Il corallo assomiglia a un vegetale, fabbrica della sostanza minerale, ma è un animale. Da 600 milioni di anni vive nei mari caldi ed è il più grande «biocostruttore» del mondo: le barriere coralline coprono una superficie più grande della Francia. NASCITA DEL CORALLO - I coralli sono celenterati strettamente imparentati con gli anemoni di mare, dai quali si distinguono per le dimensioni più piccole e per l'impalcatura calcarea di protezione che producono. Normalmente sessuati, contano però anche alcune varietà ermafrodite. Una volta all'anno il corallo depone migliaia di uova che restano in sospensione nell'acqua, dove vengono fecondate dai gameti maschi; la larva ciliata derivata dalla fecondazione va alla deriva per qualche ora (ma a volte per qualche mese) prima di impiantarsi su un supporto roccioso o su frammenti di corallo morto. CRESCITA DEL CORALLO E FORMAZIONE DELLA COLONIA - La larva si sviluppa e si trasforma in polipo, che si costruisce prima una base calcarea, poi un calice che lo protegge dai predatori. I suoi residui alimentano un'alga unicellulare che vive in simbiosi con lui. Dal canto suo l'alga «aiuta» il corallo a fabbricare il calcare. La formazione della colonia inizia quando un giovane polipo si riproduce per gemmazione (un nuovo individuo spunta e si sviluppa dal corpo di un altro individuo). I nuovi individui di riproducono a loro volta, rimanendo sempre attaccati fra di loro: la colonia cresce e aderice allo scheletro, alla cui produzione partecipa ognuno dei polipi. Una colonia poù contare anche milioni di individui. FORMAZIONE DI UNA BARRIERA CORALLINA - Continuando a svilupparsi, la colonia ccumula residui, detriti, sedimenti e sabbia che consolidano e cementano lo scheletro calcareo. Sebbene i coralli siano presenti in molti mari, le barriere coralline si formano solo in acque calde (tra i 18[ e i 34[) e poco profonde (al massimo 5 metri), chare ma sufficientemente mosse da assicurare il rinnovo dell'oosigeno e delle sostanze alimentari. La roccia corallina cresce da 1 a 10 centimentri all'anno. Le barriere seguono, nel corso dei millenni la crescita degli oceani e lo sprofondamento dei fondali. Possono raggiungereb un'altezza di diverse centinaia di metri e finiscono per creare degli isolotti.
Q-Perché si dice «Essere al settimo cielo»? Quali sono gli altri sei? Q-Se accendo una candela in una stanza buia e sistemo uno specchio dietro di essa, si verifica un aumento di luce nella stanza? Q-Qual è la sostanza che fa lacrimare gli occhi quando si tagliano le cipolle? E' possibile evitare questo spiacevole fenomeno? ______ Risposte a «La Stampa-Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure al fax numero 011- 65.68.688
Perché le navi non hanno fine stre rettangolari ma oblò ro tondi? Le navi hanno oblò rotondi perché in una lamiera i fori quadrati o comunque poligonali hanno, in corrispondenza degli angoli, un invito alla rottura. Cosa che ovviamente non avviene in un foro rotondo. Vittorio Stanzani, Bologna Le navi sono strutture soggette a forti sollecitazioni: torsioni, flessioni, trazioni e compressioni. La caratteristica apertura circolare dell'oblò nella murata dello scafo o nelle sovrastrutture permette di annullare gli effetti devastanti delle sollecitazioni citate, in quanto esse agiscono radialmente a 360I', ovvero su ogni punto della circonferenza. Anche nella lavatrice domestica lo sportello circolare ha questa funzione: nel centrifugare infatti la struttura della lavatrice subisce le stesse sollecita- zioni della nave. Un oblò rettangolare ha quattro lati e quattro angoli nei quali può avvenire un cedimento. Un oblò circolare invece non ha nessun punto di cedimento. Alfonso Rigato, Torino Gli oblò rettangolari hanno spigoli aguzzi che producono un effetto d'intaglio con una elevata concentrazione delle tensioni. Da qui possono nascere delle cricche che, con la sollecitazione ciclica delle onde, possono propagarsi con gravi conseguenze. In secondo luogo un foro rettangolare è più difficile da rifinire e la guarnizione non garantirebbe una perfetta tenuta a oblò chiuso, sempre a causa degli spigoli. Roberto Catuzzo, Biella Come si può aumentare la per cezione visiva notturna? In condizioni di buio è possibile vedere grazie a sistemi all'infrarosso o a intensificazione di luce. I sistemi all'infrarosso si basano sulla possibilità di «rilevare» la temperatura emanata da un essere vivente, permettendo così di riconoscerne la sagoma anche in condizioni di buio totale. Questo sistema viene detto «all'infrarosso passivo». Si definisce invece sistema «all'infrarosso attivo» un apparecchio in grado di emettere un fascio di luce, infrarossa, invisibile alla vista umana ma in grado di «illuminare» un soggetto interessato. L'immagine che viene rilevata risulta pertanto piuttosto precisa. I visori a intensificazione di luce funzionano in base a un principio completamente diverso da quello degli infrarossi. Essi captano una sorgente di luce piccolissima, ad esempio quella emessa da una stella, e la amplificano centinaia di migliaia di volte, permettendo così di avere una immagine più chiara di quanto viene osservato. Tale amplificazione avviene mediante un sistema ottico ed elettronico accoppiato a un fascio di fibre ottiche. L'immagine prodotta è caratterizzata dalla colorazione bianco-verde, come quelle più volte viste sugli schermi tv durante gli attacchi della Guerra del Golfo. Roberto Penge, Piacenza La retina umana è dotata di due tipi di fotorecettori in grado di percepire stimoli luminosi: i coni, deputati alla discriminazione dei colori in visione diurna, e i bastoncelli, capaci di registrare il contrasto tra luce e ombra nella visione crepuscolare. La zona retinica su cui si proietta l'immagine di un oggetto che viene fissato, detta «fovea centralis», possiede soltanto coni: i bastoncelli procedono radialmente verso la periferia della retina, aumentando progressivamente. Di conseguenza, in condizioni di semioscurità, per scorgere un oggetto si dovrà fissare un punto dello spazio ad esso adiacente in modo da far cadere la sua immagine in una zona periferica della retina fornita di bastoncelli, gli unici recettori che permettono la visione crepuscolare. Luca Sobrero, Carcara (SC) La massima percezione nella visione notturna si ottiene dopo un periodo di adattamento di circa mezz'ora, tempo che permette la ricostruzione della porpora retinica distrutta continuamente dalla luce. L'osservazione leggermente fuori asse, sfruttando la vista periferica e quindi la zona retinica ricca di bastoncelli, era già utilizzata dagli antichi cacciatori. Oggi vi ricorrono soprattutto gli astronomi che osservano il profondo cielo direttamente al fuoco del loro telescopio. Enzo Lombardo, Torino
Numeri bizzarri Trovare un numero di tre cifre che risulti un quadrato perfetto quando si aggiunge alla sua destra il successivo del numero stesso. Sono possibili diverse soluzioni. Trovare un numero di quattro cifre che sia uguale al cubo della somma delle sue cifre. Trovare un numero di sei cifre che sia un quadrato perfetto e che sia ancora un quadrato perfetto quando le sue cifre vengono lette al contrario. Le soluzioni domani, accanto alle previsioni del tempo.
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, GEOGRAFIA E GEOFISICA, VIAGGI
PERSONE: BOTTEGO VITTORIO
NOMI: FABIETTI ETTORE,
BOTTEGO VITTORIO
ORGANIZZAZIONI: PARAVIA
LUOGHI: ITALIA
SUL finire degli Anni Venti, a margine d'un impiego quotidiano, attendevo a un libro sull'esploratore Vittorio Bottego. Mi era stato richiesto da Ettore Fabietti per l'editore Paravia. Era, il Fabietti, un maestro elementare toscano, trapiantato a Milano. All'editore Emilio Treves erano piaciuti certi suoi versi (in quei tempi gli editori leggevano di persona i manoscritti degli autori), I Canti di Trifoglieto, e li aveva pubblicati. Per avere notizie del personaggio Bottego, mi recai a San Lazzaro di Parma, dove da una villa di campagna tra grandi alberi, conduceva certi suoi poderi Giambattista Bottego, un grande e forte vecchio, fratello dell'esploratore. Egli subito si liberò di me, scaricandomi alla figlia Celestina. Era, questa, una giovane dall'avvenenza rara nell'alta persona, cordiale, sorridente, divertita forse per la mia ammirazione, non dichiarata ma certo trasparente. Mi diede le informazioni che cercavo sulla adolescenza dell'illustre zio, nonché alcune lettere autografe di lui. Di esse, una m'è rimasta (altre le ho smarrite). In questa rimastami, bene risalta quale fosse il Bottego, tenente di artiglieria, ufficiale in tempo di pace, prima di diventare il forte, coraggioso, avventuroso fino alla morte (1897) esploratore di terre africane: sono date istruzioni ai familiari perché un suo cavallo, «di nome Parmigiano, maschio, castrone, d'anni 7, bajo, mezzo-sangue inglese», possa partecipare alle corse di Parma; nonché istruzioni per la paglia e il fieno, la scuderia. Non era uomo da star pago dell'ippica. Quando, nel 1887, si aprì un arruolamento per l'Eritrea, domandò di partecipare e fu destinato di guarnigione all'Asmara. Una sera, nel luglio del 1890, sceso a Massaua, si trovò a conversare con altri ufficiali e col governatore, generale Gandolfi. Si parlò, nello spirito del tempo, delle future conquiste coloniali italiane, che avrebbero dovuto assorbire il nostro sovrappiù di forza-lavoro, costretto a prendere le vie dell'America. Il pensiero di tutti andava alla Somalia, dove già si era stabilito il protettorato su alcuni sultanati costieri, ma ben poco si sapeva del retroterra. Il Bottego concepì un piano per l'esplorazione dell'alto corso del fiume Giuba, ne convinse il presidente del consiglio, convinto colonialista, Francesco Crispi, e il presidente della Società Geografica Italiana. Qui vorremmo accennare agli apporti che due successive esplorazioni del Bottego diedero alla conoscenza di quelle terre. Egli stesso raccontò in un suo libro, Il Giuba esplorato, l'avventuroso tragitto della prima spedizione. Da Massaua, in Eritrea, aveva adunato, tra la gente del luogo, i suoi uomini: non poté sceglierli tra gentiluomini, ma tra robusti sfaccendati, disertori, avventurieri di pochi scrupoli. Per nave li condusse a Berbera, nella Somalia Britannica, puntando di lì verso l'Ogaden. Dovette superare l'ostilità degli indigeni, le febbri, la fame, le fiere, il freddo, le defezioni dei suoi, verso l'allora sconosciuto ventaglio di corsi d'acqua che dai monti Arussi e Ahmara confluiscono nel Giuba (questo sfocia nell'Oceano Indiano, poco a Nord di Chisimaio). Lo accompagnava l'ufficiale italiano Matteo Grixoni. Una seconda spedizione, più ambiziosa (1895), puntò verso il cuore dell'Etiopia, a esplorare il fiume Omo. Ma intanto, mentre da mesi gli esploratori attraversavano le regioni ignote e malefiche dell'Africa Orientale, era scoppiata la guerra tra Italia e Abissinia, conclusasi con la bruciante sconfitta di Adua (1896). Il Bottego non era a conoscenza di questi avvenimenti. Nel marzo del 1897, nella regione dei Galla, soverchianti truppe abissine attaccarono d'ogni parte l'accampamento. Il Bottego stesso, colpito al petto e alla tempia, cadde ucciso. Altri ufficiali della spedizione, Vannutelli e Citerni, furono fatti prigionieri. Liberati, dopo la pace, essi raccontarono in un volume, L'Omo, i risultati dell'esplorazione. Era stato studiato il complicato sistema orografico e idrografico dell'Etiopia sudoccidentale. Era stata inoltre data risposta a un interrogativo su questo fiume, di cui non si conosceva la foce, discoprendo questa nel Lago Rodolfo, che non ha emissari. Ancora poche parole su Celestina Bottego. Nell'agosto del 1980, scorrendo un giornale, l'occhi mi si fermò su una necrologia: «La Madre Celestina Bottego, fondatrice delle Missionarie di Maria (Saveriane), è tornata al suo Signore». Le suore, cui telefonai, mi fecero avere, poco dopo, un fascicoletto di testimonianze sulla loro Madre. Quella donna, bellissima e affabile, già da prima dedita a opere di carità, era stata indotta a fondare quell'ordine. Vi trovo descritte la bontà «quasi inimitabile» di lei, la generosità, il coraggio, l'amorevolezza, la natura gioiosa. Didimo
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, TRASPORTI, AUTO, UBRIACHEZZA, INCIDENTI,
STRADALI
ORGANIZZAZIONI: NEW ENGLAND JOURNAL OF MEDICINE
LUOGHI: ESTERO, USA, NORTH CAROLINA
NEI Paesi industrializzati ad alta densità di traffico, come l'Italia, la causa di morte più frequente nella popolazione al di sotto dei 30 anni è l'incidente stradale. Negli Stati Uniti, dove vigono controlli più severi e leggi più restrittive che in Italia riguardo al consumo di bevande alcoliche, circa la metà dei 20 mila incidenti automobilistici annuali sono stati messi in relazione al consumo di alcol. Le statistiche dicono che in generale durante la nostra vita abbiamo una probabilità che due su cinque di noi siano coinvolti in un incidente direttamente provocato o connesso al consumo di alcol. E' stato dimostrato che il rischio di un incidente a esito mortale aumenta in proporzione alla concentrazione dell'alcol nel sangue del guidatore. Un automobilista con una concentrazione di 100 milligrammi per 100 millilitri di sangue (0, 10%) può essere considerato «legalmente» ubriaco e ad alto rischio di provocare un incidente. Questa concentrazione si raggiunge dopo aver bevuto 4-6 birre (dipende dal peso corporeo) o una bottiglia di vino. Questo guidatore ha una probabilità sette volte maggiore di provocare un incidente mortale che non una persona che non abbia consumato alcolici. La probabilità sale di 25 volte a un livello di 0,15 per cento di concentrazione alcolica nel sangue (pari a 6-8 birre o un litro e mezzo di vino). Negli Stati Uniti a partire dagli Anni 80 molti Stati hanno aumentato i controlli e la severità delle leggi portando il numero di arresti fino a circa due milioni per anno. Poiché gli arresti sono sicuramente registrati, è possibile rendersi conto del problema del recidivismo specie in relazione a incidenti mortali. Un articolo apparso sul New England Journal of Medicine riporta uno studio condotto nella North Carolina per un periodo di dieci anni (1980-89) su guidatori deceduti in seguito a un incidente automobilistico che avessero una concentrazione di alcol di almeno 20 mg/100 ml di sangue (pari a circa una bottiglia di birra o un bicchiere di vino) paragonandoli a chi avesse una concentrazione al di sotto di questo livello. Lo studio identificava ben 1646 casi di incidenti definiti «mortali». La probabilità che si trattasse di individui già arrestati in precedenza per violazione sul consumo di alcolici e guida era quasi dieci volte maggiore. Tra questi guidatori la più alta percentuale di recidivi indicava una chiara correlazione anche con il numero di arresti e la gravità di questi incidenti. La conclusione di questo studio, il primo del genere su tale scala, è che un'alta percentuale di arresti (ma alle volte anche uno solo) rappresenta un buon indice di incidenti gravi in futuro per lo stesso individuo. L'associazione consumo di alcol-guida e incidenti mortali è lampante. Tra i 21 e i 34 anni la causalità alcol al volante e incidente mortale aumenta di cinque volte rispetto a chi non beve quando guida. Il danno economico provocato alla società dal consumo di alcol è molto alto. Negli Stati Uniti circa la metà dei 35 mila incidenti automobilistici mortali annuali è connessa con il consumo di alcolici. L'ubriachezza è coinvolta anche in incidenti mortali per annegamento, incendio e cadute, oltre che in un numero molto alto di omicidi e suicidi. La mortalità per malattie epatiche croniche, pancreatiti, miocarditi, demenza e sindrome alcolica fetale è pure molto alta. Tutto compreso sono circa 100 mila decessi all'anno in Usa (potrebbero arrivare a 20 mila in Italia). Chiaramente in Paesi come l'Italia, la Francia e la Germania, dove il consumo di vino e birra è molto diffuso, esiste un atteggiamento molto più rilassato circa l'uso di alcol e i danni provocati da questo. Una statistica del tipo di quella riportata con molto risalto dai mass media in Usa non sarebbe facile da compilare in Italia, dove soltanto una percentuale minima di guidatori viene arrestata per ubbriachezza. Sulla base dei risultati raggiunti da questo studio, gli autori dell'articolo raccomandano che, visto che una percentuale notevole di persone arrestate per ubriachezza al volante ha già raggiunto una zona molto pericolosa per se stessi e gli altri, vengano avviate a un serio programma di riabilitazione. Tale raccomandazione è particolarmente valida per i giovani guidatori, forse meglio recuperabili. Viene pure sottolineata l'importanza del primo arresto come la migliore possibilità di diminuire un rischio futuro di un incidente mortale. Poiché punizioni tipo multa e prigione, già attuate in molti Paesi, hanno solo un effetto limitato, si invoca una frequenza maggiore di ritiro della patente, anche irrevocabile per i recidivi, e soprattutto programmi di rieducazione e di propaganda per raggiungere i giovani. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois
Un tosaerba a benzina non è meno nocivo di un'automobile: una mezz'ora di lavoro in giardino inquina quanto un viaggio di quattro ore. Di qui l'interesse per un tosaerba (al momento commercializzato solo negli Stati Uniti) equipaggiato con decine di celle fotovoltaiche che alimentano la batteria di un motore particolarmente potente. Dopo una giornata di esposizione al sole, la macchina può funzionare un'ora e mezzo. Bastano invece tre ore e mezzo nella presa di corrente per una ricarica più rapida. E intanto gli americani pensano al trattore solare...
ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
NOMI: KING JOHN, GUNDERSON HARVEY
LUOGHI: ITALIA
NEI grandi spazi dell'antico Far West americano, i cani di prateria si contavano a centinaia di milioni nei secoli passati. Abbaiavano al passaggio delle carovane dei primi coloni bianchi e per questo, sebbene non avessero proprio nulla in comune con i cani a parte il latrato, vennero chiamati con questo nome improprio. Si tratta infatti di piccoli roditori del genere Cynomis, parenti delle marmotte e degli scoiattoli. Sono lunghi all'incirca trentacinque centimetri, oltre alla coda, che ne misura 7-8. Tra loro e l'uomo è stata subito guerra. Li si accusava, come li si accusa tuttora, di distruggere ogni forma di vegetazione. Ne sono stati avvelenati e uccisi centinaia di migliaia. Ma con tutto ciò il cane di prateria non è affatto scomparso e, anche se è stato sterminato nelle zone coltivate, è ancora abbondante nella parte incolta del suo habitat primitivo. Accorgersi della sua presenza è facilissimo. Dove si vede il terreno tutto bucherellato da una quantità enorme di piccoli crateri che gli danno l'aspetto di un paesaggio lunare in miniatura, lì di sicuro è nascosta una città sotterranea di Cynomis. Sono città grandissime che si estendono per chilometri e chilometri quadrati. Vere e proprie megalopoli, che oggi conosciamo grazie alle pazienti osservazioni di ricercatori come John King o come Harvey L. Gunderson dell'Università del Nebraska. Un dedalo di tunnel, di cunicoli, di passaggi e di corridoi che quei formidabili ingegneri hanno costruito senza macchine perforatrici nè martelli pneumatici nè calcoli preliminari. I tunnel sotterranei si allargano ogni tanto a formare camere di grandezza varia. Le più grandi, lunghe da 30 a 50 centimetri, sono le sale parto e le nursery, tappezzate di morbida erba, le più piccole sono magazzini viveri. La città dei Cynomis è divisa in una ventina di quartieri abitati da clan familiari. I quartieri sono separati tra loro da frontiere che i proprietari marcano con le loro secrezioni odorose e che non vengono violati se non in tempo di guerra. Tre o quattro famiglie indipendenti formano la popolazione di un quartiere che si estende per circa trenta metri quadri. Lo governa un maschio dominante, al quale sono sottoposte da tre a sei femmine e da venti a trenta giovani. La società dei cani di prateria è patriarcale e si fonda sulla poliginia, ovverossia il maschio si accoppia con più femmine. Dopo una gestazione di 25-28 giorni nascono di solito quattro piccoli, che rimangono nel clan dove son nati fino ai due anni. A questa età se ne vanno raminghi nei dintorni in cerca di un terreno adatto a fondare una nuova colonia. Ma c'è anche chi cerca di scoprire tra le colonie vicine quelle i cui governanti sono ormai in là con gli anni. Prima di attaccare il maschio dominante, l'aspirante conduce la sua campagna elettorale a evitare che la popolazione locale resti fedele al suo capo e lo segua in caso di debacle. E non è cosa facile imporsi a un popolo di Cynomis pronti a dare l'allarme di fronte a un intruso e a respingerlo a furia di morsi. Il futuro usurpatore usa tutta la sua diplomazia, dando baci alle femmine e restando il più a lungo possibile in terra nemica. Ma se si accorge che il rivale è più forte di lui, prudentemente batte in ritirata per ritentare la sorte altrove. I cuccioli sono coccolati da tutti gli adulti. Quando un bebè di due o tre settimane si avventura per la prima volta fuori dalla tana oscura, se ne sta un attimo immobile abbagliato da quella luce improvvisa. Ma ecco che immediatamente gli sono a fianco due o tre adulti che l'accarezzano, l'abbracciano, lo rassicurano. E non appena altri piccoli sgusciano fuori dai crateri vicini, incominciano a giocare tutti assieme. Capriole sull'erba, rincorse, inseguimenti, finte lotte: i cuccioli danno sfogo alla tipica esuberanza giovanile. E presto si risveglia in loro l'appetito. Hanno voglia di latte. Ma non c'è che l'imbarazzo della scelta. Qualunque femmina, anche se non è la loro madre, è pronta ad allattarli. Eppure, nonostante siano oggetto di tanta tenerezza e di tanto amore, i piccoli sono il più facile bersaglio dei predatori, dalle aquile ai falchi, dai tassi ai coyote, ai serpenti. E molto alta è la mortalità infantile. Gli adulti sono assai più cauti e più scaltri. Hanno predisposto tutto un sistema di avvistamento che informa tempestivamente i membri della colonia dell'avvicinarsi di un nemico e, a pericolo scomparso, dà il cessato allarme. C'è un servizio permanente di sentinelle appostate sui punti più elevati e cioè sui monticelli di terreno attigui agli ingressi delle tane. Sono queste sentinelle che usano un sofisticato linguaggio per comunicare con i compagni. L'ha scoperto un etologo dell'Università dell'Arizona, Constantine Slobodchikoff, dopo aver tenuto a lungo in osservazione due colonie di cani di prateria. Le vocalizzazioni delle sentinelle variano secondo il predatore che è in vista. E lo studioso è riuscito a distinguere sei gridi di allarme differenti che stanno a indicare se si sta avvicinando un coyote, un cane domestico, un falco, un gufo, un furetto o un cacciatore. Sei parole del linguaggio dei cani di prateria. Ma questi intelligenti roditori hanno anche altri modi per comunicare tra loro, come il grooming, la pulizia della pelliccia tanto in uso tra le scimmie, un contatto fisico che serve a rinforzare i legami sociali. Vi è poi un altro singolare mezzo di comunicazione, il bacio. Quando due cani di prateria si incontrano, si avvicinano con la bocca aperta, digrignando i denti. Si preparano a mordere se si accorgono che appartengono a due clan nemici. Se invece scoprono di appartenere allo stesso clan, allora si concedono un fraterno bacio di amicizia. Isabella Lattes Coifmann
ARGOMENTI: TECNOLOGIA, TRASPORTI, AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA
LE «autostrade del cielo» sono sempre più affollate, e la sicurezza dei voli è sempre più strettamente collegata al controllo dello spazio aereo. Questa funzione richiede un coordinamento a livello internazionale. Le diverse esigenze sono, da tempo, oggetto di studi e di accordi, al fine di armonizzare sistemi e procedure. Per il settore europeo, questi obiettivi sono perseguiti da un apposito ente denominato «Eurocontrol», ai cui lavori l'Italia partecipa da osservatrice, in attesa dell'ingresso ufficiale (che è stato ritardato dai soliti motivi burocratici). In questo ultimo decennio il traffico di velivoli nello spazio aereo italiano è aumentato di circa il 70 per cento. Nello scorso anno il totale dei voli civili ha raggiunto la cifra di quasi un milione e mezzo, richiedendo un elevato impegno da parte dei quattro centri di assistenza dislocati a Roma, Milano, Padova e Brindisi. Il centro di Roma - che, da solo, gestisce il 61 per cento dello spazio aereo nazionale, con punte di 2000 movimenti al giorno - è a Ciampino e sovrintende a 28 aeroporti, con sette radar. Gli incrementi del traffico previsti a breve scadenza (anche per effetto dell'Anno Santo) e il rapido progredire delle tecnologie telematiche, hanno imposto la creazione di un nuovo centro capace di far fronte a compiti più alti per numero e qualità, attraverso la computerizzazione avanzata dei dati-radar (ad esempio «fusione» delle informazioni di più radar riguardanti lo stesso velivolo) e dei piani di volo. Al tempo stesso si realizza l'automazione spinta delle procedure di controllo e, di conseguenza, un alleggerimento dell'impegno psichico degli operatori. Uno degli aspetti più concreti di questo salto di qualità è costituito dal modo di presentazione della situazione dei voli; presentazione che avviene non soltanto sugli schermi-radar circolari (più grandi di quelli usati sinora) ma anche su «display» a colori ad alta risoluzione, con possibilità di «zoomare» ed aprire «finestre» per accedere alle moltissime informazioni disponibili. Il nuovo centro, ospitato in un modernissimo edificio che comprende una sala operativa con quattro «isole» di venticinque posti-operatore ciascuna, sarà completato entro l'anno. Esso costituisce l'espressione più aggiornata di un sistema tecnologico destinato a un progressivo accentramento del controllo per grandi aree. Tra una decina d'anni, è prevista la gestione del traffico per mezzo, o con l'ausilio, della rete satellitare Gnss («Global Navigation Satellite System») le cui larghissime potenzialità serviranno non solo per la gestione delle rotte (rendendo superflui radiofari ed altre radioassistenze) ma anche per gli atterraggi a visibilità zero. Gino Papuli
ARGOMENTI: ECOLOGIA, INQUINAMENTO, RIFIUTI, LEGGI
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Biodegradazione; Incenerimento, metodi di decontaminazione e
smaltimento dei rifiuti
ALLA fine degli Anni Settanta in un'area residenziale della cittadina di Love Canal (Stati Uniti), che presentava una percentuale duecento volte superiore alla media per casi di tumore e malformazioni infantili, furono scoperte ventimila tonnellate di rifiuti tossico-nocivi sepolti nel sottosuolo. Situazioni simili verificatesi in Germania, in Olanda e in Italia, dove nel 1986 furono avvelenate le fonti degli acquedotti di Casale Monferrato e di Tortona, fecero esplodere il problema in tutta la sua gravità: la mancanza, per decenni, di corrette normative di gestione dei rifiuti e l'uso improprio del territorio avevano contribuito alla diffusione di aree contaminate, potenzialmente rischiose per la salute pubblica e l'ambiente (specialmente quello urbano). Un censimento promosso dal ministero dell'Agricoltura nel 1988 ne individuava in Italia circa 6000, suddivise in tre categorie principali: discariche abusive o non controllate, aree industriali abbandonate e aree contaminate in seguito a versamenti accidentali. Per bonificare almeno le aree più a rischio, fu approvata una legge che affidava alle Regioni il compito di predisporre urgentemente piani adeguati. La novità della materia e alcune carenze oggettive della legge hanno però ostacolato e rallentato l'attività delle Regioni, tanto che a tutt'oggi solo alcune di esse hanno elaborato e approvato i Piani di bonifica (peraltro con notevole ritardo sulla scadenza). Una delle difficoltà maggiori è stata quella di definire con criteri univoci e di validità generale i valori limite di concentrazione delle sostanze inquinanti pre e post bonifica, valori necessari per decidere sulla gravità della contaminazione in atto e su tempi, modi e obiettivi dell'azione di bonifica. Anche le più recenti normative estere hanno, su questo punto, adottato differenti procedure. La normativa statunitense (Superfund, 1980-1990), per esempio, non indica concentrazioni massime ammissibili per i vari inquinanti, ma privilegia lo strumento della valutazione del rischio locale («risk assessment»), che di volta in volta determina il livello di bonifica cui tendere. All'estremo opposto troviamo la prima normativa olandese (Soil Cleanup, 1983), che parte dal principio secondo il quale tutti i terreni e tutte le acque sotterranee sono uguali e prevede quindi la rigida applicazione di una griglia di valori (la cosiddetta Tabella Abc) a prescindere dai fattori locali. Un metodo particolarmente flessibile, messo a punto nel 1991 in Canada (ripreso nel recente piano della Regione Piemonte), è quello della «doppia opzione», che prevede l'applicazione di una tabella di validità generale in casi di inquinamento limitato o in alternativa, nei casi più gravi e complessi, un'approfondita analisi del rischio volta all'identificazione della sorgente dell'inquinamento, dei bersagli. Seguendo la seconda opzione, è possibile determinare valori di bonifica «ad hoc» tenendo conto anche della destinazione d'uso dell'area (agricoltura, residenziale, industriale) o addirittura dimostrare che la bonifica non è necessaria, per la bassa vulnerabilità del luogo. Una volta deciso l'obiettivo della bonifica, bisogna scegliere le modalità e le tecniche con cui eseguire l'intervento. La scelta viene fatta principalmente in base ai risultati delle indagini preliminari sulle caratteristiche idrogeologiche dell'area e sul tipo e diffusione dei contaminanti ma deve considerare i vincoli normativi ed economici (il costo di bonifica può variare tra le 50 e le 300 mila lire al metro quadro di superficie inquinata). Se la decontaminazione viene eseguita senza rimuovere il terreno contaminato si parla di intervento «in situ»; gli interventi «ex situ» prevedono invece l'asportazione del terreno contaminato e il successivo trattamento da effettuarsi o in prossimità della zona di estrazione (intervento «on site») o in appositi impianti fissi disponibili altrove (trattamento «off site»). Le tecnologie «in situ» sono normalmente più economiche ma comportano il rischio, se non correttamente eseguite, di produzione o diffusione ulteriore di inquinante: tra di esse hanno utilizzo crescente le tecniche biologiche, basate sulla degradazione degli inquinanti da parte di funghi e batteri e quelle elettocinetiche, che sfruttano la migrazione degli ioni inquinanti verso elettrodi posti nel suolo. In caso di inquinamento della falda, la tecnica più applicata è quella del pompaggio dell'acqua inquinata con pozzi di recupero e successivo trattamento. Le tecnologie «ex situ», tra cui ricordiamo la termodistruzione in forni e il lavaggio con solvente, hanno il grosso svantaggio dello scavo e del trasporto di grosse quantità di terreno, normalmente costoso e potenzialmente pericoloso, ma consentono di trattare con successo una grande varietà di contaminanti. Per quanto riguarda il finanziamento delle operazioni di bonifica, per cui si prevede in Italia un incremento di spesa annuo del 24 per cento, sono in corso di elaborazione iniziative legislative che prevedono il risarcimento del danno ambientale (comprendente i costi di bonifica) da parte del responsabile dell'inquinamento o, quando questo non sia individuabile, da parte del proprietario dell'area inquinata. Davide Pavan
ARGOMENTI: ELETTRONICA, COMUNICAZIONI
ORGANIZZAZIONI: INTERNET
LUOGHI: ITALIA
VISITANDO il Salone del Libro di Torino e vedendo quanti espositori proponevano dimostrazioni, corsi, presenze su Internet, pensavo che le cose sono cambiate a ritmi davvero incalzanti. Sono passati solo alcuni mesi da quando inauguravo questo piccolo dialogo con voi. La Stampa non era il primo, ma era tra i primissimi grandi quotidiani ad offrire questo tipo di servizio. Oggi una rubrica su Internet c'è praticamente su tutti i quotidiani e su molti settimanali; le edicole sono piene di riviste dedicate al fenomeno Internet, se ne parla alla radio, alla tv, in conferenze, dibattiti. Mi chiedo se oggi Internet non sia diventata una moda: tipo «l'importante è esserci, non importa perché o come». La diffusione del fenomeno, il suo essere disponibile in sempre più città e a condizioni economiche sempre più vantaggiose, il suo essere sempre più una componente della cultura, sono indubbiamente fatti positivi: solo alcuni mesi fa Internet era considerata uno sfizio per iniziati, ora comincia ad essere alla portata di tutti. Questo va nella direzione stessa dei motivi per cui la rete fu creata e vive. Ma, passato il primo momento di euforia, ora mi sembra si imponga una riflessione sull'uso e sui limiti di questa possibilità di comunicazione. Come fu per la carta stampata, come è stato per il telefono, tra poco sarà per Internet: comunicare, scambiare informazioni, sì, d'accordo, ma perché, con chi, con quali fini? E come fare in modo che ciò che ci interessa emerga dal mare di chiacchiere e di soliloqui che il mezzo consente ma non scevera? A volte, mentre scorro le mie 250 lettere quotidiane (che in gran parte poi devo eliminare, perché altrimenti non avrei spazio sull'hard disk) penso che di là, in biblioteca, ho ancora i libri e gli appunti di quando studiavo all'Università - che non mi sognerei mai di buttar via - e che, tutti insieme, probabilmente contengono una massa di informazioni quantitativamente non di molto superiore a quella che in sei mesi di lavoro su Internet ho letto o visto passare: e mi domando come adeguarmi, oggi e domani, a questi mutamenti. Voi che ne pensate? C'è qualcuno che condivide il mio bisogno di metterci a discutere, oltre che di nuovi indiriz zi, anche di che indirizzo dare a questa esperienza? Che ne direste di usare una parte di questa rubrica per scambiarci idee in proposito? Gli indirizzi: Fabrizio Zanelli mi scrive che http://sunsite.unc.edu/btbin /birthday «consente di registrare il proprio nominativo ed eventualmente il proprio E-mail nel giorno del mese di nascita. Ricevere (e inviare) auguri di buon compleanno in tutto il mondo è cosa che ritengo piacevole...». Sono d'accordo, Fabrizio, e se vuoi fare gli auguri a qualcuno ma hai paura di dimenticartene, fattelo ricordare da E-Minder a http://www.netmind. com/e- minder/e-minder. html E, ancora in temi di ricordi, tre pezzi della nostra storia di ieri: una emissione di francobolli in onore di Marilyn Monroe a https://www.kiosk.net:80/marilyn/ The Operation Desert Storm De briefing Book di Andrew Le yden a http:www.nd.edu/_aleyden /contents. html e un pensiero al mondo di Amiga e dei Commodore (il mio primo computer) con l'Amiga De velopers Project di Torino (segnalatomi da Luca Ferraris) a http://www.di.unito.it/pu b/WWW/www_student/ami ga/ Grazie di tutti gli apprezzamenti e i suggerimenti a proposito delle pagine de La Stampa su Internet: i lavori per migliorarle e arricchirle sono in corso. Silvio A. Merciai
ARGOMENTI: ECOLOGIA, METEOROLOGIA
LUOGHI: ITALIA
LA minaccia dal cielo non sono più i missili balistici ma l'effetto serra. Questo non l'ha detto un «verde» ma Gorbaciov. Non possiamo lanciare bombardieri per resistere all'effetto serra, nè possiamo inviare carri armati per arrestare il deserto che avanza o usare missili intelligenti per arrestare il mare che si gonfia. Così scrive Myers nel suo più recente saggio, «Ultimate Security». C'è una curiosa dicotomia. Per quasi 50 anni si costruirono a un ritmo frenetico armi nucleari che si sapeva benissimo non sarebbero mai state usate per il semplice fatto che i concetti classici di guerra e di vittoria sono stati cancellati dall'avvento della bomba atomica, concepita come un deterrente per costringere l'avversario a non usare le sue armi. Fu il patto faustiano della Mutua Distruzione Assicurata che ho discusso nel mio libro «Il Paradosso Nucleare» (Il Mulino, 1989). Se tutti avevano e hanno orrore della guerra nucleare, perché non tutti hanno lo stesso timore del nuovo incombente pericolo, i cambi climatici in generale che sono assai più probabili, più realistici e che forse hanno già fatto capolino? Azzarderò una risposta: forse è perché la guerra nucleare è come l'infarto, improvviso e irreversibile, come ci ricordano Hiroshima e Nagasaki, mentre gli effetti climatici sono come un cancro che lentamente e per un lungo periodo mina le nostre fondamenta. La bomba nucleare fu un evento singolare nel tempo, i cambi climatici sono una «tendenza» che per inerzia umana tentiamo inconsciamente di non dover risolvere, lasciandolo quindi alle generazioni future. Non c'è dubbio che dovremmo cambiare quello che insegniamo ai nostri studenti: le forze in natura non sono quattro; ce n'è una in più: le attività dell'uomo che per la prima volta nella storia, sta portando a termine un gigantesco esperimento su scala planetaria con ripercussioni imprevedibili per tutti. E' stato giustamente fatto osservare che se la proposta di tale esperimento fosse presentata a una Commissione giudicatrice sarebbe bocciata perché viola un principio basilare: è un esperimento incontrollato. E' un esperimento planetario nella sua estensione spaziale, intergenerazionale e irreversibile nella sua dimensione temporale che portiamo avanti con cieca perseveranza. Produciamo 23 miliardi di tonnellate all'anno di anidride carbonica: quello che rimane nell'atmosfera, circa la metà, crea un effetto serra antropogenico, una coltre in più attorno al nostro pianeta, innalzando la temperatura media di fino a 5I'C nei prossimi cento anni. I modelli climatici che si usano per fare le predizioni sono nella loro infanzia ma Venere non lo è: ci dice senza mezzi termini cosa succede quando l'ammontare di anidride carbonica aumenta: la temperatura aumenta. Venere e la Terra nacquero con la stessa dotazione di CO2: la Terra riuscì astutamente a nasconderla dappertutto (dai fondi marini ai sedimenti calcarei), mentre Venere, meno fortunata, ce l'ha ancora nell'atmosfera, con il risultato che la sua temperatura è di circa 500I'C, quanto basta per fondere il piombo. Le attività antropogeniche distruggono ciò che la natura ha fatto con tanta pazienza: arricchiscono in senso perverso l'anidride carbonica e questo porta a un aumento della temperatura. Ma, si dice spesso, cosa sono 4-5I'C? Non è forse vero che nella storia climatica della Terra ci furono cambi di temperatura ben più ragguardevoli? Il problema non sono i 4-5I'C di per sè, ma piuttosto l'intervallo di tempo brevissimo in cui avviene tale cambio, forse 100 anni, in contrasto con i 1000 o più anni in cui avvennero i cambi climatici all'uscita da una glaciazione. C'è un esempio che credo calzi molto bene. Prendete una rana (virtuale, mi raccomando]) e mettetela in una pentola di acqua bollente. La malcapitata astutamente salterà fuori. Ripetete l'esperimento cominciando però con la rana in acqua tiepida e riscaldata. La rana diventa prima intontita, poi soccombe in uno stato comatoso finché muore. La rana è stupida, si dice. Non è vero. Soccombe e muore perché nel suo sviluppo biologico in milioni di anni non si è mai trovata a dover affrontare un cambio di temperatura in un intervallo di tempo così breve ed è quindi sprovvista di qualsiasi meccanismo biologico di sopravvivenza. Saremo anche noi succubi della stessa sindrome? Rimarremo inerti, disattendendo un fenomeno che sta avvenendo sotto i nostri occhi solo per accorgercene quando sarà troppo tardi? Il problema è difficile perché mentre ogni nazione ha un retaggio storico che insegna cosa significa «in-sicurezza nazionale», l'arrivo di Annibale, non è altrettanto chiaro cosa voglia dire «sicurezza nazionale», così come una malattia è assai più riconoscibile che uno stato di salute. Non dobbiamo dimenticare il monito di A. Einstein: tutto è cambiato eccetto il nostro modo di pensare. Dobbiamo disfarci delle definizioni arcaiche di «sicurezza» in termini militari e ricordare, come disse McNamara, che «la povertà» è una potente fonte di insicurezza e il deterioramento dell'ambiente porterà innanzi tutto ad un acutizzarsi della povertà su scala mondiale e questo ad un deterioramento del medio ambiente, l'ultima risorsa a cui si può fare appello. Un tragico circolo vizioso. Questo è il problema più grande che l'umanità abbia mai dovuto affrontare. Nessuna generazione passata ha mai lasciato alle generazioni future un pianeta tanto impoverito come rischiamo di fare noi. Siamo tutti sulla stessa Arca di Noè che rischia di diventare un «Titanic» ambientale. Il problema lo abbiamo creato noi, non gli extraterrestri. E quindi non le generazioni future ma noi dobbiamo risolverlo. Soprattutto le nazioni più tecnologicamente avanzate. Vittorio M. Canuto Nasa, Goddard Institute for Space Studies New York, N.Y.
ARGOMENTI: BOTANICA
NOMI: NOBLE DAVID
LUOGHI: ESTERO, AUSTRALIA
CHISSA' da quanti milioni di anni viveva in quel burrone inesplorato dell'Australia meridionale, conservando di generazione in generazione le foglie di una felce, le pigne di una conifera e l'imponenza di un albero di 40 metri] Fosse stato un animale, probabilmente sarebbe stato un dinosauro, e la notizia avrebbe sbalordito il mondo. Trattandosi di un vegetale, seppur collegato con le conifere più primitive contemporanee dei dinosauri, il clamore della sua scoperta non ha valicato i confini accademici, anche se alcuni scienziati non hanno esitato a definirla la più importante scoperta del secolo nell'ambito della botanica. La pianta-dinosauro è venuta alla luce nell'agosto scorso, quando David Noble del Wildlife Service australiano si è calato in un burrone profondo 600 metri nel Parco Nazionale di Wollemi, 200 chilometri a Ovest di Sydney. Sul fondo, in un'area di circa mezzo ettaro, crescevano 40 piante non riconducibili a nessuna delle specie finora note. Il tronco spugnoso era coperto di piccoli noduli; le foglie strette e lunghe - di colore verde brillante nella fase giovanile e verde oliva nella vita adulta - erano allineate in quattro file sui rami, mentre le pigne rotonde coperte di squame legnose erano quelle di una conifera. Gli scienziati di Sydney, ai quali vennero sottoposti alcuni rami portati in superficie, si rifiutarono di credere che essi appartenessero a una pianta alta 40 metri, sostenendo che le foglie erano quelle di una felce. Ma dopo parecchi sopralluoghi dovettero ricredersi, ammettendo di trovarsi di fronte a un nuovo genere della famiglia delle Araucariaceae, quelle conifere delle zone tropicali sud americane e australiane che da noi crescono solo nei giardini delle regioni favorite dal clima mite, sulle rive dei laghi o del mare. Si tratta di piante sempreverdi dall'aspetto imponente, alte 40 e più metri, con un notevole valore ornamentale per la distribuzione delle foglie e l'assetto dei rami. I generi sono Arau caria e Agathis, mentre la specie più nota è forse Araucaria Im bricata (Monkey puzzle per gli inglesi), un bellissimo albero con una incredibile distribuzione a spirale delle foglie a formare una fitta copertura dei rami, che si dipartono dal tronco con un andamento flessibile come tanti serpenti. L'aspetto così inconsueto è dovuto al fatto di essere una conifera molto primitiva: il genere Araucaria erà già presente 230 milioni di anni fa alla fine del Triassico, quando i primi dinosauri incominciavano a correre nelle lande desertiche del supercontinente Pangea. La «pianta dinosauro» testé ritrovata ha caratteristiche un po' di Agathis e un po' di Araucaria, per cui può essere collocata in un genere nuovo tuttora da definire. Per il momento, in attesa di trovarle un nome scientifico, le è stato assegnato quello di «Wollemi Pine», con un compromesso fra il toponimo del ritrovamento e la famiglia di appartenenza. E mentre i principali giardini botanici di tutto il mondo stanno avanzando richieste ai Royal Botanic Gardens di Sydney per avere i semi del prezioso vegetale, gli scienziati si arrovellano sul posto da assegnargli nell'evoluzione delle conifere. Alcuni, facendo riferimento a certe analogie con il genere fossile Araucarioidies ritrovato in Tasmania e in Nuova Zelanda, sostengono che Wollemi pine potrebbe appartenere a un genere differenziatosi tra i 50 e i 100 milioni di anni fa. Se così fosse, questa conifera potrebbe essere stata testimone dell'ultimo periodo del regno dei dinosauri, scomparsi 65 milioni di anni fa. Altri invece sostengono che si tratta di un genere comparso «soltanto» dieci milioni di anni fa, il che lo porrebbe fra gli ultimi arrivati, appena quattro milioni di anni prima che gli ominidi incominciassero a separarsi dai Pongidi (orango, scimpanzè, gorilla). Sarà l'esame del DNA di Wollemi pine a dipanare la questione, confrontandolo con quello dei generi Araucaria e Agathis già noti: dai tratti comuni sarà possibile stabilire le relazioni di parentela e da quelli diversi scoprire quando, nel corso dell'evoluzione delle conifere, la «pianta-dinosauro» è comparsa sulla Terra. Maria Luisa Bozzi
E' stata firmata lunedì una convenzione tra il Cnr (Enrico Garaci) e l'Accademia dei Lincei (Sabatino Moscati) per un programma di collaborazione nella ricerca, nelle pubblicazioni e nell'introduzione di innovazioni scientifiche. Tra le iniziative previste, una annuale «Conferenza della Ricerca» per presentare i risultati dei programmi di studi nazionali.
Il Premio giornalistico dell'Ises (International Solar Energy Society) per articoli dedicati alle energie alternative è stato assegnato quest'anno a Franco Foresta-Martin del «Corriere della Sera» e ad Antonio Cianciullo de «la Repubblica». Il premio è stato consegnato durante la presentazione a Roma del libro «Vento per l'energia» realizzato dall'Ises nel quadro di una collaborazione tra ministero dell'Industria, Enea, Enel, Riva Calzoni e West. In Italia entro quest'anno verranno realizzate due centrali eoliche Enel per 20 megawatt complessivi. Si calcola - ha detto il presidente dell'Ises Corrado Corvi - che ogni megawatt eolico comporti anche la creazione di 10 nuovi posti di lavoro.
Anche l'Italia riconosce il prodotto omeopatico come medicinale. E' stato infatti pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto di attuazione della direttiva Cee in materia di medicinali omeopatici. I prodotti presenti sul mercato al 31 dicembre 1992 sono definitivamente autorizzati, purché di origine comunitaria. Per quelli immessi sul mercato successivamente, gli interessati devono presentare immediata richiesta.
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: KOWAL CHARLES, KUIPER GERARD, A'HEARN MICHAEL
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Chiron Perihellon Campaign
DOPO la fortunata campagna mondiale per lo studio dell'impatto dei 21 frammenti della cometa Shoemaker/Levy con Giove, nell'aprile del 1996 si presenterà un'altra occasione, anche se meno spettacolare, per osservazioni congiunte su scala planetaria: infatti il primo aprile, Chirone passerà a una distanza di «appena» 1275 milioni di chilometri dalla Terra, occasione che non si ripeterà fino al 2047. Nel 1977 l'astrofisico americano Charles Kowal scoprì un oggetto di circa 200 km di diametro che orbitava fra Saturno e Urano e lo classificò come un asteroide a cui fu assegnato il nome «2060 Chiron». A 18 anni dalla scoperta si è potuto stabilire che Chirone altro non è che una gigantesca cometa appartenente a una nuova categoria denominata dei «Centauri» e proveniente dalla «Fascia di Kuiper». Prima l'ipotesi più valida era che tutte le comete del sistema solare provenissero da una ipotetica «Nube di Oort» (dal nome dell'astrofisico olandese che ha introdotto la teoria), situata a circa 50.000 U.A. dal Sole e che ne conteneva circa 100 miliardi in orbita di parcheggio. Per ragioni ancora sconosciute elementi singoli o sciami di comete venivano catapultati nel sistema solare descrivendo orbite ellittiche, paraboliche o iperboliche a seconda della dinamica iniziale. Gerard Kuiper nel 1951 ipotizzò che le comete a corto periodo non potevano percorrere le loro attuali orbite se fossero state originate nella nube di Oort, ma che doveva esserci una zona (denominata in seguito «Fascia di Kuiper») situata a circa 36 U.A. ove si erano rifugiate miliardi di comete originate durante la formazione del sistema solare 4,6 miliardi di anni fa. La scoperta fatta da astronomi delle Hawaii nel 1992 e 1993 di due oggetti denominati rispettivamente 1992 QB1 e 1993 FW, seguita poi fino ad oggi da una ventina di oggetti simili del diametro fra 100 e 300 km, fa presupporre la presenza di corpi ben più grandi (1000-2000 km) nella fascia di Kuiper che aspettano solo di essere rivelati da fortunati osservatori terrestri. Chirone ha mostrato fin dal 1988 di avere una chioma cometaria composta di gas e polvere e le sue dimensioni, simili a quelle di QB1 e FW, fanno pensare che appartenga alla stessa famiglia della fascia di Kuiper. L'orbita attuale (periodo di 50,7 anni) attraversa quella di Urano e Saturno e risulta instabile in quanto fra qualche millennio si avvicinerà a uno dei pianeti giganti subendone la perturbazione gravitazionale. L'avvicinamento di Chirone nel 1996 darà una opportunità unica per studiare la prima cometa gigante, determinandone la composizione chimica e osservandone la chioma attiva a una distanza accessibile ai telescopi terrestri con diametro maggiore di 30 centimetri, ma dotati di sensori Ccd, in quanto la magnitudine nel visibile non sarà minore di 15. Dalle osservazioni degli impatti su Giove della cometa Shoemaker si potrebbe ora arguire che la gigantesca macchia rossa altro non sia che la ferita provocata al pianeta gigante da una cometa di questo tipo in un passato non troppo remoto. Certo è che sulla Terra nulla rimarrebbe di vivente in seguito all'impatto di un oggetto di tali dimensioni] In vista del nuovo «happening» astronomico si è organizzata la CPC (Chiron Perihellon Campaign) che sarà coordinata, come per la campagna SL-9/Giove, da Michael A'Hearn dell'Università del Maryland. Cristiano B. Cosmovici Cnr, Istituto di fisica dello spazio
UNA sonda che sfiorerà il Sole. Navicelle che esploreranno Mercurio, Marte e una cometa. Satelliti artificiali per cercare pianeti di altre stelle. Laboratori spaziali per esperimenti di fisica su temi di frontiera, come le onde gravitazionali e l'identità tra massa gravitazionale e massa inerziale postulata da Einstein. E' il programma scientifico dell'Agenzia spaziale europea (Esa), per i primi vent'anni del prossimo millennio. Ma per gli scienziati italiani potrebbe anche essere un libro dei sogni. Perché - ovviamente - la ricerca nello spazio costa, e il nostro Paese è sempre alle prese con difficoltà di bilancio. Ne parliamo con Sigfrido Leschiutta, che fa parte del Comitato scientifico dell'Agenzia spaziale italiana, è presidente dell'Istituto Elettrotecnico Nazionale Galileo Ferraris e nello spazio ha realizzato esperimenti d'avanguardia. Professor Leschiutta, fino a che punto è giusto spendere nello spazio? «La scelta è politica. Bisogna stabilire se si possa considerare la ricerca di punta un lusso non necessario. Io non credo. La scienza non è un lusso perché le sue ricadute sono economiche e sociali, e vanno a beneficio anche delle nazioni che non possono spendere nello spazio». L'Italia può contare sul rientro degli investimenti nell'Agenzia spaziale europea sotto forma di commesse alle industrie nazionali? «In effetti in 23 anni l'Italia ha dato all'Esa 450 miliardi di lire in più di quanto ha ottenuto in commesse: abbiamo contribuito per 6850 miliardi e ne abbiamo incassati 6400. Ma questo è dovuto in gran parte alla svalutazione della lira. E' assurdo, inoltre, dire che con i nostri soldi sovvenzioniamo industrie spaziali straniere: basta confrontare i 450 miliardi mancanti all'appello in 23 anni con i 4000 miliardi che ogni anno la Francia spende nello spazio». Ci sono altri ritorni per così dire «invisibili»? «Sì: di tipo scientifico, culturale e politico. L'Esrin, cioè la parte di Esa che ha sede in Italia, ha un bilancio di 175 miliardi all'anno, dei quali 50 vengono spesi nel nostro Paese. Poi c'è la ricaduta della tecnologia spaziale su tecnologie tradizionali, come quelle aeronautiche». Finora in campo scientifico l'Esa ha dato buoni frutti? «Non c'è dubbio. L'Europa con i programmi già realizzati e quelli in progetto si è assicurata il posto di leader mondiale nello studio del Sole, delle comete, dell'ambiente interplanetario e nei settori dell'astrometria e dell'astrofisica in onde submillimetriche, nell'infrarosso, nell'ultravioletto, nei raggi X e gamma». Ma l'Esa costa... «E' vero. Il costo di alcune missioni può sembrare alto. Ma poi i budget fissati vengono rispettati. Altre agenzie spaziali invece partono con una previsione e poi spendono il doppio o il triplo». Che cosa deve fare l'Italia, con le sue difficoltà economiche? «Abbiamo tre opzioni: uscire dall'Esa, restarci con scarso entusiasmo o essere un elemento di propulsione. Scartiamo la prima ipotesi: uscire dall'Esa sarebbe un errore che ci toglierebbe un'industria dall'alto valore aggiunto e ci allontanerebbe dall'Europa per avvicinarci all'Africa. Sarebbe anche uno spreco, perché getteremmo via i frutti di quasi settemila miliardi investiti finora dall'Italia nell'Esa e gli scienziati italiani sarebbero relegati in provincia. Una tiepida adesione servirebbe solo a rinfocolare polemiche su occasioni perse, inefficienze varie o prevaricazioni altrui. E' bene invece che l'Italia muova alla riscossa alla Conferenza dei ministri europei che si terrà a Tolosa in ottobre. In questa occasione i ministri della ricerca dovrebbero rivedere tutte le attività dell'Esa». E il ruolo dell'Asi, Agenzia spaziale italiana? Finora è stata un'esperienza molto negativa... «Occorre che governo e Parlamento stabiliscano i compiti dell'Asi e la sostengano nel triplice scopo di collegamento e ispirazione dell'Esa, di interfaccia con la nostra industria nazionale e di collegamento con la comunità scientifica nazionale. L'Asi deve essere potenziata per poter fare una politica spaziale chiara e coerente, conquistando prestigio a livello europeo, per rivendicare il giusto ritorno industriale e il rafforzamento dell'Esrin. Spezzare l'Asi, come qualcuno ha proposto, vorrebbe invece dire perdere ulteriormente prestigio nell'Esa. E poi un'Asi in due o più pezzi sarebbe ancora più in balia delle forze locali che già l'hanno paralizzata negli ultimi due anni». Piero Bianucci
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: NASA, MCDONNELL DOUGLAS
LUOGHI: ITALIA
LA Nasa cerca il successore dello Space Shuttle. La navetta resterà in servizio ancora per molti anni, ma sono sempre più evidenti i suoi limiti. Nata per essere riutilizzata e contenere così le spese, si è rivelata più costosa dei vettori tradizionali perché dopo ogni volo richiede una manutenzione lunga e onerosa. E se da un lato consente operazioni altrimenti impossibili, come il recupero di satelliti danneggiati, dall'altro la complessità e i costi del suo impiego hanno contribuito alla progressiva diminuzione della capacità di lancio degli Stati Uniti. La crisi è particolarmente evidente per la messa in orbita dei satelliti commerciali: vent'anni fa l'America deteneva l'intero mercato, oggi meno del 30 per cento. Il nuovo vettore Delta III annunciato dalla McDonnell Douglas (oltre quattro tonnellate di carico utile in orbita di trasferimento geostazionaria, primo lancio nel 1998) accrescerà le potenzialità degli Usa, ma non farà recuperare terreno rispetto all'Europa, leader incontrastato con i razzi Ariane. Se oggi i vettori «a perdere» sembrano ancora vincenti, le cose potrebbero cambiare in futuro. Il programma Single Stage To Orbit (Ssto) della Nasa vuole abbattere drasticamente i costi con l'impiego di razzi capaci di raggiungere lo spazio e di tornare a Terra interi e pronti a ripartire nel giro di pochi giorni. Lo stesso concetto che negli Anni 70 ha portato alla progettazione dello Shuttle. La scommessa è riuscire là dove questo ha fallito grazie alla disponibilità di nuove tecnologie e di nuovi materiali. A differenza dell'attuale navetta, il futuro vettore riutilizzabile non dovrà compiere lunghe missioni in orbita per le osservazioni scientifiche o esperimenti tecnologici. A ciò servirà la stazione spaziale internazionale. L'Ssto sarà un semplice «ascensore» per mettere in orbita satelliti, portare rifornimenti e nuovi equipaggi al laboratorio spaziale. E poiché il pilotaggio sarà completamente automatico, nella maggior parte dei voli non ci saranno astronauti a bordo. La Nasa ha scelto tre aziende, affidando loro la progettazione di un dimostratore del sistema di lancio: l'X33. Sono la Rockwell, la McDonnell Douglas e la Lockheed. Ognuna lavora a un proprio concetto di vettore riutilizzabile, ma con un identico obiettivo: affidabilità e contenimento dei costi di lancio. La proposta più originale è il Delta Clipper della McDonnell Douglas: un razzo a idrogeno e ossigeno liquidi capace di decollare e di atterrare verticalmente, come l'astronave di un film di fantascienza. Più tradizionale, almeno in apparenza, il progetto della Lockheed: uno spazioplano che partirà da una rampa verticale e, al termine del volo, planerà a motori spenti per atterrare sulla pista di un aeroporto. Come lo Shuttle, insomma, ma con alcune differenze. Grazie a nuovi materiali (compositi avanzati, ceramici a matrice metallica) e con il progresso nel campo dei motori a idrogeno e ossigeno liquidi, il rapporto peso/spinta consentirà di eliminare parti a perdere, come serbatoi e booster. Lo spazioplano atterrerà tutto intero, alleggerito solo del propellente e del carico utile depositato in orbita. Un'altra caratteristica del progetto Lockheed è l'assenza di ali. La navetta è un lifting body: il sostentamento aerodinamico è generato cioè dalla stessa forma della fusoliera, che ricorda un po' una tavola da surf. E' una soluzione già sperimentata dalla Nasa negli Anni Sessanta, che consente di ridurre il peso a vantaggio del carico utile. La particolare aerodinamica della navetta dovrebbe consentire anche minori sollecitazioni termiche nella delicata fase del rientro nell'atmosfera. Temperature più basse permettono l'impiego come rivestimento protettivo di materiali compositi e metallici, senza dover ricorrere alle tegole di silicio che tanti problemi hanno dato allo Space Shuttle. Nel proporre questo veicolo, che potrà collocare carichi fino a 20 tonnellate in orbita bassa e di 5 tonnellate in orbita di trasferimento geostazionaria, la Lockheed ha un asso nella manica. Il progetto è affidato alla Advanced Development, la divisione aziendale meglio nota con il soprannome «skunk works», espressione che grosso modo significa «lavori sporchi». E' il centro ultrasegreto dove sono nati gli aerei spia U2, SR71 e il cacciabombardiere invisibile ai radar F117A. Di qui sarebbe uscito anche l'ipersonico militare Aurora, capace di volare a sei volte la velocità del suono. Un velivolo mai fotografato, di cui il Pentagono non ammette l'esistenza (lo stesso era accaduto con l'F117A), ma che potrebbe addirittura essere già in servizio e costituire il banco di prova di molte tecnologie necessarie al futuro spazioplano. Giancarlo Riolfo
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. «Spektre», il nuovo modulo della stazione spaziale russa MIR
NOTE: Issa (Stazione Spaziale Internazionale Alpha)
SI intensificano le grandi manovre spaziali, in vista dei prossimi agganci tra la navetta americana e la stazione russa Mir. Il 20 maggio è stato lanciato il penultimo dei grandi moduli scientifici, pesanti 20 tonnellate, che completeranno la struttura della base orbitante russa: lo Spektre (con un ritardo di quattro anni rispetto ai programmi dell'ex agenzia spaziale sovietica) è stato collocato in orbita da un razzo D-1 «Proton» partito da Baikonur, ed effettuerà un aggancio automatico con il boccaporto della Mir nei prossimi giorni. Da questo modulo specializzato per studi di geofisica dipende l'intera operazione d'attracco Shuttle-Mir, in quanto lo Spektre contiene attrezzature (computer, centrifughe ed ergometri) destinate agli esperimenti che svolgeranno insieme cosmonauti russi e americani per preparare le future operazioni di assemblaggio in orbita della Issa (Stazione Spaziale Internazionale Alpha). L'ultimo modulo, chiamato «Priroda» e dedicato al telerilevamento, verrà lanciato entro fine anno; con esso la struttura della Mir peserà 135 tonnellate, comprese le navicelle Sojuz e Progress. I russi avevano cancellato i due lanci a causa della mancanza di fondi, ma la cooperazione con gli Usa ha permesso ai tecnici di Mosca di rispolverare il programma: rispetto alla precedente struttura, realizzata verso la fine degli Anni 80, Spektre possiede un compartimento non ermetico, ed è dotato di due pannelli solari supplementari uguali a quelli della Mir e del modulo «Kvant 2», ad essa agganciato nel 1989. Così il complesso orbitale sarà dotato di una potenza elettrica di 13 KW. Il lancio della navetta «Atlantis» è stato ora fissato per il 24 giugno: a bordo i piloti Gibson e Precourt, gli specialisti americani Baker, Harbaugh e Bonnie Dunbar, e i russi Soloviev e Budarin. Questi ultimi due resteranno sulla Mir, mentre con «Atlantis» rientreranno a Cape Canaveral l'americano che ha trascorso tre mesi sulla stazione russa Norman Thagard e i suoi compagni di missione russi Strekalov e Dezhourov. Antonio Lo Campo