TUTTOSCIENZE 10 agosto 94

ULTIME RICERCHE Le orme dei dinosauri Ce ne sono anche sulle Dolomiti
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA, LIBRI
PERSONE: LOCKLEY MARTIN
NOMI: BAKKER ROBERT, BIRD ROLAND, LOCKLEY MARTIN
ORGANIZZAZIONI: BOLLATI BORINGHIERI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Sulle tracce dei dinosauri»

LO aveva già capito sir Arthur Conan Doyle: per vedere gli animali del passato vivi nel loro mondo non resta che seguirne le tracce. Così, nel ricostruire «un mondo perduto», lo scrittore inglese padre di Sherlock Holmes fu antesignano, all'inizio di questo secolo, dell'icnologia, la scienza che studia le impronte fossili. Una scienza che in questi ultimi anni è molto cresciuta nell'interpretazione dei reperti, per cui le impronte si stanno rivelando una fonte di conoscenza più prodiga delle parti ossee. Testimoniano questo recente sviluppo i testi che cominciano ad apparire sull'argomento, ora anche in edizione italiana, come Sulle tracce dei dinosauri di Martin Lockley (Bollati Boringhieri). Protagonisti importanti dell'icnologia sono proprio i dinosauri, che nei 180 milioni di anni della loro permanenza sulla Terra hanno letteralmente modellato le rocce del Mesozoico, lasciando una quantità di impronte che supera di gran lunga quella degli scheletri. Le tracce raccontano la vita dei dinosauri assai meglio di quanto non facciano i reperti ossei, perché le ossa non sono che i resti di un cadavere spesso smembrato dagli animali che si nutrivano delle carogne e a volte disperso nell'habitat riginario, mentre un'impronta è legata all'animale vivo colto nel momento in cui svolgeva una qualche attività nel suo ambiente. E mentre il ritrovamento di più scheletri - i «cimiteri» di dinosauri - è spesso dovuto a fattori casuali, come quando le acque di un fiume accumulavano le carcasse in uno stesso punto, un insieme di piste testimonia invece un'associazione di animali vivi, spesso interagenti fra loro. Ma come si è formata un'impronta fossile? Queste tracce, giunte fino a noi pietrificate nella roccia, sono state impresse dall'animale su una superficie umida che, essiccandosi per effetto del calore solare, diveniva più resistente rispetto all'erosione del vento o dell'acqua. Riempita di sedimenti, l'orma veniva coperta e seppellita dagli strati successivi dove è stata preservata finché l'azione erosiva, una frana o uno scavo l'hanno riportata alla luce. Ecco allora che agli occhi degli icnologi appare chiara la forma del piede, la dimensione, la successione delle zampe anteriori e posteriori, da cui si può desumere la lunghezza del passo, la modalità di movimento (se l'animale era bipede o quadrupede; se camminava, correva o saltava), la direzione e la velocità dello spostamento. A differenza dei reperti ossei, un'orma non è così caratterizzata da poter indicare con esattezza la specie dell'animale che l'ha lasciata, ma può definirne il gruppo tassonomico, distinguendo gli erbivori dai carnivori. Sono evidenti invece altri particolari non rilevabili nei reperti scheletrici, come l'impronta della pelle e la forma dei cuscinetti del piede. La profondità di un'orma introduce nell'esame un'altra variabile, la dimensione del tempo, perché quando le zampe di un dinosauro affondavano in un terreno molle, imprimevano un segno anche sugli strati situati a 5 o 10 centimetri sotto la superficie e depositati decine, centinaia o migliaia di anni prima di quello superficiale. Sorge allora un dubbio: quelle che vediamo sono impronte o sottoimpronte? Le piste di più dinosauri possono davvero indicare che essi camminavano insieme in un gruppo compatto, oppure gli animali hanno transitato a distanza di tempo, obbligati a seguire la stessa traiettoria dalla conformazione del paesaggio, per esempio da una gola o da un cordone litoraneo? In seguito a questi studi più recenti, viene messa ora in dubbio la ricostruzione di Robert Bakker, secondo cui nel gruppo gli adulti erano in posizione periferica a proteggere i piccoli al centro, mentre è stata confermata l'associazione in branchi sia dei dinosauri erbivori in migrazione sia dei dinosauri carnivori che li seguivano. Anche la ricostruzione dell'agguato teso da un teropode a un sauropode avanzata da Roland T. Bird a proposito delle tracce impresse lungo il fiume Paluxy a Glenn Rose nel Texas, ricostruzione effigiata in un famoso plastico al Museo di Storia naturale di New York, è oggi invalidata: a un più attento esame sono apparse dodici piste di sauropodi e almeno tre di teropodi, che passarono dopo (ma quanto tempo dopo?). I segni pietrificati delle impronte offrono anche importanti informazioni di paleoecologia nei granuli di polline, nei piccoli insetti e nei molluschi schiacciati nel calpestio, permettendo di ricostruire l'ambiente in cui gli animali si muovevano. Così le buche allineate su una roccia ai Lavini di Marco nelle Dolomiti occidentali si sono rivelate, nel 1990, come le tracce di centinaia di dinosauri erbivori e carnivori che si spostavano lungo i cordoni sabbiosi emersi nella bassa marea, in un arcipelago di piccole isole piatte affacciate su un mare tropicale. Era il nostro Paese, 190 milioni di anni fa. Maria Luisa Bozzi


Il sesso? Ancora incerto
Autore: ANGELA ALBERTO

ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA
NOMI: LARSON PETER
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Dinosauti, Tirannosauro rex

PER conoscere il sesso di un animale spesso basta uno sguardo: i colori del corpo, le dimensioni, eventuali criniere e corna, o più semplicemente i genitali lo indicano chiaramente. E nel caso dei fossili? Per esempio, come si può da poche ossa pietrificate capire che sesso avesse un dinosauro, cioè un animale che non abbiamo mai visto? E' il problema del Tirannosauro, fose il più famoso tra tutti i dinosauri, il «re» di questi grandi rettili del passato, come spesso è stato definito. Se per alcuni dinosauri la forma e le dimensioni delle creste sul cranio possono fornire qualche indicazione sul sesso, nel caso del Tirannosaurus rex, i soli elementi di cui si dispone oggi sono le dimensioni. Studiando e paragonando le ossa fossili, in effetti, i paleontologi sono arrivati a una conclusione: esistono due tipi di Tirannosauro: uno massiccio, l'altro più esile. Sono in molti a credere che gli individui più grossi fossero femmine e quelli più piccoli maschi. Contrariamente a quanto si può pensare, si tratta di un fenomeno assai diffuso in natura. Quando non c'è competizione diretta tra i maschi per il possesso delle femmine, queste tendono ad essere molto più grosse e massicce dei loro partner: è il modo migliore per affrontare tutti i problemi legati alla riproduzione, che richiedono molta «energia». Nessuno però è in grado di stabilire se anche per i Tirannosauri fosse così. Recentemente, un paleontologo americano ha forse trovato il modo di scoprirlo, fornendo un efficace sistema per determinare il sesso di questi giganteschi rettili. Peter Larson, del Black Hills Institute of Geological Research nel South Dakota, negli Stati Unitit, ritiene infatti che molti dinosauri, tra i quali anche il Tirannosauro, avessero organi genitali non visibili dall'esterno, come i coccodrilli (con un pene rinchiuso in una sacca interna che viene estroflesso solo al momento dell'accoppiamento). Nel caso dei coccodrilli, il rientro dell'organo nel corpo dopo l'uso è garantito da un muscolo particolare ancorato alla protuberanza ossea di una delle prime vertebre della coda: è ovvio che questa protuberanza è più sviluppata nei maschi che nelle femmine. Secondo Larson ciò doveva essere vero anche per i dinosauri. Lo studioso avrebbe trovato una conferma alla sua ipotesi esaminando i resti fossili di molti dinosauri alcuni dei quali, come il Troodon (un carnivoro bipede), erano imparentati con il Tirannosauro: gli individui più piccoli (considerati «maschi») avevano effettivamente una protuberanza ossea più sviluppata degli individui più grossi (le «femmine»). Per scoprire se il sistema di identificazione sia valido anche per il Tirannosauro, basterebbe esaminare l'unico scheletro completo di «femmina» finora trovato, chiamato affettuosamente «Sue» nonostante le spaventose dimensioni. Purtroppo questo straordinario reperto è al centro di un'aspra discordia legale sulla sua proprietà. E le casse contenenti le ossa fossili sono state sequestrate dall'Fbi in attesa della soluzione della vicenda giudiziaria. Alberto Angela


PRO & CONTRO Quando la scimmia si ammala di morbo di Parkinson Le simulazioni al computer non sostituiscono ancora la sperimentazione sugli animali
Autore: ALBANESE ALBERTO

ARGOMENTI: BIOETICA, RICERCA SCIENTIFICA, MEDICINA E FISIOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Esperimenti su animali, vivisezione

LA posizione anti-vivisezionista (o animalista, nella sua accezione più ampia) ha l'aspetto di una scelta moderna e in linea con i tempi. In primo luogo appare in accordo con le posizioni ambientaliste e con il rispetto della natura, che fanno parte della cultura del nostro tempo. Inoltre, il credo animalista appare giusto a chi sia disponibile a limitare la libertà arbitraria dell'uomo di decidere sul destino degli animali, creature di Dio, anche a costo di una limitazione delle conoscenze scientifiche. Forte di queste premesse, il punto di vista degli animalisti è ben accetto, poiché copre un ampio spettro di posizioni ideologiche e di attitudini psicologiche. In sostanza, è molto vicino al comune buonsenso (il sensus communis di Aristotele). Quando poi si entri nel merito del confronto sugli argomenti, si osserva che la chiave di volta, su cui si basa la critica alla sperimentazione scientifica su animali consiste nella convinzione degli animalisti che i risultati ottenuti mediante tale sperimentazione non siano applicabili all'uomo e alle sue malattie. Si tratta di una convinzione assiomatica del tutto errata, che si basa sulla sostanziale negazione (talora piuttosto su di una accettazione di facciata, ma con molti distinguo) dell'esistenza di una continuità evoluzionistica tra il regno animale e l'uomo. L'affermazione di una discontinuità tra l'uomo e gli esseri viventi toglie importanza allo studio degli organismi animali in vivo, poiché il valore applicativo di questo approccio viene considerato analogo a quello degli esperimenti in vitro o di simulazione cibernetica. Da qui deriva la proposta di preferire questi ultimi approcci al primo, con il conseguente risparmio di vite di animali. Gli esperimenti in vitro e di simulazione cibernetica sono comunemente effettuati nei laboratori scientifici. Essi non sono alternativi agli esperimenti in vivo, ma rappresentano una metodologia complementare. La scelta del tipo di esperimento da effettuare dipende dalla natura del quesito sperimentale e non da scelte ideologiche. E' prassi comune quella di evitare di effettuare esperimenti in vi vo in tutti i casi in cui il quesito possa trovare risposta mediante ricerche in vitro. L'idea che i risultati degli esperimenti sugli animali non siano applicabili all'uomo è contraddetta da un ampio bagaglio di osservazioni. Nell'estate 1982 alcuni tossicodipendenti californiani, cercando di produrre eroina sintetica, la contaminarono con una sostanza altamente tossica, lo Mptp, che indusse micro-epidemie di morbo di Parkinson. Lo Mptp, si scoprì in seguito, iniettato nelle scimmie produce una sindrome clinica indistinguibile dal Parkinson dell'uomo. E proprio lo studio del parkinsonismo da Mptp offre molte indicazioni importanti. La convinzione che i risultati degli esperimenti sugli animali non siano applicabili all'uomo spinge il dibattito scientifico indietro di circa tre secoli, poiché prospetta una visione neoscolastica della scienza. Com'è noto, durante il Medioevo e fino a tutto il Cinquecento si è ritenuto che esistesse una separazione sostanziale tra l'uomo e il regno animale. Tale impostazione era basata sulla dottrina aristotelica, che separava l'uomo (dotato di anima) dagli esseri animali, privi di questa qualità e denominati perciò, in latino tardo, bruti. Si riteneva che il cervello fosse la sede delle cinque qualità aristoteliche e si discuteva sulla possibile localizzazione di ciascuna di esse. Su questa base, perciò, non vi era ragione di estrapolare all'uomo le osservazioni effettuate sugli animali. Nel Seicento, il secolo delle grandi rivoluzioni scientifiche, l'impostazione scolastica è stata confutata da Copernico nel campo dell'astronomia, da Galileo nel campo della fisica e da Willis nel campo delle neuroscienze. Il De anima brutorum di Willis fu pubblicato nel 1672. Willis osservò in sostanza che il cervello dell'uomo non è formalmente diverso da quello di un montone e di altri mammiferi. Non è difficile riconoscere nel cervello di diverse specie viventi le stesse strutture già osservate nell'uomo. Willis non tagliò i ponti con la tradizione scolastica. Anch'egli avanzò un'ipotesi localizzatoria per le qualità aristoteliche (il sensus communis nel corpo striato, l'immaginazione nel corpo calloso, la memoria nella corteccia cerebrale), ma propose che esse fossero presenti anche nel cervello degli animali. Al pari di Galileo, Willis si inserì nella tradizione corrente, ma portò le conoscenze scientifiche a un punto tale da condannare a vita breve la loro convivenza con la tradizione dettata da San Tommaso. L'anatomia comparata e la sperimentazione sugli animali traggono la loro origine proprio da queste osservazioni, che oggi costituiscono un patrimonio comune di carattere interdisciplinare. L'esistenza di una discontinuità tra le capacità analitiche e operative dell'uomo e quelle degli animali (ad esempio, il libero arbitrio) oggi non intacca l'accettazione di una continuità biologica ed evolutiva di tutti gli organismi viventi, dai microrganismi all'uomo. Infine, il fascino di posizioni ideologiche, pur se in consonanza con il comune buonsenso, non deve far perdere la possibilità di un dialogo costruttivo tra animalisti e ricercatori. La radicalizzazione ideologica tende a porre in ombra gli aspetti produttivi delle posizioni animaliste. Ad esempio, è vero che la sperimentazione sugli animali non esclude la sperimentazione sull'uomo, ma ne riduce ampiamente l'entità e la durata. Vi sono oggi regole precise per la sperimentazione sull'uomo (di nuovi farmaci, ad esempio), che viene effettuata soltanto dopo aver svolto la sperimentazione animale. La sperimentazione umana può essere effettuata su volontari sani o su pazienti consenzienti, che assumono un rischio personale al fine del bene comune. Non sempre la sperimentazione di farmaci sull'uomo è ad alto rischio. Ad esempio, nel caso di farmaci già conosciuti, per i quali si vogliono studiare la tollerabilità di lunga durata o nuove indicazioni applicative, la sperimentazione ha un rischio basso o trascurabile. L'opinione pubblica è poco informata su questi aspetti; i cittadini generalmente non sono in grado di assumere comportamenti precisi di fronte a un medico che proponga loro di partecipare a una sperimentazione farmacologica, anche se a basso rischio. L'affermazione «Lei mi propone di fare da cavia» è il simbolo di una grande confusione su tutto l'argomento. Alberto Albanese Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma


GIOCHI D'ESTATE Quei dadi con il trucco Tra azzardo e calcolo delle probabilità
Autore: PEIRETTI FEDERICO

ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA

IL dado è tratto» e il destino non si può più cambiare, annunciò Giulio Cesare ai suoi soldati, che ben conoscevano il gioco dei dadi, per sottolineare l'importanza della decisione di passare il Rubicone. I dadi, rappresentazione anche ludica del fato e della sorte, hanno origini antiche. Esemplari simili a quelli moderni sono stati ritrovati in tombe egizie di cinquemila anni fa. Era il gioco più diffuso al tempo dei greci e dei romani, quando Nerone si giocava immense fortune ai dadi e l'imperatore Claudio scriveva un libro, andato purtroppo perduto, dedicato ai dadi. Nel Medioevo si tentò inutilmente, con pene severe (tratti di fune, colpi di verga e confisca dei beni) di scoraggiare i giocatori d'azzardo. Il gioco dei dadi contagiò anche il clero e sorsero addirittura le corporazioni dei fabbricanti di dadi e le scuole per giocatori, le Scholae Deciorum, la più famosa delle quali si trovava a Parigi. Girolamo Cardano, grande matematico del Cinquecento, accanito giocatore d'azzardo, dichiarò di non aver lasciato passare giorno della sua vita senza il gioco. E furono naturalmente i matematici ad approfondire lo studio dei dadi, scoprendo che la teoria delle probabilità era ben più complessa di quanto non si potesse immaginare ad una prima analisi superficiale. Leibniz cadde in un errore clamoroso nel tentativo di calcolare le probabilità dei lanci dei dadi. Egli affermò infatti che, con il lancio di due dadi, 11 e 12 avevano la stessa probabilità di uscita, poiché si potevano ottenere entrambi con un'unica combinazione: rispettivamente 5 più 6 e 6 più 6. Ma, rifletta il lettore, aveva trascurato il fatto che per fare 11 si può avere 5 e 6 indifferentemente su un dado oppure sull'altro, quindi la probabilità di fare 11 è il doppio della probabilità di fare 12. Nel 1654 il Cavalier de Merè, gran giocatore, sottopose al suo amico Blaise Pascal un problema riguardante il gioco dei dadi. La soluzione di questo problema, noto come probleme des partis, il problema della «divisione della posta», trovata dallo stesso Pascal e da Pierre de Fermat, avviò una serie di studi che segnarono l'inizio della moderna teoria del calcolo delle probabilità. De Merè sollecitava l'aiuto del grande matematico per capire la seguente situazione: «Se voglio fare 6 con il lancio di un dado devo chiedere almeno 4 lanci per avere più probabilità di vincere che di perdere. Se invece voglio fare un doppio 6 con il lancio di due dadi, non è più sufficiente che chieda 24 lanci, come sembrerebbe logico, ma ho verificato che devo farne di più per essere sicuro di vincere». Le considerazioni di de Merè si basavano semplicemente sulla sua grande esperienza di gioco, ma anche un certo ragionamento può trarre in inganno: un dado può cadere in 6 modi diversi e 4 lanci corrispondono ai 4/6, cioè ai 2/3, dei lanci possibili. Due dadi possono cadere in 36 modi diversi e 24 corrisponde proprio ai 2/3 di 36. La risposta dovrebbe quindi essere 24, Pascal e Fermat dimostrarono invece che sono necessari 25 lanci perché sia più facile vincere che perdere. I bari aumentano le probabilità a loro favore, con l'uso di dadi truccati. Si tenga presente, a questo proposito, che nei dadi moderni la somma dei numeri sulle facce opposte è sempre uguale a sette e che i dadi sono costruiti in modo che le facce 1, 2 e 3, se le teniamo rivolte verso di noi, siano sistemate in senso antiorario. Poiché di un dado si vedono soltanto tre facce per volta, se ne può costruire uno che abbia lo stesso numero sulle due facce opposte, quindi soltanto tre numeri diversi, ma che sembra regolare quando cade sul tavolo. Un giocatore esperto si accorgerà del trucco poiché, in questo caso, non tutti i numeri girerebbero nel senso giusto, cioè antiorario. Altri trucchi più semplici, usati dai bari, sono l'inserimento di un pezzettino di piombo nel dado, al di fuori del suo centro di gravità. Il peso del metallo favorisce l'uscita di un determinato numero. Allo stesso scopo possono servire dadi con alcune facce un po' convesse, in modo che restino favorite quelle piatte, oppure con qualche spigolo smussato ed anche dadi con facce leggermente rettangolari. Federico Peiretti


Indovinate i numeri Ecco come spacciarvi per maghi
Autore: F_P

ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA

1 - Le regole che abbiamo appena visto sul modo di disporre i numeri sulle facce dei dadi, ci possono consentire una prova di grande effetto: qualcuno sistema una pila di tre o più dadi e noi indoviniamo il numero nascosto sulla faccia superiore di ogni dado. Ad esempio, provi il lettore a scoprire il numero nascosto sulla faccia superiore dei tre dadi di figura. 2 - ROLLING DICE Sono necessari un dado e una scacchiera 3X3, disegnata su un foglio di carta. Le caselle devono essere numerate come in figura e le loro dimensioni devono essere identiche a quelle della faccia del dado. Quest'ultimo dev'essere collocato al centro della scacchiera, con 1 in alto. Il dado può essere ruotato di un quarto di giro verso l'alto, verso il basso, a destra oppure a sinistra, ma non in diagonale. Si tratta di ruotare il dado in modo che finisca sulla casella 7, con il 6 in alto e con il minor numero possibile di mosse. 3 - IL GIOCO MONTENEGRINO E' un gioco proposto da uno dei massimi esperti di giochi matematici, l'americano Henry E. Dudeney (1847 - 1930), il quale afferma che era un tempo molto popolare fra gli abitanti del Montenegro. Si gioca in 2 con 3 dadi. I giocatori, prima di lanciare i tre dadi, devono dichiarare una coppia di numeri dispari (maggiori di 3). Vince il giocatore che ottiene, con i tre dadi, un punteggio corrispondente a uno dei due numeri dichiarati in precedenza. Se entrambi ottengono un punteggio vincente si ripete la prova. Immaginiamo, ad esempio, che un giocatore abbia scelto i numeri 7 e 15 e l'altro 5 e 13. Il primo giocatore lancia i tre dadi e vince se fa 7 oppure 15, a meno che il secondo giocatore riesca a fare 5 oppure 13. Domanda: quali coppie diverse di numeri dispari devono scegliere i due giocatori per avere esattamente la stessa probabilità di vincere? 4 - ZANZIBAR Un gioco d'azzardo, diffuso un tempo in tutti i porti e proibitissimo, era lo Zanzibar. Si gioca in 2 o più giocatori, con 3 dadi. Gioca per primo chi ottiene il punteggio più alto nel lancio di un dado. In seguito il vincitore di ogni giro inizierà il giro successivo. Scopo del gioco è fare «Zanzibar», ottenere cioè tre facce uguali, ad esempio tre 1, tre 4 oppure tre 6. Chi gioca per primo può decidere di lanciare i dadi, secondo la sua convenienza, una, due o tre volte, riprendendoli tutti o in parte. Gli altri giocatori dovranno rispettare il numero dei lanci stabilito dal primo giocatore. Se, ad esempio, li ha lanciati due volte, li potranno lanciare soltanto una o due volte al massimo. Vince chi fa Zanzibar oppure, se ci sono più giocatori che fanno Zanzibar, chi ha ottenuto la combinazione migliore, tenendo presente che gli Zanzibar vanno, per importanza, da tre 1 a tre 2: tre 1, tre 6, tre 5, tre 4, tre 3, tre 2. Ad esempio, lo Zanzibar di 1 risulta superiore allo Zanzibar di 6 che, a sua volta, è superiore allo Zanzibar di 5. Se nessun giocatore fa Zanzibar, vince chi ha il punteggio più alto, contando i punti in questo modo: ogni 1 vale 100 punti, ogni 6 vale 60 punti e per gli altri vale il punteggio indicato sulla faccia: 5, 4, 3 e 2 valgono rispettivamente 5, 4, 3 o 2 punti. Ad esempio, se un giocatore scopre 1, 4 e 6 conterà 164 punti. 5 - LE DODICI CASELLE Al gioco delle dodici caselle possono partecipare 2 o più giocatori. Sono necessari 2 dadi, 12 gettoni e un foglio di carta sul quale si disegnano 12 caselle, numerandole da 1 a 12. Con il lancio di un dado si stabilisce chi deve giocare per primo. A turno ogni giocatore lancia i 2 dadi e va a occupare con i gettoni una o più caselle la cui somma corrisponda al punteggio ottenuto con i dadi. Quando il giocatore riesce a occupare le caselle 7, 8 e 9, acquista il diritto di lanciare un solo dado. In tal modo risulta più facile occupare le caselle con i numeri più bassi. Il giocatore continua a giocare finché riesce a occupare, secondo la regola stabilita, caselle con i gettoni e termina il suo turno quando non riesce più a trovare caselle vuote in corrispondenza del punteggio dei dadi o del dado. A questo punto il giocatore segna la somma delle caselle rimaste vuote, passando i dadi al giocatore successivo. Vince chi ottiene il punteggio più basso dopo 10 turni di gioco. SOLUZIONI 1 - Sul dado in basso, poiché la somma delle facce opposte è sempre uguale a sette, possiamo dire che 4 e 2 saranno i numeri delle facce opposte rispettivamente a 3 e a 5. La faccia superiore può quindi essere soltanto 1 o 6. Ma possiamo affermare con sicurezza che è 1, poiché i numeri, come abbiamo detto, sono sistemati in senso antiorario. Allo stesso modo possiamo dire che il numero nascosto sul dado di mezzo è 4 e quello sul dado superiore è 5. 2 - La sequenza dei movimenti è 5 - 4 - 1 - 2 - 5 - 4 - 7. Si possono naturalmente inventare molti altri problemi simili: un compito che lasciamo al lettore. 3 - I due giocatori devono scegliere le coppie 5 e 9, e 13 e 15. Infatti ci sono 216 modi diversi in cui i tre dadi possono cadere e, fra questi 6 diverse possibilità di ottenere 5, 25 di ottenere 9, 21 di ottenere 13 e 10 di ottenere 15. Ogni giocatore ha quindi esattamente 31 diverse possibilità di ottenere uno dei due numeri dichiarati. (f. p.)


SISMOLOGIA Il terremoto non si può evitare, ma vittime e danni sì Uno studio del Cnr sul rischio che minaccia i centri storici della Riviera ligure di Ponente
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, TERREMOTI, URBANISTICA, EDILIZIA
ORGANIZZAZIONI: CNR
LUOGHI: ITALIA

TRA alcuni milioni di anni il Mediterraneo sarà scomparso, inghiottito dall'avanzata dell'Africa che spinge contro l'Europa. Non ci sarebbe da preoccuparsi se i segni dell'immane urto, in corso ormai da 65 milioni di anni, non si manifestassero in continuazione sotto forma di terremoti disastrosi, particolarmente in Italia, nei Balcani, in Anatolia, sulla stessa costa africana. Molte delle più antiche città del mondo, dai palazzi di Creta ai templi crollati di Selinunte fino ai palazzi di Napoli feriti dal terremoto dell'Irpinia, recano nelle loro pietre i segni della violenza tellurica. C'è dunque, nei Paesi mediterranei, un interesse comune a studiare metodi che, utilizzando le tecnologie moderne, consentano di convivere con questa instabilità naturale. Alla prevenzione del rischio sismico nei centri storici è stato dedicato uno studio presentato in occasione di un convegno internazionale che si è svolto a Sanremo intorno alla metà di giugno. Ad esso hanno collaborato la Regione Liguria, la finanziaria regionale Filse, il Consiglio Nazionale delle Ricerche attraverso il Gruppo nazionale per la difesa dai terremoti, la facoltà di Ingegneria dell'Università di Genova e il Comune di Sanremo. Il Ponente ligure porta ancora i segni vistosi di uno dei più violenti terremoti che abbiano colpito l'Italia nel secolo scorso; alle 6,20 del 23 febbraio 1887, una scossa valutata tra l'ottavo e il decimo grado della scala Mercalli con epicentro in mare al largo di Imperia fece tremare la terra da Nizza a Genova (e fu sentita fino in Svizzera); a Sanremo, Imperia, Triora, Ceriana, Taggia, Diano, Pompeiana, Castellaro, Cipressa e numerosi altri centri crollarono decine di case seppellendo la gente; era il mercoledì delle Ceneri e a quell'ora antelucana le chiese erano gremite di fedeli per le cerimonie del primo giorno di quaresima: dalla chiesa crollata di Baiardo furono estratti i corpi martoriati di 102 persone; la volta della chiesa di Bussana, una frazione a Levante di Sanremo, schiacciò 53 persone. Il terremoto dell'87 confermò la sismicità di questo territorio, che era già stato duramente colpito nel 1806 da una fortissima scossa nel Nizzardo, nel 1807 a Sanremo, nel 1818 a Sanremo, Oneglia e Alassio, nel 1831 a Taggia, Castellaro, Pompeiana e Bussana, nel 1854 a Oneglia, Diano e Taggia. I danni furono amplificati da vari fattori, tra cui le caratteristiche delle vecchie costruzioni, di origine medioevale, prevalentemente in pietra e malta. Nel convegno di Sanremo è stato presentato uno studio tecnico sulla valutazione del rischio sismico (Chirico, Corsanego, Giorgini, Roggeri, Ugolini) e dedicato in modo specifico al suggestivo centro medioevale della città, la «Pigna». E' un tipico esempio di centro a rischio come in questa parte della riviera e nell'entroterra ne esistono a decine; composto di alti edifici (18-20 metri) addossati gli uni agli altri sul pendio della collina, più volte lesionati dalle scosse, più volte rimaneggiati e rappezzati, con sopraelevazioni e aggiunte casuali, insidiati dalle infiltrazioni d'acqua e da decenni di abbandono. Le conclusioni? «Gran parte della popolazione del centro storico di Sanremo abita e vive in edifici che hanno una elevata probabilità di subire danni rilevanti nell'ipotesi che si ripeta un terremoto con intensità simile a quello del 1887» (e un evento del genere, aggiunge lo studio «ha mediamente tempi di ritorno dell'ordine di 100 anni»). Considerazioni che valgono per tutti gli altri centri simili, della riviera e delle altre zone sismiche d'italia. Non è possibile qui entrare nel merito delle soluzioni tecniche proposte dallo studio, ma una cosa è chiara: occorre prevenire altri disastri non solo costruendo i nuovi edifici secondo le norme antisismiche, ma anche rafforzando e adeguando le vecchie costruzioni. Purtroppo non si può essere troppo ottimisti a questo proposito. Persino i terremoti del Friuli e della Basilicata hanno insegnato poco o niente se, come dice lo studio, la ricostruzione «è avvenuta in taluni casi a seguito di spinte soprattutto economiche, con poco riguardo per i fattori fisici e sismici del teritorio». Vittorio Ravizza


NEMATODI Stiletto mortale E al grano viene la febbre
Autore: ZULLINI ALDO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, AGRICOLTURA, BOTANICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Parassiti

NON c'è cucchiaino di terra che non contenga microscopici vermetti trasparenti (nematodi), spesso a decine. Molti di questi si nutrono di batteri o altri microrganismi, ma certe specie sono dannose alle piante e provocano perdite ingenti all'agricoltura. Possiedono infatti un sottilissimo stiletto boccale, spesso non più lungo di un centesimo di millimetro, capace di conficcarsi nelle radici. Così i vermi forano le cellule vegetali e ne aspirano il succo. Certe specie lo fanno «da fuori» restando nella terra, altre invece penetrano nella radice e conducono una vita da parassita, stabilendosi tra le cellule della pianta. Alcuni nematodi non restano nelle radici, ma migrano nel fusto e nelle foglie provocando danni più o meno gravi: ingiallimento, appassimento, sviluppo stentato, malformazioni. Dopo gli insetti nocivi, i nematodi sono gli animali più pericolosi per l'agricoltura. Gli insetti, però, si vedono facilmente; i microscopici nematodi no. Avvenne così che, nell'Ottocento, ci si mise un po' prima di capire che cosa fosse la misteriosa «peste» che colpiva la prime grandi monocolture, come quella della barbabietola da zucchero. Le piante crescevano, anno dopo anno, sempre più stentatamente, tanto che si pensò anche a una «stanchezza» del terreno. Oggi si sa che un nematode parassita delle piante può causare seri danni quando le sue uova presenti nel suolo sono più di centomila per litro. La lotta contro questi vermi si fa iniettando nel terreno sostanze tossiche (nematocidi) o cambiando il tipo di coltivazione. Una delle difficoltà sta nell'individuazione di questi microscopici parassiti. Spesso nelle piantagioni sorgono focolai di infestazione destinati ad allargarsi. In mezzo ai verdi campi coltivati appaiono così grandi macchie giallastre che corrispondono alle piante coltivate dai parassiti. E' molto meglio sapere prima se ci sono i parassiti e, possibilmente, saperlo senza essere costretti a effettuare centinaia di campionamenti e analisi su tutta l'area coltivata. L'ideale sarebbe poter disporre di una mappa o foto aerea della dislocazione dei parassiti. Questo obiettivo da fantascienza è stato realizzato recentemente da alcuni sperimentatori francesi guidati da H. Nicolas, che hanno messo a punto un metodo di rilevamento fotografico capace di scoprire i focolai di infestazione. Naturalmente è impossibile riprendere i vermi stessi con una foto aerea, ma si può rilevare a distanza un effetto fisico da essi determinato. Ma prima di parlarne è necessario dire qualcosa sul funzionamento delle foglie. Tutte le superfici fogliari sono bucherellate da milioni di microscopiche aperture, dette stomi, attraverso le quali esce l'acqua (in forma di vapore) proveniente dal gambo e dalle radici. Una foglia può funzionare soltanto se la sua superficie traspira acqua in continuazione. Tutti sappiamo che l'acqua, quando evapora o traspira, raffredda la superficie interessata: un indumento bagnato ci sembra freddo benché la sua temperatura sia identica a quella dell'aria. Anche l'acqua dispersa dalle foglie ha un (piccolo) effetto rinfrescante per la superficie delle piante. Se, per una causa quasiasi, la traspirazione si riduce, si ha un leggero incremento termico della superficie fogliare. Diversi fattori possono ridurre l'emissione di acqua dagli stomi e quindi aumentare la temperatura delle foglie: siccità del terreno, carenza di fertilizzanti e, appunto, la presenza di parassiti. Infatti, una pianta sofferente per vermi o altri organismi nocivi tende a chiudere i propri stomi e a limitare la traspirazione. Così facendo, innalza leggermente la temperatura delle sue parti verdi. Insomma: ha la «febbre». L'idea dei ricercatori francesi è stata appunto di misurare la temperatura irradiata da un campo di grano con radiotermometro, molto sensibile, collocato a una certa altezza sul campo stesso. La misurazione a distanza delle temperature (telerilevamento) è una tecnica normalmente usata nelle prospezioni da satellite. L'area sperimentale comprendeva un terreno infestato da nematodi (una trentina di vermi parassiti per grammo di suolo) confinante con un terreno non infestato. Le misurazioni delle differenze termiche tra il campo di grano parassitato e quello sano sono state ripetute molte volte, dall'alba al tramonto, e hanno messo in evidenza un dato molto interessante: le piante di grano infestate sono effettivamente più calde, mezzo grado o anche uno, di quelle sane. La diagnosi a distanza, dunque, è possibile. Restano tuttavia da risolvere alcune difficoltà: un aumento della temperatura fogliare può essere dovuto, come già detto, a cause diverse. Le immagini termiche prese dall'alto sono destinate a diventare utili per l'agricoltura, ma occorrerà sempre eseguire dei riscontri analitici a terra. Un altro limite è dato dalla necessità di disporre dei dati di confronto. Infatti la temperatura delle foglie non fornisce, di per sè, alcuna informazione utile: ciò che serve è la misura della differenza di irraggiamento termico tra piante della stessa specie, ma in condizioni diverse di salute. La messa a punto del metodo, però, è ormai cosa fatta. Forse nel prossimo futuro ogni contadino potrà controllare lo stato di salute dei suoi campi per mezzo di un monitor collegato a un personal computer. Aldo Zullini Università di Milano


L'OCCHIO DEL SATELLITE SULLE CICOGNE Diario di bordo Stanziali d'estate, nomadi d'inverno
Autore: VERRECCHIA ANACLETO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA

HANNO distrutto il mito delle cicogne. Che cosa portano, ora, queste meravigliose creature? Una trasmittente! Così esse parlano agli scienziati, ma non più ai poeti. E' da circa un secolo che gli studiosi raccolgono dati sulla trasvolata della cicogna bianca, chiamata scientificamente ciconia ciconia, eppure non si sapeva ancora come essa trascorresse il suo soggiorno di sette mesi in Africa. Si credeva, erroneamente, che d'inverno vivesse in posti fissi come fa in Europa durante l'estate. Ora il mistero è stato chiarito dai ricercatori della stazione ornitologica di Radolfzell, in Germania. Il 21 agosto dell'anno scorso, essi sistemarono addosso a una cicogna, poco prima che spiccasse il volo, una minitrasmittente del peso di quarantacinque grammi in tutto, antenna e batteria comprese. L'operazione fu fatta nei pressi di Dessau, in Sassonia. Il giorno dopo, due satelliti all'altezza di ottocentocinquanta chilometri captarono i primi segnali provenienti dalla Polonia e ne ritrasmisero i dati a una stazione di Tolosa. Da quel momento gli scienziati poterono seguire, giorno per giorno, il volo della cicogna. A tappe varianti dai cento ai trecento chilometri, essa sorvolò i Carpazi e giunse sulle coste del Mar Nero, dove c'è il punto di raccolta delle cicogne che seguono la rotta orientale. Altri stormi seguono la rotta occidentale e passano sullo Stretto di Gibilterra. Dopo essersi unita alle migliaia di altre cicogne dell'Europa orientale e centrale, la nostra cicogna «trasmittente» sorvolò l'Anatolia e puntò verso Israele, dove giunse il 6 settembre. Quattro giorni dopo era nell'Egitto meridionale. Prendendosela abbastanza comoda, per rifocillarsi o perché così le faceva piacere, impiegò dieci giorni per giungere al confine tra il Sudan e l'Uganda. Lunga pausa di oltre due mesi, perché le inaccessibili zone paludose dell'Uganda sono un luogo ideale per fare pasquetta. Poi riprese a volare verso Sud, sempre più a Sud, fino alle estreme propaggini dell'Africa, dove arrivò il 21 gennaio del 1994. Vi si aggirò per un mese intero e il 20 febbraio, spinta dagli ormoni e dal suo orologio interiore, si apprestò a ripercorrere in senso opposto i dodicimila chilometri che la separavano dal punto da cui era partita. Ma il 26 febbraio, poco prima del confine tra lo Zimbabwe e lo Zambia, la batteria della minitrasmittente si esaurì e gli scienziati persero il contatto con la cicogna. Tuttavia essi sono contenti lo stesso, come si legge nella rivista tedesca Focus, che ha dedicato un bell'articolo all'argomento: «Mai prima avevamo potuto seguire una singola cicogna durante un periodo di tempo così lungo». Dunque ora sappiamo che la cicogna bianca, durante l'inverno, non sta in un posto determinato, ma gira di qua e di là come un vagabondo. Si ferma dove le piace o le conviene. Vede uno sciame di cavallette? Bene, essa scende e incomincia la caccia. Passa un altro stormo di cicogne? Spesso si unisce spontaneamente al gruppo. Insomma vive alla giornata e si dà alla pazza gioia. E' libera da impegni familiari e può fare quello che vuole. Questo vale per la cicogna come per qualsiasi altro essere vivente, uomo compreso. Quando è in Europa, invece, dove arriva all'inizio della primavera e riparte alla fine di agosto, la vita della cicogna è tutta diversa. Qui essa deve pensare unicamente alla riproduzione della specie. Già la costruzione del nido richiede molta fatica. Se ne vedono alcuni che hanno fino a due metri di diametro e due e mezzo di altezza. Ma la cura maggiore è quella di sfamare i piccoli, che sono incredibilmente voraci. Devono crescere in fretta e anche robusti, altrimenti non potranno affrontare il volo verso i lontani lidi dell'Africa. Per questo i genitori, dandosi il cambio per non lasciare mai incustodito il nido, sono sempre a caccia di topi, di rane, di cavallette e altre leccornie. Una nidiata consuma dai tre ai quattro chili di cibo al giorno. Ma che cosa spinge una cicogna a percorrere migliaia e migliaia di chilometri per la riproduzione della specie? Questo è scritto in un principio eterno e metafisico, e non lo si potrà certo scoprire con le trasmittenti. I naturalisti devono fare un passo più in là nella loro logica e riconoscere che la verità è metafisica, non fisica. Se l'enigma dell'esistenza fosse scritto nel fenomeno, come essi credono, a quest'ora lo si sarebbe decifrato non una, ma cento volte. La scienza senza la sapienza è cieca. Anacleto Verrecchia


POLITICHE AMBIENTALI Bentornato, cervo sardo Oltre mille esemplari, si ripopola anche la Corsica
Autore: INGLISA MARISA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ECOLOGIA, ANIMALI
NOMI: BECCU ENEA
ORGANIZZAZIONI: WWF
LUOGHI: ESTERO, SARDEGNA, FRANCIA, CORISCA

FINO a vent'anni fa il suo declino sembrava inarrestabile. Il cervo sardo (Cer vus elaphus corsicanus), completamente scomparso dalla Corsica e rappresentato da una sparuta popolazione di 210-230 esemplari superstiti distribuiti in tre aree della Sardegna meridionale, era ormai a un passo dall'estinzione. Tanto da essere incluso nella «lista rossa» redatta da una commissione di specialisti dell'Uicn, l'Unione internazionale per la protezione della natura. Da allora i protezionisti lo hanno eletto animale simbolo della salvaguardia della natura in Sardegna e il Wwf nel 1984 ha acquistato la foresta del monte Arcosu, in provincia di Cagliari, per tutelarne la sopravvivenza. Un controllo più attento sul territorio, soprattutto per combattere il bracconaggio, la creazione di zone di pascolo per i cervi e un'intensa campagna di sensibilizzazione dell'opinione pubblica, sono stati i principali interventi realizzati per proteggere la specie nelle ultime tre aree che ancora la ospitano, Sulcis, Sarrabus e Costa Verde. Oggi, grazie agli sforzi dei protezionisti e a un programma avviato nel 1979 dall'Azienda regionale delle foreste demaniali, il cervo sardo è tornato a popolare sempre più numeroso i boschi dell'isola, riconquistando antichi areali da cui era scomparso. «Con gli attuali 1000-1100 esemplari il pericolo di estinzione della specie almeno per il momento sembra scongiurato - spiega Enea Beccu, ideatore e coordinatore del programma della forestale sarda -. In questi anni abbiamo costituito 10 nuclei di riproduzione di cervi sardi, 8 sparsi in tutta la Sardegna e 2 in aree naturali protette della Corsica, isola da cui la specie era definitivamente scomparsa sul finire degli Anni Sessanta». E i primi risultati cominciano a vedersi. A Sinnai, in provincia di Cagliari, è stato rilasciato con successo il primo gruppo di animali nati in cattività: 3 maschi e 4 femmine adulti e 2 giovani. Il cervo sardo è una sottospecie del cervo europeo (Cervus elaphus). Si distingue da quest'ultimo per il colore del mantello, nettamente più scuro, per le corna che hanno un minor numero di rami e le dimensioni più minute (l'altezza al garrese nei maschi è di 95-100 centimetri contro 120-130 degli esemplari continentali). Le sue origini sono ancora poco chiare. Alcuni studiosi hanno ipotizzato una migrazione di cervi europei in Sardegna e Corsica durante l'ultima glaciazione: circa 10 mila anni fa i capostipiti delle popolazioni sardo- corse avrebbero attraversato il Mediterraneo percorrendo delle lingue di ghiaccio che congiungevano, come un lungo ponte, le due isole al continente. Secondo un'altra interpretazione, i primi esemplari sarebbero stati importati dai navigatori che colonizzarono la Sardegna in epoca preistorica. Qualsiasi sia stata l'origine del cervo sardo, questo entrò a far parte della vita dei popoli della civiltà nuragica: navicelle con la prua a forma di cervo e spade votive offerte alle divinità sono state trovate in villaggi nuragici dell'VIII-VI secolo a.C. Maria Inglisa


COMPETIZIONE FRA NATIVI E IMMIGRATI Vinco io, perché mangio di tutto Lo scoiattolo rosso, più selettivo nel cibo, soccombe al grigio
Autore: MORETTI MARCO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI, DEMOGRAFIA E STATISTICA
LUOGHI: ITALIA

L A vecchia Inghilterra è sempre più invasa da prodotti americani. I suoi giovani hanno sete di Coca- Cola. I serial hollywoodiani hanno surclassato la commedia inglese. La lingua di Shakespeare è sempre più imbastardita dall'accento e dallo slang d'oltre Oceano. E il britannico scoiattolo rosso (Sciu rus vulgaris) rischia di estinguersi, perché è incapace di competere con quello grigio (Sciurus carolinensis) introdotto poco più di un secolo fa dagli Stati Uniti. I biologi inglesi pronosticano che, in Inghilterra e nel Galles, lo scoiattolo autoctono sarà completamente estinto in un periodo fra i dieci e i vent'anni. Tre quarti degli scoiattoli rossi vivono oggi infatti in Scozia, dove le grandi foreste di pini costituiscono la loro ultima roccaforte. In Inghilterra la loro presenza è invece limitata all'isola di Wight (quella che ospitò il famoso concerto pop) e a quella Furzey, dove non è mai stato importato lo Sciurus carolinen sis, e a piccole aree del Sorset, del Cumbria e del Northumberland. Per salvarli dall'estinzione, la Forestry Commission and English Nature ha creato una riserva di mille ettari nella foresta di Thetford a Norfolk. Gli scoiattoli rossi vivono esclusivamente nelle foreste di conifere, dove si nutrono di semi che raccolgono fra i rami degli alberi. Gli scoiattoli grigi sono invece molto più adattabili: si nutrono di foglie e semi che trovano sul terreno e riescono a vivere e riprodursi in piccole macchie, in boschi di piante a foglia larga e persino nei parchi cittadini. «Quando ci sono numerosi esemplari grigi, i rossi devono lottare duramente per riuscire a sopravvivere», spiega Brian Roebuck, manager della nuova riserva. Lo scoiattolo americano è infatti dilagato in tutta l'Inghilterra e si sta diffondendo rapidamente anche in Scozia. Per questo la foresta votata alla conservazione del red squirrel è protetta dalla varietà grigia con un sistema di trappole. La foresta di Thetford è stata scelta perché presenta condizioni ambientali ideali alla sopravvivenza della specie minacciata: conifere fra i venti e i quarant'anni, che producono il tipo di semi adatto alla loro nutrizione, e grovigli di rami ideali per il loro rifugio. Gli unici alberi a foglia larga presenti sono l'ontano (una betullacea) e la betulla. E anch'essi producono alcuni dei semi di cui si nutre l'animale. Marco Moretti


RUMORE Droga o stress? Ragazzi e adulti, effetti diversi
Autore: LEVI MARINA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, INQUINAMENTO, ACUSTICA
LUOGHI: ITALIA

DISCOTECHE con musica a tutto volume, cuffie dei riproduttori portatili incollate alle orecchie per ore e ore. Molti genitori di adolescenti si pongono una domanda legittima: non sarà dannosa, questa overdose di rumore? L'espressione assorta e lontana dei ragazzi di fronte alle sollecitazioni verbali è indice di un fisiologico atteggiamento di ribellione generazionale o di una precoce sordità? Il rumore eccessivo e protratto è sicuramente nocivo per l'udito. Lo confermano innumerevoli studi incentrati particolarmente sugli ambienti di lavoro rumorosi e la stessa Inps ha già riconosciuto centinaia di casi di ipoacusia dovuti a rumore e passibili di indennizzo. E' accertato che un'esposizione intermittente procura danni reversibili ma che, ripetendo l'esposizione, l'effetto è cumulativo. Anche se è difficile quantificare esattamente il rischio di un'esposizione «voluttuaria», bisogna pensare che essa si può sommare ad altri tipi di esposizione, come ambienti di lavoro rumorosi, tragitti in metropolitane, traffico urbano. Il rischio per l'apparato uditivo è quindi reale. Ma quali altri effetti può avere il rumore sull'intero organismo? Esiste una vasta letteratura sperimentale che fornisce dati in parte contraddittori tra di loro, in parte convergenti. Un riscontro ripetuto si ha sul rapporto tra rumore e innalzamento della pressione arteriosa. In particolare questi dati sono stati confermati da due studi condotti l'uno su un gruppo di donne che lavoravano in un'industria tessile molto rumorosa e l'altro su alcuni marinai impegnati in sala macchine. Inoltre, in un gruppo di ratti esposti a lungo a forte rumore, si è constatato che l'ipertensione persisteva anche dopo la cessazione dell'esposizione e la somministrazione di un farmaco ipotensivo, facendo supporre che si fosse determinato un danno irriversibile alle arterie. Anche se il rumore induce un'accelerazione della frequenze cardiaca non sembra invece dimostrata la possibilità che induca disturbi del ritmo cardiaco o danni alle coronarie. Convalescenti dopo un infarto o ammalati di angina pectoris non pare abbiano avuto problemi legati al rumore. Un'altra azione che pare accertata è quella di accelerare i movimenti dell'apparato digerente, soprattutto quelli dell'intestino. Questo potrebbe essere dovuto all'effetto stressante del rumore. Esperimenti condotti su vari animali, galline, vitelli, ratti, topi, hanno dimostrato infatti che esso provoca un aumento della produzione di adrenalina e cortisone da parte dell'organismo. Si è constatato d'altronde che già durante la vita intrauterina i feti rispondono al rumore con un'accelerazione del battito cardiaco e con una maggior vivacità dei movimenti. Proprio per l'effetto stressante il rumore può alterare il sonno. Sono più fastidiosi i rumori ad alta frequenza, quelli intermittenti, quelli che hanno un significato particolare come il pianto di un bambino o un alterco, quelli che intervengono nelle prime ore del mattino. Importanti effetti può avere il rumore sul tono dell'umore e sul comportamento. Pare che suoni a bassa frequenza stimolino l'aggressività e che il rumore peggiori le prestazioni intellettuali complesse, ma possa risvegliare l'attenzione durante azioni ripetitive. Tralasciando ogni analisi sociologica degli aspetti aggreganti della musica, queste osservazioni possono aiutarci a capire perché i giovani traggono tanto piacere da grandi quantità di musica ad alto volume. Essa agisce probabilmente su di loro un po' come una droga stimolante; la stessa esposizione può al contrario risultare molto fastidiosa per adulti già stanchi e stressati per altri motivi. Marina Levi


Aiuto, la città assorda In aumento le malattie dell'udito
Autore: LENTINI FRANCESCO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, INQUINAMENTO, ACUSTICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Rumore

CENTRI per la cura della sordità spuntano come funghi in tutta Italia. Sarà un caso? In realtà 8 italiani su 100 sono sordi, anche se solo il 10% di questi usa una protesi acustica; è invece sconosciuta la percentuale di popolazione che ha, senza saperlo, problemi di udito. Ma che cosa sta succedendo alle nostre orecchie, e che cosa si può fare per evitarlo? Secondo il professor Vittorio Colletti, direttore della Clinica Otorinolaringoiatrica dell'Università di Verona, esistono nuove prospettive per la cura delle affezioni dell'orecchio interno, una zona in cui non è possibile intervenire chirurgicamente. Negli anfibi e nei pesci le cellule ciliate si rigenerano, mentre nei mammiferi questo risultato è stato ottenuto per ora in vitro. Inoltre le proteine contrattili, presenti all'interno delle cellule ciliate, agiscono come microscopici muscoli che possono essere «allenati»; così 15 minuti al giorno di musica, proveniente da un paio di cuffiette tarate sugli 80 decibel, possono prevenire i danni di un ambiente di lavoro troppo rumoroso. Queste notizie ci devono fare riflettere sui problemi dell'inquinamento acustico. Le nostre città sono troppo rumorose e non a caso sono in forte aumento le labi rintosi, a volte scatenate da un episodio traumatico (un colpo di fucile, un concerto rock seguito troppo da vicino), ma spesso dovute all'accumulo di rumore. Tutto comincia con acufenia (fischio, ronzio, rumore di conchiglia marina) e senso di pieno auricolare, seguiti da un abbassamento della soglia uditiva. Sono necessari test audiometrici ripetuti per stabilire se l'abbassamento riguarda le frequenze alte (oltre i 4000 Hz) o le frequenze basse (sotto i 1000 Hz), poiché in quest'ultimo caso può trattarsi di sindrome di Meniere, una malattia con la quale la maggior parte degli specialisti ha poca dimestichezza. In effetti è molto facile scambiare una labirintosi di altra origine (traumatica, tossica, allergica) per una sindrome di Me niere. E' anche facile incorrere in questa patologia, che è di carattere cronico, a causa di antibiotici o altri farmaci erroneamente prescritti. La sindrome di Meniere è caratterizzata da crisi vertiginose che possono richiedere anche il ricovero in ospedale (per la presenza contemporanea di nausea e vomito) e si cura inizialmente con diuretici e derivati dell'acido nicotinico in funzione di vasodilatatori periferici; il pericolo è che un vasodilatatore di tipo sbagliato possa avere un affetto nocivo sul sistema nervoso centrale (depressione). Scomparse le vertigini, si adotta una terapia di mantenimento di 2-3 mesi, e poi una terapia stagionale per combattere le recidive (che avvengono in corrispondenza di ogni cambiamento del tempo). In questa fase il pericolo è di tipo opposto, poiché si tende a controllare lo stato emotivo del paziente con la somministrazione di sedativi o veri e propri ansiolitici. Nonostante lo stress sia un fattore aggravante, l'errore consiste nel trattare le forme derivate dalla Sindrome di Meniere come malattie psicosomatiche, mentre in realtà il rapporto di causa-effetto è opposto (i disturbi scatenano l'ansia, e non viceversa). Il problema riguarda sia gli anziani che i giovani e i giovanissimi. E' dunque ora di introdurre il test audiometrico nelle scuole, intensificando nel contempo la ricerca di base. Come per l'occhio, sul quale ormai si interviene ambulatorialmente con il laser, è necessario passare a uno studio più approfondito dell'orecchio e all'ancora misterioso meccanismo (per quanto riguarda l'orecchio interno) che ci consente di udire. Francesco Lentini


SPORT & HANDICAP Non ci vedo, ma tiro con l'arco Alta tecnologia con i raggi infrarossi
Autore: GIORCELLI ROSALBA

ARGOMENTI: SPORT, MEDICINA E FISIOLOGIA, HANDICAP, TECNOLOGIA
NOMI: YAROM YONI
LUOGHI: ITALIA

Si può ritrovare una ragione di vita grazie allo sport, se necessario con l'aiuto dell'alta tecnologia: laboratori che preparano fenomeni da olimpiade mettono a disposizione apparecchiature sofisticate, laser, ultrasuoni, computer, idee da applicare alla rieducazione dei traumatizzati e proposte di attività gratificanti anche per i disabili. L'esempio arriva da Israele. Al Wingate Institute for Sport di Tel Aviv succede che nel medesimo complesso sportivo si allenino grandi campioni, gente comune e persone con notevoli impedimenti all'autonomia motoria (paraplegici, sordociechi, soggetti che hanno subito amputazioni) o problemi di asma, che non si sarebbero mai sognate di entrare in palestra e tanto meno di tentare una carriera sportiva. Secondo il dottor Yoni Yarom, direttore del centro di ricerche di medicina sportiva dell'istituto, la differenza tra un campione e uno sconfitto sta soprattutto nell'atteggiamento mentale: si vince con il cervello. I metodi dell'istituto e il clima molto mite attirano sportivi da tutto il mondo per allenamenti, «stage» o congressi. Questa è la sede scelta per i ritiri invernali da numerose squadre olimpiche. Per gli aspiranti atleti e i disabili non mancano gli esempi da emulare: il più noto è forse quello di Miki Dahan, sordo dall'infanzia, calciatore professionista della Hapoel Tel Aviv, che ha giocato nella nazionale israeliana giovanile. Il portiere ventiduenne è riuscito a fare del suo deficit sensoriale un punto di vantaggio anche se la sua sordità sul campo di calcio diventa assoluta, perché per timore di incidenti deve togliersi le protesi acustiche; ma da quel momento, dice, «nessuno riesce a distrarmi, non bado assolutamente al pubblico e mi concentro sul pallone finché un compagno mi avverte che l'arbitro ha fischiato la fine del gioco. Secondo me in certe situazioni il silenzio è una fortuna» . La sua non dev'essere una vita facile, date le difficoltà di comunicazione che incontra quotidianamente, ma il suo approccio positivo verso l'handicap e l'accettazione di sè gli hanno consentito di valorizzare le sue capacità. L'Istituto Wingate fu fondato nel 1957 come centro sportivo: nel 1970 è entrato in funzione il laboratorio di ricerche. Gli atleti o aspiranti tali vengono seguiti con programmi di allenamento individuali: naturalmente, in presenza di forti «disabilità», sono necessari strumenti particolari. In molti Paesi sono in corso sperimentazioni di apparecchiature per facilitare l'accesso dei disabili allo sport. In particolare ci sono sistemi per non vedenti e sordociechi che in qualche modo tentano di dare loro la percezione dello spazio e permettere attività sportive diversamente impossibili. Un esempio ormai collaudato è il tiro con l'arco, con il sistema francese Iris, dove la percezione visiva della distanza viene trasformata in messaggi acustici, prima per regolare la mira e poi per capire se il tiro ha avuto un buon esito: basta mettere vicino al bersaglio una sorgente a raggi infrarossi e sull'arco un mirino che capti i raggi ed emetta suoni di orientamento. In Italia, presso l'Università di Perugia, si sta perfezionando un sistema analogo che consentirà anche a soggetti sordociechi di praticare il tiro con l'arco: l'informazione dovrà essere convertita, a scelta, in segnali acustici oppure di tipo tattile. In quest'ultimo caso il tiratore utilizzerà una fascia da posizionare sulla fronte; a uno dei 5 punti stabiliti sulla fascia per indicare la direzione del tiro (in basso, in alto, a destra, a sinistra, centro) arriverà un impulso, una leggera vibrazione. Per controllare il risultato, l'arciere avrà a disposizione una piccola tavola con 21 punti vibratori che rappresentano il bersaglio: si attiverà il vibratore prossimo alla posizione colpita dalla freccia. Sistemi di questo tipo potranno essere applicati anche ad altri sport, come il bowling. Anche senza l'ausilio informatico, con qualche piccolo adattamento molti sport possono essere praticati da portatori di handicap. Vi sono sia competizioni nazionali, sia tornei internazionali di varie specialità. Per informazioni ci si può rivolgere alla F.I.S.Ha., Federazione Italiana Sport Handicappati, che ha sede a Roma. Rosalba Giorcelli


SCLEROSI LATERALE Cellule nervose troppo eccitate
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, HANDICAP, TECNOLOGIA
NOMI: GHARIG LOU
LUOGHI: ITALIA
NOTE: SLA

LA sigla SLA sta per sclerosi laterale amiotrofica, tre parole di non facile interpretazione per il profano ma presto chiarite. Descritta per la prima volta oltre cent'anni fa dal neuropsichiatra parigino Charcot, è una malattia del sistema nervoso centrale che colpisce in modo progressivo e paralizzante le cellule nervose che controllano l'attività muscolare motoria. Negli Stati Uniti si chiama malattia di Lou Gharig, un leggendario giocatore della squadra di baseball dei New York Yankees morto di questo morbo nel 1941. La SLA colpisce tre volte: nella corteccia cerebrale, decima in modo selettivo le grosse cellule piramidali; nel tronco cerebrale, seleziona i neuroni dei nuclei motori; nel midollo spinale, porta alla degenerazione totale delle cellule motrici che si connettono direttamente ai muscoli. Come risultato di una morte graduale di tali cellule, si assiste a una paralisi progressiva e inarrestabile che si conclude con un arresto cardio-respiratorio. Questa malattia colpisce un individuo su centomila, con un'età d'insorgenza variabile tra i 40 e i 60 anni. Le cause della malattia erano completamente sconosciute fino a un recente articolo apparso su Nature con la firma di 32 autori e la collaborazione di 13 centri di studio negli Stati Uniti e in Canada. L'articolo dimostra che nel 10 per cento dei casi nei quali la malattia viene ereditata (essa viene trasmessa al 50 per cento della prole), questa è causata da un difetto del cromosoma 21q. Il vero colpevole è il gene chiamato Sod1, che codifica l'espressione di un particolare enzima presente in tutte le cellule, comprese quelle nervose. Il cervello umano contiene tre diversi tipi di enzimi Sod, localizzati ognuno in parti diverse della cellula, in posizioni strategiche per catturare il superossido formatosi durante i processi chimici normali di respirazione cellulare. I tre tipi di enzimi sono codificati da tre diversi geni, due dei quali sui cromosomi 21 e 6. Il terzo gene è ancora sconosciuto. Data l'esistenza di queste varie forme di Sod, la vita del superossido nell'organico è molto corta. La sua presenza infatti potrebbe esser causa di notevoli danni al sistema nervoso, perché fa parte del gruppo di radicali liberi, prodotti in abbondanza nel corso dei vari processi respiratori della cellula. Il loro aumento però è ritenuto dannoso. E' possibile che la SLA vada oggi unita alla lista di quelle malattie in cui si sospetta un effetto tossico dovuto alla presenza di radicali liberi? Normalmente il gene Sod aiuterebbe l'organismo a disfarsi di questi radicali, ma in sua assenza l'accumulo potrebbe produrre un fenomeno di neurotossicità (tossicità diretta verso il sistema nervoso). Nel caso più specifico, potrebbe trattarsi del fenomeno detto di eccitotossicità (eccitazione tossica esagerata). Secondo questo meccanismo, neurotrasmettitori chimici normalmente presenti nel cervello, come il glutamato, potrebbero trasformarsi in sostanze eccitanti le cellule nervose in modo anomalo. Tale sovraeccitazione può portarle alla morte. Esempi di fenomeni eccitotossici sono l'ischemia e l'infarto cerebrale. In modo analogo un simile processo agirebbe anche nella SLA pr un eccesso di superossido. Si rende immediatamente chiara una prospettiva terapeutica: bloccare l'effetto nocivo di questo radicale con farmaci che blocchino a loro volta i ricettori del glutamato oppure usare delle sostanze anti-ossidanti. Tali sostanze sono già disponibili e vengono attualmente sperimentate in Usa nella terapia della malattia di Parkinson. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois




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