TUTTOSCIENZE 8 marzo 95


SCOPERTA Altro passo verso la vita
ARGOMENTI: BIOLOGIA, CHIMICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: MILLER STANLEY, KEEFE ANTHONY, UREY HAROLD
ORGANIZZAZIONI: NATURE
LUOGHI: ESTERO, USA, CALIFORNIA

La rivista «Nature» nell'ultimo numero di febbraio ha dato notizia di un altro passo nella comprensione dei meccanismi chimici all'origine della vita. Stanley Miller e Anthony Keefe, dell'Università della California, sono riusciti a produrre in una sorta di «brodo primordiale» la panteteina, un composto imparentato con un enzima che serve a congiungere tra loro gli aminoacidi per formare le proteine negli organismi viventi. Con il premio Nobel Urey, suo maestro, nel 1953 Miller, allora studente, fu protagonista del primo esperimento per simulare le reazioni prebiotiche che probabilmente potevano avvenire nell'ambiente terrestre tre miliardi e mezzo di anni fa. La produzione della panteteina, sostanza molto solubile, ha spiegato Miller, probabilmente non incontrava difficoltà nelle condizioni esistenti in quell'epoca sulla Terra, specie nell'acqua sui 40 gradi centigradi delle lagune tropicali.


FERMILAB: SCOPERTA CONFERMATA Ora la fisica è al Top Fine del viaggio al centro della materia
Autore: REGGE TULLIO

ARGOMENTI: FISICA, RICERCA SCIENTIFICA, STORIA DELLA SCIENZA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Visione d'insieme del Tevatron

E' di questi giorni la conferma della scoperta del quark Top. A La Thuile, in Val d'Aosta, se ne parlerà fino a venerdì in un convegno internazionale, presente Giorgio Bellettini, capo del gruppo italiano che, al Fermilab, ha contribuito alla caccia al quark Top. Vediamo di chiarire il significato della scoperta. Il modello standard delle particelle elementari ha oggi all'incirca la stessa funzione e complessità che ebbe a suo tempo il sistema periodico degli elementi di Mendeleiev. Ambedue sono basati su poco meno di un centinaio di componenti elementari che variamente combinati rendono conto di tutti gli aspetti della materia qual è o era nota al momento in cui il modello è apparso. Il modello standard descrive tuttavia processi fisici che si svolgono su di una scala di energie che è circa un trilione di volte quella caratteristica della chimica del secolo scorso e contiene il sistema periodico come un piccolo frammento della visione di insieme che da esso deriva. I mattoni fondamentali del sistema periodico erano gli atomi degli elementi chimici. I nuclei atomici sono composti da nucleoni assortiti in protoni, con carica positiva, e neutroni, senza carica. Da alcuni anni si sa che neppure protoni e neutroni sono elementari e risultano composti da terne di altre entità chiamate quark. I quark hanno posto fine all'idea, diventata quasi un assioma dopo lo storico esperimento di Millikan, secondo cui tutte le particelle hanno una carica elettrica che è un multiplo, positivo o negativo, di quella elettronica. Le cariche dei quark sono invece multipli della terza parte di quella elettronica e ci si può chiedere come mai nessuno ha visto prima queste cariche frazionarie. La spiegazione è grosso modo la seguente. Se allontaniamo un protone da ogni altra forma di materia si annullano le forze che normalmente agiscono su di esso per cui il protone si trova in uno stato che è detto libero e si muove di moto rettilineo e uniforme. Le forze tra particelle diminuiscono infatti con la distanza, a volte rapidamente, come quelle nucleari, a volte lentamente come le elettriche e gravitazionali. A questa regola fanno cospicua eccezione i quark; nessuno ha mai visto un quark libero e tutti i tentativi di separare permanentemente un quark da altri quark sono falliti. I quark appaiono sempre legati tra di loro in gruppi la cui carica totale è ancora un multiplo intero di quella elettronica e sembrano essere uniti da forze elastiche che non diminuiscono con la distanza e che li riportano assieme in un tempo evanescente rispetto a quello della scala umana. A volte l'elastico si rompe ma sui monconi l'energia dell'urto si materializza istantaneamente in altri quark che riformano gruppi di carica intera e quindi permessi. Lo studio dei quark ha portato alla creazione di una astrusa teoria, la QCD (cromodinamica quantistica), che rende conto di molti dati ma che è ancora lungi dall'essere completata. I quark sono assortiti a coppie in tre famiglie chiamate generazioni. La prima generazione contiene la coppia u, d (dall'inglese up e down, su e giù). Protoni e neutroni sono triple contenenti esclusivamente quark u e d. La seconda generazione contiene i quark s e c (dall'inglese strangeness e charm, stranezza e fascino), la terza contiene i quark b e t (bot tom e top, fondo e cima). La materia ordinaria e stabile è costituita esclusivamente di quark u e d, con l'aggiunta di elettroni e dei quanti delle forze che le tengono assieme. Le altre generazioni conducono a particelle dalla vita effimera e che non si trovano in natura. Alle generazioni citate occorre aggiungere quelle in egual numero delle antiparticelle dei quark. Infine ogni quark giunge in realtà assortito in tre stati, detti colori, la cui discussione ci porterebbe fuori dallo scopo di questo articolo. Esistono quindi ben 36 quark. Negli Anni 50 furono viste per la prima volta nelle emulsioni nucleari particelle cui fu dato il nome provvisorio V. Venivano prodotte con facilità nelle collisioni tra protoni cosmici e i nuclei atomici delle emulsioni per cui risultava evidente la presenza di interazioni forti nella loro creazione. D'altra parte la loro disintegrazione (decadimento) era lentissima e doveva quindi procedere mediante interazioni deboli. Il dilemma fu risolto da Murray Gell-Mann che propose un nuovo attributo simile alla carica elettrica, la stranezza, che veniva conservato nelle interazioni forti ma non in quelle deboli. Nella collisione iniziale venivano create in realtà due particelle con stranezza opposta che poi decadevano separatamente con una vita molto lunga. La scoperta di nuove simmetrie tra particelle e di una struttura interna dei nucleoni condusse poi alla ipotesi dei quark che ha ricevuto numerose conferme negli anni seguenti. Tuttavia fino al 1974 erano stati individuati solamente i quark u, d, s. Nel novembre di quell'anno Richter e Ting scoprirono separatamente la particella Psi, uno stato legato del quark c e dell'antiquark del c. La ricerca del top è stata condotta al FermiLab di Batavia nell'Illinois con una macchina, il Tevatron, che accelera protoni e antiprotoni fino a energie di 1 Tev, pari a un trilione di elettroni-Volt. Due i gruppi di ricercatori impegnati, ognuno con circa 400 persone in rappresentanza di una quarantina di istituzioni. Il primo gruppo, di cui è portavoce Bellettini, ha condotto l'esperimento al Collider Detector del FermiLab (CDF). Un altro gruppo ha lavorato al sito D0 ottenendo un risultato in accordo con quello del CDF. Entrambi hanno analizzato collisioni tra fasci di protoni e antiprotoni in cui l'energia delle particelle si materializza in una coppia top-antitop che dopo una serie abbastanza complessa di passi intermedi si disintegra in 4 frammenti, 2 quanti di «luce pesante» e una coppia di mesoni. Il modo in cui queste 4 componenti si disintegrano è molto caratteristico e identifica la coppia originale top-antitop. In totale i due gruppi hanno osservato con diversa modalità alcune decine di eventi che hanno le caratteristiche richieste, un numero circa dieci volte più grande di quello che si valuta provenga da coincidenze accidentali che simulino l'evento cercato. La probabilità che si tratti di una coincidenza scende quindi a circa un milionesimo, un risultato più che accettabile. Altri gruppi ripeteranno nei prossimi anni l'esperimento per dissipare gli ultimi dubbi e per precisare meglio le proprietà del top esattamente come è accaduto per gli altri quark. Il modello standard ha quindi ricevuto una ulteriore conferma e tutto questo dovrebbe lasciarci soddisfatti. Tuttavia penso che sia un punto di partenza e non uno di arrivo. Alla base del modello stanno concetti profondi di simmetria nel mondo delle particelle elementari, ma il modello è ancora ben lungi dal mostrarci questa simmetria nel suo fulgore e contiene ancora troppe ipotesi che al momento paiono arbitrarie. I fisici hanno ancora molto da fare prima di giungere a una sintesi che sia esteticamente soddisfacente. Tullio Regge Politecnico di Torino


ASTEROIDI Una vedetta contro i killer dello spazio
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: CARUSI ANDREA, ZAPPALA' VINCENZO, DI MARTINO MARIO
ORGANIZZAZIONI: ALENIA SPAZIO, OSSERVATORIO TORINESE
LUOGHI: ITALIA

IL nemico viene dallo spazio ma non viaggia su astronavi aliene. Ha, invece, l'aspetto di una montagna o di un iceberg. Pianetini, insomma, o comete vaganti, che incrociano l'orbita della Terra. E talvolta ci cascano addosso alla velocità di parecchi chilometri al secondo. Quali catastrofi possano provocare lo abbiamo visto nel luglio '94, quando una ventina di frammenti della cometa Shoemaker-Levy hanno sconvolto con enormi cicloni l'atmosfera di Giove, un pianeta che pure ha un diametro dodici volte maggiore di quello terrestre. Da pochi anni si è incominciato a valutare con attenzione il rischio che le collisioni cosmiche rappresentano per l'umanità. E ora si pensa a qualche tipo di protezione. Venerdì scorso a Torino un gruppo di studiosi degli asteroidi, in accordo con Alenia Spazio, ha lanciato l'idea di un satellite di sorveglianza contro i pianetini- killer. Fino a oggi l'avvistamento sistematico è stato compito di speciali telescopi a largo campo, sistemati a Kitt Peak in Arizona e a Monte Palomar, e di sporadiche osservazioni radar. Si tratta ora di completare la rete di scandaglio telescopico e radar al suolo e di creare un satellite-vedetta che, lavorando nello spazio, sia la punta avanzata di tutto il sistema e permetta di stabilire le caratteristiche fisiche del potenziale asteroide-killer con osservazioni in varie lunghezze d'onda. Al progetto, di respiro internazionale, stanno già lavorando Andrea Carusi, del Cnr, e Vincenzo Zappalà e Mario Di Martino, dell'Osservatorio torinese. Il tutto rientra nel quadro più vasto di un Centro Scientifico Torino Spazio, proposto in forma di consorzio tra Università, Politecnico, Galileo Ferraris, Alenia e Regione Piemonte. Ma qual è la probabilità di uno scontro tra la Terra e un corpo celeste vagante? Dipende dalle dimensioni del corpo. In media ogni anno 500 meteoriti dal peso di qualche chilogrammo raggiungono il suolo. Ogni due o tre secoli può verificarsi l'impatto con un corpo di qualche decina di metri, come avvenne in Siberia nel 1908. Ogni diecimila anni la natura regala alla Terra una esplosione mille volte più potente della bomba atomica che distrusse Hiroshima: in questo caso il corpo celeste avrà un diametro superiore ai cento metri. Infine, si calcola che ogni milione di anni precipiti un macigno celeste di un chilometro di diametro con l'energia di un milione di bombe atomiche; e ogni cento milioni di anni un pianetino di 10 chilometri, con la potenza di un miliardo di ordigni tipo Hiroshima, sufficiente a distruggere la maggior parte delle specie viventi (come pare sia accaduto 65 milioni di anni fa, quando scomparvero i dinosauri). Le comete finiscono casualmente nella regione centrale del sistema solare, dove orbita la Terra, provenendo da grandi distanze in seguito a piccole perturbazioni gravitazionali. Gli asteroidi sono concentrati tra Marte e Giove, ma talvolta le loro orbite da stabili diventano caotiche, oppure si scontrano tra loro, e allora i frammenti possono essere proiettati verso la Terra. Sono tre le famiglie di pianetini pericolosi: quella di Aten, con orbita interna alla nostra; quella di Apollo, con orbita esterna ma tale da intersecare quella terrestre; e quella di Amor, con orbita esterna, ma che si avvicina molto alla nostra. Il primo lavoro da fare è scoprire e catalogare tutti questi pianetini. Si stima che ce ne siano centomila con un diametro intorno alle centinaia di metri, un migliaio con un diametro intorno al chilometro e una decina con un diametro di circa 10 chilometri. Satellite, telescopi e radar completerebbero l'inventario in tempi ragionevoli. In parallelo si metterebbe a punto una tecnologia (missile con testata nucleare che esploda vicino all'asteroide) per scongiurare il pericolo se si prevedesse un passaggio troppo ravvicinato. Intanto la navicella spaziale «Near» , che la Nasa lancerà nel febbraio 1996, dovrebbe mostrarci le prime immagini ravvicinate di un potenziale pianetino-killer: nel 1999 entrerà in orbita attorno a Eros, un asteroide che periodicamente si spinge a pochi milioni di chilometri da noi. Come disse il dinosauro, «la situazione sta precipitando»... Piero Bianucci


8 MARZO & BOTANICA Attente, donne, vi regalano finte mimose! Il fiore che oggi ha il suo giorno di gloria in realtà è un'acacia
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA

SONO acacie e non mimose i rami fioriti ricchi di soffici e piumosi glomeruli di colore giallo limone o giallo oro che, per la loro festa, le donne ricevono in dono oggi 8 marzo. Entrambi i generi Mimosa e Acacia appartengono alla famiglia delle Mimosacee, cosa che può avere creato confusione. Di Mimosa il non addetto ai lavori conosce quasi soltanto la pudica, molto curiosa per il movimento di chiusura delle foglie che si verifica se viene urtata, scottata o ferita. In corrispondenza della regione stimolata, si libera una sostanza che modifica la permeabilità delle membrane cellulari, provocando variazioni di turgore delle cellule. Questa sostanza si diffonde nelle foglie e attraverso i rami, raggiungendo gruppi di cellule speciali alla base dei piccioli delle foglie: i «cuscinetti motori». La loro perdita di turgore, dovuta all'uscita di acqua dalle cellule, provoca la chiusura delle foglie. Oltre 450 specie, la maggior parte delle quali di provenienza australiana, fanno parte del genere Acacia, la cui classificazione, assai complessa per le notevoli differenze di aspetto, si basa soprattutto sul tipo di foglie, che possono essere composte e pennate (gruppo delle pennatifide), oppure assenti, sostituite da rami appiattiti che svolgono la fotosintesi. Le acacie che interessano la produzione di rami fioriti sono pennatifide e appartengono prevalentemente alla specie dealbata, decurrens e beyleia na. La coltivazione su scala industriale di queste specie, che costituisce una produzione tipicamente mediterranea, concentrata soprattutto nella Riviera ligure e francese, è iniziata a fine '800. Un floricoltore geniale ha pensato di innestare le specie citate, che richiedono un terreno acido, sull'A. reti noides, adatta a qualsiasi tipo di terreno. Così ora è possibile coltivarla anche in terreni di tipo calcareo, come in Liguria. L'acacia era già nota nell'antichità, anche se Plinio il Vecchio e Dioscoride ne conoscevano soltanto due specie che chiamavano la candida e la nera, riferendosi al colore della corteccia. Quanto alla parola acacia, deriverebbe da un vocabolo greco, «acuto», che allude alla presenza di spine aguzze: i romani le usavano come rimedio contro le malattie nervose. Secondo altri risalirebbe al termine, greco anch'esso, «innocenza», con un chiaro riferimento al colore dei fiori (o più correttamente delle infiorescenze), talvolta di colore bianco. Le acacie, che sono piante a rapido sviluppo (alcune specie possono raggiungere 7-8 metri di altezza in sei mesi), oltre che per la produzione di rami fioriti possono essere impiegate in profumeria, come nel caso dell'A. farnesiana, così chiamata perché vista in fiore per la prima volta a Roma nei celebri giardini di Odoardo Farnese. Alcune specie, come A. Senegal, A. arabica, A, stenocarpa, servono per ottenere la gomma arabica, sostanza utilizzata dall'industria tessile, e per la preparazione di liquori e di bevande sciroppose. Un sapone si ricava da A. concinna, specie a fiori bianchi presente nelle Indie occidentali. In ambiente arido, dove scarseggiano i foraggi, le foglie di alcune specie di Acacia sono preziose per l'alimentazione del bestiame. Tinture per stoffe forniscono l'A. melanoxylon, A. homalophylla. Molte specie di Acacia consentono importanti produzioni di legno, eccellente in ebanisteria, apprezzato per pali da recinzioni, come combustibile e per traversine ferroviarie. La mitica Arca di Noè sarebbe stata costruita con tronchi dell'A. Seyal, una specie asiatica occidentale, che sembra essere il legno Shittin di cui si parla nell'Antico Testamento. Gli Egizi usarono per molti secoli il legno di questa specie per preparare i sarcofaghi che dovevano servire per la sepoltura dei loro re. Attualmente tale genere è oggetto di studio nell'ambito di un progetto del ministero dell'Università e della Ricerca scientifica di cui fa parte anche la Facoltà di Agraria dell'Università di Torino con lo scopo di produrre piccoli vasi fioriti da appartamento. Elena Accati Università di Torino


L'ENIGMA RIMANE Naufragio Titanic due nuove ipotesi
AUTORE: ANGELA ALBERTO
ARGOMENTI: TRASPORTI, NAVALI, INCIDENTI
NOMI: BALLARD ROBERT
ORGANIZZAZIONI: TITANIC, WOODS HOLE OCEANOGRAPHIC INSTITUTION, COMMISSIONE INTERNAZIONALE PER LA SICUREZZA IN MARE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Come è avvenuto il naufragio del Titanic il 13 aprile 1912

MANCA poco alla mezzanotte del 13 aprile 1912, e il mare è nero come la pece. Pochi passeggeri frettolosi passano sui ponti: fa troppo freddo per stare fuori. Nessuno si accorge dell'enorme massa ghiacciata che si avvicina. Neanche il capitano Don Smith, che aveva deciso di andare in pensione dopo questa straordinaria traversata, a suggello di una carriera quarantennale. L'impatto è sordo e violento. Tutto rotola per terra, i tavoli scivolano, le porte sbattono, i vetri vanno in pezzi. Per lunghi secondi si sente il rumore sinistro e cupo della fiancata d'acciaio che sfrega contro l'iceberg, aprendo uno squarcio di 90 metri nel transatlantico. E' il panico. I corridoi si riempiono di passeggeri in vestaglia e pigiama, di marinai che corrono, di urla. Rapidamente la nave si piega, e la prua si inabissa sempre più. Il marconista lancia un'infinità di «Sos». Intanto le scialuppe vengono prese d'assalto, ma molte, nella fretta, hanno già abbandonato la nave semivuote, lasciando ai passeggeri terrorizzati la terribile alternativa di saltare nelle acque gelide. Non avrebbero comunque potuto salvare tutti: potevano ospitare un massimo di 1178 passeggeri, mentre a bordo del «Titanic» c'erano 2227 persone. In due ore e mezzo il «Titanic» affonda portando con sè oltre 1500 vite (le fonti non sono in accordo, c'è chi parla di 1522 morti, chi di 1513, chi di 1503). I superstiti vennero recuperati relativamente in fretta: un'ora e venti minuti dopo l'affondamento comparve sul luogo del disastro il «Carpathia», un'altra nave passeggeri. Molte vite furono salve grazie a questo insperato arrivo. Avrebbero potuto essere molte di più se il marconista di un altro bastimento, il «Californian» fosse rimasto all'ascolto quella notte e avesse raccolto l'Sos; si trovava a soli 32 chilometri dal «Titanic». Allora però non vigeva la regola di stare in continuo ascolto radio. Il resto della tragedia è dei giorni nostri: nel 1985 Robert Ballard del Woods Hole Oceanographic Institution a capo di un progetto franco-americano, dopo 13 anni di ricerche riesce a localizzare il relitto. E' adagiato ad oltre 3 chilometri di profondità, nella fanghiglia abissale. Andando giù, si è spezzato in due tronconi, disseminando in un raggio di parecchi chilometri quadrati oggetti di ogni tipo: dalla bottiglia di Champagne alla testiera di un letto, dalla testa di una bambola alla panchina del ponte, a una stufa elettrica, a una vasca da bagno, a un sanitario. Persino una borsa con la probabile refurtiva di un ladro che «ripuliva» le stanze durante il panico generale. Forse l'oggetto più incredibile avvicinato sul fondale è una statua romana di Diana in bronzo (o una sua imitazione), parte di una collezione privata. Poteva essere evitata questa tragedia? Il «Titanic» era quanto di più lussuoso e sicuro si potesse costruire a quell'epoca. Aveva un aspetto imponente, con quattro enormi fumaioli messi in fila e persino delle carene laterali per evitare il rollio. Con un pizzico di presunzione, che risuona molto sinistro oggi, l'avevano definito «inaffondabile». In effetti grazie al suo scafo suddiviso in 6 diversi compartimenti stagni e rinforzato con un sistema simile ai doppi fondi delle valigie, sembrava destinato ad una lunga serie di viaggi e di crociere di successo. Eppure affondò al suo primo viaggio. Quello più importante: la traversata oceanica inaugurale. A parte le eventuali responsabilità di chi era al timone, o di vedetta, la tragedia fino ad oggi sembrava dovuta più che altro ad una sfortunata serie di circostanze. Viaggiando a 22 nodi, cioè a una velocità sostenuta, l'iceberg si è trasformato in un lungo coltello che ha «aperto» la pancia del «Titanic» sfondando 5 dei 6 compartimenti stagni. L'ultima notizia riguardante il «Titanic» è di pochi giorni fa: secondo un'inchiesta della Tv inglese Channel Four, la nave sarebbe affondata perché aveva già una falla, causata da una esplosione, a sua volta prodotta da un piccolo incendio in un deposito di carbone, incendio che era stato sottovalutato dal personale di bordo. E lo scontro con l'iceberg - secondo questa versione - fu dovuto a un cambiamento di rotta deciso appunto per abbreviare il viaggio, che in quelle condizioni era divenuto precario. Eppure in parte le cause della tragedia potrebbero risalire a molto tempo prima di quella notte, addirittura anni prima. L'analisi, da parte di esperti in costruzioni navali americani, di un pezzo dello scafo recuperato dal fondale, ha infatti gettato un'ombra inquietante sui materiali utilizzati per costruire il «Titanic»: si sarebbe trattato di acciaio di bassa qualità. Un tipo di acciaio che si rompe assai più facilmente rispetto a quello di prima scelta se sottoposto al freddo intenso (come nel caso delle gelide acque del Nord Atlantico). La frattura di una sola di queste piastre si sarebbe facilmente propagata lungo l'intera superficie di piastre saldate, creando un'enorme falla. Altre navi passeggeri, costruite negli stessi cantieri con lo stesso tipo di acciaio del «Titanic», l'«Olympic» e il «Britannic», hanno subito proprio questo tipo di fratture allo scafo dopo un forte impatto, la prima con una nave da guerra, la seconda con un siluro tedesco. Secondo gli esperti, il «Titanic» forse non sarebbe affondato se avesse avuto uno scafo realizzato con acciaio di buona qualità, o comunque sarebbe affondato più lentamente salvando molte vite. Non tutti sono d'accordo: Ballard per esempio è sempre stato scettico sulla storia dell'enorme falla. Non è da escludere secondo il ricercatore che durante l'urto le piastre anziché squarciarsi e rompersi si siano proprio piegate, facendo saltare i rivetti che le fissavano e aprendo la strada all'acqua. Rimane ancora molto da capire su questa tragedia del mare. Nessuno in effetti ha mai verificato con certezza l'esistenza di una falla di 90 metri. Neppure Ballard è riuscito a scoprirlo: lo scafo infatti in quel punto è sommerso nella fanghiglia del fondale abissale. I passeggeri del «Titanic» forse non sono morti invano. L'anno seguente, nel 1913, una speciale Commissione Internazionale per la Sicurezza in Mare, sull'onda dell'emozione pubblica per l'affondamento del «Titanic», stabilì alcune fondamentali regole di navigazione. Una delle quali prevedeva e prevede tutt'oggi che ci sia qualcuno in ascolto radio 24 ore su 24 su ogni nave per ricevere eventuali SOS. Una misura che ha permesso di salvare migliaia di vite umane. Alberto Angela


INTERNET Un segreto militare? No, non più
AUTORE: MERCIAI SILVIO
ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA, COMUNICAZIONI
ORGANIZZAZIONI: INTERNET
LUOGHI: ITALIA

UN sacco di posta (grazie) per me e un mucchio di novità per voi. Le vostre lettere. L'apertura di una casella postale elettronica ha moltiplicato i messaggi. Sto rispondendo e vi prego di avere un po' di pazienza: intendo rispondere a tutti, ma mi devo organizzare. Ecco i criteri. Per quanto possibile riporterò in questa colonna le vostre richieste e le mie risposte (o quelle che voi stessi mi avrete proposto), cercando di riunirle per filoni comuni. Risponderò direttamente (via posta elettronica, possibilmente) a ogni altra questione specifica circa il senso della rubrica, che non mi riesca di inserire nello spazio della colonna. Non riporterò invece nessuna comunicazione che abbia o mi sembri avere un significato commerciale: so bene che Internet vive anche (e sempre più vivrà) grazie a informazioni pubblicitarie ma resto fedele allo spirito originale che bandiva la sollecitazione commerciale e inoltre ritengo che questo spazio sia così limitato da non consentire una adeguata «par condicio». Non risponderò neppure a quesiti su aspetti tecnici legati al funzionamento delle vostre macchine (computer, modem: è un compito che non posso rubare ai fornitori e ai negozi del settore, i requisiti minimi li ho indicati nel primo articolo) o delle vostre connessioni in rete (spetta ai provider). So bene di scontentare qualcuno; eventualmente fatemi sapere in che cosa non siete d'accordo. Ancora due cose: alcuni lettori chiedono la data del primo articolo di questa serie (era Tuttoscienze di mercoledì 25 gennaio) e altri mi suggeriscono di parlare delle Bbs; sto preparando del materiale, anche perché mi piacerebbe darvi insieme qualche indirizzo che vi serva da anticamera a Internet. I Provider. Hanno finora risposto al mio appello (in ordine di tempo): Agorà Roma e Milano - tel. 06/699. 1742 oppure 06/699.1743; CSP-Alpcom Torino - tel. 011/318.7407. Mailing List. Che poi sono delle specie di gruppi di interesse sugli argomenti più svariati; tutti quelli che si iscrivono possono scrivere quello che desiderano e ricevere automaticamente tutte le lettere via via indirizzate da tutti gli iscritti (attenzione: alcune liste sono molto attive e riceverete parecchie lettere al giorno!). Quella che vi segnalo oggi è dedicata (e pressoché riservata) alle donne che «hanno problemi o domande su tutta una serie di funzioni connesse a Internet». Il suggerimento viene da mia moglie che la trova molto utile e simpatica. Mandate un messaggio a majordomobe st.com e nel corpo della lettera scrivete: subscribe internet- women-help. Indirizzi. Tre, molto diversi: l'Almanacco Astronomico, in italiano: http://www.bo.a stro.it/dip/ Pigi/Almana c95/AlmaHome.html le prime foto, un tempo top secret, prese dai satelliti dei servizi segreti americani, rese pubbliche da un recente atto del presidente Clinton: http://edcwww.cr.usgs.gov/ dclass/dclass.html se volete mandare una lettera (elettronica) galante al vostro/a amato/a, chiedete l'aiuto di Cyrano (lo ammetto, l'8 marzo, Festa della donna, ha contagiato anche questa rubrica): http://www.nando. net/toys/ cyrano.html Software. Un programma utilissimo da procurarvi (la prossima volta vi spiegherò meglio perché) è Wircode che potete prelevare così: ftp://ftp.cica.indiana.edu/ pub /pc/win3/util/wncode26.zip Una pagina da Internet. «Penso che a questo punto le elezioni servano solo per verificare se i sondaggi erano giusti». Un attimo: viene dagli Stati Uniti (Son of Encyclopedia of Humor, by Joey Adams, 1970) ed è una delle tante battute che una mailing list mi manda giornalmente (vi darò poi l'indirizzo). Silvio A. Merciai


LA MORTE DI CYRIL PONNAMPERUMA Un esploratore del «brodo primordiale» Cercò di riprodurre l'ambiente che diede origine alle prime creature
AUTORE: BATALLI COSMOVICI CRISTIANO
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, BIOLOGIA, CHIMICA, MORTE
PERSONE: PONNAMPERUMA CYRIL
NOMI: CALVIN MELVIN, UREY HAROLD, MILLER STANLEY, FOX SIDNEY, PONNAMPERUMA CYRIL
LUOGHI: ITALIA

IN Italia è passata quasi inosservata la notizia della morte, il 21 dicembre scorso, all'età di 71 anni, di Cyril Ponnamperuma, biochimico di fama mondiale che dedicò tutto il suo talento scientifico allo studio sperimentale dell'origine della vita. Nato nello Sri Lanka, Ponnamperuma studiò dapprima chimica presso l'Università di Londra con Bernal, uno dei primi scienziati a occuparsi di problemi prebiotici. In seguito, all'Università di Berkeley, Ponnamperuma divenne il pupillo del premio Nobel per la chimica Melvin Calvin, con il quale ottenne il dottorato di ricerca con tesi concernente la sintesi dei «mattoni» fondamentali che sono alla base dell'evoluzione prebiotica. Ha quindi lavorato presso la Nasa studiando gli aminoacidi ritrovati nei meteoriti di Murchinson e di Allende. Le sue ricerche si sono poi orientate agli originali esperimenti di Harold Urey e Stanley Miller i quali negli Anni 50 riuscirono a sintetizzare degli aminoacidi per mezzo di scariche elettriche su soluzioni liquide di composti contenenti i cosiddetti atomi biogenici: carbonio, idrogeno, azoto e ossigeno simulando in un certo senso l'atmosfera terrestre primordiale. All'Università di Miami ha quindi collaborato con Sidney Fox a ricerche sul surriscaldamento di aminoacidi. Si osservò in quell'occasione che gli aminoacidi surriscaldati e poi raffreddati formavano sferette con un comportamento chimico simile a quello delle proteine. Ponnamperuma ha preso in seria considerazione anche l'ipotesi che la vita abbia avuto origine in nicchie ecologiche surriscaldate nelle profondità marine. Negli Anni 60 Cyril fu sempre più attratto dagli studi che la Nasa stava lanciando nel campo dell'esobiologia, la scienza che considerava anche le influenze extraterrestri nello sviluppo della vita sul nostro pianeta e che era stata promossa anche in Russia per merito di Oparin, con il quale collaborò. Ponnamperuma fu anche un buon organizzatore: fondò la Società internazionale per lo studio dell'origine della vita (Issol) e creò la Fondazione del Terzo Mondo con la realizzazione nel suo Paese natale di laboratori di ricerca che rispecchiavano quelli da lui diretti in America. Infatti nel 1971 si era definitivamente stabilito presso l'Università del Maryland, dove aveva fondato il famoso Laboratorio per l'evoluzione chimica. Numerosi i premi e le onorificenze internazionali durante la sua brillantissima carriera. Due mesi prima della sua scomparsa era stato nominato membro dell'Accademia Pontificia. Aveva organizzato a Trieste, presso il Centro Internazionale di Fisica teorica diretto dal premio Nobel Abdus Salam, la Conferenza annuale sull'Evoluzione chimica e l'origine della vita; fu proprio in questa occasione, nell'ottobre 1993, che ebbi l'onore di conoscerlo, essendo stato invitato a parlare dell'importanza delle comete per lo sviluppo della vita nei vari sistemi planetari della galassia. Conservatore circa l'origine autoctona della vita sul nostro pianeta, era però molto interessato ai nuovi risultati acquisiti sulla cometa di Halley concernenti la scoperta di complesse molecole organiche evaporate dal nucleo della cometa stessa. Quando gli illustrai il progetto italiano di bioastronomia (la scienza che studia non solo l'origine, ma anche l'evoluzione e l'espansione della vita nell'universo) e le difficoltà che incontravamo in Italia per finanziare tale progetto, ne rimase così entusiasta che volle scrivere personalmente una lettera al presidente del Cnr e ai presidenti dei comitati per le scienze fisiche, chimiche, biologiche e geologiche con le seguenti parole: «...poiché questo programma, che prevede la partecipazione di una trentina di gruppi fisici, chimici, biologi e geologi sarebbe unico nel suo genere in Europa e di grande importanza per la collaborazione internazionale con i nostri gruppi che lavorano in Usa e altrove, desideriamo appoggiarlo fortemente. Siamo sicuri che il Cnr e la comunità scientifica beneficerà di questa iniziativa e della cooperazione internazionale in un campo fondamentale di ricerca scientifica...». Speriamo che questa lettera possa essere di buon augurio affinché il progetto strategico nazionale possa finalmente decollare presso il Cnr e fornire così un entusiasmante lavoro interdisciplinare a intere generazioni di ricercatori italiani. Cristiano B. Cosmovici Istituto di Fisica dello spazio, Cnr


SPUGNA CARNIVORA Io non bevo, mangio! Anomala dieta a base di gamberetti
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

INGRANDITO cento volte potrebbe essere un mostro degli abissi partorito dalla fantasia cinematografica di Spielberg. Invece è un animale vero, anche se di soli quindici millimetri, ancorato al fondo marino con un lungo peduncolo e sormontato da un ciuffo di lunghi sottili filamenti coperti di uncini, che formano una superficie adesiva su cui rimangono intrappolate le prede. Abita a pochi passi da casa nostra, in una grotta del Mediterraneo, e, assolutamente fuori dagli schemi della zoologia classica, è una spugna carnivora. Questa dieta va messa in relazione alla povertà di sostanze nutrienti dell'ambiente in cui vive: l'animale infatti è stato trovato in una grotta sottomarina posta a 18 metri di profondità ma che, per una serie di fattori - la bassa temperatura dell'acqua, la scarsa quantità di nutrienti e la mancanza di luce - simula le condizioni del Mediterraneo più profondo. La scoperta della spugna carnivora suggerisce che l'adattamento alle condizioni estreme degli abissi marini comporti l'evoluzione di strutture così particolari che gli organismi portatori di tali adattamenti sono in un certo senso deviati dalla norma; non senza sollevare la provocatoria questione di che valore dare alla norma degli zoologi. Senza organi deputati a una specifica funzione, le spugne sono considerate i più semplici animali formati da più cellule. Immaginate un sacchetto ancorato sul fondo e aperto all'altra estremità, con le pareti sforacchiate come una fetta di gruviera da una serie di aperture. Completate il tutto con un motorino che imprima movimento all'acqua e avrete un'idea di che cos'è una spugna: la parete interna del sacchetto è coperta da uno strato di cellule speciali, chiamate coanociti, provviste di un flagello contornato da un colletto, per cui il movimento sincrono dei flagelli in una stessa direzione imprime movimento all'acqua, che entra dai pori laterali ed esce dall'apertura superiore. Una struttura efficiente perché l'animale, privo di stomaco, possa nutrirsi seguendo la strategia di filtrare l'acqua di mare assorbendone le particelle in sospensione. L'organizzazione corporea a sacchetto sforacchiato e completo di coanociti finora era per gli zoologi la condizione necessaria e sufficiente perché un animale fosse considerato una spugna; ma questa spugna con forma a fiore e insolite abitudini carnivore non ha niente di tutto ciò, nè i coanociti, nè le aperture per il passaggio dell'acqua, per cui potete immaginare l'imbarazzo di chi si occupa di tassonomia, la difficile scienza del classificare gli esseri viventi. Non senza notevoli perplessità alla fine è stata assegnata alle Demosponge, famiglia delle Cladorhizidae, genere Abse stopluma; spugne tipiche degli abissi in cui il genere Absesto pluma detiene il record di profondità con 8840 metri. Ma l'assenza sia di aperture per il passaggio dell'acqua sia delle cellule speciali che le imprimono movimento ha fatto sorgere la domanda di come Absesto pluma assolva le sue necessità alimentari, visto che non ha la possibilità di filtrare l'acqua come una normale spugna. L'osservazione di alcuni esemplari mediante il microscopio elettronico a scansione, che permette una visione tridimensionale dell'oggetto osservato, ha svelato l'arcano: le cellule superficiali dei filamenti digeriscono lentamente microscopici gamberetti rimasti imbrigliati negli uncini. Se pensate che le spicole uncinate coprono la superficie dei filamenti rendendola ruvida come un velcro, potete capire come un'innocua spugna si trasformi in un predatore: i filamenti mossi passivamente dall'acqua sono una trappola per i piccolissimi crostacei - inferiori al millimetro - che nuotano nelle sue vicinanze. Catturato dalla superficie adesiva, il gamberetto non è più in grado di liberarsi, e intanto le cellule superficiali del filamento stabiliscono in un'ora uno stretto contatto con la preda. Mentre il gamberetto continua a dimenarsi per ore, segno evidente che non viene ucciso con un veleno, la struttura del filamento che l'ha catturato cambia: con una intensa migrazione di cellule nella zona, nuovi sottili filamenti crescono intorno alla preda avvolgendola completamente nel giro di un giorno. Poco alla volta il filamento diventa più corto e più spesso, e se più prede e più filamenti vengono coinvolti nello stesso periodo, il corpo della spugna subisce una completa trasformazione mentre assorbe per fagocitosi, lentamente, le prede vive. Come vedete, Absestopluma potrebbe degnamente essere protagonista di un film di fantascienza. Maria Luisa Bozzi


DILUVI & DISSESTI Langhe, figlie delle frane Un suolo instabile, ma prevedibile
Autore: BIANCOTTI AUGUSTO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Morfologia del suolo delle Langhe

BASTA osservare una carta geografica per capire che gatta ci cova. Le grandi strade e le ferrovie evitano accuratamente le alture delle Langhe, così duramente provate dall'alluvione di novembre: ingegneri e progettisti preferiscono disegnare percorsi alternativi, più lunghi, che le costeggiano infilandosi nella valle Scrivia o nella valle Tanaro. I dossi degradanti sono rischiosi perché affetti da franosità endemica. A Rocca Cigliè, in val Tanaro, il versante è in movimento da decenni, come pure a Paroldo. Il 13 marzo 1972 a Somano, in valle Rea, bastò una breve nevicata per appesantire il terreno e farne rovinare a valle un fettone vasto due chilometri quadrati, con i lutti e le rovine che tali accadimenti portano con sè. Le cause dell'attitudine al dissesto sono di tipo geologico e idrologico. Tutto il distretto collinare è costituito da bancate di roccia fra loro parallele, impilate ordinatamente l'una sull'altra, con pendenza verso Nord-Ovest, dall'arco alpino-appenninico verso la Pianura Padana. Questa struttura che prende il nome di «monoclinale» è incisa dal fiume Belbo, dalla Bormida di Millesimo, di Spigno e dagli altri corsi che drenano il territorio. Il reticolo idrografico ha scavato con l'erosione la monoclinale, creando valli che sistematicamente sono formate da due versanti asimmetrici e con caratteristiche geotecniche profondamente dissimili. Uno di essi è fatto da strati inclinati nello stesso senso del pendio, che si immergono verso il fondovalle: è il versante a franapoggio; nell'altro la stratificazione ha verso opposto, con le bancate disposte quasi a perpendicolo rispetto alla superficie del versante, che si radicano saldamente in profondità: è il versante a reggipoggio. Le rocce non sono omogenee: a strati di pietra arenaria dura e porosa sovente se ne alternano ritmicamente altri di pietra marnosa, poco permeabile e plastica quand'è bagnata. Le precipitazioni si infiltrano attraverso l'arenaria, ma non riescono a penetrare nei livelli marnosi. Il liquido percola lungo il piano di contatto fra le rocce diverse disponendosi in un velo sottile e insidioso. Sul versante a franapoggio - e il suo stesso nome la dice lunga - la superficie resa madida diventa un vero e proprio scivolo, la coesione fra gli strati si riduce fino a determinarne lo scollamento: allora tutto il «pacchetto» di roccia soprastante il livello di distacco scende improvviso verso valle in una grande frana di scivolamento che può dissestare in un colpo solo decine di ettari. Il versante a reggipoggio non è così stabile come parrebbe assicurare il nome pretenzioso. Alla base è insidiato dalla corrente dei fiumi in erosione, che lo scalzano: venendo a mancare il sostegno dal basso, la parte soprastante è afflitta da crolli continui. Il paesaggio ridente delle Langhe è figlio delle frane, che lo hanno letteralmente scolpito con la loro azione millenaria. Quelle di scivolamento piallano i versanti a franapoggio, li rendono via via più dolci, a volte li modellano in maestose scalinate dove ciascuno dei gradini altro non è che l'antica parete, o nicchia di distacco di una frana. I crolli sui pendii a reggipetto invece ne aumentano progressivamente la ripidità, fino a trasformarli a volte in pareti quasi verticali. L'ambiente fisico dunque è instabile, ma non è ostico nè traditore: il meccanismo dei movimenti di massa è ben noto, e prevedibile. Il rischio cresce e sfocia nel disastro quando l'uomo non si adatta all'evoluzione naturale, la dimentica o vi si oppone. Non occorre nessun esame particolarmente rigoroso per constatare come la massima parte dei danni a novembre abbia colpito opere costruite in deroga alle leggi fisiche che regolano quel territorio, mentre manufatti antichi e fragili, ma posti nel sito adatto, sono rimasti indenni. Nella ricostruzione che è oggi in atto, piuttosto che pensare a imprese faraoniche e costose, che entrino in contrasto con i georitmi dell'ambiente per risultarne puntualmente distrutte al prossimo temporale, proviamo ad accettare le limitazioni di quello spazio, ad adattarci ai suoi problemi invece di crearne dei nuovi. Forse i due termini di «pioggia» e di «dissesto» non dovranno più essere coniugati insieme. Augusto Biancotti Università di Torino


A PAVIA Distrofie identificato nuovo gene
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: TONIOLO DANIELA, BALLABIO ANDREA
LUOGHI: ITALIA

AMPIO è il capitolo delle «distrofie muscolari», un gruppo di malattie caratterizzate dalla progressiva degenerazione della muscolatura. La più grave è la distrofia di Duchenne, altre sono distinte con nomi diversi, per esempio Landouzy- Dejerine, Erb, Steinert. La maggior parte è ereditaria, con modalità diverse. Classica a questo proposito è la Duchenne, trasmessa da madre portatrice del difetto genetico ai figli maschi: l'anomalia genetica è nel cromosoma X. Giunge ora notizia dell'identificazione del gene della distrofia di Emery-Dreifuss. Questi due medici la osservarono nel 1960 in una famiglia nello Stato della Virginia. Anch'essa dipende chiaramente dal cromosoma X, ma è meno grave della Duchenne. Sono colpiti i muscoli degli arti superiori con evidenti contratture in corrispondenza del gomito. Successive osservazioni in altre famiglie dimostrarono che queste lesioni muscolari si accompagnavano a difetti della trasmissione degli stimoli cardiaci, con pericolo di arresto del cuore. Nel 1980 il gene interessato nella Emery-Dreifuss venne localizzato nell'estremità del braccio lungo del cromosoma X, ma soltanto ora è stato individuato. Il merito è di una ricercatrice italiana, Daniela Toniolo dell'Istituto di genetica biochimica ed evoluzionistica del Cnr di Pavia, come annunciato nel volume 8, dicembre 1994, di Nature Genetics. La Toniolo, col suo gruppo di collaboratori, descrive le caratteristiche del gene situato nella zona «q28» dell'X, identificato fra otto sospettati. Il gene codifica la produzione d'una proteina, la emerina, formata da 254 aminoacidi, la cui funzione non è ancora chiarita ma che ha analogie con la timopoietina bovina, un peptide isolato vent'anni or sono, noto per essere in rapporto con la trasmissione neuro-muscolare. La emerina potrebbe appunto essere la trasmettitrice del segnale di contrazione del muscolo, la sua mancanza porterebbe alla distrofia. Va ricordata a questo proposito la Fondazione Telethon, poiché grazie ad essa sono in corso 372 progetti di ricerca sulle distrofie muscolari ed altre malattie genetiche. E' sorto a Milano l'Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) diretto da Andrea Ballabio. Nel Tigem sono impegnati 40 ricercatori, 12 dei quali rientrati dagli Usa, dove svolgevano ricerche di alto livello. Ulrico di Aichelburg


MALATTIE NEUROLOGICHE Un pacemaker nel cervello Riesce a contenere il tremore nei malati di Parkinson
Autore: ALBANESE ALBERTO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

E' noto da tempo che l'impianto di stimolatori (pacemaker) può fornire al cuore gli stimoli elettrici di solito generati automaticamente al suo interno. L'uso di stimolatori cardiaci è oggi ben conosciuto dal grande pubblico; molto meno conosciuta è, invece, la possibilità di curare alcune malattie mediante la stimolazione di strutture profonde del cervello. Al pari di un computer o, più semplicemente, di un televisore, il nostro cervello è composto da diverse «schede». La maggior parte delle malattie neurologiche è causata dalla disfunzione di una o più «schede» contenute nel sistema nervoso. A differenza della televisione che abbiamo a casa, il nostro cervello non può essere riparato semplicemente con la sostituzione di una o più «schede». Vi sono molte ragioni per cui un approccio ingegneristico di questo tipo non è realizzabile. In primo luogo, i centri anatomo-funzionali («le schede» del nostro sistema nervoso) non sono chiaramente distaccati l'uno dall'altro; inoltre, non esiste attualmente la possibilità di costruire all'esterno del nostro organismo «schede» anatomo-funzionali da porre in sostituzione dei centri mal funzionanti. L'idea di innestare tessuto autologo o eterologo (i cosiddetti «trapianti cerebrali») rappresenta la punta sperimentale più avanzata di tale approccio ideale. I trapianti cerebrali non hanno finora dato risultati univoci in clinica e pongono numerosi problemi di carattere scientifico ed etico. Anche la stimolazione profonda dei centri nervosi si basa sul principio ingegneristico di intervenire sulle «schede» mal funzionanti. In questo caso, però, l'intervento viene effettuato mediante una apparecchiatura esterna collegata, con un filo elettrico molto sottile, ad un elettrodo (in pratica, un contatto elettrico), che a sua volta viene localizzato in maniera molto precisa nella profondità del cervello. Proprio come nel caso del pacemaker cardiaco, lo stimolatore cerebrale è posizionato al di sotto della pelle, generalmente al di sopra del petto; il filo elettrico corre sotto la pelle del collo, dietro l'orecchio, e raggiunge la sommità del cranio. L'elettrodo attraversa l'osso della scatola cranica (è necessario un foro molto piccolo che viene poi cementato) e raggiunge la profondità del cervello, che stimola con la sua punta. L'attività elettrica, di bassissimo voltaggio, applicata dallo stimolatore modifica il funzionamento di alcuni centri nervosi. L'effetto ottenuto è normalmente quello di inibire i centri stimolati, poiché l'attività elettrica esterna altera il funzionamento naturale delle cellule nervose nella zona stimolata. E' possibile inibire le vie che conducono il dolore nei soggetti in cui questo sia molto intenso. Il principale sviluppo della stimolazione cerebrale profonda è legato, però, alla possibilità di migliorare le condizioni motorie nei malati parkinsoniani. Una prima possibilità è quella di controllare il tremore attraverso l'inibizione elettrica dei centri del tremore localizzati nel talamo. In questo modo il tremore dei malati di Parkinson si riduce dal lato opposto da quello stimolato; sarà necessario posizionare due elettrodi, uno a destra e l'altro a sinistra, per controllare il tremore da entrambi i lati. Una possibilità verificata più di recente consiste nella riduzione della acinesia (l'impossibilità a iniziare i movimenti, tipica della malattia di Parkinson) mediante la stimolazione profonda del globo pallido o del nucleo subtalamico. In questa direzione sono stati effettuati soltanto alcuni trattamenti pilota, che sembrano molto promettenti. La stimolazione cerebrale profonda costituisce un trattamento ben tollerato, reversibile e controllabile dall'esterno. In primo luogo, gli stimolatori possono essere programmati dall'esterno, al fine di variare i parametri della stimolazione. Inoltre i pazienti possono accendere e spegnere lo stimolatore in modo autonomo mediante l'uso di un magnete. Infine, nel caso in cui il trattamento non sia soddisfacente o dia adito a effetti collaterali, è possibile estrarre l'elettrodo, il filo e lo stimolatore in modo da ripristinare le condizioni esistenti in precedenza. I portatori di stimolatori debbono sottostare alle cautele già note ai portatori di pacemaker cardiaco: non potranno attraversare liberamente i metal detector presenti negli aeroporti e nelle banche e soprattutto non potranno essere sottoposti ad esami radiologici che comportino l'uso di campi magnetici (ad esempio, la risonanza magnetica nucleare), tranne che con particolari cautele. L'uso di stimolatori profondi dell'encefalo rappresenta un nuovo approccio di tipo ingegneristico per le malattie neurologiche. Attualmente questa terapia permette di ottenere soltanto una inattivazione selettiva di alcuni centri cerebrali che si rivela utile in casi selezionati. Certamente, in futuro sarà possibile impiantare strumenti più sofisticati, che permetteranno di modulare in modo più fine l'attività delle celleule nervose nel cervello e consentiranno di interagire in modo complesso con le funzioni del sistema nervoso. Alberto Albanese Università cattolica del Sacro Cuore, Roma


DURATA DEL GIORNO Quelle mattine con il Sole pigro
Autore: FERRERI WALTER

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

MENTRE si avvicina l'equinozio di primavera, un lettore ci domanda come mai, in dicembre, dopo il solstizio invernale, il sorgere del Sole continui a ritardare benché le giornate tornino ad allungarsi. Vediamo di spiegarlo. I due principali moti della Terra, quello di rivoluzione intorno al Sole e quello di rotazione intorno al proprio asse, ci sono noti dagli studi elementari. Tutti sappiamo che un giro completo intorno al Sole definisce l'anno, mentre l'altra rotazione dà luogo al «giorno», diviso in 24 ore. L'anno preso come riferimento per gli scopi civili è quello «tropico», definito come il tempo impiegato dal Sole a tornare all'equinozio di primavera o punto vernale (da Ver, primavera). L'anno tropico è uguale a 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46 secondi. Da esso dipendono le stagioni: tutti i calendari si fondano dunque sull'anno tropico. Ma in realtà il vero tempo che la Terra impiega a compiere una rivoluzione intorno al Sole è dato dall'anno sidereo, definito come il tempo che il Sole impiega a tornare in congiunzione con una medesima stella priva di apprezzabile moto proprio. L'anno sidereo è uguale a 365 giorni, 6 ore, 9 minuti e 9,5 secondi. Per definizione il giorno, il periodo di tempo che il Sole impiega a transitare nella stessa direzione a Sud dell'osservatore, è diviso in 24 parti uguali. Ma la nostra Terra impiega un po' meno di 24 ore a fare un giro su se stessa. Infatti, per il suo spostamento lungo l'orbita, il nostro pianeta deve ruotare di un angolo supplementare (circa un grado) per ritrovarsi il Sole nella posizione del giorno precedente. Il vero periodo di tempo per una rotazione intorno al suo asse è detto giorno siderale e dura 23 ore, 56 minuti e 4 secondi. Spesso l'ambiguo vocabolo «giorno» viene inteso come periodo di tempo in cui il Sole è sopra l'orizzonte, cioè del «dì» . Per le nostre latitudini questo periodo varia notevolmente a seconda della stagione. Abbiamo già visto in un precedente articolo (La Stampa, 2 novembre 1994) l'entità di tali variazioni per diverse latitudini. Il massimo del tempo di luce per l'emisfero settentrionale si ha al solstizio d'estate; il minimo al solstizio d'inverno. Come è facile prevedere, dal giorno seguente al solstizio d'estate il Sole dovrebbe sorgere sempre più tardi e tramontare sempre prima; viceversa dal giorno seguente al solstizio d'inverno. Però non tutto si svolge proprio come si sarebbe portati a credere. Ad esempio, intorno al periodo dell'ultimo solstizio, quello del 22 dicembre scorso, il Sole ha iniziato a tramontare più tardi già dal 14 dicembre e ha continuato a ritardare fino addirittura al 2-3 gennaio. Se si fanno i conti, considerando anche i secondi, si trova che effettivamente il 22 è stato il giorno con la minore quantità di tempo con il Sole sopra l'orizzonte, ma la cosa non si verifica in modo simmetrico. La spiegazione sta nel fatto che la Terra compie un'orbita non circolare ma ellittica. Nel percorrerla, il nostro pianeta non si muove di velocità uniforme, ma procede più velocemente nei pressi del perielio e più lentamente all'afelio, come indicò Keplero già quasi 4 secoli fa. La velocità di rotazione intorno all'asse, invece, rimane costante. Ne segue che intorno al solstizio d'inverno, che si verifica solo pochi giorni prima del perielio, la Terra in un giorno avanza di più lungo la sua orbita e quindi percorre un angolo un po' più grande di circonferenza. Di conseguenza essa deve fare un po' più di un giro per ritrovarsi il Sole in una data posizione, ad esempio all'orizzonte. Discorso analogo vale per il tramonto. La stessa cosa, ma all'inverso, avviene al solstizio d'estate, quando la Terra si trova in prossimità del suo afelio e quindi «avanza» un po' meno lungo la sua orbita. All'inizio dell'estate questa apparente anomalia è però meno vistosa poiché qui la differenza rispetto al moto medio è più contenuta. Walter Ferreri


STRIZZACERVELLO Giocare con 100
ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA

Dividete 100 in quattro parti tali che aggiungendo 4 alla prima parte, togliendo 4 alla seconda, moltiplicando la terza per 4 e dividendo la quarta per 4, si ottenga sempre lo stesso numero. Scrivete 100 con cinque 5 oppure con sei 6, usando solo le quattro operazioni fondamentali dell'aritmetica. Allo stesso modo scrivere 100 con otto 8 oppure con quattro 9. Le soluzioni domani, accanto alle previsioni del tempo.


LA PAROLA AI LETTORI Le nubi non sono gas ma goccioline d'acqua
LUOGHI: ITALIA

Le nuvole sono allo stato liquido o gassoso? Premesso che nell'aria è sempre presente acqua allo stato aeriforme, cioè vapore, possiamo definire una nube come un aggregato di goccioline d'acqua, del diametro di circa 1/100 di millimetro, che si forma per condensazione in seguito a raffreddamento del vapor d'acqua intorno a nuclei di condensazione costituiti da pulviscolo, prodotti di combustione, ioni. Come avviene il raffreddamento? L'aria calda e umida, innalzandosi dal suolo, viene a trovarsi in condizioni di più bassa pressione e quindi si espande. Essendo questa espansione adiabatica, si ha un raffreddamento. Se l'aria di raffredda fino al punto di rugiada, ha luogo la condensazione e la conseguente formazione delle nuvole. Anche la nebbia è una nube, che però si forma a livello del suolo per raffreddamento dell'aria umida a contatto con superfici fredde di terra e di acqua. L'aria perde calore e, se rag- giunge il punto di rugiada, si verificherà la condensazione del vapore acqueo e si avrà la nebbia. In conclusione si può quindi dire che le nuvole sono allo stato liquido. IT, Liceo Scientifico «G.Marconi», Parma Perché le palle di gomma rim balzano? Un elastico, se viene tirato, si estende ma appena lo si lascia andare ritorna immediatamente alla sua forma originale. Una palla di gomma è come un elastico al contrario: quando colpisce il terreno si comprime, ma subito dopo tende a riprendere la propria forma originale; espandendosi. Così facendo, esercita sul terreno una pressione che la spinge in su. Una palla di gomma rimbalza perché è elastica. Quando la gomma viene tesa o schiacciata e poi lasciata andare, riacquista subito la forma iniziale. Ciò è dovuto alla forza d'attrazione reciproca che tiene unite le sue molecole. Queste mantengono costantemente fra di loro una determinata distanza. Se vengono avvicinate, come accade quando la gomma viene compressa, la forza che agisce fra le molecole le fa ritornare al loro posto non appena cessa la causa della deformazione. Niccolò Lucchini, Biella Ogni corpo, cadendo sul suolo, riceve da esso una spinta (reazione) dal basso verso l'alto, uguale alla forza viva posseduta al momento dell'impatto. L'energia che ne deriva o viene dissipata nella disgregazione del corpo caduto oppure, se esso è elastico come la palla di gomma, viene accumulata e restituita nei rimbalzi, durante i quali si dissipa degradando in calore per via degli attriti interni e con l'atmosfera. Tommaso Marguglio, Palermo Nell'evoluzione vengono prima i virus o i batteri? I virus hanno una struttura molto semplice che non consente lo- ro di riprodursi autonomamente: per farlo devono sfruttare gli organuli di una cellula di un altro organismo. Vista la semplice organizzazione dei virus, cui si contrappone quella già più complessa dei batteri, alcuni studiosi ritengono che i virus siano antecedenti ai batteri. Cristina Torrero S. Vittoria d'Alba (CN) I batteri, a differenza dei virus, entità subcellulari, sono costituiti da una sola cellula, che è l'unità fondamentale della materia vivente. I batteri vivono e si riproducono pur essendo unicellulari. Essi sono un esempio della prima vita cellulare organizzatasi sul nostro pianeta. Paola Truzzi, Mantova Che cos'è il Doldrum? E dove si trova? I Doldrum sono regioni di bonaccia, dove si incontrano venti molto leggeri. Si trovano nelle zone equatoriali, specialmente sugli oceani. Ai tempi della navigazione a vela i Doldrum erano il più possibile evitati dai naviganti, che temevano di essere bloccati per giorni e giorni in zone di aria calda e umida, consumando così preziosa acqua potabile. Giulia Buffa, Alessandria La parola Doldrum significa «umore triste» e indica la zona delle calme equatoriali, dove gli antichi velieri rimanevano immobili per settimane, con grande scoramento dei marinai. E' provocata dalla convergenza degli alisei degli opposti emisferi verso l'Equatore, che dà origine alla formazione di correnti d'aria ascendenti. Antonello e Luca Livrieri Torino


CHI SA RISPONDERE?
LUOGHI: ITALIA

Q Esiste una regola che consenta di contare progressivamente - di mettere cioè in relazione univoca con i numeri naturali - tutti i numeri decimali? Q Per quale meccanismo, nei quadri tridimensionali, un'immagine ne cela una seconda? E come si fa a scorgere quest'ultima? Q Quante api vivono in un alveare? ______ Risposte a «La Stampa-Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure al fax 011-65.68.688


CASSETTA DIGITALE Voci fedelissime Alta compressione dei dati
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Schema di una cassetta digitale (Dcc)

LA cassetta digitale, in codice Dcc, arrivata sul mercato un paio di anni fa, ha lo stesso formato di quella analogica nata negli Anni 60 ed è compatibile con i lettori e i registratori tradizionali, in quanto il nastro magnetico ha la stessa altezza e scorre alla stessa velocità. Ottenere questa compatibilità non è stato facile. Su un esiguo spazio di nastro (altezza 3,7 millimetri, velocità 4,75 centimetri al secondo) si è dovuto concentrare un numero enorme di informazioni elementari (bit) corrispondenti alla traduzione del suono in cifre binarie. In pratica, con una enorme compressione dei dati, si è ridotta l'informazione del 75 per cento: da un milione e 536 mila byte al secondo (un byte = 8 bit) ad appena 384 mila byte. Il processo si chiama PASC (codifica di precisione adattiva a sotto bande): grazie a esso, vengono eliminati tutti i segnali al di sotto della soglia di udibilità e tutti i segnali «mascherati», cioè sovrastati da segnali simili in frequenza ma di maggiore intensità. Questi tagli, secondo le teorie psicoacustiche, non sono avvertibili dall'orecchio umano e quindi non abbassano la fedeltà della riproduzione sonora.




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