimento? Non esiste nulla che sia assolutamente immobile! Secondo il principio della relatività, in un aereo che vola alla velocità di crociera tutto si svolge esattamente come sulla Terra, in stato di quiete. Osservando ciò che accade all'interno dell'aereo è impossibile sapere se l'apparecchio è in movimento oppure in quiete (sempre che l'aereo viaggi a velocità costante e in linea retta). Il movimento dell'aereo è come nullo, non conta perché non lo si avverte. In un aereo si è fermi rispetto alle pareti dell'abitacolo ma in movimento rispetto alla Terra, a sua volta in moto rispetto al Sole, che peraltro è in moto rispetto alla nostra galassia, anch'essa in movimento. Per stabilire lo stato di quiete o di movimento è necessario un sistema di riferimento inerziale nel quale sono valide le leggi della fisica classica. Gildo Castellini Petrignano di Assisi (PG) L'unico sistema per poter stabilire in modo assoluto se un corpo è fermo o in movimento consiste nel postulare che un punto di vista (o sistema di riferimento) è assoluto e quindi in riferimento a esso giudicare se il corpo è fermo o in movimento. Rodolfo Blanchietti San Giusto (TO) Il primo principio della dinamica (legge d'inerzia) afferma che un corpo, in assenza di forze, rimane indefinitamente nel proprio stato naturale di quiete o di moto rettilineo uniforme. Se ne deduce che sia la quiete sia il moto rettilineo uniforme sono stati dinamici naturali, poiché non necessitano di una causa che li faccia sussistere, e quindi sono equivalenti a tutti gli effetti. Per questo motivo il passeggero di un veicolo non può distinguere in alcun modo se il proprio mezzo si trova in quiete o in moto rettilineo uniforme, se non facendo riferimento a un punto fisso esterno. Lucia Odicino Stazzano (AL) Perché piogge e nevicate posso no durare anche giorni interi, mentre le grandinate sono bre vi? Quando la temperatura si abbassa, l'umidità presente nell'aria, acqua allo stato gassoso, si condensa in gocce intorno a nuclei di condensazione (ad esempio il pulviscolo atmosferico) e cade per la forza di gravità terrestre. Condizioni favorevoli per questo tipo di precipitazione si verificano quando aria molto umida proveniente dall'Atlantico incontra correnti più fredde e le manifestazioni durano per tutto il tempo che restano attive le correnti, quindi anche giorni. La neve è il risultato del passaggio diretto (sublimazione) del vapore acqueo allo stato solido, in presenza di una temperatura idonea, inferiore allo 0o. Pertanto anche la caduta di neve può durare giorni interi. La grandine si forma, come la neve, per sublimazione del vapore acqueo. Si manifesta però prevalentemente d'estate quando, per effetto dell'intensa radiazione solare, si produce una grande quantità di vapore acqueo che, salendo nell'atmosfera, incontra temperature molto basse per correnti provenienti dal Polo artico. Caduta una certa quantità di grandine, tutta l'atmosfera si raffredda, e in modo abbastanza omogeneo, su valori prossimi allo 0o, per cui la precipitazione diventa acquosa fino alla fine del manifestarsi delle condizioni di condensazione. La dimensione dei ghiaccioli dipende dal numero dei nuclei del pulviscolo attorno al quale si addensano, cioè pochi nuclei favoriranno il formarsi di ghiaccioli di grande massa, ai quali è direttamente proporzionale il danno provocato nella caduta a terra. Valerio Bertolo Condove (TO) Come si calcolano le calorie per ogni alimento? La risposta pubblicata sullo scorso numero conteneva un grave errore nella definizione di Kcal (chilocaloria). Si definisce infatti così la quantità di calore necessaria per portare 1 Kg di acqua distillata dalla temperatura di 14,5o a 15,5o, sotto la pressione costante di 1 atmosfera. Vincenzo Caniglia, Torino Si definisce caloria (cal) l'energia che occorre per aumentare da 14,5o a 15,5o un grammo d'acqua. E' questa l'effettiva unità di misura del calore. Luca Vercelli, Torino


CARBOIDRATI Diete: va bene mangiare gli spaghetti ma non dimenticate riso, pane, patate
Autore: PELLATI RENZO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: PERONNET FRANCOIS
ORGANIZZAZIONI: SINU, SISA, ADI
LUOGHI: ITALIA

LE Società scientifiche che si occupano di nutrizione umana (Sinu, Sisa, Adi) non hanno ancora definito la quantità ideale di carboidrati nella dieta (contrariamente a quanto avviene per le proteine, vitamine, acidi grassi essenziali, minerali). Tuttavia è preferibile che una percentuale ragionevole del fabbisogno calorico giornaliero provenga dai carboidrati (55-60 per cento, con prevalenza di quelli complessi tipo amido) per impedire un'eccessiva produzione di scorie (corpi chetonici), la distruzione di proteine, la perdita di sodio e disidratazione. I carboidrati nella dieta inoltre sono di notevole aiuto nel controllo del peso. Recenti ricerche fatte all'Università di Montreal dall'equipe guidata da Francois Peronnet hanno fornito ulteriori dati al metabolismo dei carboidrati (grazie alla marcatura dell'amido con carbonio 13, associato a cromatografia e spettrometria di massa). Non è la stessa cosa infatti per i sedentari che tendono al sovrappeso introdurre nell'organismo carboidrati o lipidi. I lipidi assunti in eccesso sono velocemente immagazzinati come tessuto adiposo, con tutte le conseguenze che ne derivano. L'ingestione di carboidrati complessi ha dei vantaggi per l'organismo umano perché solo piccole quantità di carboidrati possono essere immagazzinate come glicogeno epatico e muscolare. Quando queste riserve sono soddisfatte, avviene la conversione in lipidi, che però richiede essa stessa un certo consumo di energia. Per la pratica sportiva i carboidrati sono indispensabili. L'attività fisica intensa e di breve durata è compensata quasi esclusivamente dalla demolizione del glicogeno muscolare, con ridotta utilizzazione dei lipidi e degli aminoacidi. L'ossidazione dei lipidi contribuisce fortemente alla produzione di energia per esercizi prolungati a più basso sviluppo di potenza (maratona, sci di fondo). Esaminando le curve glicemiche dopo assunzione di un'eguale quantità di carboidrati sotto forma di patate, riso, pane e spaghetti, si è visto che il pane ha un indice meno favorevole della pasta (e ancor meno riso e patate). Rispetto agli altri cibi analoghi, la pasta induce fluttuazioni glicemiche contenute, e quindi può essere indicata (ad opportune dosi) nei soggetti diabetici e negli obesi con insulino-resistenza. Ciò è dovuto al tipo di cottura, alle caratteristiche dell'amido (grano duro) e alla contemporanea presenza di lipidi e proteine (condimenti). La pasta industriale, essiccata ad alta temperatura, ha pure un andamento della glicemia più favorevole rispetto a quella fatta in casa. Tuttavia la pasta non dovrebbe essere la sola fonte di carboidrati complessi: nessuna dieta è bilanciata se non è varia. Renzo Pellati


APPENNINO PARCO D'EUROPA Grande, bello, verde Un progetto per valorizzare insieme tutte le zone già protette e sperimentare sul campo le possibilità di uno sviluppo sostenibile
Autore: GIULIANO WALTER

ARGOMENTI: ECOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: APE APPENNINO PARCO D'EUROPA, ENTE PARCO, REGIONE ABRUZZO, LEGAMBIENTE
LUOGHI: ITALIA

SI chiama Ape, «Appennino Parco d'Europa», l'ambizioso progetto che vede come attori, per ora, Regione Abruzzo e Legambiente, in collaborazione con il Servizio Conservazione della Natura del ministero dell'Ambiente. Non è un ulteriore progetto per un'unica grande area protetta dell'Appennino da sottoporre allo speciale regime di tutela e di gestione previsto dalla legge quadro sui parchi, ma il consolidamento e la valorizzazione dell'attuale sistema appenninico di aree naturali protette. L'Appennino è la spina dorsale verde della nostra Penisola. Un esteso e articolato sistema ambientale e territoriale, nel quale si possono individuare i subsistemi settentrionale, centrale e meridionale, dove c'è la maggior biodiversità. Se consideriamo che l'Italia è il Paese europeo più ricco di biodiversità, vero e proprio ponte tra alcune delle più importanti bioregioni del pianeta, comprendiamo come l'Appennino abbia una funzione davvero speciale nel panorama della natura d'Europa. All'aspetto strettamente naturalistico occorre aggiungere il patrimonio storico-artistico ad esso strettamente correlato, frutto del millenario insediamento umano. Non è un caso che cospicuo sia il numero delle aree protette istituite o previste lungo questa spina dorsale, dalla Liguria all'Aspromonte. Ben undici i parchi nazionali: Monte Falterona, Campigna e Foreste Casentinesi; Monti Sibillini; Gran Sasso-Monti della Laga; Maiella; Circeo; Abruzzo; Vesuvio; Cilento-Vallo di Diano; Pollino; Calabria; Aspromonte. A essi si aggiunge una serie di parchi regionali, meno estesi ma non meno importanti sotto il profilo ambientale. Ne nasce una vera e propria rete di natura protetta, un sistema ambientale caratterizzato dalla contiguità delle diverse aree sottoposte a tutela. Ciò consente il raggiungimento di una dimensione territoriale di scala che rende possibile pensare ad azioni coordinate per un riequilibrio globale, centrato sull'utilizzo sostenibile delle risorse naturali e territoriali. In sintesi, l'Appennino può davvero diventare un laboratorio di sperimentazione per quello sviluppo ecosostenibile fortemente suggerito dalla Conferenza mondiale sull'ambiente di Rio de Janeiro come strada per garantire un futuro alle prossime generazioni. Perché ciò sia possibile è però necessaria una strategia di coordinamento che sappia far dialogare i vari attori istituzionali, sociali e imprenditoriali presenti sul territorio. L'obiettivo di Ape è di giungere all'elaborazione di una politica per l'Appennino che si traduca da un lato nella definizione di uno «strumento quadro» istituzionale di riferimento, la Convenzione per lo sviluppo sostenibile dell'Appennino, dall'altro nella redazione e attuazione di un programma di azione coerente con gli orientamenti dell'Unione Europea e in particolare con il Quinto programma di Azione Ambientale. Nella realtà appenninica, secondo gli ideatori del progetto Ape, questi processi passano attraverso alcune azioni prioritarie: 1) adeguamento e approvazione degli strumenti legislativi per il governo del territorio e dell'ambiente, con particolare riferimento alle risorse naturali, in coerenza con i nuovi orientamenti nazionali e comunitari; 2) adeguamento e redazione degli strumenti di pianificazione territoriale e ambientale secondo il criterio della sostenibilità; 3) adeguamento e redazione degli strumenti di programmazione economica in coerenza con le linee di pianificazione territoriale e ambientale; 4) promozione del territorio appenninico, e in particolare delle aree naturali protette. Ad attuare il progetto saranno chiamati tutti i soggetti interessati allo sviluppo sostenibile dell'Appennino: lo Stato tramite il Comitato per le aree naturali protette, il ministero dell'Ambiente e gli Enti Parco; le Regioni e gli enti locali; le associazioni ambientaliste e la comunità scientifica; le organizzazioni sindacali, imprenditoriali e cooperativistiche. Gli stessi soggetti che intanto, per discutere di questa prospettiva, sono stati chiamati a esprimersi nell'ambito dello specifico Forum organizzato a L'Aquila nei primi giorni di dicembre. Walter Giuliano


FLAGELLO LOCUSTE Guerra nell'aria a colpi di spray In campo satelliti, aerei, insetticidi e sentinelle Onu
Autore: ANGELA ALBERTO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ECOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: FAO
LUOGHI: ITALIA

NUOVI problemi per le Nazioni Unite. Da anni ormai alcuni speciali reparti di «caschi blu» sono impegnati in Africa in una guerra contro nemici minuscoli e inafferrabili: le locuste. Ma le notizie dal fronte purtroppo non sono affatto buone. In un recente simposio tenutosi in Olanda si è fatto il bilancio di questa campagna bellica lunga e del tutto particolare, con una inquietante conclusione: per fermare le locuste non bastano neppure i satelliti artificiali, che pure consentono un rapido avvistamento del nemico. Insomma, anche la tecnologia più sofisticata sembra doversi arrendere di fronte a un flagello antico come il mondo. Com'è noto, le locuste formano veri e propri sciami, con milioni di individui che atterrano sui campi coltivati divorando in poche ore foglie e germogli. Accanto alla desertificazione, la piaga delle locuste è uno dei principali problemi dei Paesi della fascia subsahariana. E' facile immaginare quali danni causino le locuste a un'agricoltura già fragile e poverissima. La strategia della Fao (l'ente dell'Onu che si occupa dello sviluppo agricolo e dei problemi alimentari dei paesi del Terzo Mondo), che è direttamente impegnata nella lotta alle locuste, è molto semplice: neutralizzare questi insetti prima che compiano i loro voli distruttori. In termini bellici questa mossa potrebbe essere paragonata alla distruzione al suolo dei velivoli nemici prima del loro decollo. Il problema principale è localizzare con precisione gli «aeroporti» delle locuste. Per questo è stato varato un complesso progetto di monitoraggio del territorio con sofisticati satelliti. Un programma dal costo astronomico di 400 milioni di dollari. Dallo spazio, i satelliti non possono avvistare le singole locuste pronte al decollo, ovviamente (anche se quelli militari già 15 anni fa erano in grado di leggere targhe di auto e titoli a caratteri cubitali dei giornali...). Tuttavia, grazie a particolari sensori, gli «occhi» dei satelliti riescono a individuare quei «fazzoletti» di erba temporanei che si formano in pieno deserto in seguito agli acquazzoni. E' proprio da queste aree che spesso si sviluppano le locuste. Si tratta quindi di una «previsione» via satellite che poi le «truppe» locali di esperti Onu dovranno verificare sul posto, neutralizzando le locuste con insetticidi. Tutto dovrebbe filare senza problemi. Eppure qualcosa non va, a tal punto che questa strategia si sta rivelando un vero e proprio fiasco. Perché? Le pattuglie di esperti locali sono spesso immobilizzate per la cronica mancanza di fondi: a volte non ci sono soldi a sufficienza per acquistare i veicoli, la benzina, se non gli stessi pesticidi. Curioso paradosso per un'operazione così costosa. Spesso però è la sicurezza fisica a far rimanere queste squadre di disinfestazione nelle proprie basi: nelle aree desertiche da sorvegliare spesso c'è guerriglia, o ci sono precari equilibri tribali. Il pericolo di rimanere vittime di imboscate o di avere il proprio veicolo sequestrato è più che reale. Inoltre anche i satelliti hanno i loro limiti: non riescono a vedere «fazzoletti» vegetali con meno di 7 km per lato. Per rimediare, la Fao studia la possibilità di usare altri satelliti già in orbita, come gli «Spot» francesi, capaci di vedere aree verdi con meno di un km di lato. Purtroppo questa tecnologia è assai più costosa e molto più complessa da gestire: i tempi per elaborare ed esaminare i dati provenienti dallo spazio sono così lunghi che una volta individuata un'area sospetta è ormai troppo tardi. Lo sciame è già in volo. A questo punto cosa bisogna fare? Qualche anno fa una delle più spaventose ondate migratorie di locuste è stata neutralizzata dal vento, che ha spinto gli sciami direttamente in mare. Ma è stata una pura fortuna. Per combattere le locuste ci vuole un piano efficace. Secondo molti esperti rimane un'ultima soluzione: colpire direttamente le «nuvole» di locuste in volo con insetticidi spruzzati da piccoli aerei. Una battaglia aerea dai costi notevoli, ma inevitabile se si vogliono salvare quei preziosi raccolti. Alberto Angela


ETOLOGIA DEI PIRO-PIRO Il mondo alla rovescia Ruoli capovolti intorno al nido
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA
NOMI: ORING LEWIS W.
LUOGHI: ITALIA

PER una femmina, non c'è che dire, è una bella comodità poter immagazzinare una buona quantità di sperma e servirsene poi per fecondare le uova a distanza di tempo, magari quando i generosi donatori sono ormai defunti. Eppure è un privilegio concesso a non poche fortunate, soprattutto tra gli insetti e i mammiferi. La formica re-gina, per esem-pio, si fa una bella provvista di sperma durante il volo nuziale, quando si accoppia con i numerosi corteggiatori che l'assediano. E poi quello sperma se lo amministra saggiamente durante i dieci- quindici anni della sua vita. Questo le consente di determinare a suo piacimento il sesso del nascituro. Se feconda l'uovo mentre discende lungo l'ovidotto, ne nasce una femmina. Se non lo feconda, ne nasce un maschio. Persino tra i mammiferi ci sono le femmine accaparratrici di sperma, come quelle dei pipistrelli. Si accoppiano in autunno, ma siccome la gestazione è piuttosto breve - dura dai 50 agli 80 giorni, secondo la specie - tengono in serbo gelosamente lo sperma maschile fino alla primavera successiva. Così il piccolo nasce quando l'aria pullula di insetti, che sono il menu preferito di questi bruni volatori. Senza parlare poi dei minuscoli topi marsupiali australiani del genere Antechinus. Anche le femmine di questi animaletti fanno tesoro dello sperma e lo usano addirittura quando i donatori, assai meno longevi di loro, sono passati a miglior vita. Ma ora per la prima volta si scopre che anche un uccello selvatico come il piro-piro macchiato gode dello stesso privilegio. La scoperta si deve al ricercatore americano Lewis W. Oring e alla sua equipe, che hanno studiato il comportamento di questa specie di uccelli per diciotto anni. Va detto che il piro-piro macchiato è una delle poche specie ornitologiche in cui vige la poliandria. Meno nota e meno diffusa della poligamia, la poliandria indica una sorta di harem alla rovescia (una femmina con molti maschi). Come nelle jacane americane e nei falaropi, anche nei piro-piro macchiati c'è un totale ribaltamento dei ruoli. Mentre di solito negli uccelli è il maschio il più bello, il più appariscente e il più combattivo, negli uccelli poliandrici bellezza e aggressività sono caratteristiche precipue del gentil sesso. Che tanto gentile in verità non lo è. Basti vedere con quanta aggressività le femmine combattono tra loro per contendersi un maschietto. Nei piro-piro i duelli di questo genere possono protrarsi per oltre un'ora e alla fine una delle due contendenti ne esce davvero malconcia. Ribaltamento dei ruoli significa che il compito gravoso dell'incubazione delle uova è affidato al maschio. Appena vengono deposte le uova, lui ci si accovaccia sopra per covarle e lei lo pianta in asso per cercare altri maschi ai quali affidare le covate successive. Con la massima disinvoltura penetra nel territorio di una rivale e sciorina tutte le sue arti di seduzione, cantando romantiche serenate per accalappiare un maschietto. Affascinato dal suo canto, il padre incubatore abbandona le uova che stava covando e si unisce a lei. I piro-piro sono molto diffusi nel Nord America. Nidificano a Sud della tundra, sulle rive o nelle isole dei grandi laghi. Tra gli uccelli migratori, i primi ad arrivare nei luoghi di nidificazione sono i maschi. Invece nei piro-piro - fatto davvero insolito - sono le femmine più vecchie quelle che giungono per prime dai luoghi di svernamento. Appena arrivate, si accaparrano i territori, scegliendo di preferenza quelli usati l'anno precedente. Qualche giorno dopo arrivano i maschi più vecchi e infine i maschietti e le femmine giovani. C'è però una differenza fondamentale tra queste ultime e quelle più avanti negli anni. Le prime non praticano la poliandria, si accontentano di un marito solo per stagione riproduttiva. Le mature invece tendono ad accoppiarsi con più di un maschio e capita anche che ne sequestrino due contemporaneamente. Avere accoppiamenti multipli e deporre una covata per ciascun partner non è un compito da poco. Come nel caso osservato dai ricercatori di una femmina che depose cinque covate, affidandone tre a un maschio e altre due, una per ciascuno, ad altri due maschi. In tutto si trattava di venti uova, che pesavano il quadruplo del peso della femmina. Come a dire che una femmina umana partorisca un neonato di oltre 200 chili! Oring e i suoi collaboratori scoprono poi che le femmine dei piro piro non si accoppiano a casaccio, ma hanno un preciso controllo degli accoppiamenti. Se ritengono che un maschio abbia migliori qualità genetiche del partner che le sta montando in quel momento, lo scaricano senza complimenti e sollecitano l'altro a prendere il posto del maschio respinto. L'esame del Dna di 34 famiglie di piro piro riserva altre sorprese. Rivela che in vari casi la paternità dei pulcini spetta a maschi che da settimane non si sono accoppiati con le loro madri e stanno covando in altre isole. Come possono aver fecondato le uova questi maschi da tempo assenti? Il mistero è presto svelato. Le femmine dei piro-piro sono capaci di conservare lo sperma dei partner precedenti per trentuno giorni, prima di utilizzarlo per la fecondazione delle uova. Alla luce di questa scoperta, è facile capire quel che succede nella stagione degli amori. Arrivano per prime nei luoghi di nidificazione le femmine più vecchie, ma anche tra i maschi i primi ad arrivare sono i più vecchi. L'età è indice di qualità genetica. Gli uccelli più vecchi sono infatti quelli più forti che meglio affrontano le difficoltà della migrazione. E le femmine si accoppiano anzitutto con loro. Poi, con il progredire della stagione, non disdegnano di accoppiarsi anche con i sopraggiunti maschietti giovani. Ma le furbe hanno in serbo lo sperma di qualità migliore dei primi partner ed è proprio con quello che fecondano le uova. Quelle uova che i maschietti giovani coveranno per ventuno giorni, ignari di non averne la paternità. Isabella Lattes Coifmann


TECNOLOGIA I batteri in tre dimensioni Ideato un microscopio ottico per immagini in rilievo
Autore: FURESI MARIO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, OTTICA E FOTOGRAFIA
NOMI: GREENBERG GARRY
LUOGHI: ITALIA

UN nuovo importante sviluppo per il microscopio ottico, che continua ad essere il più usato dato che i suoi 1-3000 ingrandimenti rispondono in pieno alle esigenze della maggior parte delle ricerche e delle analisi. Il minore ingrandimento, se confrontato con quello dei microscopi elettronici o a raggi X, viene compensato dal molto minore ingombro, dalla semplicità di costruzione, dalla facilità d'impiego e dal costo incomparabilmente minore. Tutto ciò spiega l'interesse che nel mondo della ricerca ha destato l'invenzione del microscopio ottico binoculare a tre dimensioni. Il nuovo apparecchio è stato inventato da uno scienziato americano, Garry Greenberg, docente di medicina all'Università di Santa Monica (California); nel presentarne il prototipo, alcuni mesi fa, egli osservava che il nuovo microscopio evitava il lungo e complesso procedimento elettronico sino ad allora necessario per ottenere in rilievo l'immagine bidimensionale presentata da un comune microscopio ottico. Un'impresa americana ha costruito lo strumento ideato da Greenberg e ne ha presentato un esemplare all'ultima mostra internazionale di alta tecnologia, a Parigi. In quella occasione l'inventore ha spiegato che il suo microscopio non faceva altro che applicare il principio della stereoscopia e aggiungeva che, ricorrendo alla illuminazione obliqua, aveva ottenuto un notevole aumento delle frange di diffrazione nell'apertura dell'obiettivo e quindi immagini più nitide e più ricche di particolari e di più forti contrasti. Ha anche rilevato che la grande profondità di campo rende possibile un'immagine con lo spessore di oltre 30 micrometri (millesimi di millimetro). Nel nuovo microscopio il campione viene illuminato, secondo 4 diverse angolazioni, da 4 raggi perpendicolari che vengono diretti su uno specchio piramidale, da cui vengono riflessi passando attraverso l'apertura del condensatore. Si ottiene poi lo sdoppiamento dell'immagine riunendo i 4 raggi in due coppie che vengono polarizzate dai filtri in due piani tra loro perpendicolari. Si ricavano così le due immagini polarizzate, ciascuna delle quali (attraverso gli analizzatori di direzione) raggiunge uno degli oculari, concorrendo a comporre quel'unica immagine in rilievo che viene vista dall'osservatore. Il microscopio è del tipo a luce trasmessa ma è già in costruzione anche quello a fluorescenza, funzionante a luce ultravioletta, con un più alto potere di risoluzione. Mario Furesi


EFFETTO FOTOACUSTICO Il suono della luce Applicazioni in campo medico
Autore: BOSSI MARIACHIARA, VITTORE ETTORE

ARGOMENTI: FISICA
NOMI: BELL ALEXANDER GRAHAM
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Il principio alla base della fotoacustica

NEL 1881 Alexander Graham Bell presentò in modo alquanto singolare all'Accademia americana per lo sviluppo delle Scienze la scoperta dell'effetto fotoacustico (generazione del suono tramite la luce) descrivendolo come un fenomeno che permette, direttamente, di «ascoltare le ombre». Non era certo intenzione dello scienziato avallare scientificamente fenomeni di evocazione degli spiriti (ombre), ma, piuttosto, descrivere i risultati di un semplice esperimento che chiunque può ripetere utilizzando un'intensa sorgente luminosa, un disco forato rotante, un foglio di gomma annerita e uno stetoscopio. Proiettando sulla gomma, posta a diretto contatto con la membrana vibrante dello stetoscopio, l'ombra del disco rotante, è possibile ascoltare un suono tanto più acuto quanto più veloce è la rotazione del disco e tanto più intenso quanto più scura è la superficie illuminata. L'effetto fotoacustico si verifica quando l'illuminamento intermittente di una superficie produce una periodica variazione di temperatura dell'oggetto illuminato e, di conseguenza, dell'ambiente circostante. Nel precedente esperimento, la proiezione dell'ombra del disco rotante sulla gomma ne provoca il ciclico riscaldamento/raffreddamento, che si trasmette all'aria a contatto con la sua superficie. Le variazioni di temperatura originano delle espansioni e contrazioni periodiche dell'aria contenuta nel tubo dello stetoscopio, ovvero delle fluttuazioni di pressione, che si propagano sotto forma di onde sonore fino a giungere al timpano dello sperimentatore che le percepisce come segnale acustico. L'altezza del suono è uguale alla velocità (frequenza) con cui alternano la luce e l'ombra sulla gomma. La sua intensità è, invece, determinata dalla quantità di energia luminosa assorbita e convertita in energia termica. Variando la lunghezza d'onda (ovvero il colore) della luce incidente, dall'analisi del segnale fotoacustico è possibile determinare la quantità di energia luminosa assorbita in corrispondenza dei diversi colori. Dato che la corrispondenza colore-luce assorbita (detta spettro di assorbimento) rappresenta «l'impronta digitale» dei materiali, è ben comprensibile l'interesse della comunità scientifica nell'applicazione dell'indagine (o spettroscopia) fotoacustica per la caratterizzazione dei materiali. A differenza delle tradizionali tecniche spettroscopiche, che misurano la luce assorbita sottraendo alla luce incidente la luce trasmessa o riflessa dal campione, la spettroscopia fotoacustica offre il vantaggio di misurare una quantità, il segnale acustico, direttamente correlata alla quantità di energia luminosa assorbita. Questa peculiarità ha reso l'indagine fotoacustica ideale per lo studio di tessuti biologici che generalmente sono opachi e/o fortemente diffondenti. Ad esempio si è potuta studiare la formazione della cataratta direttamente sul cristallino dell'occhio umano, «ascoltando» la differenza di intensità di suono emesso da un cristallino sano e da un cristallino opacizzato. Applicazioni di notevole importanza sono, inoltre, quelle legate al campo dermatologico. Tramite la tecnica fotoacustica è infatti possibile valutare la reale protezione delle creme solari e determinarne la variazione di efficacia nel tempo. Recenti studi sulle macchie della pelle sembrano, inoltre, indicare la possibilità di diagnosticare, con estremo tempismo, la presenza di un melanoma (tumore) cutaneo. E' infine degna di nota una originale applicazione della spettroscopia fotoacustica, che si sta svolgendo presso il Dipartimento di Fisica Sperimentale dell'Università di Torino in collaborazione con l'Istituto «Galileo Ferraris» e con l'Università Parma, volta alla determinazione del colore originario della cute di una antica mummia egizia. Sono stati effettuati a tal fine confronti fra gli spettri fotoacustici prodotti dalla cute della mummia, depurata delle sostanze utilizzate nel processo di mummificazione, con quelli ottenuti da soggetti provenienti dal bacino mediterraneo. Da un primo «ascolto delle ombre della mummia» e dell'analisi del suo spettro (di assorbimento), sembra risultare che i resti mummificati appartenessero ad un individuo di pelle chiara. Questo risultato, se confermato, potrebbe costituire il primo passo verso una «archeologia fotoacustica» volta, ad esempio, alla individuazione della razza della casta dominante (l'unica in grado di permettersi l'imbalsamazione dei defunti). Difficilmente Bell, quando ascoltò per la prima volta «la misteriosa voce delle ombre», avrebbe potuto immaginare che, ad oltre un secolo di distanza, quel curioso effetto avrebbe avuto così numerose applicazioni scientifiche interdisciplinari. Mariachiara Bossi Ettore Vittore Università di Torino


ARMI Fucile laser per accecare il nemico
Autore: ROTA ORNELLA

ARGOMENTI: ARMI, TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

LASER capaci di rendere definitivamente ciechi in un milionesimo di secondo. Come un fucile o anche più piccoli, in grado di essere inseriti sulla canna. Per le batterie nessun problema, un qualsiasi zaino può contenere l'alimentatore adatto. La produzione su larga scala starebbe per cominciare in alcuni Paesi industrializzati. Lo denuncia il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Se ne discute alle Nazioni Unite per l'esame della Convenzione di Ginevra sull'uso delle armi classiche. Il Cicr e la Svezia si sono fatti promotori di un'azione per proibire l'uso dei laser accecanti, così come è già stato fatto per le armi chimiche e biologiche. E se a impadronirsene fossero gruppi di terroristi, o organizzazioni criminali, o movimenti di guerriglia? Se i modelli di questi nuovi sofisticati strumenti di guerra fossero copiati da Paesi del terzo e quarto mondo? Più nessuno è al sicuro: dai soldati sui campi di battaglia agli uomini politici, dai personaggi pubblici alle popolazioni civili. In guerra, i massacri aumenterebbero sia perché chi ne è colpito non potrebbe più difendersi, sia perché gli stessi responsabili dell'uso di laser attaccherebbero comunque, non foss'altro per l'impossibilità pratica di verificare se e quanti nemici abbiano perso la vista. Per colpire un bersaglio a un chilometro, questi fasci di luce invisibile sono larghi almeno 50 centimetri. Più nessuno vedrà, mai più, di tutti coloro che per qualche ragione ne saranno investiti. La loro cecità sarà definitiva. L'occhio infatti potenzia la luce da 100 a 500 mila volte, concentrandola sulla retina. E' la ragione per cui la retina può essere completamente distrutta da laser a bassa energia, che su altre parti del corpo non avrebbero praticamente effetti. Possibilità di prevenzione non ne esistono: eventuali occhiali potrebbero proteggere da laser dei quali si conoscano le frequenze, invece queste armi sono concepite in modo tale che operano su parecchie lunghezze d'onda, anzi passano dall'una all'altra in meno di un secondo. Per una tutela efficace si dovrebbero bloccare tutte le frequenze, con il risultato che la persona non sarebbe più in grado di vedere nulla. Esclusa pure l'ipotesi di accecare il nemico soltanto temporaneamente: occorrerebbe individuare e adeguatamente convogliare un livello di energia molto vicino a quello che causa la cecità definitiva: le difficoltà tecniche sembrano insuperabili. Nel dicembre 1990, la rivista militare statunitense Defense News scriveva che due tipi di armi a laser portatili, capaci di accecare il nemico, erano già stati sperimentati sul terreno. E secondo un altro periodico, Defense Electronic del febbraio '93, sarebbero già 1100 i laser antipersona dei quali si sarebbe già provata l'efficacia. Ornella Rota


A CAPODANNO IN VIGORE LA LEGGE SULL'INQUINAMENTO ACUSTICO Italiani malati di rumore
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ACUSTICA
NOMI: LUEG PAUL
ORGANIZZAZIONI: AIRS (ASSOCIAZIONE ITALIANA PER LA RICERCA SULLA SORDITA')
LUOGHI: ITALIA

SUBITO dopo Natale, ancora in tempo per i botti di Capodanno, i fracassoni incominceranno ad avere la vita dura: chi produce inquinamento acustico rischierà multe fino a 20 milioni e potrà anche incorrere nell'articolo 650 del Codice Penale. E' il risultato della legge contro l'inquinamento da rumore pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» del 1o novembre scorso. Sono nel mirino il rumore del traffico, i clacson truccati, gli allarmi, gli schiamazzi, le discoteche e anche radio e Tv se esagerano con sigle e spot pubblicitari a volume troppo alto. Il rumore contribuisce notevolmente a peggiorare la qualità della vita nelle grandi città e spesso danneggia direttamente la salute. Lo stress sonoro, per esempio, produce tachicardia, disturbi ghiandolari e digestivi, disagio psichico, senso di affaticamento. Secondo la neonata Associazione italiana per la ricerca sulla sordità (Airs, telefono verde 167.200.000) in Italia sono 6 milioni le persone con disturbi uditivi, e aumentano del 2 per cento all'anno. Stando all'Agenzia Europea per l'ambiente, un italiano su due è esposto a un rumore medio da traffico superiore a 55 decibel. La città peggiore, da questo punto di vista, è Siracusa, con un rumore medio di 78 decibel. Torino, come vedremo, non sta molto meglio. Benché quello acustico sia uno degli inquinamenti più diffusi, sulle 94 maggiori città italiane soltanto 35 si sono attrezzate per misurare la propria rumorosità. La Legambiente ha cercato di rimediare stilando una propria classifica. Lucca è la città più silenziosa d'Italia, seguita da Ferrara e Piacenza: la celebre poesia di D'Annunzio non ha perso del tutto la sua attualità. Milano si piazza al 49o posto, Napoli al 59o; Torino è al 76o posto, seguita da Roma al 78o e Genova all'80o, appena davanti a Siracusa. Ma non c'è soltanto il rumore esterno. Il rumore è in agguato anche nel salotto delle nostre case. L'articolo 12 della legge antirumore vieta alle emittenti televisive di trasmettere sigle e messaggi pubblicitari con potenza sonora superiore a quella normale dei programmi. Di recente, per conto dell'Unione Consumatori l'agenzia An.Tel ha misurato per una settimana il livello sonoro delle sigle di 123 telegiornali e di 108 spot pubblicitari su sette reti nazionali. Stabilito un livello zero ideale per l'ascolto, si è visto che ci sono ampie oscillazioni nel volume con cui avvengono le trasmissioni, anche della stessa emittente. Alcune appaiono casuali, ma altre sono sistematiche. Il telegiornale con la sigla più gridata è quello di Canale 5 (per tre giorni di 2 decibel sopra lo zero); seguono Rete 4 e Telemontecarlo. Il Tg2 della Rai ha la sigla più sussurrata, ma abbastanza discreto è anche il Tg1; di poco sopra le righe il Tg3. Quanto agli spot, per non citare marchi, limitiamoci alle categorie: la pubblicità delle auto e degli aperitivi è abbastanza discreta, rumorosa quella delle acque minerali, dei dolci e del caffè. Anche scienza e tecnologia sono al lavoro per difenderci dal rumore. Due linee di difesa sono ben conosciute: isolare gli ambienti in cui viviamo dai rumori esterni e costruire apparecchi e materiali meno rumorosi. La terza linea è in pieno sviluppo e consiste nel combattere il rumore con un altro rumore simmetrico, distruggendo le onde sonore che disturbano. Rumore più rumore, infatti, è uguale a silenzio se le onde dei due rumori sono esattamente in controfase. L'idea del controllo attivo del rumore fu proposta dal francese Paul Lueg già nel 1934 ma è diventato possibile applicarla soltanto negli ultimi anni perché l'analisi del disturbo sonoro da cancellare deve essere fatta in tempo reale da un potente computer, che poi pilota un altoparlante dal quale esce il contro-rumore. Questa tecnologia, che dà i risultati migliori con le frequenze basse emesse in modo regolare, trova già qualche applicazione sperimentale sugli aerei a elica della Dornier e sulle auto. All'avanguardia nel settore sono il Cnr francese di Marsiglia e il Centro ricerche Fiat. I materiali più promettenti per il controllo attivo del rumore sono quelli piezoelettrici perché è facile produrli in lamine sottili e vibrano quando vi si applica una tensione elettrica, oppure producono una corrente elettrica quando un'onda sonora li fa vibrare. Una perfetta macchina del silenzio. Piero Bianucci


ROTTAMI DI SATELLITI CON REATTORI NUCLEARI Il cielo è radioattivo
Autore: CANUTO VITTORIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. TAB. OGGETTI DISPERSI IN ORBITA ================================================== 7000 con dimensioni superiori a 10 centimetri -------------------------------------------------- ORIGINE DELLE SCHEGGE -------------------------------------------------- 26% Esplosioni volute ------- 33% Frammentazioni legate al lancio ------- 41% Cause non identificate ==================================================

SI dice che l'ultimo compleanno da celebrarsi sia il quarantesimo. L'era spaziale, cominciata nel 1957 con lo Sputnik, sta per compiere i 40 anni ed è ora che ci prepariamo alle celebrazioni. E' però salutare fare anche un piccolo esame di coscienza. Perché? Per la semplice ragione che dopo di noi verranno, si spera, altre generazioni che vorranno, o forse dovranno, usare lo spazio. Quindi è opportuno chiederci come abbiamo trattato, noi pionieri, questo nuovo habitat. Abbiamo collocato nello spazio satelliti artificiali di tutti i tipi, per tutte le finalità, civili e militari, e continuiamo a farlo. Contrariamente a quanto si può pensare, negli ultimi 20 anni il tasso di lanci è stato costante, circa 125 all'anno, il che vuol dire 2500 oggetti, che sono quelli che dovremmo trovare lassù se li contassimo. E qui viena la sorpresa. Negli Usa il Norad (North American Aerospace Defense Command) con l'aiuto di 17 radar e 6 sistemi ottici, compie da anni un monitoraggio degli oggetti nello spazio (si usano radar per oggetti a un'altezza inferiore ai 5000 chilometri e metodi ottici per quote più alte). Quanti oggetti sono stati contati? Circa 7000, non 2500. Qualcosa deve essere successo. C'è di più. Dei 7000 oggetti, solo 5 su cento sono satelliti operativi, il 95 per cento è costituito da rottami spaziali. Siamo sotto una vera e propria coperta di ferraglia. Il Norad ci dice anche che il picco delle dimensioni dei rottami è attorno a un decimetro quadrato. La tecnica usata non permette di misurare oggetti sotto i 10 centimetri. Quindi non si sa quanti siano. Gli oggetti più grandi sono solo lo 0,2% e costituiscono il 99,97% della massa totale. I più piccoli sono i più numerosi ma hanno massa trascurabile. In tutto, 3000 tonnellate di rottami ci girano sul capo: un Cosmos russo è precipitato due giorni fa. La popolazione di detriti è il risultato di tre processi: 1) attività di lancio; 2) deterioramento dei satelliti; 3) frammentazione. Il processo naturale che dovrebbe «ripulire» lo spazio, il decadimento orbitale dovuto a frizione con l'aria e quello artificiale di rimozione dei satelliti non più operativi, non è in pareggio con i processi che «creano» rottami, con il risultato netto che c'è più produzione che rimozione. Per essere precisi, ecco i dati: il 13% dei rottami è dovuto a operazioni di lancio; il 14% è dovuto a corpi di razzi; il 20% a satelliti non attivi; il 48% a frammentazione. Poiché quest'ultimo è il fenomeno che contribuisce maggiormente, viene studiato con particolare attenzione. Il 26% è dovuto a frammentazioni volute (per esempio, un satellite con informazioni militari viene fatto esplodere alla fine della sua vita), il 33% è dovuto a frammentazioni collegate con la propulsione e ben il 40% è dovuto a processi non identificati. Dei 2094 frammenti creati in molti anni di attività da rotture volute, nel gennaio 1987 ne rimanevano solo 737: una pulizia spaziale non indifferente ma che non basta. E' interessante notare che delle 34 esplosioni volute, solo 3 sono degli Usa (5 luglio 1966, 13 settembre del 1985 e 5 settembre 1986), mentre le rimanenti 31 sono della ex Urss. I frammenti dei tre eventi Usa sono 184 su un totale di 737. Fra i 1141 rottami dovuti a eventi ignoti, abbiamo anche contato ben 244 unità che si originarono il 24 luglio 1981 in una «collisione spaziale» del satellite sovietico Kosmos 1275. Non si è certissimi che questa sia stata la causa, ma tutta l'evidenza è a favore del fatto che tale satellite sia stato urtato. L'ipotesi è rafforzata dal fatto che la sua quota di 977 chilometri è una regione densamente popolata: i dati del Norad indicano che la distribuzione dei satelliti ha un massimo proprio fra gli 800 e 1000 chilometri. Bisogna ricordare che lo Space Shuttle e la stazione spaziale russa Mir viaggiano a una altezza media di 400 km e così sarà della stazione spaziale americana in via di costruzione. I satelliti di telerilevamento, quelli per le previsioni del tempo e quelli per la navigazione viaggiano in media a 500, 800 e 1000 km rispettivamente. Data questa area di traffico fra i 400 ed i 1000 km, vediamo ora come sono distribuiti i nostri rottami. Non solo abbiamo creato un polverone di rottami, ma questi hanno avuto il cattivo gusto di parcheggiarsi proprio nella zona dove si dovrebbero svolgere le future attività spaziali. Qual è la probabilità che i rottami colpiscano una stazione spaziale? E qual è la probabilità che un oggetto scenda naturalmente dalla sua orbita? Un satellite a 1000 km di altezza impiega 1200 anni per scendere fino a 900 km, impiega 14 anni per scendere da 600 km a 500 km e solo 54 giorni per scendere da 300 a 200 km. Come vedete, il problema è nel primo numero, 1200 anni; non possiamo aspettare così a lungo, e quindi la «pulizia secondo le leggi di natura» non è una scelta possibile. Per quanto riguarda lo Space Shuttle, i calcoli ci dicono che nell'anno 2000, il tempo medio fra possibili collisioni è di 10-100 anni, mentre per la stazione spaziale (diametro 100 metri) è di 1-4 anni! Per porre queste cifre nella giusta prospettiva, ricordiamo che la probabilità di collisione di un oggetto di 1 cm con la stazione spaziale è una ogni 500 anni se il proiettile è un meteorite naturale, ma è di un impatto ogni 2,5 anni se si tratta di rottami artificiali (la velocità del proiettile si aggira sui 36.000 km orari, più di 30 volte la velocità del suono). Ma le cattive notizie non finiscono qui. I satelliti hanno bisogno di energia e per certe operazioni, l'energia solare non è adatta. Fu naturale pensare all'energia nucleare per le sue ben note caratteristiche di compattezza, affidabilità ed efficienza (peso rispetto ad energia erogata). Si devono distinguere due tipi di sorgenti nucleari usate nello spazio: quelle che erogano al massimo qualche kW e quelle che danno decine di kW. Le prime si basano sul decadimento naturale di sostanze radioattive il cui calore viene trasformato in elettricità attraverso l'uso di semiconduttori. Gli Usa e la ex Urss hanno lanciato vari (8 la prima e 2 la seconda) di questi Rtg (radio-isotope thermo-electric generator). Quando le richieste energetiche sono maggiori, gli Rtg non sono più sufficienti. Bisogna usare la fissione nucleare per creare quel calore che poi viene trasformato in energia elettrica attraverso turbine o «bollendo» gli elettroni di un filamento di tungsteno (da qui il nome termo-ionico). Tali reattori sono stati usati nei satelliti russi Rorsat, il cui compito era quello di seguire i movimenti della marina avversaria attraverso l'analisi di onde radio riflesse. Dovevano quindi viaggiare a bassa quota, circa 250 km, dove i pannelli solari avrebbero incontrato troppa frizione, per non parlare del fatto che dovevano funzionare giorno e notte. Poiché a orbite così basse il decadimento orbitale è rapido (giorni o al massimo settimane), i Rorsat dovevano effettuare manovre per mantenersi in orbita, il che richiede energia. Questi reattori nucleari non vennero schermati perché ciò avrebbe aumentato il peso, con ovvi problemi di lancio. I satelliti della serie Kosmos usavano come combustibile uranio 235, e ciascuno ne era dotato di circa 50 kg. Dal primo lancio del Kosmos 198, il 27 dicembre 1967, all'ultimo, il Kosmos 1860, 18 gennaio 1987, si sono immessi nello spazio 1450 kg di uranio 235 che, sommati agli 11 kg del satellite americano Snap-10A, portano a un totale di 1461 kg di uranio 235. Se la popolazione di satelliti rimanesse stazionaria, queste sorgenti nucleari decadrebbero in modo naturale senza subire collisioni catastrofiche. Il problema però è che se si considera che nel futuro altre nazioni useranno lo spazio, la probabilità di collisione rottame-reattore potrebbe diventare certezza. Nella loro caduta verso Terra, le sorgenti nucleari, potrebbero incontrarsi con le strutture spaziali che a quel tempo si pensa saranno state costruite, con o senza equipaggio. Sarebbe un disastro senza precedenti. Ma anche qualora non dovesse verificarsi, il materiale nucleare arriverà nell'atmosfera e se si pensa che il materiale del contenitore e il satellite stesso sono già radioattivi, la massa totale di materiale radioattivo è ben superiore a 1461 kg. Nella fase operativa, l'uranio 235 si converte nei suoi prodotti di fissione che hanno vite medie assai più brevi dell'uranio originale. Quello che non conosciamo bene è la quantità di uranio dopo che il satellite viene spedito nell'orbita di parcheggio sui 1000 km. Poiché la vita media di un satellite è breve, sembra ragionevole pensare che ci siano ancora quantità notevoli di uranio 235. Aspettare passivamente non è una scelta seria. Bisogna iniziare, dicono Johnson e McKnight, due esperti americani, una operazione di «retrieval» che essi giudicano tecnicamente fattibile se si sfruttano le perturbazioni naturali delle orbite satellitari. Studi di vari enti internazionali hanno dimostrato che le tecnologie e l'esperienza della ex Urss sono tali da permettere di portare a termine tale operazione usando veicoli Salyut con ripetuti viaggi verso le orbite dove sono ora parcheggiati i reattori. Quando questi reattori siano stati imprigionati e immagazzinati nel Salyut, si potrebbe mandare l'astronave verso il Sole o verso lo spazio esterno. Le imprese spaziali continueranno. Ma dobbiamo ammettere la scarsa attenzione che abbiamo prestato a questi problemi, impegnarci a risolverli prima che sia troppo tardi e, nel futuro, esercitare la massima attenzione. Vari comitati nazionali e internazionali (per esempio nell'ambito Onu) stanno lavorando a questi problemi. Vittorio M. Canuto Nasa, New York


ASTROFISICA Una pulsar con la sorpresa Segnali dai dintorni di una stella di neutroni
Autore: MIGNANI ROBERTO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
ORGANIZZAZIONI: ESO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: New Technology Telescope

LE pulsar sono tra gli oggetti astrofisici più interessanti. Sono stelle di neutroni che ruotano molto velocemente, «cadaveri» stellari estremamente densi costituiti essenzialmente da neutroni, con una massa pari a circa una volta e mezzo quella del Sole, ma racchiusa in una sfera di soli 10 chilometri di raggio. Le stelle di neutroni sono il risultato del collasso gravitazionale del nucleo di stelle molto massicce quando queste terminano la loro vita esplodendo come supernove. In genere le stelle di neutroni vengono individuate come sorgenti pulsanti di onde radio. La radiazione elettromagnetica viene originata in prossimità delle regioni polari e, per effetto della rotazione della stella, appare pulsata come la luce emessa da un faro. Di qui il nome di pulsar, contrazione dell'espressione inglese pulsating star, stella pulsante. Dalla prima scoperta, avvenuta nel 1967, sono state finora identificate circa 700 pulsar, tutte sorgenti di segnali radio. Di queste una ventina sono state osservate anche in altre bande dello spettro elettromagnetico, come i raggi X e i raggi Y, e un numero ancora più ristretto (sei in tutto) sono state osservate nella banda ottica. Tra queste, la prima è stata la Pulsar del Granchio, che prende il nome dalla nebulosa che la ospita nella costellazione del Toro: è ciò che resta di un'esplosione di supernova avvenuta nel 1054, in pieno medioevo Uno dei metodi più classici usati in astronomia per comprendere la natura di una stella consiste nell'analizzare il suo spettro di emissione, vale a dire la distribuzione della radiazione luminosa emessa in funzione della lunghezza d'onda. Questo venne fatto anche per la Pulsar del Granchio nel 1969 dall'astronomo americano Oke del Caltech, usando il telescopio da 5 metri di Monte Palomar. Nonostante le modeste prestazioni consentite dagli spettrografi disponibili all'epoca, Oke fu in grado di osservare per la prima volta lo spettro di una pulsar. Questo appariva sostanzialmente come una linea continua, privo di righe di emissione o di assorbimento come quelle che vengono, invece, osservate nelle stelle più comuni. Uno spettro di emissione «liscio», con una pendenza più o meno variabile, era proprio quello che ci si aspettava dalle previsioni teoriche basate sui modelli di emissione delle pulsar. Un nuovo spettro della Pulsar del Granchio si è ottenuto recentemente utilizzando il New Technology Telescope (Ntt), il più moderno telescopio dell'Eso, l'osservatorio europeo in Cile. Le osservazioni sono state effettuate e analizzate da Giovanni Bignami, Patrizia Caraveo, Francesco Nasuti e chi scrive, dell'Istituto di fisica cosmica del Cnr di Milano. Grazie ai più moderni strumenti a disposizione, è stato possibile definire la forma dello spettro della pulsar con una precisione cento volte superiore rispetto a quella raggiungibile ai tempi di Oke. Lo spettro è in accordo con i risultati di Oke, ma con una differenza sostanziale. Nella regione attorno a 5900 Angstrom, si osserva chiaramente un piccolo avvallamento del tutto imprevisto, della larghezza di circa 100 Angstrom. Dopo esserci assicurati che l'effetto osservato fosse reale, si è posto il problema di comprenderne la natura. In primo luogo, è stata considerata l'ipotesi che potesse trattarsi di un fenomeno di assorbimento selettivo, che si verifica, cioè, solo a certe lunghezze d'onda. Quale può essere la causa? Si può escludere che sia il risultato di assorbimento dovuto all'atmosfera terrestre, o a materia interstellare, o al gas presente nella nebulosa circostante. L'unica alternativa possibile è che l'assorbimento osservato si verifichi nelle immediate vicinanze della pulsar. Attualmente, però, questo è tutto quello che è possibile ipotizzare. Se si trattasse effettivamente di assorbimento da parte di materia interposta tra noi e la pulsar, dalla lunghezza d'onda corrispondente sarebbe possibile identificare l'elemento chimico «assorbente», ma in questo caso la ricerca si è dimostrata infruttuosa. L'assorbimento osservato può anche essere il risultato dell'interazione tra particelle cariche in moto attorno alla pulsar e il suo forte campo magnetico. A complicare la situazione si aggiunge il fatto che la lunghezza d'onda osservata può risultare sfalsata in seguito agli effetti relativistici indotti dal forte campo gravitazionale della stella di neutroni. Se, da una parte, questa scoperta è un risultato imprevisto, dall'altra apre la strada a nuove, interessanti, ricerche legate alla fisica delle stelle di neutroni. Ma essendo questi oggetti intrinsecamente più deboli della Pulsar del Granchio, sarà necessario aspettare i telescopi della nuova generazione, come il Very Large Telescope dell'Eso. Roberto Mignani Cnr, Istituto di fisica cosmica


INNOVAZIONE La radio più piccola in mostra a Milano
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, COMUNICAZIONI
NOMI: FONTANESI MARCELLO
ORGANIZZAZIONI: MUSEO DELLA SCIENZA E DELLA TECNICA
LUOGHI: ITALIA, MILANO (MI)
NOTE: XII Salone delle innovazioni

UNA radio a modulazione di frequenza grande quanto un dado, di soli sette grammi di peso, è l'oggetto più piccolo e più ammirato al XII Salone delle innovazioni allestito in una sala del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano. Sono 38 i pezzi esposti, tutti altamente tecnologici, frutto di un plotone di studiosi estremamente innovativi che hanno saputo coniugare la fantasia e la praticità richiesta dalla produzione di serie. Le cose più curiose? Una scarpa da ginnastica a molla che ammortizza gli urti, un orologio che manda segnali di allarme in caso di emergenza, una tuta da subacqueo con computer da polso, una pinna fatta con tre materiali diversi, una card-pc delle dimensioni di una carta di credito che racchiude tutte le funzioni base di un personal computer, un telefono cellulare con display e mouse incorporati, una scopa che evita l'uso della paletta. E poi versioni diverse di caschi virtuali e non, videcamere, imbottiture per abbigliamento che sfruttano l'aria imprigionata come isolante termico. Con questa rassegna di prodotti innovativi il Museo vuole tenere aggiornati i propri visitatori, attratti da oggetti storici, su cosa succede nel mondo delle aziende produttrici di tecnologie. Il comitato scientifico, diretto da Marcello Fontanesi, scegli ogni 4 mesi gli oggetti più innovativi da esporre, premiando così non solo la grande industria ma soprattutto la piccola e media che si avvale dei centri di ricerca universitari per migliorare i suoi prodotti.Pia Bassi


MOSTRA METROLOGICA A TORINO Ciao trabucco Arriva il metro
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: METROLOGIA, STORIA DELLA SCIENZA, MOSTRE
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO COLONNETTI, FRATELLI DELLE SCUOLA CRISTIANE
LUOGHI: ITALIA, TORINO (TO)

CON 800 trabucchi si faceva un miglio, mentre ci volevano 6 piedi per un trabucco e 12 once per un piede, che vale anche 144 punti. Per il terreno c'erano le giornate, per il grano la libbra, il rubbo, i granotti o i coppetti. Il vino si vendeva in brente, pinte, bottali o quartini. E ancora esisteva la carra da pietra o da terra, la tesa da fieno e l'oncia da legname. Siamo talmente abituati al sistema metrico decimale che non ci rendiamo conto di quale confusione poteva esserci prima. Nel 1600, solamente in Piemonte, si contavano trecento tipi diversi di misure: 19 di peso, 56 di lunghezza, 56 di superficie, 100 di capacità per le materie secche e 83 per quelle liquide. Inventato in Francia all'inizio dell'800, il sistema metrico decimale è approdato in Italia nell'autunno del 1845, esattamente 150 anni fa. I Savoia furono i primi a compiere questa vera e propria rivoluzione nei loro territori, che poi si estese man mano che progrediva l'unità d'Italia. Per ricordare lo storico avvenimento, a partire da oggi fino al 18 dicembre, all'Istituto tecnico La Salle di Torino (via Lodovica 14) rimarrà aperta una mostra dove si potrà curiosare in una ricchissima schiera di misure-campione poste accanto ad articolate tavole sinottiche «per ridurre le misure antiche in nuove, e vicendevolmente». La nuova unità di misura fondamentale, il metro, venne calcolata sulla milionesima parte di un quarto di meridiano terrestre (la distanza tra l'equatore e il polo boreale). Questa scelta fu fatta per avere un dato di partenza concreto, universale e incontestabile. Fino ad allora, infatti, le misure erano antropocentriche (il piede, il pollice, la iarda...) e quindi variabili come erano variabili le dimensioni medie del corpo di un sumero rispetto a quelle di un vichingo. Per sette anni, sotto l'occhio vigile di Laplace e Lagrange, due scienziati misuratori (Mechain e Delambre), guadarono fiumi, attraversarono boschi e praterie, si inerpicarono su montagne di mezza Europa per i loro rilievi geodetici. La distanza tra Mont-Jouy (Barcellona) e Dunkerque, scelte perché si trovano al livello del mare e a egual distanza dall'equatore (Mont- Jouy è sul 41o parallelo) e dal polo (Dunkerque sul 51o), venne divisa in 115 triangoli ideali. La frazione trovata venne immortalata in due campioni di platino, il metallo che meno patisce le variazioni ambientali, ormai due cimeli. Oggi il metro si definisce utilizzando un raggio laser: è la distanza percorsa nel vuoto dalla luce in un preciso intervallo di tempo (1/299.729.458 di secondo). In Italia, questo campione di altissima precisione è affidato all'Istituto Colonnetti di Torino. Perché l'anniversario del sistema metrico decimale viene celebrato da una congregazione religiosa? Perché furono proprio i Fratelli delle Scuole Cristiane (un ordine francese dedito all'istruzione dei giovani), su incarico dei ministeri sabaudi dell'Agricoltura e della Pubblica Istruzione, a diffondere e a insegnare a mercanti, contadini, e artigiani il nuovo metodo di misura. Infatti nel 1845 i Lasalliani avevano in gestione tutte le scuole civiche di Torino e buona parte di quelle delle principali città del Regno. Una decisione estremamente saggia: in Francia, già mezzo secolo prima, lo Stato aveva imposto il nuovo sistema metrico decimale a suon di decreti e carte bollate, cioè facendo calare dall'alto un metodo che contrastava fortemente con la tradizione popolare. Invece in Piemonte, grazie al ruolo educativo dei Fratelli delle Scuole Cristiane, la rivoluzione fu apprezzata da tutti gli strati sociali, al punto che il 1o gennaio 1850, in soli 4 anni, il sistema metrico decimale entrò ufficialmente in vigore senza alcun trauma. Oltre ad insegnarlo in tutte le scuole (dedicandoci 3-4 ore la settimana) i Lasalliani organizzarono anche dei corsi serali, una prima assoluta per l'Italia. Lezioni semplici, alla portata di chiunque, sempre seguite da un compito pratico (che veniva curiosamente chiamato «aiutarello»): misurare, con il nuovo sistema, la distanza dalla propria abitazione alla chiesa, calcolare quanto latte producevano le proprie mucche, quanto pesava la verdura dell'orto, quanto grano serviva per seminare il proprio campo. Andrea Vico


STRIZZACERVELLO
ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA

La corsa con il vantaggio In una corsa di 100 metri, fra due amici, il primo arriva con un distacco di 3 metri sul secondo. Quindi, mentre il primo percorreva 100 metri, l'altro percorreva solo 97 metri. I due decidono allora di rifare la corsa, con un vantaggio per il meno bravo di 3 metri. In pratica, il più bravo dei due parte 3 metri prima della linea di partenza. Chi vincerebbe questa volta se la velocità dei due fosse identica a quella della corsa precedente? La risposta domani, nella pagina delle previsioni del tempo.




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