TUTTOSCIENZE 11 gennaio 95


CENT'ANNI DI PNEUMATICI ARIA UNA PAZZA IDEA VINCENTE E gli scettici bucavano le gomme per vedere che cosa c'era dentro
AUTORE: RAVIZZA VITTORIO
ARGOMENTI: TECNOLOGIA, TRASPORTI, STORIA DELLA SCIENZA
NOMI: MICHELIN ANDRE', MICHELIN EDOUARD, THOMSON ROBERT, DUNLOP JOHN BOYD, MOTE SIDNEY CHARLES, RAIMONDI GIUSEPPE
LUOGHI: ITALIA

LA corsa automobilistica Parigi-Bordeaux- Parigi del 1895 fu per l'automobile un evento decisivo. La «vettura senza cavalli» circolava ormai da vent'anni, ma la sua diffusione restava limitata (in tutta la Francia, ad esempio, ne esistevano appena 1500 esemplari). In quella corsa, però, scese in gara una vettura rivoluzionaria; si chiamava «Eclair», lampo, era stata costruita da Andrè ed Edouard Michelin ed era l'unica dotata di pneumatici. La corsa dell'Eclair è rocambolesca, con rotture di vario tipo e due forature, ma nonostante tutto arriva al traguardo nel tempo massimo di cento ore. «Entro dieci anni tutte le automobili avranno i pneumatici» proclamano entusiasti i fratelli Michelin. Ma si sbagliano: di anni, ne basteranno due. Si può quasi dire che sono stati i pneumatici a salvare l'automobile. Fino a quel momento, viaggiare su ruote di ferro o di gomma piena su strade disseminate di buche e di sassi era una tortura, le vetture dovevano essere sovradimensionate (e quindi pesanti) per resistere alle sollecitazioni e la velocità non superava i trenta chilometri l'ora. Erano state tentate varie soluzioni, compresa quella della ruota elastica - in pratica, un cerchione di ferro rivestito di gomma piena e sorretto, anziché da raggi, da un sistema di molle - ma con risultati scoraggianti. La prima idea del pneumatico venne a Robert W. Thomson, un ingegnere ferroviario scozzese che nel dicembre del 1845 brevettò una «ruota aerea» che doveva servire per i vagoni ferroviari: un tubo costruito con vari strati di tela ricoperti con gomma naturale, vulcanizzato e rivestito di cuoio; all'interno, nove tubicini più piccoli gonfiati con aria. Ma il peso dei vagoni era eccessivo e l'esperimento si arenò. Ci riprovò molti anni dopo un altro scozzese, John Boyd Dunlop, veterinario, per attenuare gli scossoni del calesse con il quale girava per le campagne. Il risultato fu un tubo di gomma rivestito di tela, gonfiabile per mezzo di una valvola, legato sul bordo della ruota da una spirale di strisce di tela gommata che fasciavano sia il pneumatico sia il cerchione. Il pneumatico di Dunlop, brevettato nel 1888, ebbe un certo successo tra i primi ciclisti. Andrè ed Edouard Michelin arrivano sulla scena nel 1891 e la loro idea di pneumatico è quella vincente, che sostanzialmente funziona ancora oggi: la camera d'aria di gomma gonfiata attraverso una valvola, il copertone separato di tela gommata che si inserisce per mezzo di due «talloni» sul cerchione; si cambia in pochi minuti e va benissimo per le biciclette. Poi i Michelin passano ai pneumatici per le carrozze e infine, nel 1895, si lanciano nell'avventura dell'Eclair. Tra la fine del secolo e l'inizio del nuovo nascono alcune delle maggiori industrie di pneumatici (insieme con le maggiori industrie di automobili): nel 1894 la Pirelli produce il primo pneumatico per bicicletta di concezione moderna e nel 1906 presenta i primi pneumatici per auto; nel 1899 una vettura elettrica con pneumatici Michelin, la «Jamais Contente» (mai contenta) dalla curiosa forma a siluro, supera per la prima volta i 100 chilometri orari. Il pneumatico era una brillante soluzione a un vecchio problema, ma la sua affermazione non fu senza contrasti. L'idea che l'aria, un elemento invisibile e impalpabile, potesse essere utilizzata per sostenere pesi e sforzi notevoli come quelli di una vettura in corsa, era così difficile da concepire che all'inizio c'era chi bucava le gomme delle automobili per vedere che cosa realmente ci fosse dentro. D'altra parte i produttori di ruote tradizionali tentavano di difendersi in tutti i modi. Ecco il manifesto pubblicitario di un fabbricante di ruote elastiche dei primi del secolo: «Guidatori! Gli incidenti di auto così frequenti e spesso mortali sono provocati dallo scoppio dei pneumatici; IL PNEUMATICO E' LA MORTE». I Michelin, all'avanguardia tecnologica ma anche nella comunicazione, per far provare le virtù del pneumatico ricorrono alle dimostrazioni pratiche: al Palais de l'Industrie di Parigi nel 1895 allestiscono una pista circolare, una sorta di giostra con il fondo costellato di buche e rilievi sulla quale si rincorrono due carrozzelle, una montata su ruote metalliche l'altra su gomme. I visitatori sono invitati a provare la differenza. Nell'idea dei Michelin c'erano già tutti gli elementi dei pneumatici moderni, eppure da quel 1895 le innovazioni su questo oggetto, all'apparenza semplice ma in realtà sempre più complesso a mano a mano che aumentavano le prestazioni delle auto, non sono mai cessate, come si può constatare visitando la sala storica del pneumatico al Museo dell'automobile di Torino allestita dall'architetto Giuseppe Raimondi, che ora all'argomento ha anche dedicato un libro, «Pneumatici», edito da Fabbri. Fin dall'inizio viene inserito nei bordi del copertone un filo d'acciaio che, grazie alla corrispondente sagomatura del cerchione, lo blocca sulla ruota. Poi si scopre che i vari strati di tela tradizionale che si usano per i copertoni, sfregando tra loro, si surriscaldano. L'inconveniente viene eliminato usando, a partire dal 1915, un tessuto senza trama, il cosiddetto cord o cablè. Alla fine degli Anni 30 la Michelin lancia il «Metalic» in cui la gomma è unita all'acciaio. Intanto i pneumatici hanno assunto il classico colore nerastro da quando, nel 1904, il chimico inglese Sidney Charles Mote ha scoperto che, aggiungendo nerofumo alla gomma, si ottiene una maggiore resistenza all'abrasione. E la Goodrich nel 1912 comincia a produrre le sue gomme con la nuova mescola. Nel 1910 la Dunlop introduce un rudimentale battistrada ricavato pressando contro le gomme dei bulloni nella fase di vulcanizzazione. Tra le tappe successive, il radiale, il «tubeless» senza camera d'aria, l'impiego di materiali nuovi come il rayon (Pirelli nel '37) o, più recentemente, il kevlar. I primi pneumatici resistevano per 3000 chilometri, oggi si tenta di costruire gomme che abbiano la stessa durata media dell'auto, circa 130 mila chilometri. In questi 100 anni la gomma per una normale auto di media cilindrata (per non parlare di quelle delle vetture da corsa, gli aerei o gli shuttle) è diventata un oggetto di tecnologia molto sofisticata. Non per niente, per progettarla, la Michelin ha adottato un potentissimo supercalcolatore Cray, lo stesso che viene usato per guidare le navicelle spaziali. Vittorio Ravizza


I MATERIALI Dal lattice ai derivati del petrolio
Autore: V_RAV

ARGOMENTI: CHIMICA, TECNOLOGIA, TRASPORTI, STORIA DELLA SCIENZA
NOMI: GOODYEAR CHARLES, DE LA CONDAMINE CHARLES MARIE, SEIBERLING FRANK A.
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Produzione della gomma naturale

DAVVERO una vita travagliata, quella di Charles Goodyear, perennemente in bolletta, inseguito dai creditori, ripetutamente in carcere per debiti. Eppure la nostra «era dell'automobile», gli deve molto: Goodyear è l'inventore del processo di vulcanizzazione della gomma, senza il quale il pneumatico non esisterebbe. Era stato il matematico francese Charles Marie de La Condamine, in una relazione all'Academie de France, il primo a sottolineare le proprietà di elasticità e di resistenza del lattice della He vea brasiliensis, un grande albero incontrato nelle foreste equatoriali durante il suo famoso viaggio nell'America del Sud, tra il 1736 e il 1744, per la misurazione della lunghezza del meridiano terrestre. In Francia questo lattice, il caucciù, nel 1761 era servito per costruire dei cateteri, nel 1770 per cancellare le scritte dalla carta e nel 1785 per impermeabilizzare il tessuto dell'aerostato dei fratelli Montgolfier. Ma il lattice era un materiale colloso, poco resistente, che si induriva al freddo e diventava molle e appiccicoso al caldo. Il 24 febbraio 1839 Charles Goodyear, alla ricerca di una strada per migliorarne le qualità, sta riscaldando lattice mescolato a zolfo quando la pentola si rovescia e il composto molliccio si spande sul piano arroventato della stufa. Il giorno seguente Goodyear scopre che la gomma, pur conservando l'elasticità, è diventata più resistente; ci lavora sopra altri 5 anni, infine ottiene un brevetto e può cominciare a sfruttare industrialmente la sua scoperta. A questo punto ci si aspetta il lieto fine: l'inventore povero e ostinato che diventa ricco e osannato. Niente affatto, perché i finanziatori delle sue ricerche lo costringono a cedere i diritti della scoperta e il povero Goodyear finisce la sua esistenza a New York nel 1860, povero e inseguito dai creditori come sempre era stato. Se oggi Goodyear è un nome famoso nel campo dei pneumatici il merito è di Frank A. Seiberling che nel 1898, fondando ad Akron, nell'Ohio, una fabbrica di articoli di gomma, volle darle, come tardivo risarcimento morale, il nome dello sfortunato inventore. La gomma naturale fu la sola materia prima usata per fare pneumatici fino alll'inizio degli Anni 30, quando cominciò a imporsi la gomma sintetica. Questa aveva fatto la sua comparsa fin dal 1912, quando la Bayer aveva presentato al congresso internazionale di chimica di New York un pneumatico fatto con un materiale di sintesi. La chimica moderna è in grado di fornire una grande varietà di gomme sintetiche, secondo le prestazioni che si richiedono ai diversi tipi di pneumatici; tutte, comunque, sono ottenute con la polimerizzazione di prodotti derivati dal petrolio. Inizialmente la gomma naturale era ricavata dalla corteccia di alberi selvatici di Hevea brasilien sis e di altre essenze con proprietà simili (circa 200) che crescono nella foresta amazzonica. Ma quando l'industria dell'auto cominciò a svilupparsi rapidamente, questo metodo non bastò più. Fu allora che in tutta la fascia equatoriale cominciarono a svilupparsi enormi piantagioni che già nel 1935 producevano un milione di tonnellate di lattice. La piantagione fu una delle ultime e più vistose espressioni del colonialismo e della suo mitologia. Stravolse i modelli tradizionali di vita in vaste regioni del mondo, mutò radicalmente il paesaggio in Paesi come l'Indonesia o la Malaysia (75 per cento della produzione mondiale di gomma naturale), Thailandia, Cina, Filippine, India, Sri Lanka, Costa d'Avorio, Nigeria. La produzione di gomma naturale ha continuato a crescere fino agli Anni 40, ha avuto una brusca caduta nel corso della guerra e una successiva ripresa fino a stabilizzarsi a poco meno di 5 milioni di tonnellate l'anno. Il resto del mercato è coperto dalla gomma sintetica: decollata negli anni dello sforzo bellico, oggi ha una produzione circa doppia rispetto a quella naturale. (v. rav.)


LE FRONTIERE DELLA GENETICA Se le cellule «decidono» di non vivere più Proliferazione e morte programmata sembrano dipendere da un unico segnale
Autore: QUATTRONE ALESSANDRO

ARGOMENTI: GENETICA
NOMI: MICHELSTAEDTER CARLO
LUOGHI: ITALIA

POTREMMO iniziare con la crisalide: involucro indurito che nasconde agli occhi le fasi di una metamorfosi radicale, una distruzione che è quasi morte, e che dà nuova vita. Oppure con una poesia: Morte vita, la morte nella vita / vita morte, la vita nella morte. E' Carlo Michelstaedter, poco prima del suicidio; titolo, La crisalide. La poesia - come la scienza - è un modo di cercare la verità, un mezzo per scandagliare il profondo. Che la morte sia nella vita è un luogo comune non solo letterario ma anche della quotidiana esperienza del mondo. La vita è spreco di vita, e quindi morte. Per ogni individuo che muore finendo il suo ciclo, sono morti spesso non pochi suoi fratelli, molti embrioni che suoi fratelli potevano essere, moltissimi spermatozoi o uova che embrioni sarebbero altrimenti diventati. Ma vogliamo attingere ora a qualcosa di più sottile, di meno palese della morte di un organismo, prendendo le mosse proprio dalla crisalide. Quando un bruco si trasforma in farfalla, muore, ma di una morte diversa da quella cui siamo abituati. Muoiono alcune sue parti e danno spazio alla nuova architettura. Sono singole cellule, le singole unità viventi che compongono il corpo di ogni organismo, che muoiono ubbidendo a un comando interno, che attuano un disegno suicida. Questa cosa strana ha un nome: si chiama morte cellulare programmata, o apoptosi. E' qualcosa di molto diverso, da quello che si verifica quando le cellule vanno incontro a una lesione letale, e muoiono perché uccise, perché danneggiate e non più capaci di vivere. E', in un certo senso, una decisione di non vivere più, e c'è un programma sofisticato scritto nel Dna che la attua, scandendo le fasi di un'agonia fulminea: una sorta di implosione, poi, subito, il disfacimento. Ci potremmo chiedere, allora, perché le cellule debbano porre fine a se stesse, perché sappiano apparecchiare con tale sofisticazione la propria morte. La risposta è in una cosa successa un bel po' di tempo addietro, nell'acqua, in un brodo ormai non più tanto primordiale. In quel brodo vagavano degli esserucoli piuttosto semplici, costituiti da una singola cellula atta a espletare tutte le funzioni vitali. Quegli organismi, i progenitori dei moderni protisti, avevano un orizzonte piuttosto semplificato: vivere, e proliferare, cioè dare origine ad altri individui. Morire per forza, e giammai per scelta: la morte della cellula sarebbe coincisa con la morte dell'individuo. A un certo punto alcuni di questi animaletti cominciarono a organizzarsi in gruppi, traendone reciproco vantaggio. Formarono colonie, poi aggregati di cellule sempre più interdipendenti e sempre meno autonome: alcune si specializzarono in certe funzioni mentre altre espletavano altri compiti necessari all'esistenza di qualcosa di nuovo, qualcosa di più di un aggregato di singoli microrganismi: un individuo fatto di più cellule, una soluzione evolutiva che evidentemente ha avuto molta fortuna, visto che ha colonizzato il pianeta e prodotto qualcosa di abbastanza complesso da consentirgli di raccontare, ora, questa storia. Per un essere pluricellulare, un organismo come noi lo intendiamo, rimane la morte intesa come fine della sua esistenza, ma nasce un'altra morte, minimale, quella delle cellule che lo compongono. Essa presiede alla sua costruzione, mantiene costante la sua mappa corporea, produce la sua intelligenza modellando il suo sistema nervoso e gli consente di sopravvivere generando il suo sistema immunitario. Questa morte, che è vita, è l'apoptosi, letteralmente «la caduta delle foglie», il suicidio cellulare che avviene in modo definito e «previsto» nel tempo e nello spazio. La vita nella morte, dunque. Ma non è qui che volevamo arrivare; dobbiamo andare ancora un poco oltre, raccontando un'altra piccola storia, storia di uomini, questa volta. Fino a una decina d'anni fa - la cosa sarebbe degna di uno studio di filosofia, o meglio di psicologia della scienza - la morte programmata delle cellule era un fenomeno noto solo a livello descrittivo perché, in fin dei conti, non interessava a nessuno. Quel che premeva studiare era l'altra attività fondamentale delle cellule: la proliferazione. Per motivi diversi, fra cui anche il fatto risaputo che il morire, finanche di una singola cellula, è solo un modo per non esserci più ed è quindi cosa sgradevole e poco interessante, ci si era dimenticati del lato oscuro, concentrando ogni sforzo nel capire come una manciata di geni orchestri quell'evento non da poco per cui, a un certo punto, da una cellula se ne originano due identiche alla precedente. Fra tali geni ve ne sono alcuni che presiedono a fasi importanti del processo, tanto che una loro lesione causa quella forma di prolifezione cellulare deregolata nota ai più come cancro. Uno di questi geni si chiama myc, e nella sua versione integra è forse l'interruttore principale della proliferazione, il gene che induce di fatto una cellula a dividersi. Circa dua anni fa, all'Imperial Cancer Research Fund di Londra, Gerard Evan e i suoi collaboratori si imbatterono in un fenomeno paradossale. Scoprirono che myc, il gene della vita, della proliferazione, è allo stesso tempo il gene della morte, un potente induttore dell'apoptosi. La serie di studi nata da questa fondamentale osservazione sta iniziando a definire un quadro completamente nuovo e davvero sconvolgente. Si scopre infatti che forse il sistema di segnali è uno solo: lo stesso gene che fa vivere le cellule le fa anche morire. Ecco chiuso il cerchio, ecco che ci riflettiamo nello specchio di Michelstaedter: la morte nella vita. Alessandro Quattrone


NUOVO PARADIGMA GEOLOGICO E se la Terra si espandesse? L'indizio: una diffusa fratturazione della superficie
Autore: TOZZI MARIO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, LIBRI
PERSONE: WEZEL FORESE CARLO
NOMI: WEZEL FORESE CARLO
ORGANIZZAZIONI: SPERLING & KUPFER
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. Distribuzione mondiale delle fosse oceaniche profonde
NOTE: «Dal nero al rosso: dentro il pulsare della Terra»

LA ricerca di ordine nel mondo è stata ed è alla base delle ricerche nel campo delle scienze naturali: l'emergere dal kaos o dal diluvio costituisce la base palingenetica di quasi tutte le mitologie e le cosmologie. Dove c'era un insieme caotico di indizi frammentari di un pianeta immobile, al giorno d'oggi c'è il disegno - irregolare, ma definito - di una Terra su cui le placche continentali vanno alla deriva, gli oceani si aprono e le montagne si accrescono. La tettonica delle placche è una teoria che spiega alcuni dei più importanti fenomeni geologici, recupera e rende merito alla geniale intuizione di Alfred Wegener sulla deriva dei continenti. Ciò nonostante il paradigma della Terra mobile comincia a sentire il peso del suo quarto di secolo e ci sono alcuni punti in cui la teoria segna il passo: qual è il motore della deriva continentale? Come si concilia la dinamica della superficie con l'attività profonda del pianeta? Dal nero al rosso: dentro il pul sare della Terra di Forese Carlo Wezel (Sperling & Kupfer) è un libro divulgativo che, partendo da quella domanda, permette di prendere confidenza con una serie di temi solo apparentemente lontani dalla nostra vita quotidiana: l'evoluzione degli ecosistemi terrestri dipende in larga parte dall'evoluzione della dinamica del pianeta, comprendere l'una significa dare un senso compiuto allo studio degli altri. Non ci sono ancora gli elementi per sostituire la tettonica delle placche, ma forse è ora di cominciare a considerare i limiti del modello esistente e raccogliere gli elementi di critica su cui impostare un successivo rivolgimento scientifico e culturale. Secondo ricercatori come Wezel, la critica non dovrebbe riguardare solo l'impalcatura teorica - l'interpretazione del reale -, ma anche i dati e le assunzioni di partenza, cioè i presupposti della teoria stessa. La subduzione, per esempio - quel processo di riassorbimento della crosta terrestre nelle profondità del mantello che avviene in prossimità delle fosse oceaniche - non avrebbe un significato reale, i fondali oceanici non si espanderebbero e molte delle evidenze di spostamenti dei continenti non sarebbero tali. Se però la crosta oceanica viene continuamente emessa dalle dorsali oceaniche e non viene consumata da nessuna parte, allora non resta che una possibilità, che la Terra si espanda, idea che oggi fa accapponare la pelle a chi si interessi di geologia. Il supporto di dati analitici non ha ancora lo stesso peso dei dati precedentemente accumulati, ma il valore almeno provocatorio è innegabile e - in una certa misura - salutare. Differenze di densità nel mantello potrebbero essere alla base della dinamica del pianeta Terra, governato dall'ascesa e dal riassorbimento di «pannac chi caldi», sorta di «bernoccoli» generati dal nucleo terrestre, che sarebbero il vero motore della macchina atomica su cui viviamo. In superficie la rotazione terrestre - da sempre sottovalutata perché ritenuta una forza relativamente debole - con le sue pulsazioni potrebbe rivelarsi, in ultima analisi, la responsabile dell'evoluzione ambientale del pianeta. La diffusa fratturazione della crosta terrestre (visibile a qualsiasi scala) sarebbe la prova che la Terra non ha solo cambiato forma, ma anche dimensioni, espandendosi e contraendosi in corrispondenza di congiunture cosmiche periodiche. Ha lasciato il segno la zampata di uno dei maestri della geologia, Sam Carey - il diavolo di Tasmania - che per primo ipotizzò, già nel 1937, che la Terra fosse in espansione. Una Terra in espansione asimmetrica e pulsante: sarà questo il nuovo paradigma della geologia? Mario Tozzi Università La Sapienza, Roma


Croste oceaniche Le ultime spedizioni
Autore: CIGOLINI CORRADO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: PITMAN WALTER, VINE F., MATTHEWS D., RYAN W.
ORGANIZZAZIONI: OSSERVATORIO OCEANOGRAFICO LAMONT DOHERTY
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Simposio internazionale «I fondali oceanici»

LE conoscenze acquisite negli ultimi trent'anni grazie alle spedizioni oceanografiche sono state determinanti per formulare, attraverso la comprensione della dinamica di espansione dei fondi oceanici, la teoria della «tettonica della placche». Teoria secondo la quale la crosta terrestre è costituita da un mosaico di placche, o zolle, in continua dinamica una rispetto all'altra. La creazione di nuova crosta oceanica si ha lungo le dorsali medio-oceaniche dove le placche divergono, mentre la sua «distruzione» avviene lungo le fosse oceaniche, dove la zolla oceanica si immerge al di sotto della crosta continentale. Ma quali sono gli obiettivi della moderna ricerca oceanografica e in che contesto scientifico si inseriscono? Nell'ultimo decennio, si è passati dall'acquisizione indiretta di dati geofisici e geologici (analisi batimetriche, misure di variazione del campo magnetico, carotaggi in profondità) effettuata in superficie, a una vera e propria esplorazione dei fondali per mezzo di sommergibili di piccole dimensioni, in grado di arrivare oltre i seimila metri di profondità. Il mezzo, in grado di muoversi agevolmente tra i canyon e le fratture delle regioni abissali, permette l'osservazione diretta dei fenomeni geologici e dell'attività vulcanica, consentendo agli studiosi (di bordo) di campionare le rocce per mezzo di un braccio meccanico. Al recente simposio internazionale «I fondali oceanici», Walter Pitman, dell'Osservatorio Oceanografico Lamont-Doherty (Columbia University), ha tracciato la storia dell'esplorazione oceanografica partendo dalla considerazione che la distanza Europa-America ha subito un incremento di circa 12 metri dall'epoca in cui Colombo effettuò la sua prima attraversata nel 1492. L'apertura dei fondali oceanici è avvenuta in modo pressoché costante. Le tracce di questa dinamica sono registrate nelle anomalie magnetiche delle rocce profonde simmetriche rispetto alla dorsale (rocce che risultano essere più vecchie man mano che ci allontaniamo dalla dorsale stessa): come dimostrato definitivamente da F. Vine e D. Matthews nel loro studio del 1966 sul tratto della dorsale di Reykjanes a Sud-Est dell'Islanda. La teoria dell'espansione dei fondi oceanici ha quindi aperto la strada verso la formulazione della teoria della tettonica delle placche. Questo argomento è stato approfondito dal professor C. Emiliani dell'Università di Miami, che ha esplorato gli obiettivi della futura ricerca in campo geologico-oceanografico: gli studi dovranno concentrarsi sulla dinamica della litosfera in rapporto all'origine e previsione di terremoti ed eruzioni vulcaniche. W. Ryan dell'Osservatorio di Lamont-Doherty, ha affrontato il tema delle nuove tecnologie utilizzate nell'esplorazione oceanografica. Le navi oceanografiche attuali sono in grado di registrare centinaia di milioni di dati al giorno e di elaborati in modo da fornire immagini bidimensionali computerizzate della topografia e della struttura dei fondali. L'osservatorio oceanografico di Lamont-Doherty ha recentemente perfezionato una banca dati che permette al singolo studioso di acquisire le mappe batimetriche e geologiche della crosta oceanica attualmente conosciuta. Corrado Cigolini Università di Torino


SCAFFALE «Etica e Medicina», a cura di Von Engelhardt Dietrich, Guerini e Associati; Vineis Paolo e Capri Stefano, «La salute non è una merce», Bollati Boringhieri
AUTORE: VERNA MARINA
ARGOMENTI: BIOETICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

RACCONTA Einstein che un giorno Enrico Fermi, sollecitato a riflettere sulle conseguenze dell'energia nucleare, replicò piccato: «Lasciatemi lavorare: è così bella la fisica!». E' ancora possibile, oggi, questo comportamento? E' moralmente accettabile? Sembra proprio di no. Tirarsi fuori non è più lecito. E la fioritura di libri sull'etica medica conferma che il problema è caldo e la riflessione avanzata. Dalla Germania arriva ora la versione italiana del «Modello di Lubecca», un ciclo di lezioni di bioetica obbligatorie per tutti gli studenti di medicina, raccolte in volume a cura di Dietrich von Engelhardt. La domanda centrale tocca il caposaldo della medicina occidentale: «La salute del malato sia legge suprema». La storia dell'Occidente, però, è piena di tentativi di abolire questo principio, subordinando i diritti del singolo a una religione, a una visione del mondo laica, agli interessi della ricerca scientifica, al bene dell'umanità nel suo complesso. Ma poi, davanti al caso singolo, al male proprio o di una persona cara, tutto ritorna in discussione e Ippocrate trionfa. Il «Modello di Lubecca» offre una rassegna di tutte le possibili fonti di problemi: genetica, psichiatria, diagnosi prenatale, accanimento terapeutico. E fa ampi riferimenti all'«etica allargata» di Jonas, che suggerisce di mettere in conto anche gli effetti a distanza delle azioni umane sugli equilibri naturali, l'effetto cumulativo di interventi indipendenti l'uno dall'altro e differenti per scopi, programmi, percorsi, e l'irreversibilità di molti interventi. L'equità della distribuzione delle cure mediche - un punto toccato solo marginalmente dal «Modello di Lubecca» - è invece al centro del provocatorio libro di Paolo Vineis (epidemiologo) e Stefano Capri (docente di Economia sanitaria all'Università Statale di Milano) «La salute non è una merce». Dall'analisi dei dati a disposizione, emergono due considerazioni di non poca importanza per chi rifletta sulle ricadute del suo lavoro di ricerca: il trasferimento delle conoscenze dalla sperimentazione scientifica alla pratica quotidiana è lentissimo e spesso casuale; non sempre le terapie che vengono proposte poggiano su solide basi biologiche. Vineis e Capri citano un noto chirurgo americano, secondo il quale soltanto il 15 per cento degli interventi medici sarebbe sorretto da solide basi scientifiche. Spesso la dimostrazione dell'efficacia di un farmaco precede la scoperta del suo meccanismo d'azione: la prova empirica che un farmaco sia efficace e privo di effetti collaterali, pur in assenza di solide dimostrazioni scientifiche sul meccanismo d'azione a livello molecolare, è considerata un motivo sufficiente per applicare immediatamente questa conoscenza. Salvo poi dover fronteggiare le bordate - e magari le citazioni in giudizio - di chi non accetta come fatalità l'esito negativo di una terapia e considera irresponsabile chi ha tratto conclusioni troppo affrettate.


SCAFFALE Merli Irene, Tatsos Maria «Come riconoscere il medico giusto», Franco Angeli
AUTORE: VERNA MARINA
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

I medici sono soliti chiedere ai pazienti una fiducia incondizionata. Non prendono neppure in considerazione l'ipotesi che la loro scienza e coscienza vengano messe in dubbio e che il malato non abbia quella fiducia e docilità nei loro confronti che essi danno per scontata. E invece questo rapporto spesso si incrina. Il paziente è sempre più informato e cosciente, rifiuta di trangugiare medicine alla cieca, vuole conoscere le varie ipotesi e magari decidere da solo. Libri e riviste lo aiutano da anni a farsi una cultura, che i medici guardano con sufficienza ma con la quale ormai devono fare i conti. Tra gli ultimi manuali usciti, ecco «Come riconoscere il medico giusto e difendere i vostri diritti di paziente», a cura di due giornaliste, Irene Merli e Maria Tatsos. Strutturato in domande e risposte, aiuta a capire i propri mali, a conoscere i propri diritti, a capire se ci si può fidare del proprio medico.


TOTOGOL Sistemi vincenti Il calcolo delle probabilità
ARGOMENTI: MATEMATICA, GIOCHI
LUOGHI: ITALIA

L'articolo «I segreti del Totogol» pubblicato su Tuttoscienze del 4- 1-95 mancava di due schemi dei sistemi citati. Li pubblichiamo ora scusandoci per il disguido. SISTEMA «RIDOTTO» SU 11 INCONTRI COL. 1 1 2 3 4 5 6 7 8 COL. 2 1 2 3 4 5 6 9 10 COL. 3 1 2 3 4 5 7 9 11 COL. 4 1 2 3 4 5 8 10 11 COL. 5 1 2 3 4 6 7 10 11 COL. 6 1 2 3 4 6 8 9 11 COL. 7 1 2 3 4 7 8 9 10 COL. 8 1 2 5 6 7 8 9 10 COL. 9 1 3 5 6 7 8 9 11 COL. 10 1 4 5 6 7 8 10 11 COL. 11 2 3 5 6 7 8 10 11 COL. 12 2 4 5 6 7 8 9 11 COL. 13 3 4 5 6 7 8 9 10 COL. 14 4 5 6 7 8 9 10 11 - SISTEMA «BI-RIDOTTO» SU 12 INCONTRI COL. 1 1 2 4 5 7 8 10 11 COL. 2 1 3 4 6 7 9 10 12 COL. 3 2 3 5 6 8 9 11 12


AUTOMI DA FANTASCIENZA Qualcuno sogna la «macchina di Darwin» Dopo qualche generazione, evolve in versioni più adatte al nuovo ambiente
Autore: SCARUFFI PIERO

ARGOMENTI: ELETTRONICA, BIOLOGIA, TECNOLOGIA, INFORMATICA
NOMI: CLIFF DAVE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Robotica, Vita Artificiale

DALLA fusione fra la disciplina della Vita Artificiale (in Usa) nota come «ALife») e la robotica stanno se non altro nascendo degli automi in grado di fornire spunti agli autori di fantascienza. Per Vita Artificiale si intendono gli studi informatici che mirano a creare «organismi» (o, meglio, popolazioni di organismi) che si comportano come le specie viventi del nostro pianeta, in particolare che siano capaci di adattarsi a un «ambiente». Gli organismi «artificiali» sono naturalmente dei software, ovvero invisibili per l'uomo comune, delle pure astrazioni dentro il calcolatore. La robotica, disciplina molto più antica, ha come fine invece quello di costruire macchine concrete che esibiscano un qualche grado di autonomia. Alla recente conferenza PerArc, che si è tenuta a Losanna, l'eroe è stato un micro-robot (l'ultima moda del settore) battezzato Khepera. Nonostante la forma un po' bizzarra (una sezione di cilindro di 5 centimetri di diametro e 2 di altezza), Khepera ben si presta a spiegare alcune proprietà degli organismi viventi. I cosiddetti «Tre Moschettieri», ovvero i tre ricercatori britannici Husbands, Harvey e Cliff della Sussex University, hanno trovato un modo per simulare l'evoluzione di un organismo tramite una rete neurale (un software che rispecchia i principi secondo cui opera il cervello umano) e poi inserire il «cromosoma» così ottenuto dentro Khepera: è un modo mai tentato prima per generare la «vita» in un robot, in un corpo meccanico. Dave Cliff è in effetti uno dei ricercatori che stanno tentando di costruire cervelli artificiali attraverso algoritmi mutuati da quelli dell'evoluzione naturale (darwiniana o no). L'elettronica «embriologica» di Mange (sempre a Losanna) è una delle novità più salienti del campo. Mange usa costrutti elettronici chiamati «field programmable gate array» (Fpga), che non solo hanno la proprietà di riprodurre il circuito di qualsiasi funzione «computabile» (realizzabile tramite un calcolatore), ma sono anche in grado di autoripararsi. Usando questi dispositivi, un allievo di Mange, Sanchez, ha immaginato che sia possibile costruire un «hardware intrinsecamente evolutivo», ovvero un materiale che, per la sua stessa natura, tende a evolversi come un qualsiasi organismo vivente. Basta che i Fpga di Mange vengano programmati per realizzare delle particolari funzioni matematiche dette «algoritmi genetici». Il terzo polo di queste ricerche, dopo Gran Bretagna e Svizzera, è il Giappone, in cui esercitano luminari come Hemmi (che ha costruito contatori digitali in grado di evolvere da soli) e Higuchi. Distribuito in giro per il mondo, è quindi in atto un programma per costruire la «macchina di Darwin», la macchina che, abbandonata in migliaia di esemplari in un dato ambiente, dopo qualche generazione muterà in una macchina di tipo diverso, molto più «adatta» a quell'ambiente. E il confine fra uomo e macchina sarà sempre più labile. Piero Scaruffi


DELFINI TURSIOPI Un sorriso ingannatore La fame scatena l'aggressività, come sempre
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
NOMI: ROSS HARRY, EVANS PETER
LUOGHI: ITALIA

MAI fidarsi delle apparenze! Il delfino tursiope (Tursiops truncatu), che per il profilo «sorridente» delle labbra gode fama di nutrire solo buoni sentimenti (altruista, amico dell'uomo, cooperativo con i compagni) e di essere perciò incapace di azioni malvagie, è invece un animale aggressivo, al punto da commettere un assassinio se la situazione lo richiede. Ne sanno qualcosa le focene (Phocoena phocoena) quando si trovano a dividere con i delfini l'esiguo spazio di uno stretto braccio di mare. I protagonisti di questo giallo appartengono entrambi ai Cetacei, sottordine Odontoceti. I primi, sospetti di assassinio, sono i delfini degli acquari famosi per il carattere giocoso e socievole; i secondi, le vittime, hanno muso arrotondato e corpo fusiforme e sono simili ai delfini, ma un terzo più piccoli. Questa storia si svolge nel biennio fra il 1991 e il 1993 sulle spiagge della Moray Firth e del Chanonry Point, nella Scozia settentrionale, dove ben quarantadue carcasse di focene furono rinvenute con segni così evidenti di ferite e di lesioni interne da rendere le cause della morte quantomeno sospette. Le indagini (i cui risultati sono stati resi noti solo ora) avviate dall'Agricoltural College Veterinary di Inverness, sotto la guida del dottor Harry Ross, portarono subito a propendere per la tesi dell'assassinio. Sotto gli occhi degli scienziati che eseguivano le autopsie, i corpi delle focene mostravano infatti fratture ossee e lesioni ai polmoni e al fegato che erano la diretta conseguenza di morsi così profondi da sembrare ferite inflitte con un coltello. L'assassino aveva lasciato le sue «impronte digitali» sul corpo della vittima: affiancando la mascella di un tursiope al taglio di una ferita, si scoprì infatti che i denti combaciavano con il segno del morso. A questa prima prova indiziaria seguì l'incriminazione per assassinio quando un filmato registrato in natura mise in evidenza che i delfini tursiopi attaccavano le focene. Il fenomeno non sarebbe degno di particolare rilievo se questa non fosse la prima volta che un comportamento del genere viene osservato e se l'assassino non fosse proprio l'animale cui noi uomini attribuiamo solo comportamenti positivi. «In realtà il nostro giudizio è del tutto errato - dice il dottor Peter Evans dell'Università di Oxford, esperto di cetacei e membro fondatore della European Cetacean Society - il tursiope, come tutti i delfinidi, esibisce comportamenti aggressivi nei confronti degli individui della propria specie (i maschi si impegnano in combattimenti durante il periodo degli amori) e anche di specie diverse, perfino nei confronti dell'uomo. Lo dimostrano episodi in cui i delfini hanno attaccato l'istruttore, probabilmente più per un errore umano che per volontà dell'animale. Forse il pregiudizio per cui li consideriamo «buoni» è dovuto, oltre che al loro sorriso, al fatto che sono animali intelligenti e curiosi. Insomma, li sentiamo affini. «Certamente hanno comportamenti altruisti, ma come in tutti gli animali, se si va a vedere, l'altruismo è messo in atto nei confronti di individui con cui esiste un vincolo di parentela. Gli episodi di aggressività interspecifica osservati in Scozia sono dovuti probabilmente al fatto che i tursiopi e le focene si trovano «gomito a gomito» in stretti canali di mare e i più grandi, i delfini, attaccano i più piccoli, che muoiono in seguito alle ferite. E' un comportamento dovuto all'esiguità di spazio. Nella Moray Firth vive una popolazione di circa 150 tursiopi, cui si aggiungono ogni anno centinaia di focene provenienti dall'Atlantico. In altre zone della Gran Bretagna, nel Galles o nelle isole Ebridi, dove queste due specie non sono costrette a vivere così vicine, questi attacchi non sono mai stati osservati». Le aggressioni interspecifiche non sono così rare in natura, soprattutto quando due specie affini competono per lo stesso cibo. Nella savana i licaoni e le iene, appartenenti entrambi all'ordine dei Carnivori ed entrambi interessati allo stesso tipo di preda, risolvono con l'assassinio interspecifico la competizione alimentare. Quando un branco di licaoni sorprende una iena isolata, la attacca e la uccide; e lo stesso avviene quando le parti sono invertite. «Questa interpretazione non è applicabile a focene e tursiopi - dice ancora il dottor Evans - perché le due specie non sono così strettamente imparentate, nè competono per lo stesso cibo. Le prede dei tursiopi sono merluzzi, spigole, salmoni e cefali: prede grandi, mentre quelle delle focene si aggirano sui 15 centimetri». Insomma, non facciamoci trarre in inganno dal sorriso: il tursiope si comporta come tutti gli altri aminali, uomini inclusi. Maria Luisa Bozzi


SCUOLE DI ADDESTRAMENTO Datemi un cane, ne farò un detective I più adatti sono i pastori tedeschi e i labrador
Autore: NERI GIOVANNI

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI, LEZIONI, SCUOLA, PSICOLOGIA
NOMI: TORTI MAURO, GROSSI ERNESTO
LUOGHI: ITALIA, FIRENZE (FI)

ALLE porte di Firenze ci sono due scuole per cani. In una - quella dei Carabinieri - pastori tedeschi e Labrador studiano per imparare a cercare droga, trovare esplosivi, scoprire persone scomparse, accompagnare ciechi. Quasi di fronte c'è la scuola della Regione Toscana, l'unica pubblica in Italia dove si addestrano gli animali per non vedenti. Dice il maresciallo Mauro Torti, vent'anni nei carabinieri, quasi altrettanti con i reparti cinofili: «Da noi i cani non vengono nè maltrattati, nè drogati per insegnar loro a cercare l'eroina. Tutto si basa sul gioco e sulla voglia dell'animale di soddisfare le richieste del padrone-conduttore». Volontari, i carabinieri cinofili del centro di Castello preparano cani per tutte le specializzazioni, non solo per la droga. Nati direttamente in allevamento o importati dalla Germania, i cuccioli (le femmine non vengono utilizzate ma regalate a carabinieri o a cinofili) dopo lo svezzamento vengono per prima cosa affiancati agli animali adulti già operativi. Una pre-scuola prima dell'addestramento vero e proprio, che comincerà a un anno. Per i «cani da polizia», quelli cioè usati per l'ordine pubblico, allo stadio, per la ricerca delle persone, i rastrellamenti e i posti di blocco, vengono selezionati gli animali più robusti e più equilibrati. Quelli tendenzialmente più portati al gioco sono invece preferiti per la ricerca della droga e delle armi. Proprio sfruttando la loro voglia di trovare ciò che per loro è un giocattolo, vengono addestrati a cercare stupefacenti, proiettili o esplosivo. Confidando su un naso quindici-venti volte più potente di quello dell'uomo, il cane impara a distinguere l'odore impalpabile dell'eroina e della cocaina e quello, per lui nettissimo, dell'esplosivo o dell'olio usato per lubrificare le armi. I pastori tedeschi dei carabinieri vanno in pensione quando hanno una decina di anni e quasi sempre vengono presi dal militare che è stato il loro conduttore. Il numero di cani da diplomare ogni anno varia in base ai «pensionamenti». «Negli anni '70 avevamo provato a usare i Labrador. Hanno un naso eccezionale e sono bravissimi nel trovare le persone con la droga - racconta il comandante, il colonnello Ernesto Grossi -. Purtroppo però la loro aria affettuosa e la mancanza del deterrente psicologico che ha invece un pastore tedesco finivano per mettere in difficoltà il conduttore, dato che in certe situazioni è bene poter contare anche su 50 chili di muscoli, denti e amicizia» . Per i cani della Regione Toscana destinati ad accompagnare chi non vede il primo percorso è nel campo di addestramento, tra ostacoli fasulli e percorsi obbligati. Poi si passa alle strade di Scandicci e un giorno dopo l'altro ci si avvicina al cuore di Firenze. L'esame finale è un cocktail fatto di caos, rumore, odori e di un imperativo categorico per l'animale: ricordarsi sempre che la persona accanto è completamente dipendente. La scuola diploma ogni anno una trentina di animali; la metà di quelli che selezionava fino a un paio di anni fa, quando sono iniziati i lavori di ristrutturazione generale ormai praticamente finiti. Dal '95 si tornerà così ai livelli precedenti - 60, 70 cani l'anno - abbastanza vicini alla richiesta: un centinaio di animali. Spiega Maria Grazia Bellini, istruttore direttivo: «Utilizziamo quasi esclusivamente pastori tedeschi e Labrador femmine e maschi castrati: per la loro dolcezza e il loro equilibrio sono le razze più adatte a questo compito. Abbiamo addestrato anche qualche collie privato, con buoni risultati». L'addestramento comincia quando l'animale ha 15 mesi e va avanti per sei mesi. Gli animali devono imparare a non farsi distrarre da nulla, a non tirare e a non litigare con gli altri cani: a non fare insomma quello che un cane «normale» fa tutti i giorni. Ottenere in affidamento un cane è relativamente semplice anche se i tempi di attesa sono lunghi: un anno, un anno e mezzo. Basta fare domanda al Centro (il cane è gratuito) oppure, se si vuole, presentare un animale proprio. Giovanni Neri


IL VETERINARIO DELLO ZOO E l'otaria fa splash nella vasca vuota
Autore: VALPREDA MARIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA

ESTRARRE una zanna a un elefante di tre tonnellate, immobilizzare un rapace o una giraffa, fare una iniezione a una tartaruga gigante: non è certo facile nè monotona l'attività del veterinario specializzato in selvatici, una branca professionale che sta registrando un crescente successo. E che richiede al sanitario non solo profonde conoscenze mediche, zoologiche ed etologiche, ma anche iniziativa e spirito di osservazione. Dalla sempre più ricca documentazione scientifica sul ma nagement veterinario degli allevamenti di selvatici e degli zooparchi risulta che il problema principale, anche per una semplice visita, è rappresentato dalla contenzione. In genere si ricorre al lancio di proiettili- siringa che contengono anestetici, utilizzando lunghe cerbottane, pistole o fucili, di portata fino a cento metri. Per i mammiferi, i bersagli di elezione sono la coscia e il collo, mentre per foche ed elefanti marini il miglior punto di inoculo è costituito dalla muscolatura lombare superiore. Per il lancio occorrono freddezza e mano salda: soprattutto per i grossi capi selvatici, le associazioni di farmaci impiegate (etorfina cloridrato, ketamina, diazepam) e gli elevati dosaggi comportano rischi anche per l'operatore. Gli incidenti, alcuni mortali, non sono infrequenti. Occorre valutare bene la distanza, il peso dell'animale e lo spessore cutaneo: se la pelle di un daino è molto delicata, la coriacea cute dei pachidermi può superare i tre centimetri di spessore. Nei giardini zoologici, tra le specie che richiedono maggior lavoro ai veterinari ci sono i pinnipedi. Le foche ingeriscono ogni sorta di corpi estranei: monete, sassi, stecche di legno dei gelati, coperchietti di bibite e soprattutto grandi quantità di foglie secche, che provocano mortali occlusioni intestinali. In Germania è stato segnalato, tra le otarie in cattività, un fenomeno curioso e un po' triste: durante lo svuotamento delle vasche per la pulizia, gli animali più vivaci continuavano a tuffarsi, battendo contro il fondo e riportando gravi lesioni. Così adesso, quando si toglie l'acqua dalle vasche, le otarie vengono temporaneamente sistemate in gabbia. Varia a complessa è la patologia dei rettili che soffrono, oltre che di gastriti ed enteriti, anche di affezioni cutanee, oculari e respiratorie, inclusa la tubercolosi. Per la terapia, specie nel caso di serpenti velenosi, si ricorre spesso alla somministrazione indiretta, iniettando il medicamento a piccole prede che poi vengono in pasto ai rettili. Tra i grossi primati come lo scimpanzè, specie considerata in pericolo di estinzione, i problemi principali riguardano la sfera riproduttiva. Mentre i soggetti di cattura si accoppiano di regola normalmente, le successive generazioni incontrano molte difficoltà. Gli etologi spiegano il fenomeno osservando che tra i giovani allevati insieme si possono stabilire rapporti del tipo fratello-sorella, senza interesse sessuale reciproco. Oppure, mettendo di colpo a contatto due diversi soggetti, si manifestano forti incompatibilità, che bloccano sul nascere ogni approccio. Complicato anche il ricorso all'inseminazione artificiale, che deve essere eseguita nelle femmine in anestesia generale, con sperma eiaculato mediante stimolazione elettrica. Problemi opposti, di pianificazione familiare e collocazione della prole, esistono invece per i grossi felini: tigri e leoni in cattività si accoppiano con facilità, ingaggiando talora cruente battaglie con i rivali in amore. Mario Valpreda


IL PROGRAMMA UCLA-REVLON La via femminista alla cura del cancro Forse i risultati non sono migliori, ma è certo migliore l'umore delle pazienti
Autore: SILIPO RAFFAELLA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SANITA', PROGETTO, PSICOLOGIA, LIBRI
PERSONE: LOVE SUSAN
NOMI: ROSSELLINI ISABELLA, LOVE SUSAN
ORGANIZZAZIONI: BOSTON BETH ISRAEL HOSPITAL, UCLA, REVLON
LUOGHI: ESTERO, USA
NOTE: «Susan Love Breast Book»

SI chiama dottoressa Love. E sarebbe difficile pensarla con un nome diverso: infonde amore ed energia appena apre bocca. 46 anni, solida, i capelli corti e ricci su un viso sorridente e colorito, è una dei massimi esperti mondiali di tumore al seno. Che cura in una maniera rivoluzionaria. «Mi rifiuto di considerare il paziente un oggetto, "il seno della stanza 35" - dice combattiva -: bisogna ricordare che è prima di tutto una persona, e darle la possibilità di intervenire nel processo decisionale della cura». La via femminista contro il cancro, l'ha chiamata qualcuno. Susan Love era primario al Boston Beth Israel Hospital, quando ha incominciato a occuparsi di tumori femminili. Il suo «Susan Love Breast Book» ha già esaurito due edizioni. Nel 1992 si è trasferita a Los Angeles, all'Ucla (l'università della California) dove, in collaborazione con la casa di prodotti di bellezza Revlon, ha realizzato un centro unico al mondo. «Abbiamo due tipi di programma - spiega - Curiamo la prevenzione dei soggetti "a rischio", che magari hanno avuto casi di tumori in famiglia, con consigli dietologici, esami, materiale informativo». Una volta accertata la malattia, spiega la Love «non ci limitiamo al ricovero e al trattamento chirurgico. Dopo la diagnosi, la donna viene convocata in una sala dove sono riuniti tutti gli specialisti attinenti al suo caso: chirurgo, radiologo, oncologo, ma anche chirurgo plastico, psicologo, dietologo. Le si mostrano dei video informativi, le si spiega le possibilità di cura e insieme si decide come procedere». Nemmeno dopo l'intervento la donna è lasciata sola. «Abbiamo istituito la figura della "nurse advocate", un'infermiera che fa da guida nell'ospedale e fuori, durante il programma di riabilitazione, perché l'ammalata non sia isolata». «E' la solitudine il problema più grande delle persone malate - ricorda Isabella Rossellini, fra i sostenitori del progetto, la cui madre morì di cancro al seno senza dirlo a nessuno - io partecipo al programma dell'Ucla-Revlon proprio perché non voglio ci siano ancora persone costrette a soffrire senza appoggio psicologico e affettivo». Nel centro della dottoressa Love è tutto pensato in questa chiave: persino l'arredamento, che è caldo e accogliente e prevede sale di riunione e spazi per i parenti dei pazienti, circa 350 al mese. «Il mio ruolo è educare le donne - non si stanca di dire lei - rendere la paziente responsabile del suo destino. E' difficile dire se terapeuticamente i nostri risultati siano migliori che in altri ospedali. Certo è migliore l'umore delle pazienti. Si sentono trattate con rispetto, con partecipazione. E secondo me questo le aiuta anche a guarire». Anche la parte di ricerca oncologica, curata dal dottor Dennis J. Slamon, è molto attiva. «Studiamo le alterazioni molecolari e genetiche nel cancro all'ovaio e al seno - spiega - Abbiamo individuato un nuovo gene chiamato "Her-2 neu" e le forme di trattamento che lo coinvolgono sembrano finora promettenti». L'intervento finanziario della Revlon nel progetto è stato massiccio: «Abbiamo iniziato nel 1989 - spiegano i responsabili - ci pareva necessario non solo pensare a come le donne appaiono, ma anche a come si sentono. E vogliamo coinvolgere l'opinione pubblica: abbiamo girato un video informativo sulle nostre attività e organizzato una raccolta firme di tutte le malate degli Stati Uniti. Lo sa quante sono? Una ogni otto abitanti: le firme sono state mandate al presidente Clinton, per chiedergli un piano d'azione nazionale». Anche Susan Love guarda lontano: «Quello che voglio - sorride ancora - è insegnare a una nuova generazione di medici a curare in un altro modo. E a vincere il male». Raffaella Silipo


CALORE & TEMPERATURA Perché quando gela si rompono i tubi
Autore: BO GIAN CARLO

ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Acqua, ghiaccio

PER millenni l'umanità s'è accontentata di dire «fa caldo», «fa freddo» oppure «questo è più caldo di quest'altro». Galileo è stato il primo a sfruttare, per studiare i cambiamenti di temperatura, il fenomeno per cui le sostanze scaldate si espandono, raffreddate si contraggono. Con la facile esperienza del tubo pieno d'aria calda capovolto in una vaschetta d'acqua, rilevò che, raffreddandosi, l'aria nel tubo si contraeva causando la salita dell'acqua nel tubo. Così, nel 1603, costruì il primo termometro. L'acqua ordinariamente è allo stato liquido, ma riscaldata può passare allo stato gassoso (vapore acqueo) e raffreddata opportunamente può invece diventare solida (ghiaccio). Cambiamenti di stato, dovuti a somministrazione o sottrazione di calore si verificano per quasi tutte le sostanze. Quelle solide con struttura cristallina o microcristallina presentano un brusco passaggio dallo stato solido al liquido (fusione) e viceversa (solidificazione). Questi fenomeni sono regolati, come tutto in natura, dalle loro brave leggi. 1) A una determinata pressione, ogni sostanza cristallina ha una caratteristica temperatura di fusione che coincide con la temperatura di solidificazione. 2) La temperatura rimane costante sia durante la fusione sia durante la solidificazione. La quantità di calore che occorre somministrare durante la fusione, il «calore di fusione», serve per eseguire il lavoro di disgregamento delle molecole del solido contro le forze di coesione e viene immagazzinato nel liquido come energia interna. Quando il liquido solidifica, restituisce integralmente quest'energia sotto forma di calore di solidificazione. Perciò questo calore che si nasconde, per così dire, nel liquido durante la fusione e viene restituito dal liquido stesso durante la solidificazione, è detto «calore latente». Quando si converte un solido in un liquido, tutta l'energia termica viene usata per spezzare i legami intermolecolari: è per questo che il calore assorbito per fondere il ghiaccio non fa salire la sua temperatura. Capita lo stesso bollendo un liquido. Questo permette di distinguere facilmente tra calore e temperatura. Il calore è l'energia totale contenuta nei moti molecolari di una data quantità di materia e la temperatura rappresenta l'energia cinetica media per molecola di una data sostanza. L'aumento di volume dell'acqua è causa della rottura dei tubi negli inverni molto rigidi. Se immaginiamo un tubo dell'acqua sezionato in lunghezza, possiamo «vedere» che l'acqua congela vicino alla parete del tubo. Tuttavia il ghiaccio non esercita alcuna tensione e quindi il tubo non dovrebbe scoppiare; per giunta lo scoppio si verifica generalmente lontano dal punto di congelamento. La ragione è questa: a mano a mano che si forma nuovo ghiaccio, esso cresce verso l'interno fino a diventare un blocco che impedisce il passaggio dell'acqua. In linea di massima non succede nulla finché l'acqua nel tubo «strozzato» riesce a circolare. Ma, dato che ghiacciando «ingrassa», l'ulteriore espansione dell'acqua che gela tra il «tappo» di ghiaccio e un rubinetto chiuso produce un'ulteriore compressione all'interno del tubo che può scoppiare nel suo punto più debole. Può sembrare che rischi di scoppiare prima un tubo dell'acqua fredda che uno dell'acqua calda. Invece no. Proprio per il fatto d'essere più caldo, un tubo dell'acqua calda riduce la possibilità che si formino nuclei di congelamento che danno inizio alla formazione di ghiaccio, cioè viene abbassato automaticamente il punto di congelamento. Forse è questo il motivo per cui si ricorda ai bambini di non stare molto coperti prima di uscire, se no fuori sentono freddo. A causa della maggiore temperatura, il tubo caldo è soggetto a un super-raffreddamento, addirittura si raffredderà a temperature inferiori allo zero. Il tracollo è inevitabile: un tratto di tubo congelerà rapidamente, intrappolando molta più acqua tra il blocco di ghiaccio e il rubinetto chiuso, aumentando notevolmente la probabilità di scoppio. Conviene dunque, nel periodo di gelo, lasciare defluire un po' l'acqua mantenendo i rubinetti aperti, per non lasciarle il tempo, rinnovandosi continuamente, di impigrire ingrassando nel tubo. Il prezioso elemento ha un comportamento anomalo. Oltre i 4 il suo volume aumenta con la temperatura, ma fra 4 e 0 il volume diminuisce al crescere della temperatura, così che «l'acqua pura a 4 occupa il minimo volume e quindi ha il massimo peso specifico». Una facile prova casalinga sulla variazione del volume dell'acqua con la temperatura si può condurre con un semplice apparecchio, tipo quello di Hope. Si mette acqua nel recipiente e ghiaccio tritato nel manicotto che lo circonda. Si vedrà che il termometro inferiore scenderà fino a 4, mentre quello superiore segnerà praticamente la stessa temperatura. Poi, mentre quello inferiore è fermo sui 4, quello superiore scende gradualmente fino a 0 (zero). Succede un piccolo viavai. L'acqua, raffreddandosi al di sotto dei 4, diventa più leggera e «va a galla» e dimostra così che l'acqua a 4 ha il peso specifico massimo. L'acqua, solidificando, diventa ghiaccio e aumenta di volume: per questo il ghiaccio galleggia. Effetto provvidenziale per la natura e la vita sulla Terra: se succedesse il contrario, una volta raffreddata e ghiacciata in superficie, andrebbe a fondo, così nuove masse d'acqua gelerebbero in superficie, fino ad avere tutta la massa gelata. La fusione estiva dei ghiacci sarebbe molto ritardata o incompleta per i ghiacci del fondo e la vita degli animali nell'acqua diventerebbe impossibile. E anche la nostra di fuori. Gian Carlo Bo


STRIZZACERVELLO La calza della Befana
LUOGHI: ITALIA

All'Epifania la Befana ha preparato le calzette speciali per i bimbi cattivi. In ognuna, al posto dei doni, ha infilato dei pezzi di carbone. Nel sistemare il carbone in modo che tutti ricevano lo stesso numero di pezzetti, si è accorta che, se ne infila 10 per calza, una rimane soltanto con 9 pezzetti; se ne infila 9, una rimane con 8; se ne infila 8, una rimane con 7 e così via fino a 2 pezzetti per calza con una calza che ne avrebbe solo uno. Quanti sono i pezzetti di carbone a disposizione della Befana? Nelle calzette dei bimbi buoni la Befana ha infilato invece delle caramelle e si è accorta che, mettendone 2 per ogni calzetta oppure 3, 4, 5, 6, alla fine rimane sempre una calzetta con una sola caramella, mentre sistemandone 7 per calzetta non ne resta più fuori alcuna. Quante sono le caramelle a disposizione della Befana? La soluzione domani, accanto alle previsioni del tempo.


LA PAROLA AI LETTORI CHI SA RISPONDERE? Pelota basca batte golf: è la palla più veloce
LUOGHI: ITALIA

In quale gioco di palla questa raggiunge la maggior velo cità? Nella pelota basca è stata misurata elettronicamente una velocità di 302 chilometri all'ora. Lo sport di squadra più veloce in assoluto è però l'hockey su ghiaccio, in cui il disco, a causa dell'attrito ridotto con il ghiaccio, ha una velocità media di circa 100 km/h. Franco Seren Rosso, Torino La maggiore velocità della palla viene raggiunta nel gioco del golf. E' stato calcolato che subito dopo essere stata colpita con il driver, il legno più lungo e potente, la pallina viaggia a una velocità di circa 210 chilometri orari. Quando il cervello del giocatore recepisce la sensazione di avere colpito la palla, questa si è già allontanata di circa 12 metri. Valerio Mannino Treviso Una palla da golf lanciata da un tee (supporto) ha raggiunto la velocità di 273 km/h. Paolo Tosco, Santena (TO) Esiste un punto della Terra dove un ipotetico viaggiatore che si sposti di 50 km a Est, 50 a Nord, 50 a Sud e 50 a Ovest, si ritrova esattamente al punto di partenza? La risposta al quesito, così come è stato posto, è abbastanza banale. Infatti la strada di «andata» è identica a quella di «ritorno» e la risposta è che quasi tutti i punti della Terra hanno la caratteristica richiesta, esclusi quelli interni alla calotta delimitata a Sud dal parallelo posto a 50 km sotto il Polo Nord, perché da questi punti non è possibile percorrere verso Nord la distanza data. Anche il Polo Sud, inteso come punto geometrico, è escluso perché da qui l'unica direzione consentita è verso Nord. Se invece il percorso fosse, nell'ordine, E-N-O-S, per ritornare al punto di partenza il tratto percorso in direzione Sud deve dare la stessa differenza di latitudine del tratto percorso in direzione Nord (e questo è sempre vero se consideriamo la Terra un elissoide regolare e i tratti sono percorsi nello stesso arco di latitudine) e il tratto percorso in direzione Ovest deve dare la stessa differenza di longitudine del tratto percorso in direzione Est. Questo è vero solo se i due tratti in parallelo sono percorsi allo stesso valore di latitudine (emisfero Nord o Sud non importa, considerando la Terra simmetrica rispetto all'Equatore). In definitiva, i punti del quesito sono solo quelli appartenenti al parallelo situato a 25 km a Sud dell'Equatore: da uno di questi punti si percorrono 50 km su un certo parallelo in direzione Est, si gira verso Nord per 50 km e si incontra il simmetrico parallelo Nord, si ritorna indietro per 50 km arrivando proprio sul meridiano del punto di partenza, quindi si raggiunge quest'ultimo percorrendo esattamente 50 km verso Sud. Franco Pastorino Cosseria (SV) Qual è la natura chimica del l'urticante contenuto nella medusa? Le meduse, così come gli altri celenterati (polipi, anemoni di mare e così via) posseggono un particolare metodo per catturare le prede. La parte più estrema del loro organismo, tentacoli compresi, è dotata di cellule altamente specializzate, dette cnidociti. Ciascuna di queste contiene un filamento, il nematocisti, che scatta ogni volta che la medusa entra in contatto con altri organismi. Il nematocisti, che può essere provvisto di uncini per un più sicuro aggancio alla preda, è cavo all'interno e contiene enzimi digestivi e proteine terziarie (cioè con una particolare struttura) che provocano reazioni chimiche e cominciano a scindere le sostanze con le quali vengono a contatto. Per questo motivo, quando la nostra pelle sfiora una medusa, si prova la sensazione di una forte urticazione. Paolo Rosotti Vedano al Lambro (MI) Sebbene la natura dei vari componenti tossici contenuti nel minuscolo serbatoio all'interno dei cnidociti non sia del tutto nota, si ritiene l'azione urticante e paralizzante sia provocata da peptidi composti come istamina o serotonina. Fulvio De Gasperi Galliate (NO)


CHI SA RISPONDERE?
LUOGHI: ITALIA

Q E' vero che Pitagora ha copiato il suo teorema da un sistema egizio per misurare i terreni? Q Se più del 90 per cento delle specie che hanno abitato la Terra si è estinto, che senso ha preoccuparsi delle attuali estinzioni? Q Qual è il gioco dove maggiori sono le probabilità di vincere? _______ Risposte a «La Stampa-Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure al fax numero 011- 65.68.688


BOSCHI INCENDIATI E dopo il fuoco? Evoluzione del suolo
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Il bosco, un sistema dinamico. Il fuoco. Il bosco dopo un incendio

La struttura e la composizione del terreno determinano il tipo di vegetazione e di vita che si svolgerà in quel particolare ecosistema. Il suolo svolge infatti una funzione di supporto, dato che raccoglie, trasporta e distribuisce l'acqua, le sostanze minerali e i residui organici prodotti da animali e piante. Come si forma e come si mantiene dipende dal clima e dall'interazione tra gli alimenti a disposizione e gli esseri viventi che se ne nutrono. In un certo senso, il suolo può essere definito come l'intermediario dinamico tra gli esseri viventi, i minerali presenti nella crosta terrestre, l'acqua e i gas atmosferici. Comprendere queste dinamiche è fondamentale per valutare il degrado causato dall'intervento dell'uomo, dall'inquinamento e dal fuoco. E intervenire in modo appropriato.




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