TUTTOSCIENZE 28 settembre 94


INQUINAMENTO DA ONDE RADIO Per favore non sporcate la Luna Un ambiente prezioso per la ricerca del futuro
Autore: LESCHIUTTA SIGFRIDO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, ASTRONOMIA, INQUINAMENTO, COMUNICAZIONI
LUOGHI: ITALIA

LA Luna, nel suo moto attorno alla Terra, ci rivolge sempre la stessa faccia. Conosciamo la faccia nascosta da poco più di 25 anni, tramite foto scattate da satelliti o da astronauti. Questa faccia nascosta ha proprietà che vanno preservate nell'interesse della scienza. Vediamone i motivi. Per esplorare l'universo, l'uomo ha usato per millenni l'occhio, da solo o aiutato da strumenti, ma osservando sempre nella ristretta banda di frequenze a cui l'occhio è sensibile. Questa banda è minima, circa il 2 per cento dello spettro cui ricorre l'universo per mandarci informazioni. Nel '900 all'antica astronomia ottica si sono affiancate tante nuove astronomie, ognuna delle quali ci ha aperto una nuova finestra per osservare quanto ci circonda. La prima nuova finestra venne aperta sessant'anni fa nelle onde radio, poi vennero le astronomie che osservano nell'infrarosso, nell'ultravioletto e, salendo in frequenza, nei raggi X e gamma. La più vecchia delle «nuove astronomie», la radioastronomia, incontra sempre maggiori difficoltà. Aumenta infatti, come tutti constatiamo, l'uso delle onde radio per scopi di telecomunicazione, industriali o domestici. I cieli sono solcati da aerei che hanno a bordo decine di trasmettitori e ancora sopra circolano a migliaia satelliti di ogni tipo che trasmettono dati a Terra. E' facile intuire che quando un satellite o un aereo passano sopra l'antenna del radiotelescopio che punta verso una stella od una galassia, o nei dintorni della stazione terrestre agisce un trasmettitore che opera in una delle bande riservate alla radioastronomia, nascono seri problemi di interferenza, nel senso che il segnale artificiale sovrasta il debole segnale naturale che ci arriva dal cosmo. Ormai la contaminazione elettromagnetica pervade tutta la Terra e dintorni e i radioastronomi dovrebbero affrontare lo stesso problema incontrato dagli astronomi del secolo scorso, costretti a lasciare le città perché il cielo vi era diventato troppo luminoso. Ma il radioastronomo, che già ha scelto di operare in luoghi elettromagneticamente puliti, non sa dove rifugiarsi, e forse dovrà occupare, con i suoi strumenti, la faccia nascosta della Luna, che è schermata da tutte le radiazioni generate sulla Terra e dalla quasi totalità dei satelliti artificiali. Oltre alla mancanza di disturbi radioelettrici, la Luna offre altri due sostanziali vantaggi rispetto alla Terra: attorno al satellite non ci sono atmosfera e ionosfera, cioè quell'insieme di strati di gas ionizzati che circondano la Terra tra 70 e 500 chilometri. Vediamo ora perché la radioastronomia del prossimo secolo sarà effettuata probabilmente anche dalla Luna. Cominciamo dalla estremità inferiore, come frequenza, dello spettro elettromagnetico, con le onde radio medie e corte, tra 500 kHz e 30 Mhz. In questa banda è ormai impossibile osservare; vi operano centinaia di migliaia di trasmettitori ed irradiano le candele delle autovetture od altri apparati industriali, come le macchine che asciugano i biscotti o le paste alimentari o la polpa del legno. Inoltre la ionosfera che ci sovrasta filtra o attenua i segnali di interesse: le emissioni di Giove o del Sole ed emissioni di sorgenti galattiche ed extragalattiche. Inoltre talune delle informazioni che ci portano questi segnali possono essere «ascoltate» unicamente con radiotelescopi. Da 30 e 300 Mhz la radioastronomia da terra è ormai praticamente morta. Disturbi elettromagnetici rendono praticamente impossibile ricevere i segnali provenienti da pulsar e quasar (in questa banda i radioastronomi speravano di misurare le velocità di allontanamento di galassie primordiali). La situazione è appena migliore per frequenze più alte, tra 300 Mhz e 3 Ghz, dove operano molti trasmettitori televisivi, i telefonini, i fornetti a microonde che abbiamo nelle case e così via. Questa è la banda usata per individuare righe di emissione dovute ad atomi o molecole nello spazio o determinare gli spostamenti di righe note per ricavare la velocità delle sorgenti, usando l'effetto Doppler. Questo effetto è ben noto; lo si osserva con l'udito quando si transita vicino ad un campanile in attività: le campane appaiono stonate. Analogo il risultato quando si incrocia o ci passa vicino una vettura della polizia o una autoambulanza con la sirena bitonale: la differenza tra i due toni varia con il tempo. Così il radioastronomo, misurando la frequenza di emissione di una molecola proveniente dallo spazio e confrontandola con la frequenza emessa dalla stessa molecola in laboratorio, può ricavare la velocità della galassia e dell'ammasso di gas che emette quella riga. Negli Anni 60 è stata individuata la riga dell'idrogeno, la famosa riga a 21 centimetri, a 1420 Mhz; questa riga è stata ritrovata nel 1991, in una galassia e spostata a 323 Mhz. Per frequenze più alte, tra 30 e 300 Ghz, ecco i vantaggi dovuti alla assenza di una atmosfera. La atmosfera che circonda la Terra presenta numerose zone con rilevanti assorbimenti, dovuti alle molecole dell'acqua, dell'ossigeno e di altri gas o molecole. In questa banda la radioastronomia ha scoperto oltre 550 righe provenienti da oltre 80 molecole, anche in galassie remote. L'osservazione di queste linee, negli ultimi anni, ha portato una rivoluzione nelle conoscenze sulla dinamica e sulla composizione del mezzo interstellare come pure sulla formazione e la evoluzione delle stelle. L'altra faccia della Luna, senza atmosfera e quindi totalmente secca, sarebbe il luogo ideale per raccogliere queste informazioni. Cosa si fa in attesa di poter andare sulla Luna? Da una parte si studia quali frequenze potranno essere usate sulla Luna e nello spazio esterno della Luna, per i necessari collegamenti radio. Un ente internazionale, il Comitato consultivo internazionale per le radiocomunicazioni, con sede a Ginevra, si interessa da anni a questo problema e in una recente seduta ha emanato una serie di raccomandazioni e un elenco di frequenze da proteggere sin da ora. Ma sulla Luna non si potrà andare, per impiantare una base permanente, almeno per decenni, e allora la attività degli enti internazionali consiste nell'offrire una protezione per talune frequenze sulla Terra, assegnando alla radioastronomia specifici canali. Questa pratica è efficace ove esistano delle autorità che abbiano il controllo elettromagnetico di quanto avviene nel loro territorio e intendano fare rispettare gli accordi internazionali. In Italia, purtroppo, il ministero delle Poste e telecomunicazioni ha perso, in vaste zone, il controllo elettromagnetico di quanto avviene e si assiste a un proliferare indiscriminato di emissioni e di servizi che non rispettano gli accordi internazionali: quindi la vita del radioastronomo italiano è particolarmente difficile. Sigfrido Leschiutta Politecnico di Torino Presidente del Comitato scientifico dell'Agenzia spaziale italiana


INQUINAMENTO LUMINOSO Stelle da proteggere quasi come il panda
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, ASTRONOMIA, INQUINAMENTO
ORGANIZZAZIONI: GREENPEACE
LUOGHI: ITALIA

COME il panda e la foresta amazzonica, il buio della notte è ormai un pezzo di natura da proteggere. Contro l'inquinamento luminoso nasceranno i «parchi delle stelle»: aree dove le amministrazioni locali si impegnano a limitare l'illuminazione pubblica e le insegne private, a usare lampade al sodio a bassa pressione (i cui effetti sulle fotografie fatte al telescopio possono essere annullati con un filtro) e soprattutto a far sì che la luce non vada dispersa verso l'alto, cancellando la visione dell'universo. Si parla della regione dell'Adamello, del monte Barro, dell'Argentera, dell'Alto Brenta. L'iniziativa è dell'Unione astrofili bresciani, che per sabato 1 ottobre ha indetto la seconda «Giornata nazionale contro l'inquinamento luminoso». I «parchi delle stelle» avranno sentieri che conducono in punti di osservazione dove gli appassionati di astronomia potranno sistemare i loro strumenti. L'esempio dovrebbe essere seguito da altri parchi: quelli del Conero, delle Dolomiti, dello Stelvio, delle Alpi Apuane, del Pollino, dei Monti Sibillini e dei Lessini, tutte zone dove l'inquinamento luminoso è ancora limitato. Non solo il debole chiarore della Via Lattea, ma anche le stelle più brillanti sono ormai praticamente invisibili dalla maggior parte del territorio italiano. Secondo Greenpeace l'energia spesa nell'illuminazione pubblica e in insegne pubblicitarie raggiunge ormai un miliardo e mezzo di kilowattora, e in gran parte potrebbe essere risparmiata usando altre lampade ed evitando gli sprechi. Con la «Giornata» del 1 ottobre, Greenpeace lancia anche l'«Operazione Lampadina» per diffondere i sistemi di illuminazione a miglior efficienza energetica. Una lampada al sodio a bassa pressione da 20 watt, per esempio, fornisce la stessa quantità di luce di una lampadina a incandescenza da 100 watt. Lampade più efficienti farebbero risparmiare 3,2 miliardi di kilowattora all'anno e circa 400 miliardi di lire, riducendo in proporzione anche l'emissione di gas-serra. L'inquinamento da luci parassite non è soltanto un problema degli astrofili. Per tutti noi, il cielo è l'altra metà del paesaggio, è la finestra che permette all'uomo di situarsi nell'universo e di guardare «fuori» dalla Terra, con tutte le conseguenze estetiche, culturali e filosofiche che questa esperienza comporta. Negli Stati Uniti fin dagli Anni 60 è nata la Dark Sky Association con l'intento di proteggere il lavoro degli studiosi del cielo e di difendere questi valori culturali. Nonostante questi sforzi, le foto riprese dai satelliti mostrano come la notte stia svanendo in un chiarore lattiginoso che invade quasi l'intero pianeta. Nei Paesi sviluppati l'illuminazione pubblica raddoppia ogni 10 anni ed è direttamente proporzionale alla crescita della popolazione e al livello di benessere economico. In Italia la prima indagine sull'inquinamento luminoso fu svolta da astronomi della Specola Vaticana trent'anni fa. Oggi da noi non c'è più nessun luogo dove possa essere collocato utilmente un grosso telescopio. Ecco perché i due grandi strumenti che l'Italia sta realizzando saranno sistemati uno a La Palma, nelle isole Canarie, e l'altro in Arizona. Piero Bianucci


VIVE IN COSTA RICA Una formica ha il primato del morso più veloce La sua mandibola scatta in un terzo di millesimo di secondo: il segreto è nei tendini
Autore: ANGELA ALBERTO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI
NOMI: GRONENBERG WULFILA
LUOGHI: ESTERO, COSTA RICA

QUAL è il movimento più rapido che riuscite a compiere? Fare schioccare le dita? Chiudere la mano in un pugno? Battere gli occhi? Siete comunque troppo lenti: c'è una formica capace di fare scattare le mandibole mille volte più rapidamente... Se avesse le dimensioni di un cane sarebbe forse il predatore più temibile sulla terraferma. Invece è lunga meno di un centimetro e vive nella penombra delle foreste del Costa Rica. Un gruppo di ricercatori tedeschi è stato capace di misurare la velocità delle sue mandibole, che si chiudono in 0,33 millisecondi, cioè un terzo di millesimo di secondo. E' quindi ben più rapido del battito di palpebre umano, ma anche assai più veloce di altre «scattanti» del regno animale, come la pulce che impiega da 0,7 a 1,2 millesecondi per balzare, il collembolo, un insetto la cui coda ha un meccanismo a scatto che lo fa saltare via di fronte ad un pericolo in 0,6 millesecondi, e persino la medusa la cui «sparata» di filamenti urticanti è dell'ordine di 0,5 millesecondi. Per poter studiare questo piccolo mostro, il team di studiosi tedeschi dell'Università di Wurzburg, guidati da Wulfila Gronenberg, ha dovuto utilizzare una speciale cinepresa capace di girare ben 3000 fotogrammi al secondo. Solo in questo modo hanno potuto studiare l'azione delle mandibole scoprendo il terribile sistema di caccia (e difesa) di questo minuscolo insetto. Avvistata la sua preda, la formica le si avventa contro e non appena avviene il contatto, scattano le sue fauci, piccoli gioielli di ingegneria della natura. Sono vuote all'interno per essere più leggere e hanno la stessa forma di quei machete che si usano per aprire un varco nel fitto della foresta. Terminano con una specie di «dente» che penetra nelle carni della vittima. Il risultato è fulminante: con un solo colpo la formica è in grado di tagliare in due una preda. Quasi fosse una sciabolata. La sua azione in effetti ricorda molto quella di un samurai o di un combattente di arti marziali: balza in avanti, colpisce, l'impatto la fa tornare indietro (in modo da evitare la reazione della vittima), ed è già pronta per un nuovo attacco con le mandibole aperte. Non si tratta solo di una tecnica di assalto. Questa strategia è molto utile anche quando deve difendersi dagli attacchi di più termiti soldato, anch'esse dotate di formidabili mandibole. Analizzando da vicino il meccanismo a scatto delle sue mascelle i ricercatori hanno scoperto il vero segreto del loro funzionamento. Quando la formica localizza la posizione del bersaglio con le sue antenne, le fauci sono già spalancate. A questo punto si proietta in avanti e tocca con le sue mandibole il corpo della vittima. Ognuna di esse è fornita di un paio di «peli» molto sensibili che se premuti fanno scattare il morso. Il meccanismo quindi ricorda molto quello di una tagliola: è la pressione della vittima ad innescare lo scatto delle fauci. In effetti quei «peli» sono collegati a fibre nervose estremamente grosse che permettono di fare passare il segnale in modo rapidissimo al «cervello» (assai primitivo). Forse esiste addirittura un meccanismo riflesso, simile a quello che ci fa estendere la gamba quando il dottore usa il martelletto. Basterebbe quindi sfiorare quei «peli» per far scattare automaticamente le mandibole. Già, ma come si spiega la velocità del morso? I veri responsabili non sono i muscoli, ma dei tendini. I muscoli infatti servono solo a far aprire le mandibole agendo contro la resistenza di alcuni tendini. Un meccanismo simile a quello di un arco che si tende. Quando giunge il segnale dello scatto i tendini vengono «liberati» e determinano lo scatto. Questi terribili strumenti di morte sono però capaci anche di movimenti molto delicati: la formica è in grado di dosare la presa per trasportare le proprie uova e le larve, trasformandosi così da sciabolatore sanguinario in balia premurosa. Alberto Angela


TRAFFICO NEI CIELI Aerei allo stretto Satelliti per guidarli?
Autore: BOFFETTA GIAN CARLO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TRASPORTI, AEREI, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: FAA, ECARDA
LUOGHI: ITALIA

LA crisi economica mondiale degli ultimi anni ha indotto un aumento del traffico aereo commerciale inferiore alle ottimistiche previsioni del passato ma un aumento c'è stato comunque, e ancor più che di passeggeri, del numero degli aerei. Ciò significa che questi sono mediamente meno occupati ma il loro numero continua ad aumentare. Come nelle strade l'aumento delle auto porta alla saturazione in certe zone più frequentate e in certi orari, così nelle aerovie vi sono molti casi di sovraffollamento. Un esempio emblematico è la rotta atlantica, tra Shannon in Irlanda e Sander sul continente americano, percorso ormai da oltre 700 aerei ogni giorno che, per di più, sono concentrati in due fasce orarie, nei due sensi, molto ristrette: le più richieste dai viaggiatori. Tutte le compagnie aeree organizzano i loro voli dall'America verso l'Europa partendo la sera, in modo da lasciar libera la giornata per il lavoro o il turismo, e utilizzano la corta notte per il volo. Arrivando il mattino presto, i passeggeri hanno tutta la giornata che li attende e la Compagnia può preparare il velivolo per il decollo verso Ovest intorno al mezzogiorno, in modo da arrivare in Usa nel primo pomeriggio. Vi sono aerovie ben più affollate di questa, la Parigi-Londra ad esempio, ma il controllo radar permette di «vedere» in ogni istante gli aerei in volo e quindi di disporli più vicini tra loro sfruttando al massimo lo spazio aereo, sempre nei limiti di sicurezza che devono garantire teoricamente non più di 2,5 collisioni in volo ogni miliardo di ore volate. Poiché sull'Atlantico non può esserci evidentemente copertura radar, occorre che gli aerei volino mantenendo le distanze fra loro nei limiti fissati: 110 chilometri sullo stesso livello di volo, separati verticalmente di 1000 piedi (300 metri) fino alla quota di 29 mila piedi e di ben 2000 piedi (600 metri) al di sopra. La conseguenza è che relativamente pochi aerei possono volare sulla rotta e al livello più favorevole in funzione dei venti, possono cioè seguire la strada di «minimo tempo di volo» che non è quasi mai la più corta geograficamente, con tutti i vantaggi, soprattutto di consumo di combustibile, che ciò comporta. Gli altri vengono posti via via più lontani o più in alto o in basso a condizioni sempre meno felici. Questi limiti comportano, per un aereo più veloce di quello che lo precede, una manovra di sorpasso che può durare ore. L'aereo che supera deve esser portato al livello superiore attendendo che vi siano 110 chilometri liberi davanti e dietro e deve poi restare a questa quota finché non ha superato l'aereo più lento di 110 chilometri prima di ridiscendere. Il 14 aprile scorso è stata effettuata una prova, autorizzata e seguita dalla Faa, utilizzando la separazione di 35 chilometri invece dei 110 regolamentari, nel sorpasso di un Dc10 da parte di un Boeing 747. Il risultato è stato un risparmio di quasi 1100 chilogrammi di kerosene da parte del Jumbo. La separazione di 35 chilometri (o di 30) verrà però imposta non da queste considerazioni ma dal fatto che sull'Atlantico saranno circa 1000 gli aerei che ogni giorno, prima del Duemila, affronteranno la traversata. E prima dovranno attendere ore e ore sugli aeroporti, se gli attuali limiti non verranno ridotti, che si liberi il loro spazio. Quali possono essere le soluzioni? Intanto avvicinare gli aerei in verticale almeno ai 300 metri a tutte le quote, e ciò sarà probabilmente accettato data la maggior precisione degli altimetri moderni. Poi avvicinare a 30 o 35 chilometri gli aerei sulla stessa rotta e quota utilizzando il sistema anticollisione T-Cas che è già obbligatorio su tutti gli aerei con più di 30 posti che sorvolano gli Stati Uniti. Ma si oppongono i controllori di volo che ritengono non debba esser usato come normale strumento di volo un sistema che è l'estremo limite della sicurezza, l'ultimo allarme prima della collisione. E ancora: «Utilizzare aerei di maggiori dimensioni, quelli che nasceranno dagli attuali progetti (Airbus A3XX a due ponti per 800 passeggeri o Boeing Vlct da 600 o ancora il futuro Mdd). Uno strumento del tutto nuovo e più avanzato è allo studio: si basa sull'utilizzo del Gps (Global positioning system) sistema satellitare che in varie versioni è disponibile anche per imbarcazioni e mezzi terrestri. Questa apparecchiatura fornisce al pilota dell'aereo la sua posizione istantanea con assoluta precisione. Quindi ogni aereo sa esattamente dove si trova, ma non conosce la posizione degli altri. Se però tutti questi dati potessero essere inviati a un centro che li confrontasse ed elaborasse, si potrebbero avvicinare gli aerei senza alcun rischio. La differenza fondamentale con il radar consiste nel fatto che il controllore radar vede tutto ciò che vola e sa dove ciascuno si trova, mentre con il Gps riceverebbe le informazioni dai singoli e dovrebbe fidarsi di ciò che riceve. E' evidente che un solo aereo che non inviasse i suoi dati, o li inviasse errati, creerebbe una situazione potenziale di catastrofe. La Comunità europea ha lanciato la ricerca Ecarda (European coherent approach in research and development in air traffic management) con un finanziamento iniziale di oltre 200 milioni di ecu, ed in Europa si stanno raggruppando in due consorzi, perché la commissione vuole avere una competizione, tutte le ditte specializzare in questa tecnologia avanzata. Gian Carlo Boffetta


DOPO ANNI DI STUDI GENETICI Balena italiana «L'abbiamo scoperta così»
Autore: NOTARBARTOLO DI SCIARA GIUSEPPE

ARGOMENTI: GENETICA, ZOOLOGIA, ANIMALI, MARE, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: BERUBE' MARTINE
LUOGHI: ESTERO, USA, CALIFORNIA, LA JOLLA, ITALIA
TABELLE: D. La Balenottera comune del Mediterraneo appartiene a una popolazione autonoma da quella atlantica

LE balenottere comuni che in estate si affollano per rimpinzarsi di plancton tra la Liguria occidentale e la Corsica appartengono a una popolazione mediterranea, riproduttivamente isolata dalle conspecifiche del Nord Atlantico. A questa sorprendente conclusione, densa di conseguenze che riguardano sia la conoscenza sia la tutela di questi giganti del mare, ci ha portato uno studio genetico delle balenottere comuni del Nord Atlantico, presentato la settimana scorsa a La Jolla, in California, da Martine Berubè dell'Università di Copenaghen. Perché è così sorprendente, questa conclusione? Innanzitutto perché contrasta con il principio di parsimonia, in base al quale, in natura, la spiegazione giusta è in genere quella più semplice. Le balenottere, si sa, sono cetacei oceanici che compiono ogni anno migliaia di miglia in una migrazione pendolare, che le porta dai quartieri riproduttivi invernali dei tropici a quelli alimentari sub-polari in estate. La balenottera comune del Mediterraneo (Balaenoptera physalus), verosimilmente, avrebbe potuto costituire un ramo un po' atipico della popolazione nordatlantica, che per consuetudine ancestrale - indubbiamente misteriosa - invece di recarsi con le altre verso la Groenlandia, imboccherebbe Gibilterra ogni primavera per nutrirsi nel Mar Ligure del krill mediterraneo. A farci propendere per questa ipotesi contribuiva un primo piccolo campione di biopsie di balenottere del Mar Ligure, fatto esaminare anni fa da un collega dell'Università di Auckland, che sembrava indicare una mancanza di rilevante diversità genetica tra gli esemplari mediterranei e quelli atlantici. Ma accantonammo quei risultati in attesa di prove più robuste. La prova è arrivata in questi giorni, con la presentazione in California dei risultati delle ricerche compiute in collaborazione con l'Università di Copenaghen. In questo studio vennero confrontati tra loro 235 campioni, provenienti da altrettante biopsie di balenottera comune, prelevate a distanza, mediante una piccola balestra, in 5 località del Nord Atlantico e in una del Mediterraneo. Le biopsie del Mar Ligure, 30 in tutto, erano state raccolte da noi nel 1992 e 1993 nel corso delle campagne estive di ricerca dell'Istituto Tethys: un'attività caratterizzata da un ridottissimo bilancio, priva di qualsiasi supporto istituzionale e finanziata in gran parte da volontari reperiti da «Europe Conservation». L'analisi sui primi 288 nucleotidi della regione di controllo mitocondriale rivelava un livello significativo di eterogeneità tra le balenottere mediterranee e quelle del Nord Atlantico, mentre all'interno di queste ultime le differenze erano chiaramente assai meno pronunciate. Dunque era vera l'ipotesi più peregrina: che le balenottere del Mediterraneo appartengono a una popolazione riproduttivamente isolata. Ancora non sappiamo se questo isolamento sia totale, oppure se un modesto scambio genetico attraverso Gibilterra in realtà persista: ricerche in corso chiariranno, speriamo, questo punto. Quel che conta è che da adesso le nostre balenottere vanno considerate come un'entità ecologica a sè stante, e questo comporta una serie di importanti conseguenze. Per esempio: se le balenottere comuni si riproducono nel Mediterraneo, in quale località si radunano per accoppiarsi e partorire? Siamo certi che in questa fase delicatissima del loro ciclo annuale non esistano minacce o fattori antropici che ne perturbino il buon esito? Un'altra considerazione importante riguarda il comportamento alimentare di questi mammiferi, che si nutrono di gamberetti prevalentemente - se non esclusivamente - durante l'estate. E in estate, nel Mediterraneo, particolari condizioni oceanografiche e climatiche provocano una contrazione della presenza di zooplancton, che permane in concentrazioni utilizzabili soltanto nel Mar Ligure occidentale, nel Mar di Corsica, e nel Bacino provenzale. Si spiega così l'assembramento estivo di balenottere in questa regione, quasi certamente l'unica nel Mediterraneo che le possa sostentare. Una naturale conseguenza di questa novità è l'imperativo di varare quel famoso «Santuario Internazionale per i Cetacei» del bacino corso-ligure-provenzale, da noi proposto negli anni scorsi, e oggetto di una Dichiarazione ufficiale tra Italia, Francia e Principato di Monaco siglata a Bruxelles il 22 marzo 1993. Per garantire futuro e sicurezza a quella che si è ora rivelata una grande ricchezza naturale d'Europa. G. Notarbartolo di Sciara Istituto Tethys, Milano


TECNOLOGIA Nato il primo transistor tutto organico
Autore: DELLA SETA EUGENIA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ELETTRONICA
ORGANIZZAZIONI: CNRS
LUOGHI: ESTERO, FRANCIA
NOTE: Transistor interamente composto da materiale organico

UN nuovo tipo di transisor, interamente composto di materiale organico, è stato realizzato da un gruppo di ricercatori del Laboratorio di materiali molecolari del Cnrs francese. L'evento per il mondo dell'elettronica è di rilievo eccezionale. Comunicano la notizia gli stessi costruttori del nuovo transistor nell'ultimo numero del settimanale americano Science (volume 265, che porta la data del 16 settembre '94). Transistor parzialmente organici hanno trovato già da tempo moltissime applicazioni, poiché sono più semplici da realizzare e occupano meno spazio degli altri: è proprio grazie a questi dispositivi, per esempio, che è stato possibile realizzare quei circuiti integrati su larghissima scala che contengono sopra un'unica piastrina di silicio milioni di componenti, e che hanno permesso di ridurre fortemente i costi e gli ingombri della moderna elettronica. Nessuno però era ancora riuscito a eliminare del tutto la componente metallica negli elettrodi dei transistor; un particolare non secondario come potrebbe sembrare, che procurava notevoli problemi, soprattutto legati al diverso grado di flessibilità del metallo e dei semiconduttori organici. Materiali così diversi fra loro davano al minuscolo dispositivo una instabilità chimica e meccanica che limitava di fatto una loro piena applicabilità. Invece con la scoperta compiuta dai ricercatori francesi l'uso dei compositi organici viene esteso anche alle componenti di base del transistor: questo prelude alla realizzazione di dispositivi interamente «organici» rivoluzionari ed estremamente economici. La nuova cellulina elettronica è composta da un «sandwich» di diversi materiali organici. Il primo strato è costituito da un materiale isolante omogeneo e con buone proprietà dielettriche. Su questo strato viene deposto l'elettrodo base, realizzato con un polimero conduttore fatto di grafite, e altri due elettrodi che fungono da collettore ed emettitore. Il tutto viene poi «farcito» con un semiconduttore organico. Tra le caratteristiche elettriche del nuovo transistor, i ricercatori francesi hanno sottolineato l'ottima amplificazione e l'assenza di perdite di corrente. Non contenti, gli scienziati del Cnrs hanno sottoposto la loro creatura alle peggiori vessazioni - rotolamento, piegamento, torsioni varie - senza riuscire a romperla, come invece avveniva con i transistor della generazione precedente. Unico neo del nuovo «chip» organico sono le dimensioni maggiori, che almeno per il momento ne limiterà l'uso ad alcuni settori industrali. Ma d'altra parte è così facile ed economico costruirlo che tutto fa prevedere l'esplosione di una nuova elettronica interamente a base di plastica. Eugenia Della Seta


LO RICORDA UN ALLIEVO ILLUSTRE A scuola da Pauli, grande lupo cattivo della fisica Molti gli aneddoti sulla sua ruvidezza, ma con Sommerfeld diventava un agnello
AUTORE: WEISSKOPF VICTOR
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, LIBRI, FISICA
PERSONE: WEISSKOPF VICTOR (AUTORE), PAULI WOLFGANG
NOMI: WEISSKOPF VICTOR (AUTORE), PAULI WOLFGANG
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Il privilegio di essere un fisico»

Uscirà in ottobre presso la Jaca Book «Il privilegio di es sere un fisico», di Victor F. Weisskopf. Ne anticipiamo qualche pagina dedicata al suo maestro Wolfgang Pauli, uno dei padri della meccani ca quantistica e l'«invento re» del neutrino. NOI, allievi più anziani del grande Wolfgang Pauli, ricordiamo con piacere e nostalgia gli anni dell'anteguerra quando avevamo il privilegio di lavorare con lui. Fu uno dei periodi più interessanti, stimolanti e produttivi nella storia della fisica. Nello stesso tempo, tuttavia, l'Europa vide eventi che furono tra le azioni più terribili e depravate commesse da un uomo contro un altro uomo. Mi ha sempre profondamente impressionato e depresso la coincidenza nella storia dell'umanità delle più grandi conquiste e delle peggiori malvagità. Per citare Dickens: «Fu il migliore dei tempi, fu il peggiore dei tempi». I numerosi aneddoti su Pauli che circolano tra i fisici danno un'impressione distorta della sua personalità. Egli è visto come una persona maligna che voleva offendere i suoi colleghi più deboli. Niente è più lontano dalla verità. L'occasionale e ampiamente pubblicizzata sgarbatezza di Pauli era un'espressione della sua disapprovazione delle mezze verità e del pensiero impreciso, ma mai voleva essere diretta contro una persona. Pauli era un uomo fin troppo onesto; egli aveva un'onestà quasi fanciullesca. Quello che diceva corrispondeva sempre ai suoi effettivi pensieri, espressi nel modo più diretto. Niente è più rassicurante che vivere e lavorate con una persona che dice tutto quello che gli passa per la mente, ma vi dovete abituare. Pauli non voleva urtare nessuno, anche se talvolta lo faceva, senza intenzione. Non amava le mezze verità o le idee non pensate fino in fondo, e non tollerava di parlare di un'idea incompleta. Egli, come molti dissero, era la coscienza della fisica. Voleva che le persone comprendessero le cose a fondo e le esprimessero correttamente. Non si stancava mai di rispondere a domande e di spiegare problemi a chiunque andasse da lui per interpellarlo. Non era brillante nel fare lezione, perché non aveva l'abilità di giudicare quanto il pubblico potesse capire, e i suoi ascoltatori raramente osavano interromperlo con domande. Una volta uno studente lo fece e gli disse: «Lei ci ha detto che la conclusione è banale, ma io non sono capace di capirla». Allora Pauli fece quello che faceva frequentemente quando doveva meditare nel corso di una lezione: uscì dalla stanza. Alcuni minuti più tardi ritornò e disse: «E' banale!». Se qualcuno andava da lui dicendo «per favore mi spieghi questo, non lo capisco», lo spiegava con grande pazienza e piacere. Spesso dicevamo: «Per Pauli ogni domanda è stupida, per cui non esitate a chiedergli qualsiasi cosa volete». Egli amava le spiegazioni semplici e illustrative, ma queste dovevano essere corrette, e non fuorvianti. Una volta il suo collega di fisica sperimentale Paul Scherrer, un eccellente insegnante e un amante delle conclusioni semplici, venne da lui e gli disse: «Guarda, Pauli, volevo mostrarti come ho spiegato questo effetto nel mio corso. Vedi, qui lo spin è rivolto verso l'alto e lì verso il basso, e poi essi interagiscono... non è semplice?». Al che Pauli rispose: «Semplice lo è, ma è anche sbagliato!». Pauli amava la gente e dimostrava grande lealtà ai suoi studenti e ai suoi collaboratori. Tutti noi allievi di Pauli sviluppammo un profondo attaccamento personale a lui, non solo a causa delle molte conoscenze che egli ci dava, ma a causa delle sue qualità umane fondamentalmente accattivanti. E' vero che talvolta era un po' difficile trattare con lui, ma tutti noi comprendevamo che egli ci aiutava a vedere le nostre debolezze. Ehrenfest espresse molto bene ciò dopo che andò da lui John Robert Oppenheimer da giovane laureato, verso la fine degli Anni Venti. Ehrenfest era scontento perché Oppenheimer dava sempre risposte rapide alle domande, ed Ehrenfest sentiva che le risposte non sempre erano corrette ma era incapace di replicare abbastanza in fretta. Pertanto egli scrisse a Pauli: «Ho qui un americano notevole e intelligente, ma non so come comportarmi con lui. E' troppo intelligente per me. Non potresti prendertelo tu, e dargli una buona regolata morale e intellettuale?». Noi tutti ricevemmo una regolata dal caro Pauli, e ne fummo ben lieti. Vi era una sola persona con la quale Pauli si comportava in modo totalmente diverso. Quando Arnold Sommerfeld, che era stato il suo insegnante, venne a Zurigo per una visita, egli non faceva che dire: «Sì, Herr Geheimrat, sì, questo è molto interessante, ma forse io preferirei una formulazione leggermente diversa, potrei formulare ciò in questo modo...». Era molto divertente per noi, vittime della sua aggressività, vederlo comportarsi bene, educato e ossequioso; un Pauli completamente diverso. Victor F. Weisskopf


FLORICOLTURA Avremo rose blu E forse anche senza spine
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: GENETICA, BOTANICA
NOMI: BARNI VITTORIO
LUOGHI: ESTERO, AUSTRALIA
NOTE: Ingegneria genetica

COMPARE sui giornali, di tanto in tanto, un titolo abbastanza sensazionale: «Ottenuta una rosa blu». In genere la notizia giunge dall'Australia, dove lavora a questo fine una joint venture con capitali locali e giapponesi, ma viene puntualmente smentita dagli stessi interessati. Lo sa bene il padre italiano della rosa, Vittorio Barni, che nella sua azienda di Pistoia, fondata dai suoi trisavoli nel 1882 continuando una tradizione familiare, ha dedicato e dedica le sue energie e i suoi studi alla ibridazione e alla selezione delle migliori fragranze tra le 33 che la rosa emana. C'è un notevole interesse ad avere i fiori blu, non solo di rosa ma di qualsiasi specie; è un colore non frequente e perciò apprezzato specialmente oggi, che si cerca di realizzare giardini monocromatici o con colori ben definiti. Nel caso della rosa sembra però che manchino i cromosomi, perciò soltanto con l'ingegneria genetica si potrà giungere a tale risultato. La cultivar «Ametista», una rosa a cespuglio rifiorente dal colore lilla ravvivato da una sfumatura porpora che si mantiene fino a completa fioritura, potrebbe forse essere un progenitore, come pure «Blue Moon», una rosa ottenuta in Germania, molto rifiorente, dal colore lilla intenso, assai profumata. E' più semplice ottenere nuove rose da giardino che da fiore reciso. Nel secondo caso i caratteri da migliorare sono la resistenza alle malattie, la produttività elevata, la durata di vita in vaso - il consumatore ben sa quanto possa essere breve la vita della rosa! -, la lunghezza dello stelo (il mercato italiano esige rose dallo stelo lungo 100-120 centimetri), la qualità del bocciolo florale che deve essere compatto e, soprattutto, di dimensione medio- grande anche se la tendenza di questi ultimi anni è un elevato apprezzamento in favore di rose assai piccole, come le rose del gruppo «Serena». Con il tramonto della Baccara, la rosa a fiore reciso di colore rosso rubino ottenuta in Francia che ha conosciuto un lunghissimo periodo di indiscussa popolarità e che è stata abbandonata perché soggetta ad alterazioni e a elevate esigenze termiche, tutto il mondo lavora per ottenere una rosa che la eguagli. Anche se si dispone di ottime rose da fiore reciso nessuna ha una buona risposta alla forzatura, un lungo periodo ottimale di vegetazione pari alla Baccara. Quanto alla rosa da giardino, gli ibridatori, eternamente grati alla Rosa chinensis in quanto ha introdotto il carattere della rifiorenza, stanno lavorando per ottenere rose dallo stelo privo di aculei, cultivar che perdano tardivamente o non perdano affatto le foglie nel periodo invernale, e che abbiano un portamento romantico, tipico delle rose Bourboniane (provenienti dall'isola della Reunion) che però abbiano la vigoria, la robustezza e la longevità della rosa Queen Elizabeth, forse meno amata rispetto al passato. Anche il profumo è un carattere essenziale se pure assai difficile in quanto non è quantificabile, è volubile e solitamente è massimo al momento della riproduzione: di solito gli ibridi sono maggiormente profumati. Inoltre tutte le rose del gruppo Rugosa sono assai profumate. Attualmente gli ibridatori stanno lavorando su di un gruppo di rose inglesi ottenute da Austin nel corso del 1800 in Inghilterra molto apprezzate grazie alla forma del bocciolo a coppa, a quarti, con petali doppi, piacevolmente profumate di mela, di quercia, di limone, per inserirvi il carattere della rifiorenza. Inoltre i costitutori di rose stanno pure cercando di arricchire l'assortimento di rose da utilizzare nel paesaggio e nel verde urbano. Dovrebbero possedere portamento strisciante, tappezzante, essere rifiorenti e richiedere bassa manutenzione: come Castore, Polluce, Berenice, Ferdy, La Sevillana. L'uomo, comunque, alla sua innamorata continuerà sempre a regalare una rosa rossa. Così, per lo meno, pensa Vittorio Barni. Elena Accati Università di Torino


IN BREVE Energia e ambiente mostra a Torino
ARGOMENTI: ENERGIA, AMBIENTE, MOSTRE
LUOGHI: ITALIA, TORINO (TO)

Dal 4 all'8 ottobre si svolgerà a Torino (Lingotto) una Mostra- congresso internazionale sulle tecnologie energetiche e ambientali. Produzione di energia, cogenerazione, depurazione dell'acqua e dell'aria e smaltimento dei rifiuti tra i temi che verranno affrontati. La prima giornata è dedicata alle responsabilità per danno ambientale, l'ultima ai rapporti tra Stato, industria e ambiente.


IN BREVE Tumori al polmone questioni aperte
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Che fare di fronte a un tumore polmonare in stadio avanzato? Curarlo con la chemioterapia più aggressiva, nel disperato tentativo di arrestarne il corso, o rinunciare e puntare alla qualità della vita del paziente nella fase terminale della sua vita? Quali effetti psicologici ha sul paziente l'una o l'altra scelta? E' un problema medico ed è un problema etico, che divide la stessa classe medica, gli stessi specialisti. Ricerche oggettive, sul campo, danno indicazioni opposte. Proprio centrato su questioni di questo genere è la prima Conferenza internazionale sul timore dei polmoni che si svolgerà ad Alba il 7 e 8 ottobre, organizzata dall'Associazione cuneese per lo studio e la ricerca contro il cancro del polmone.


IN BREVE Funghi in mostra al museo di Milano
ARGOMENTI: BOTANICA, MOSTRE
LUOGHI: ITALIA, MILANO (MI)

Il 2 e 3 ottobre appuntamento per gli appassionati di funghi al Museo di Storia naturale di Milano (c. Venezia 55). Saranno esposte oltre 200 specie raccolte nei prati e nei boschi di tutt'Italia. Questa iniziativa micologica si deve al Gruppo botanico milanese.


IN BREVE Denti al titanio se ne parla a Padova
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, CONGRESSO
LUOGHI: ITALIA, PADOVA (PD)

Dal 29 settembre al 2 ottobre si svolgerà a Padova il primo congresso mondiale di osseointegrazione, tecnica chirurgica che permette di inserire parti di titanio nelle ossa del paziente. Nata come tecnica odontoiatrica, l'osseointegrazione ha ormai molte applicazioni in altre parti del corpo.


IN BREVE Ippocrate torna a Kos
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA
LUOGHI: ITALIA

Un calco del busto di Ippocrate conservato al Museo di Ostia verrà consegnato il 1 ottobre alla Fondazione di medicina ippocratica di Kos nel quadro di un progetto europeo promosso da Eco-Crea per favorire i processi di innovazione concettuale nell'educazione e nello sviluppo economico e sociale. Per informazioni: tel. 055-332. 549.


IN BREVE Test Dria per i muscoli
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, TORINO (TO)

Il test Dria è stato studiato per mettere in evidenza un'alterazione dello sforzo muscolare in seguito alla somministrazione di una sostanza alimentare e di un allergene respiratorio: si può così determinare l'eventuale intolleranza alla sostanza testata. Se ne è parlato a Torino nel corso di una conferenza per la presentazione del test.


ANNUNCIO SU «SCIENCE» Superpannocchia In arrivo il mais gigante
Autore: MANACORDA ELISA

ARGOMENTI: GENETICA, BOTANICA, AGRICOLTURA
ORGANIZZAZIONI: SCIENCE
LUOGHI: ESTERO, USA, MICHIGAN

CHI ha detto che «piccolo è bello?» Il vecchio slogan non vale più. Al contrario: le bioscienze, e la genetica in particolare, sembrano decisamente orientate a produrre esemplari sempre più grandi di piante e animali. Così, dopo quella del topo transgenico e, ancora più recente, quella del salmone gigante (sette quintali!), dagli Stati Uniti arriva un'altra notizia destinata a fare scalpore. Tre ricercatori dell'Università del Michigan l'hanno annunciata dalle pagine del settimanale Science: dopo lunghi studi è stato finalmente individuato e clonato uno dei geni implicati nel processo di crescita della pianta di granoturco. Obiettivo finale, anche in questo caso, è con ogni probabilità la produzione di mega-chicchi di mais. Insomma, la superpannocchia. I tre scienziati statunitensi hanno individuato il gene della crescita vegetale dopo una vertiginosa ricerca a ritroso, che si può riassumere, in un articolo divulgativo, soltanto per sommi capi. Sono partiti da quello che ormai è noto a tutti: la crescita delle piante è regolata dalla presenza di alcune famiglie di ormoni vegetali, tra cui quella delle auxine. Sono queste sostanze a provocare l'allungamento del fusto e delle foglie, o il loro orientamento rispetto alla luce del sole. Del gruppo delle auxine fa parte l'acido 3- indolacetico (Iaa), che a sua volta si presenta in due forme diverse: una attiva (o «libera») che regola l'accrescimento della pianta, e una inattiva (o «coniugata»), in cui l'acido si presenta legato a un'altra piccola molecola. A dispetto del suo nome, la forma inattiva è molto utile, poiché funge da guardia del corpo e da mezzo di trasporto della forma attiva, che così può muoversi lungo le foglie e il fusto. I ricercatori americani hanno dunque concentrato la loro attenzione su quest'ultima, o meglio sulla trasformazione della forma libera dell'acido in quella coniugata. La decisione è stata felice: si è scoperto infatti che questo passaggio è regolato da un enzima dal nome impronunciabile (per brevità: glucosil-transferasi). Come in un processo di «taglia-incolla», l'enzima «attacca» una piccola molecola alla forma attiva dell'Iaa, rendendola inattiva. Questo enzima è dunque un po' la chiave di volta dell'intero processo di crescita, poiché regola le diverse concentrazioni delle due forme di Iaa. Siamo così arrivati all'ultimo passaggio: l'enzima, a sua volta, è sintetizzato da un gene dal nome esotico, il gene Iaglu. Ed è proprio questo gene che è stato individuato e analizzato dai ricercatori americani nei semi della pianta di granoturco (Zea mays). La scoperta del gene Iaglu ha una grande importanza, dicono i tre studiosi, perché rappresenta il primo passo verso la comprensione del processo di crescita delle piante. Una volta compresi i meccanismi del «taglia e incolla», dunque, potrebbe essere possibile arrestare o accelerare a piacimento la crescita di intere coltivazioni. Con un altro piccolo vantaggio - a detta dei ricercatori - rispetto alle tradizioni tecniche di crescita vegetale, che oggi si basano sulla somministrazione di ormoni attraverso le radici. La via genetica, fanno capire gli americani, potrebbe rivelarsi meno inquinante perché eviterebbe l'impiego di sostanze chimiche nel terreno. Eppure, così come fa paura un salmone di sette quintali, anche una pannocchia gigante potrebbe destare qualche preoccupazione. Forse non sempre «grande è meglio». Elisa Manacorda


IN PERICOLO 3000 ESEMPLARI Virus fa strage nella roccaforte dei leoni Minacciata la maggior popolazione rimasta, quella del Serengeti
Autore: ANSALDO LUCA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI, MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: ROELKE PARKER MELODY, PACKER CRAIG
LUOGHI: ESTERO, TANZANIA

LA più grande popolazione di leoni esistente al mondo è in pericolo. I tremila esemplari che vivono nel Serengeti rischiano di contrarre un'infezione virale mai riscontrata nei felini e che conduce inevitabilmente alla morte. Testimoni dell'epidemia, Melody Roelke-Parker, ufficiale veterinario capo del Parco nazionale della Tanzania, e Craig Packer dell'università del Minnesota, hanno constatato che un terzo dei 250 esemplari da loro studiati ha già contratto l'infezione. Il primo indizio è stato casualmente fornito da un turista che durante un safari ha filmato un leone barcollante con i sintomi neurologici della malattia. L'agente del morbo secondo gli studi preliminari sembra coincidere con il virus del cimurro contro cui vengono vaccinati i cani domestici. Il microrganismo attacca all'inizio l'apparato respiratorio e digerente per poi indurre prima della morte una sintomatologia nervosa legata ad una grave encefalite. Il virus appartiene sicuramente al genere Morbillivi rus, che comprende agenti responsabili di malattie come la peste bovina, il morbillo umano ed il cimurro. Nel 1991 una grave infezione da Morbillivirus è stata responsabile della morte di stenelle, un cetaceo dei nostri mari. Ma il Morbillivirus colpì per la prima volta i mammiferi acquatici nel 1988, quando nel Mare del Nord causò la morte di più di ventimila esemplari di foca comune. Proprio in questo caso fu ritenuto responsabile il virus del cimurro del cane ma indagini più approfondite indicarono che si trattava di un nuovo Morbillivirus. Da allora sono stati isolati altri tre nuovi membri dello stesso genere in grado di provocare epidemie nelle foche siberiane ed in cetacei quali le focene e le stenelle. Tutti questi agenti virali sono dal punto di vista antigenico strettamente correlati tra loro ma sono dotati di una spiccata specificità per l'ospite. In parole povere il microrganismo della peste bovina non può provocare in un'altra specie, per esempio nel cane, l'insorgenza del cimurro. In compenso grazie alla loro somiglianza l'esposizione a un virus può conferire una resistenza anticorpale nei confronti degli altri Morbillivi rus. Di qui deriva anche la difficoltà degli epidemiologi a distinguerli l'uno dall'altro e a fare una diagnosi definitiva nel Serengeti. Intanto si stanno formulando le ipotesi più disparate per spiegare questa nuova epidemia. Studi condotti negli Anni 50 avevano dimostrato come i carnivori sviluppassero una resistenza al cimurro in seguito all'esposizione alla peste bovina. I leoni che si nutrivano di bestiame e di animali selvatici affetti dal morbo potevano così costruirsi una difesa anticorpale. Ciò potrebbe spiegare come mai fino all'anno scorso i leoni non abbiano ancora contratto il cimurro che già negli Anni 60 aveva infettato le iene presenti nel Serengeti. L'eradicazione della peste bovina ottenuta di recente con le vaccinazioni del bestiame potrebbe però aver lasciato scoperti i leoni dal punto di vista immunitario. L'epidemia di cimurro che l'anno scorso ha colpito i cani nei villaggi attorno al parco dovrebbe aver determinato il passaggio del virus dagli animali domestici a quelli selvatici. Alcuni ricercatori sospettano invece che il microrganismo possa aver subito mutazioni tali da renderlo più virulento. Altri ritengono che una vulnerabilità maggiore dei leoni sia legata all'eccessiva densità della popolazione nel parco che li renderebbe più sensibili alla siccità e ad altre infezioni. Ora si teme che l'epidemia possa diffondersi dall'angolo Sud-Est del parco. Per arginare l'infezione si stanno eseguendo piani di vaccinazione sui cani domestici che vivono attorno alla regione colpita. Intanto ci si interroga sull'origine degli agenti infettivi del genere Mor billivirus responsabili delle improvvise epidemie sia nei mammiferi terrestri che in quelli marini. Esiste una relazione tra le infezioni nei diversi animali? Che capacità hanno questi virus di superare le barriere di specie? A queste domande i ricercatori non hanno ancora saputo dare una risposta. Luca Ansaldo


Un vaccino causò l'Aids
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, TRIBUNALI
NOMI: CURTIS TOM, KOPROWSKI HILARY
ORGANIZZAZIONI: WISTAR, ROLLING STONE
LUOGHI: ESTERO, USA

UN'AULA di tribunale è la sede adatta per un dibattito scientifico? No. Eppure è accaduto. Riguarda l'ipotesi che l'origine dell'Aids sia da collegare alle prime massicce campagne di vaccinazione antipolio condotte in Africa negli anni 1957-59. Formulata in modo indipendente da più autori, l'ipotesi ha valso una causa di diffamazione a chi ne ha dato maggiore diffusione nel 1992: il giornalista Tom Curtis e la rivista australiana Rolling Stone. Promossa da Hilary Koprowski, che all'epoca dei fatti dirigeva la casa produttrice del vaccino, la Wistar di Filadelfia (Usa), la causa è stata ritirata alcuni mesi fa dopo la pubblicazione delle debite scuse. Ma veniamo ai fatti. L'Aids incominciò a manifestarsi all'inizio degli Anni 80 in comunità omosessuali americane. Negli anni seguenti fu evidente che l'agente patogeno era un retrovirus (Hiv-1, per distinguerlo da Hiv-2 responsabile di una seconda forma di Aids presente soprattutto nell'Africa Occidentale) e che il focolaio di origine del l'Hiv-1 doveva essere cercato in una zona dell'ex Congo Belga corrispondente agli odierni Rwanda, Burundi e Zaire, le regioni tuttora a più alta incidenza di Aids nel mondo. Un esame retrospettivo condotto negli Anni 80 fece riconoscere 7 casi di Aids nello Zaire e nel Burundi tra il 1962 e il 1976 (ben prima che l'epidemia fosse evidente in Occidente); e il primo test positivo fu evidenziato in un campione di sangue raccolto nel 1959 a Leo poldville, oggi Kinshasa nello Zaire. L'ipotesi che l'Aids-1 sia l'involontario e inaspettato risvolto delle prime campagne di vaccinazioni antipoliomielitiche scaturisce da alcune inquietanti coincidenze. Dopo la prima metà degli Anni 50, Albert Sabin mette a punto un vaccino antipoliomielitico che conferisce immunità permanente e può essere somministrato facilmente per via orale. Il vaccino utilizza ceppi di virus vivi devitalizzati coltivati su reni di scimmia (le cellule umane sono escluse dal processo per timore di trasferire forme di cancro). In parallelo un altro patologo, Hilary Koprowski direttore della Wistar, sintetizza con la stessa metodologia un altro vaccino, e lo sperimenta in alcune regioni dell'ex Congo Belga con la prima massiccia campagna antipolio condotta sull'uomo. Fra la fine del '57 e l'inizio del '58 ricevono il vaccino 325 mila persone - fra adulti e bambini - della regione del Lago Kivu e alcuni mesi più tardi (a partire dall'agosto '58) 75 mila persone di Leopoldville. L'area corrisponde appunto agli odierni Burundi, Rwanda e Zaire. Negli anni seguenti una serie di «incidenti» mise in evidenza che nella preparazione dei vaccini con virus vivi devitalizzati venivano moltiplicati anche altri virus che erano presenti nel rene di scimmia. Virus fino allora sconosciuti e comunque in generale ritenuti innocui: un virus di scimmia, si pensava, non può essere patogeno per l'uomo. Invece oggi esiste il forte sospetto che uno di questi, il virus Sv40, presente nelle prime partite del vaccino Sabin, sia patogeno anche per l'uomo e causa di una qualche forma di cancro. Nel 1982 si scoprì che anche alcune scimmie soffrivano di una patologia con la stessa sintomatologia dell'Aids-1 e che in questo caso l'agente patogeno era un retrovirus (Siv: simian immunodeficiency virus) con numerosi tratti in comune con le forme che determinano Aids nell'uomo. Portatori del virus Siv, senza che si manifesti una evidente patologia, sono in particolare i cercopiteci verdi africani, le scimmie più usate per la produzione del vaccino antipolio, mentre ne sono esenti i macachi asiatici, la cui esportazione per scopi medici è stata vietata dal governo indiano fin dal periodo delle prime campagne di vaccinazione africane. Ecco allora il punto focale dell'ipotesi: se le prime partite di vaccino antipolio erano contaminate dal virus Siv, è possibile che questo, inoculato con spray orale, sia penetrato nel circolo sanguigno di alcuni pazienti attraverso lesioni della mucosa della bocca o perché inspirato profondamente nei polmoni. Nell'ospite umano, in seguito a numerose mutazioni, il virus Siv della scimmia si sarebbe trasformato nella forma Hiv dell'uomo. Confrontando le sequenze diverse di Siv e di Hiv-1 e conoscendo il tasso annuale di mutazione è possibile calcolare quando questa trasformazione si è compiuta: secondo Sharp e W. H. Li l'origine di Hiv-1 è da porre poco prima del 1960, mentre quella di Hiv-2 è più antica. E' d'obbligo a questo punto una domanda: quali scimmie sono state usate nelle prime produzioni di vaccino antipolio? Nessuno oggi è in grado di dirlo alla Wistar, dove si obbietta che i virus Hiv e Siv non crescono nelle cellule renali bensì nei linfociti e nei macrofagi del sangue. Alla Wistar si obbietta anche che l'intervallo fra le vaccinazioni africane del '57 e i primi casi di Aids del '59 non è stato sufficiente per la trasformazione del virus Siv della scimmia nella forma Hiv dell'uomo (ma se nella preparazione del vaccino fossero stati usati reni di scimpanzè, il virus patogeno per questo animale - quasi uguale al nostro - potrebbe essersi adattato all'ospite umano in un tempo più breve). L'ipotesi prevalente fra gli scienziati è che la data di origine dell'Hiv sia molto più antica degli Anni 60 (ma forse è stata calcolata su Hiv-1 e Hiv-2 insieme) e che probabilmente furono invece gli incidentali e ripetuti «contatti» fra le scimmie e l'uomo (il morso di un animale a un cacciatore, o le ferite da taglio durante lo scuoiamento) ad avere determinato parecchie decine di anni fa la formazione di piccoli focolai di Aids in alcune sperdute regioni dell'Africa Equatoriale. Questo è in sintesi il tema della discordia, ma si può lasciare a un tribunale il compito di districare una questione scientifica e umana così delicata? Una indagine condotta da scienziati nominati dalla Wistar ha sottolineato l'opportunità di esaminare i campioni di quei primi vaccini tuttora conservati in congelatori (esame finora mai eseguito), e ha suggerito anche di usare una grande cautela nell'utilizzare organi di scimmia per tali preparati. Nessuno nega il contributo straordinario dei vaccini con virus devitalizzati nell'affrancare l'uomo dalla poliomielite o da altre malattie, nè si vuole fare del terrorismo sul loro uso, dal momento che oggi essi sono sottoposti a scrupolosi controlli. Ma un'indagine molto seria e accurata è d'obbligo, sia per chiarire una volta per tutte questo terribile dubbio, sia per evitare che l'uso indiscriminato di organi di animali di altre specie in medicina e in chirurgia possa tradurre le buone intenzioni in un involontario disastro. Maria Luisa Bozzi


IPERTROFIA PROSTATICA Quel disturbo del maschio nell'età critica Due categorie di farmaci permettono una cura ai primi sintomi
Autore: TRIPODINA ANTONIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: OMS
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. Test per sapere se si soffre di ipertrofia alla prostata

FARE un sonno unico, dalla sera alla mattina, senza mai svegliarsi, è il sogno di chi soffre d'insonnia ma anche di chi è affetto da «ipertrofia prostatica benigna». Questo sogno contempla anche un pigro stirarsi fra le lenzuola, senza l'imperiosa urgenza di precipitarsi in bagno per svuotare la vescica: una operazione che invece - per chi soffre di ipertrofia prostatica - urge quasi ogni mattina e talvolta anche più volte nel corso della notte, benché poi, nonostante l'impellenza, incominci con difficoltà e sovente si svolga con molta lentezza, anche goccia a goccia. Certo, l'ipertrofia prostatica è un'affezione benigna - secondo la definizione medica consueta -, ma proviamo a immaginare i pensieri di un uomo che ne riscontri i primi sintomi: è probabile che i suoi pensieri vadano ad aleggiare sulla prospettiva di un graduale decadimento fisico e sul timore che un'analoga «defaillance» possa colpire quanto prima anche la funzione sessuale. Entrambi i pensieri hanno conseguenze psicologicamente depressive facilmente immaginabili. La causa di questi disagi che incidono non poco sulla qualità della vita è l'aumento di volume di una piccola ghiandola (non più grande di una castagna), la cui funzione è quella di secernere un liquido che costituisce una componente essenziale dello sperma e che ha la caratteristica di essere localizzata in un posto veramente poco felice. La prostata (parola che deriva dal greco e che significa letteralmente «posta avanti») si trova subito davanti al retto e subito sotto la vescica, circondando il tratto iniziale dell'uretra, il condotto che attraverso il pene porta all'esterno urina e sperma. E proprio quest'ultima è la peculiarità anatomica cruciale, poiché anche un lieve ingrossamento della ghiandola determina fatalmente una compressione dell'uretra e di conseguenza un ostacolo al libero deflusso dell'orina. Succede allora che, per superare la maggiore resistenza, il muscolo detrusore della vescica si ipertrofizza e diventa irritabile, contraendosi anche in presenza di piccole quantità d'orina. Di qui la necessità di frequenti minzioni (disturbo tecnicamente chiamato dai medici «pollachiuria»). Con il tempo e con l'accrescersi delle dimensioni dell'ostacolo, la muscolatura finisce per sfiancarsi e diviene sempre più insufficiente. Ne derivano il ritardato inizio della minzione, la scarsa potenza del getto e il ristagno di urina in vescica. Diventano in questo modo possibili alcune complicazioni, come infezioni urinarie, diverticolosi e calcolosi vescicali, dilatazione delle vie urinarie a monte della vescica (idronefrosi), fino al prodursi di danni più o meno gravi a carico della funzione renale. Sfuggono ancora, nonostante i recenti progressi compiuti dalla ricerca medica, gli intimi meccanismi per cui con l'avanzare dell'età viene a prodursi in un'alta percentuale di persone un accrescimento della prostata (circa il 50 per cento fra i cinquanta e i sessant'anni, circa l'82 per cento oltre gli ottant'anni). La prostata comprende una porzione ghiandolare (che è quella che produce il liquido spermatico) e una porzione stromale di sostegno (costituita da nervi, da vasi sanguigni e linfatici, da fibre collagene, fibroblasti e cellule muscolari lisce). L'ipertrofia avviene a carico di entrambe le parti. Poiché il suo sviluppo e la sua funzione dipendono in gran parte dagli ormoni sessuali, sia androgeni che estrogeni, si pensa che lo stimolo all'ipertrofia sia determinato da uno squilibrio dell'assetto ormonale. In effetti dopo i cinquant'anni si ha un declino progressivo della produzione degli androgeni e un contemporaneo aumento della produzione degli estrogeni. Questo squilibrio viene inoltre accentuato dall'aumentata affinità del testosterone per la sua proteina di trasporto, con conseguente diminuzione della sua funzione attiva. A livello prostatico si ha un aumento (fino a cinque volte) della 5-alfa-reduttasi, un enzima che trasforma il testosterone in didro-testosterone, un ormone molto più attivo. In questo scenario ormonale è stata avanzata l'ipotesi, attualmente la più accreditata, seconda la quale gli estrogeni in eccesso stimolerebbero sia l'ipertrofia dello stroma sia la produzione dei recettori per il diidro-testosterone a livello della componente ghiandolare: l'aumento intracellulare di questo ormone stimolerebbe la mitosi (duplicazione cellulare) e quindi l'iperplasia ghiandolare. Queste premesse clinicamente piuttosto attendibili hanno indotto la ricerca farmaceutica a creare due classi di molecole atte a neutralizzare i supposti fattori di stimolo: gli inibitori della 5-alfa-reduttasi, il primo dei quali, la finasteride, è già in commercio da qualche anno con significativi risultati clinici, e gli inibitori della aromatasi (testolattone ed atemestane, ancora allo stadio di sperimentazione) che diminuiscono il livello degli estrogeni, bloccando la trasformazione degli androgeni in estrogeni. Sebbene l'intervento chirurgico, nelle sue varie forme sempre più raffinate e sempre meno invasive, sia sempre da considerare l'approccio risolutivo nelle fasi più avanzate di questa patologia (è la valutazione del ristagno urinario un criterio di indicazione chirurgica), la terapia farmacologica, sempre più sofisticata e sempre più mirata, guadagna campo nel trattamento delle fasi iniziali della malattia e nelle forme non complicate, con indubbi miglioramenti per la qualità della vita. Antonio Tripodina


DOPO IL CASO DI TORINO Ecco i batteri delle intossicazioni alimentari L'Oms: ristorazione collettiva, i rischi aumentano in tutto il mondo
Autore: VALPREDA MARIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, ALIMENTAZIONE, INTOSSICAZIONE, MENSE
ORGANIZZAZIONI: OMS
LUOGHI: ITALIA, TORINO (TO)

L'allarme arriva dal caso dei 280 bambini intossicati a Torino dal cibo delle mense scolastiche, ma anche dagli esperti dell'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). Sono in aumento in tutto il mondo le malattie trasmesse da alimenti. Le cause? Molte, dall'aumento degli scambi di prodotti di origine animale alla crescita del turismo. Ma soprattutto, dicono i medici dell'Oms, è la scarsa attenzione all'igiene a facilitare la diffusione degli agenti di zoonosi, le malattie trasmesse dagli animali. In particolare è sotto accusa la ristorazione collettiva, responsabile di molti episodi di intossicazione da alimenti, sempre più spesso con esiti mortali. In cima alla lista delle infezioni c'è la salmonellosi, patologia di origine alimentare che colpisce tutte le fasce di età ma è grave soprattutto nei bambini sotto i 5 anni. Le salmonelle non vengono trasmesse solo dagli alimenti ma anche, in misura minore, da animali domestici e selvatici. Negli Usa ogni anno vengono denunciati 40 mila casi ma gli epidemiologi calcolano che gli infetti siano 4 milioni. In Svezia due anni fa sono stati segnalati ufficialmente oltre 7000 casi, di cui circa seimila avevano colpito turisti scandinavi in viaggio per l'Europa. Stessa situazione in Scozia e Francia, dove Salmonella ente ritidis è il patogeno rinvenuto più frequentemente mentre i cibi più implicati sono stati nell'ordine: uova e derivati, carne e pollame, latte e formaggi, pesce e molluschi. Ma non è solo un problema di salmonelle. Negli ultimi anni altri germi sono balzati al centro dell'attenzione degli igienisti: Listeria, Campylo bacter, Yersinia sono stati fantasiosamente definiti «giganti addormentati» nel mondo delle intossicazioni. A dilatare l'area del rischio ha contribuito l'avvento dell'era della dietetica e delle mode alimentari, che forza l'industria a proporre prodotti a basso tenore di zuccheri e grassi. Ad esempio, un sostituto dei grassi cui si ricorre sempre più largamente è la tapioca, che presenta rischi non indifferenti di contaminazione da Clostridi. Le preoccupazioni dei sanitari per la crescente presenza di queste patologie sono anche legate ai rilevanti danni economico sociali che ne derivano. Anche se un calcolo esatto è difficile, un semplice quadro generale può fornire indicazioni significative. Infatti, oltre alle spese dirette per cure mediche, ricoveri (spesso contemporanei di centinaia di persone) e analisi diagnostiche, vanno computati i costi indiretti: i giorni di lavoro perso e i turbamenti all'organizzazione familiare degli infortunati. Senza dimenticare l'assistenza legale, gli oneri per l'industria (sequestro di materie prime e preparazioni alimentari, chiusura di stabilimenti e locali di ristorazione) e l'impegno della sanità pubblica per interventi, inchieste, prescrizioni. Allora, che fare? Gli esperti Oms e Cee si sono affrettati a predisporre programmi riferibili a «sistemi di primo intervento» (Early Warning System) che, tra l'altro, hanno anche la funzione di registrare e classificare ogni focolaio o caso di tossinfenzione alimentare. Sotto il profilo applicativo oggi si giudica assolutamente insufficiente il solo controllo microbiologico a campione del prodotto finito. Per garantire la qualità batteriologica degli alimenti è indispensabile il cosiddetto «controllo di processo», che consente un'efficace applicazione delle norme profilattiche su tutta la catena produttiva. Mario Valpreda




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