TUTTOSCIENZE 3 agosto 94

CONFLITTI IN FAMIGLIA Fuori dai piedi, figlio mio Quando le madri rifiutano la loro prole
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
NOMI: TRIVERS ROBERT
LUOGHI: ITALIA

COME aveva denunciato a chiare lettere una ventina d'anni fa Robert Trivers, biologo dell'Università di California a Santa Cruz, tra genitori e figli c'è sempre in atto un conflitto, palese o latente, che si manifesta spesso assai precocemente. Può manifestarsi addirittura durante la gestazione. Riprendono in esame la questione Louise Barrett e Robin Dunbar, due primatologi del Dipartimento di Antropologia dell'University College di Londra. E fanno l'esempio dell'opossum. La femmina di questo mammifero marsupiale ha un periodo di gestazione brevissimo, che dura soltanto dodici o tredici giorni. Come mai? Per una ragione molto semplice. L'embrione dell'opossum è incapace di contrastare il sistema immunitario materno che lo aggredisce come se si trattasse di un corpo estraneo e in capo a una dozzina di giorni opera il rigetto, espellendolo all'esterno. Se il rigetto non ha luogo immediatamente, ciò avviene perché sulle prime il feto si sviluppa entro una speciale membrana materna che tiene lontani i linfociti cui è devoluto il compito di distruggere qualunque tessuto estraneo. Ma questa membrana presto si rompe e l'embrione allora viene a trovarsi improvvisamente senza difesa. E' ormai in balia degli attaccanti che hanno la meglio e lo espellono. In questo caso è chiaro che il conflitto, di cui fa menzione Trivers, lo vince la madre. Nei mammiferi placentali, l'evoluzione fa un passo avanti. L'embrione impara a contrattaccare la madre in maniera molto efficace. In che modo? Travestendosi da tessuto materno, tramite speciali manovre chimiche. Così il corpo materno, ingannato dal trucco, non ha ragione di espellerlo e il feto viene trattenuto nell'utero per un periodo incomparabilmente più lungo rispetto a quello dei marsupiali. E' dunque il figlio che risulta vincitore nel conflitto, fanno rilevare Barrett e Dunbar. La situazione peggiora dopo la nascita. Immediatamente dopo l'ingresso dei figli nel mondo, ha inizio un altro round del conflitto. I figli lottano con i genitori perché ciascuno di loro vorrebbe farsi dare la maggior quantità possibile di cibo. Ci sono i pulcini dei pellicani che cadono addirittura in convulsioni per riuscire a ottenere una super razione. Si gettano come forsennati ai piedi dei genitori, agitando freneticamente le ali e scuotendo la testa avanti e indietro. Naturalmente attaccano ogni altro pulcino che rappresenti ai loro occhi un potenziale concorrente. I pulcini dei pigliamosche, come risulta da una ricerca di Nick Davies dell'Università di Cambridge, continuano a elemosinare il cibo dai genitori anche quando sono in grado di procurarselo da soli. E i genitori si lasciano sfruttare, per il timore che i figli possano morire per insufficiente alimentazione e il loro successo riproduttivo vada così in fumo. Ma ci sono casi in cui, a lungo andare, la madre rischia grosso se continua a esaudire le richieste eccessive dei figli, come quando c'è un piccolo che vuole insistentemente poppare e la madre per soddisfarlo intacca pericolosamente le proprie riserve organiche. Marc Hauser dell'Università di Harvard ha studiato il problema nei cercopitechi che vivono nel Parco Amboseli del Kenya. Egli ha osservato che qualche volta le madri non credono più alle reiterate richieste da parte dei figli. Anche se le esigenze del figlio e quelle della madre sono spesso in antitesi, Louise Barrett e Robin Dunbar hanno scoperto che nei babbuini gelada le madri che allattano ricorrono a una paziente opera di addestramento per insegnare al piccolo che deve venire a poppare solo in determinati orari. Si riesce a instaurare così tra i due un rapporto più armonioso. Nei primi due mesi di vita, mamma gelada permette al figlio di succhiare il latte a tempo pieno o quasi. Ma il piccolo, man mano che cresce, diventa più pesante e portarselo addosso diventa problematico per la madre, specialmente nelle ore dei pasti, quando va a brucare l'erba che costituisce il suo esclusivo nutrimento. E quindi tutte le volte che il piccolo le si avvicina mentre è intenta a pascolare, la madre lo respinge con energia. Il cucciolo le prime volte si arrabbia terribilmente, poi a lungo andare impara che è meglio non avvicinarsi alla genitrice quando è intenta a nutrirsi. Se nei babbuini gelada vi è incompatibilità tra il rito del pasto e l'allattamento, la stessa incompatibilità si nota nei macachi reso tra l'allattamento e la stagione degli amori. L'ha messo in evidenza Montserrat Gomendio dell'Università di Cambridge, studiando queste scimmie in cattività. Nel periodo riproduttivo le femmine rese madri sono troppo impegnate a duellare contro le concorrenti oppure a far l'amore con i maschi per pensare ai loro piccoli. E quando questi si avvicinano per poppare, li respingono brutalmente proprio come fanno le gelada quando sono intente a mangiare. Così, a furia di sentirsi rifiutati, i piccoli imparano a loro spese che quando le madri sono in altre faccende affaccendate, è meglio tenersi in disparte e fare la fame lunga, in attesa che giunga il momento propizio per attaccarsi all'agognato capezzolo. Isabella Lattes Coifmann


UN POTERE IN NEGATIVO Ma cosa fanno i nostri geni?
Autore: QUATTRONE ALESSANDRO

ARGOMENTI: GENETICA
LUOGHI: ITALIA

PER capire ciò che davvero sono, che cosa fanno e come lo fanno sono occorsi più di cento anni, e chissà quanti ancora ne occorreranno per colmare tutte le lacune. Per sapere quanti ne possediamo, se non ci accontentiamo di un numero vago che va da cinquantamila a duecentomila, dovremo pazientare meno di un altro decennio. Ma per comprendere ciò che i geni proprio non possono essere, basta forse una piccola riflessione. Questo è il tempo che realizza il sogno più grande della genetica, quello di vedere trasferite con successo le conoscenze acquisite sul campo degli studi in organismi più semplici - batteri, lieviti, moscerini, vermi, e poi su su fino ai topi e ai criceti - all'uomo. L'esito immediato è stato la scoperta e la descrizione di molti nuovi geni umani: geni di malattie ereditarie, terribili e penose, come la distrofia muscolare, l'emofilia, la fibrosi cistica. Ma geni anche di altre malattie, più complesse e sfuggenti, come l'autismo, o di cose che proprio malattie non possono dirsi, come il sesso, la felicità, il dolore o addirittura la capacità - verbale - di formare il plurale dei nomi. Che cosa sono dunque questi geni, queste entità misteriose che tutto sembrano poter determinare? Se rivolgete la domanda a un genetista, che con alcuni di essi sicuramente avrà avuto una certa consuetudine, la sua risposta potrà deludervi. Vi dirà, in buona sostanza, che i geni sono le unità informazionali del nostro patrimonio ereditario, e che recano le istruzioni per fare le proteine. Queste, a loro volta, hanno compiti vari, e nel complesso costituiscono l'impalcatura di tutto ciò che è vivente. Cosa, certo, non da poco. Ma un gene, un povero, misero gene, uno dei forse centomila che ci portiamo dietro in ognuna delle cellule del nostro corpo, presiede alla sintesi di una sola proteina o, raramente, di alcune. E quella proteina, in sè, ha un compito abbastanza modesto: può fare con altre da supporto meccanico, oppure può riconoscere parte di un organismo invasore, oppure può facilitare, catalizzare, una e una sola specifica reazione chimica. D'altronde, non c'è da aspettarsi troppo da una molecola un miliardo di volte più piccola della più piccola cellula. E allora, dov'è tutto il potere di un gene, che da solo può scatenare uno fra centinaia di disordini ereditari solo nell'uomo, che determina il sesso e, secondo alcuni, anche degli stati mentali? Seppure talvolta lanciati in troppo ardite metafore o costretti a districarsi in un campo che non conoscono, coloro i quali usano la locuzione incriminata, «il gene di», nella sostanza non sbagliano, se non per un peccato d'omissione. Quello che sempre andrebbe ripetuto, quello che in un campo così delicato, così controverso, non andrebbe mai trascurato, è che occorre fare, in genetica, un rovesciamento di prospettiva. Se nella vita di tutti i giorni, e il più delle volte anche nella medicina, siamo abituati a pensare in termini classici di causa-effetto, per cui un virus o un batterio entra nell'organismo e provoca, da agente, il quadro patologico che riconosciamo come infezione, così non può dirsi per i geni. Essi di norma ci sono, funzionano come singole rotelline dell'immane ingranaggio ed è la loro alterazione, il loro venir meno in qualche modo al compito assegnato - facendolo diversamente, o più spesso non facendo più niente - a provocare ciò che poi vediamo. Il loro legame col fatto, malattia o altro, cui vengono di volta in volta associati è nella loro indispensabilità, nel loro essere conditio sine qua non perché si verifichi un evento biologico specifico, la cui mancanza o alterazione produce talvolta malattia. Così il gene della fibrosi cistica, della distrofia muscolare, dell'emofilia, è quello di una funzione proteica il cui venir meno ha effetti vari, diversi e catastrofici sull'intero organismo; così il gene della determinazione del sesso produce una proteina indispensabile a che si inneschi la complessa cascata che porta i mammiferi al differenziamento sessuale maschile. Quanto poi al piacere, al dolore e a qualsivoglia emozione o funzione cognitiva correlata a un gene, ciò ancora significa non già che essa ne sia determinata in senso assoluto, ma che la mancanza di quel gene, magari al pari di quella di altri, ne compromette l'attuarsi. Queste singole particelle ereditarie sono quindi singole condizioni necessarie ma non sufficienti; e a decretare la loro indispensabilità è quell'immenso gioco cooperativo, dove tutto è interconnesso con tutto, proprio di qualunque sistema vivente. Il potere straordinario di certi geni è un potere in negativo, il potere della loro assenza, il prezzo di una economia costruttiva sofisticata dove molte sono le cose e tutte, o quasi, insostituibili. Letti in questo senso i geni delle malattie, non solo quelle ereditarie, e dei fondamentali processi biologici ai quali sono e saranno associati, perdono molta della loro aura ieratica, del loro maligno potere demiurgico. Ma tant'è. In un organismo singolo i geni fanno le proteine, e basta. Se poi l'organismo venga alla luce, si riproduca e muoia, se respiri, nuoti o voli, scriva la Recherche o componga una sinfonia, è fatto che sul loro far le proteine si fonda, ma che in varia misura non ne è del tutto giustificato. Ma questo è un problema nostro. I geni, non se ne curano: sono lì, da miliardi di anni, e da miliardi di anni, entro involucri sempre più complessi, continuano a fare la stessa, semplice cosa. Alessandro Quattrone


ORNITORINCO Becco in giù, sguardo in su Questo mammifero «pascola» fissando gli occhi in direzione opposta alle prede Le trova ugualmente, con gli elettrorecettori che captano le emissioni elettriche
Autore: BENEDETTI GIUSTO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA

CHE gli animali dell'Australia si possano lecitamente definire «strani» è cosa innegabile; ed è altrettanto innegabile che, fra di essi, l'ornitorinco si possa definire come il più strano di tutti. E' strano il suo nome, ma questa, in fondo, non è una sua colpa: la colpa, semmai, è di Shaw e di Nodder che così lo battezzarono nel 1799. E' strano il suo aspetto, che si potrebbe considerare a metà strada tra quello della lontra e quello del castoro, non fosse per quel becco da anatra che scombina tutte le carte. E, comunque, non si tratta di un becco normale: contrariamente a quanto l'apparenza potrebbe far pensare, non ha la rigida consistenza di quello delle anatre, ma è morbido e flessibile. E per di più è munito di denti, almeno negli individui giovani: i piccoli ornitorinchi ne hanno ben trentaquattro, che si riducono successivamente a dodici e scompaiono del tutto in età adulta. La masticazione del cibo è garantita da una serie di lamine e corrugamenti che si formano sulle superfici interne del becco ed è coadiuvata dall'ingestione di sassolini, un po' come accade nello «stomaco masticatore» degli uccelli. E' strano il suo modo di riprodursi: è sì un mammifero, ma depone le uova (generalmente due) come un rettile o un uccello. Dopo una cova di otto-dieci giorni, le uova si schiudono e i piccoli ornitorinchi cominciano a prendere il latte materno. Ma non certo in modo normale: l'ornitorinco non è provvisto di capezzoli, e il latte trasuda liberamente dalle ghiandole mammarie, costringendo i piccoli ad arrangiarsi come possono. E' strana, per un mammifero, la presenza di un apparato velenifero: se è vero che alcune specie di soricidi (i comuni toporagni) elaborano un debole veleno nelle ghiandole salivari, è anche vero che si tratta di un veleno pressoché innocuo per l'uomo e utile soltanto a stordire le piccole prede di cui i soricidi si nutrono. Nell'ornitorinco, il discorso è diverso: i maschi sono muniti di un robusto sperone nella zona del calcagno, collegato a una ghiandola velenifera che secerne una tossina di notevole potenza. Non tale da uccidere un uomo, ma sufficiente a produrre dolori atroci e a provocare sintomi locali e generali che possono protrarsi per diversi mesi. La lista delle stranezze potrebbe continuare a lungo, ma quelle che ho elencate sono sicuramente sufficienti a giustificare le perplessità degli zoologi europei quando, nel 1798, il primo esemplare in pelle giunse al British Museum di Londra. Non per nulla, si pensò subito a uno scherzo dei tassodermisti cinesi, la cui abilità nel costruire creature fantastiche usando parti di animali diversi era nota da secoli. Pochi anni più tardi, tuttavia, giunsero al British Museum alcuni esemplari completi, e ci si dovette ricredere: l'ornitorinco esisteva davvero e rappresentava una delle più ghiotte occasioni di studio e di dibattito che mai si fossero presentate alla zoologia occidentale. Studio e dibattito andarono avanti per quasi un secolo. Soltanto vent'anni dopo la sua scoperta, ad esempio, ci si accorse che era velenoso, e soltanto verso la fine del secolo si scoprì che era oviparo. Ma chi pensava che il contraddittorio monotremo avesse a quel punto finito di stupirci, si sbagliava di grosso: anche per gli smaliziati Anni 90 del nostro secolo, l'ornitorinco aveva in serbo una sorpresa. La vicenda nasce dal suo incredibile appetito: un esemplare adulto mangia, nell'arco delle ventiquattr'ore, una quantità di vermi, larve e crostacei pari a circa la metà del suo peso, il che significa che deve dedicare alla ricerca del cibo buona parte della sua giornata. E la cosa non è poi così semplice come sembra: le piccole prede dell'ornitorinco vivono sul fondo degli specchi d'acqua, e l'animale deve quindi passare il suo tempo a «pascolare» in immersione. Gli occhi dell'ornitorinco sono però rivolti verso l'alto, e questo significa che, nelle sue scorribande alimentari sul fondo degli stagni, non ha la possibilità di vedere dove caccia il becco. Come fa quindi a recuperare una così grande quantità di cibo, avanzando così alla cieca? Una parziale risposta era stata data, formulando l'ipotesi (poi confermata) che il becco fosse sede di organi sensoriali correlati al tatto e forse all'olfatto. Ma questo non spiegava tutto. Non spiegava, ad esempio, un particolare comportamento ossservato su individui tenuti in cattività: se il cibo loro fornito era costituito da lombrichi vivi e morti, gli ornitorinchi si dirigevano prima di tutto verso quelli vivi e, successivamente, iniziavano una ricerca casuale di quelli morti. Un gruppo di studiosi australiani ha finalmente svelato il mistero: tra i vari recettori sensoriali presenti sul becco dell'animale, sembrano esistere anche degli «elettrorecettori», in grado di percepire anche le più deboli emissioni elettriche. Ad esempio quelle provocate dalle contrazioni muscolari degli animaletti acquatici di cui l'ornitorinco si nutre. Le sorprese saranno finite? Conoscendo il tipo, non ne sarei tanto sicuro. Giusto Benedetti


VARZEA AMAZZONICA In barca nella foresta allagata Doppia vita delle specie, sopra e sotto l'acqua
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, AMBIENTE, BOTANICA, ZOOLOGIA
LUOGHI: ESTERO, BRASILE
TABELLE: C.
NOTE: Foresta Amazzonica, Lago Mamirauà

SI naviga fra le cime degli alberi in mezzo ai rami carichi di fiori e di frutti, e attraverso l'acqua trasparente si vedono le foglie e i tronchi sommersi. Come un grande uccello, la barca scivola sulla volta della foresta, mentre il terreno è 10-12 metri più in basso. Le masse scure dei nidi delle termiti, delle formiche, delle api, delle vespe e degli uccelli testimoniano la vita animale che si è rifugiata quassù, mentre all'imbrunire le coppie di pappagalli attraversano il cielo con forti schiamazzi e le rane scandiscono il tempo con un richiamo intermittente secco e acuto. E' la varzea, come in Brasile viene chiamata la foresta amazzonica allagata 4-6 mesi l'anno per un gigantesco straripamento delle acque del Rio delle Amazzoni. La linea azzurra che sulla carta geografica attraversa l'America meridionale all'altezza dell'Equatore, vista dall'aereo costituisce un intreccio di canali, di laghi e di fiumi enormi in un mare verde: 1/5 delle acque dolci della Terra, dieci volte la portata del Mississippi. L'acqua proviene per metà dall'evaporazione dell'Oceano Atlantico e per metà dalla traspirazione della foresta: una quantità enorme di vapore acqueo sollevata dal calore tropicale, che i venti spingono da Est verso Ovest fino alle Ande e alle montagne della Gujana e del Brasile, dove rilasciano enormi quantità di pioggia. Dalle montagne l'acqua compie il viaggio inverso verso l'oceano, variando la portata del fiume e generando i fenomeni di piena. Centocinquantamila chilometri quadrati di foresta su 5 milioni (il 3%) vengono sommersi sotto 8-10 metri di acqua nelle piene eccezionali, come quella di quest'anno, e un'inondazione che in altre regioni del mondo sarebbe considerata una sciagura, qui è accettata come un normale avvicendamento delle stagioni dai vegetali, dagli animali e dagli uomini. Gli adattamenti a questo particolare ambiente, sott'acqua per 6 mesi all'anno, delineano l'ecosistema con la più alta diversità biologica del mondo. I meccanismi biochimici che consentono alle parti sommerse delle piante di resistere così a lungo alla carenza di ossigeno (poche hanno radici aeree) sono tuttora sconosciuti, ma è significativo che per ogni genere esiste una coppia di specie, una della terra firme, come viene chiamata la parte della foresta che non è mai sommersa, e una della varzea. Le piante che continuano a fiorire e a fruttificare nella parte fuori dell'acqua utilizzano come impollinatori i sopravvissuti delle cime - api, vespe, formiche e pipistrelli - mentre si affidano ai pesci per la dispersione dei semi. Gli adattamenti di sopravvivenza delle piante sono particolarmente evidenti nel frutto, che è fornito di strutture di galleggiamento (tessuti spugnosi e camere d'aria), mentre i semi all'interno sono pesanti, per poter cadere sul fondo dove germinano. Avvolti da una polpa nutriente, i semi sono molto velenosi: la strategia della pianta è quella di fornire cibo agli animali ai quali affida il suo futuro, impedendo però che la parte alla quale deve la sopravvivenza genetica - il seme appunto - venga distrutta nell'operazione. Causando un malore al pesce, la pianta gli «insegna» il modo corretto di agire. Il legame mutualistico tra la pianta e l'animale è evidente nel fatto che molti semi non germinano se non passano attraverso l'intestino di un pesce, dove evidentemente subiscono una modificazione. Questo modello di sopravvivenza, tipico delle angiosperme (le piante con fiori e frutti evidenti) ha tanto successo che è stato «copiato» anche da una gimnosperma (le piante a cui appartengono anche i pini e gli abeti) del genere Gnetum, le cui foglie e frutti - perfettamente simili nella struttura a quelli delle piante con fiore - traggono in inganno tanto i botanici quanto il pesce gatto che si occupa della dispersione dei suoi semi. La presenza di frutti, di «giardini galleggianti» formati da numerose specie di piante acquatiche e di una notevole varietà di alghe che copre le foglie sommerse, costituisce una tale ricchezza di cibo da richiamare nelle foreste allagate moltissimi animali. Questo ambiente probabilmente antichissimo (risale forse a prima del Cretacico, più di 140 milioni di anni fa) ospita la più ricca fauna di pesci di acqua dolce del mondo, con 1800 specie descritte su 3000 stimate esistenti, di cui almeno 200 si nutrono di frutti. Fra i pesci di acqua dolce si realizza il record della taglia, con il metro di lunghezza e i 30 chili di peso del tambaqui (Colossoma macropomum). Anche i rettili hanno qui i loro colossi con Podocnemis expansa, la più grande tartaruga di acqua dolce del mondo, mentre i mammiferi non scherzano con il manato (Trichechus inunguis) e i delfini (Inia geoffrensis e Sotalia fluvialis), tutti animali in pericolo di estinzione. Sulle cime emerse degli alberi sono numerose le scimmie, fra cui le specie endemiche dello uakari (Cacajo calvus) dalla faccia rossa e della piccola scimmia ragno dalla testa nera (Saimiri vanzolini). Ma i veri dominatori delle fronde che svettano fuori dall'acqua sono le formiche. Cacciate dal terreno, nemiche dell'acqua, hanno trovato riparo sulle parti emergenti degli alberi dove costruiscono giganteschi nidi di terra o trovano alloggio in strutture particolari (cellette, galle o canali vuoti) messe a loro disposizione dall'albero stesso, ben «felice» di ospitare queste inquiline, alle quali fornisce anche il cibo con secrezioni zuccherine. Fra la massa verde della foresta, gli alberi delle formiche sono evidenti per l'assenza di liane e parassiti, denunciando con la loro «salute» il contratto di affitto. Guai a toccarne una foglia o un ramo, ché un esercito di infuriatissimi soldati carichi di acido formico e dotati di efficienti mandibole si precipita sul posto a cacciare l'intruso e, a giudicare dai risultati, queste armi sono un valido deterrente non solo per noi uomini. Spesso alle formiche si associano alcune vespe, che costruiscono il nido dentro il formicaio o nelle vicinanze di esso, stipulando un'alleanza secondo il principio che l'unione fa la forza. Di tale alleanza si giova non solo la pianta, ma anche qualche uccello, che stabilisce la sua dimora su questi rami, tollerato dagli insetti. Paradiso degli scienziati, le foreste inondate dell'Amazzonia costituiscono un ecosistema unico al mondo, che però rischia di sparire entro i prossimi decenni. Ogni anno sono sempre più evidenti i varchi aperti dalle seghe elettriche in questo oceano verde. Maria Luisa Bozzi


LA RISERVA MAMIRAUA' Un Eden per la scimmietta rossa
AUTORE: M_L_B
ARGOMENTI: ECOLOGIA, AMBIENTE, BOTANICA, ZOOLOGIA
LUOGHI: ESTERO, BRASILE
NOTE: Foresta Amazzonica, Lago Mamirauà

NATA nel 1990 per proteggere la scimmia dalla faccia rossa, lo uakari (Cacajo calvus), la Stazione Ecologica del Lago Mamirauà è una riserva che comprende la più vasta area di foreste allagate del Brasile occidentale: un triangolo di 1.124.000 ettari fra il Solimoes (come si chiama il Rio delle Amazzoni a Ovest di Manaus), il suo affluente Japura e lo Auati-Paranà. Sotto la guida del biologo Josè Marc'io Ayres e della moglie Deborah, sociologa, la riserva è l'unica al mondo che coinvolge gli abitanti nella tutela dell'ambiente. I duemila indigeni che vivono in piccolissimi villaggi lungo le rive della foresta si riuniscono due volte all'anno, per stabilire in modo democratico come usufruire delle ricchezze del loro ambiente senza comprometterne l'equilibrio. Durante i mesi della piena, essi alzano il pavimento della casa di quel tanto che consente loro di non vivere nell'acqua e mettono le galline e quattro smagriti zebù al riparo su zattere galleggianti. Sono ancora questi stessi abitanti a vigilare sugli intrusi, pescatori di frodo o tagliatori di legna, richiedendo via radio alla sede centrale di Tefè l'intervento delle guardie forestali.(m. l. b. )


SPERIMENTAZIONE CLINICA A chi tocca provare per primo? L'eterno, crudele dilemma: o l'animale o l'uomo
Autore: FADIGA LUCIANO

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, BIOETICA
LUOGHI: ITALIA

SARA' per la passione che mi muove, come medico e come ricercatore, che assisto preoccupato alla campagna contro la ricerca scientifica che cerca di far leva sulla sensibilità altrui con il problema della cosiddetta «vivisezione». In realtà questo termine, nato nel secolo scorso quando, anche per gli esseri umani, l'unica anestesia conosciuta era un bicchiere di cognac, è ai nostri giorni del tutto inadeguato. Oggi gli esperimenti cruenti e potenzialmente dolorosi avvengono in anestesia, e le riviste scientifiche rifiutano la pubblicazione di risultati ottenuti senza il rispetto degli animali utilizzati. Ciò nonostante, giorno dopo giorno, è stato insinuato il dubbio che nelle Università italiane lavori una «casta» di individui che per bieco interesse sottopone a torture orrende e senza senso un gran numero di animali. Generalmente la comunità scientifica è sempre stata molto avara di repliche. D'altro canto, mentre i più fanatici animalisti passano tutto il loro tempo a organizzare campagne e pressioni politiche, noi il nostro lo passiamo a lavorare nei laboratori o nelle corsie degli ospedali. Sarebbe fin troppo facile rispondere ai filmati sempre uguali di animali straziati con le immagini di bambini cardiopatici o leucemici, di ammalati terminali, con i rantoli e il sangue di chi soffre. Occorre invece fare riflettere e riflettere con lucidità. Innanzitutto viene l'aspetto etico: riteniamo ancora che esista una gerarchia di priorità morali? E' giusto il tentativo, che l'uomo persegue da millenni, di opporsi al fatalismo della natura? Che cerchi di prevenire terremoti e uragani, costruisca le strade, riscaldi le case, si cibi della natura, si curi dalle malattie? E' giusto il desiderio di sapere, di conoscere, di scoprire? Secondo la morale cattolica, un simile problema non dovrebbe neppure essere posto: l'uomo è stato creato con il dominio (rispettoso!) sulla natura e la natura è stata creata al servizio dell'uomo. Si tratta forse di una visione dogmatica, ma spesso è proprio solo con il dogma che è possibile rispondere al dogmatismo. A mio avviso è soprattutto un problema di buonsenso. Se con la scusa di fabbricare mobili si abbattono tutti gli alberi dell'Amazzonia ci si comporta da criminali. Se con la scusa di fare ricerca scientifica si provocano sofferenze inutili a un animale ci si comporta da criminali. Ma qui non parliamo di criminali bensì di tutta una grande civiltà scientifica che da Galeno a oggi ha portato immensi benefici all'umanità. L'unico spunto che suggerirei agli incerti nasce da una semplice domanda: quanti topi valgono la vita di un proprio figlio, quante scimmie quella del proprio fratello, quante rane la salvezza della propria madre? La scoperta di farmaci e vaccini (quello per la poliomielite, studiato sulla scimmia, da solo basterebbe a giustificare tutte le ricerche svolte finora), le tecniche chirurgiche e diagnostiche e perfino la medicina veterinaria sono solo alcuni dei risultati ottenuti grazie alla ricerca sugli animali. Chi di noi farebbe da cavia sottoponendosi a un'operazione chirurgica mai provata prima? Chi assumerebbe un farmaco nuovo mai sperimentato? E non si risponda che i test sbagliano portando l'esempio del Talidomide: sarebbe come chiudere tutti gli ospedali perché un chirurgo ha sbagliato un intervento o gli aeroporti perché esistono gli incidenti aerei. So che, a parte i più fanatici che farebbero a meno di qualunque forma di sperimentazione animale, molti ambientalisti riconoscono la necessità della ricerca biomedica su animali. Il punto che però alcuni sollevano è quello dell'utilità e della finalizzazione delle ricerche. In altri termini si dice: se è proprio necessario sacrificare degli animali almeno ciò avvenga per esperimenti finalizzati a obiettivi di chiara rilevanza «socio-sanitaria» e non a scopo conoscitivo. A parte il fatto che nessuno scienziato può, a priori, conoscere l'utilità del suo lavoro e che molto spesso è il caso ad aiutare una scoperta, considerando la medicina è veramente un paradosso pensare di intervenire su un organismo - e sottolineo «organismo» perché mai una coltura cellulare o un computer riusciranno a riprodurre la complessità delle interazioni presenti in un essere vivente - senza prima conoscerne il funzionamento. I contributi dati alla clinica dalla neurofisiologia e dalla neurochimica per la comprensione del sistema nervoso stanno portando a enormi progressi nella terapia delle malattie neurologiche e psichiatriche, dalla sclerosi multipla alle epilessie, dal morbo di Parkinson al dolore incoercibile. Certo, non tutta la ricerca è di grande qualità, ma questo è un problema di tutte le discipline, comprese quelle umanistiche, che può essere risolto con una migliore gestione dei finanziamenti. Molto spesso occorrono tanti passi sbagliati prima di farne uno giusto e penso che quando sono in gioco la vita e la salute dell'uomo valga davvero la pena di rischiare. Luciano Fadiga Università di Parma


SCONTRO INTORNO AI 18 CENTRI INTERNAZIONALI L'inventario delle risorse Adesso tutti scoprono il valore della biodiversità
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, BOTANICA, AGRICOLTURA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: FAO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. Mappa dei 18 centri internazionali di ricerca agricola

CI sono nel mondo, prevalentemente nei Paesi tropicali, molte migliaia di specie vegetali (e anche animali) allo stato selvatico, alcune delle quali ancora sconosciute; sono un patrimonio di valore immenso perché costituiscono il serbatorio da cui l'ingegneria genetica può attingere per creare nuove specie alimentari o per modificare quelle già note. Sono una sorta di assicurazione sulla vita di fronte alla crescita della popolazione mondiale e hanno, potenzialmente, un valore commerciale enorme. E' stato accertato che in Costa Rica, in una foresta di appena 14 chilometri quadrati, vivono 1500 specie di piante, più di quante ne vivano in tutto il Regno Unito; e che vi sono più specie vegetali a Panama che negli Usa. Ma a chi appartiene questa ricchezza? Fino a oggi, nel sistema dei rapporti economici internazionali, la biodiversità non ha mai avuto un valore di scambio. Semplicemente, ognuno (soprattutto i Paesi industriali) ha preso ciò che gli serviva dove gli serviva. Solo negli ultimi anni, con lo sviluppo della biotecnologia, che consente di trasferire caratteristiche specifiche da una specie all'altra, ci si è resi conto di quanto la biodiversità possa diventare preziosa. Contemporaneamente gli scienziati hanno lanciato un allarme: la biodiversità, frutto di milioni di anni di evoluzione biologica naturale, già intaccata da 12 mila anni di agricoltura, si sta riducendo negli ultimi decenni con una rapidità drammatica; le 30 mila varietà di riso che si coltivavano in India hanno ceduto il campo ad appena una decina, che occupano ormai i tre quarti delle risaie della regione; negli Usa è scomparso l'85 per cento delle varietà di mele che si coltivavano cent'anni fa; è bastata l'introduzione della perca del Nilo nel Lago Vittoria, alla fine degli Anni 50, perché scomparissero 200-300 specie ittiche autoctone. Secondo la Fao, dall'inizio di questo secolo, cioè con l'avvento dell'agricoltura intensiva, circa il 75 per cento della diversità genetica delle colture agricole è andata perduta; in Europa, la metà delle razze di equini, bovini, ovini, gallinacei allevati dai nostri bisnonni è scomparsa e un terzo delle restanti 770 razze potrebbe fare altrettanto entro vent'anni. Al summit sulla Terra di Rio de Janeiro, due anni fa, la biodiversità fu uno dei temi caldi che oppose Paesi in via di sviluppo e Paesi industrializzaati; la «Convenzione sulla biodiversità», che venne approvata dopo aspri contrasti, prevedeva che si trovasse una soluzione al quesito della proprietà della biodiversità. E all'inizio di luglio, quando si è cominciato a discuterne concretamente in un incontro internazionale a Nairobi, è stata subito guerra. Oggetto immediato dello scontro sono i 18 «International agricultural research centres» (o Iarc) costituiti negli Anni 50 in tutto il mondo (ma prevalentemente nel Terzo Mondo) con lo scopo di inventariare le risorse genetiche delle rispettive regioni, migliorare le specie alimentari esistenti, crearne di nuove più produttive o meglio adatte alle condizioni ambientali (ad esempio, piante resistenti alla siccità, a certi parassiti, adatte all'acqua salmastra ecc.). Un esempio: negli Anni 70 il virus del rachitismo colpì le colture di riso dall'India all'Indonesia, portando vaste regioni sull'orlo della carestia. Fu subito avviata una ricerca per individuare una specie immune dalla malattia. Si esaminarono 17 mila varietà di riso coltivato o selvatico; tra queste ne fu individuata una, nell'Uttar Pradesh, che possedeva un gene resistente al rachitismo. Oggi gli ibridi ottenuti da quel riso selvatico indiano sono coltivati su 110 milioni di ettari in tutta l'Asia meridionale. I centri, vere «banche delle sementi», sono stati creati con finanziamenti internazionali provenienti soprattutto dai Paesi industrializzati. Hanno sempre avuto un'ampia indipendenza, e alle loro risorse finora hanno attinto liberamente tutti, ma in particolare i Paesi più sviluppati. Secondo la rivista inglese «New Scientist», le nuove varietà di cereali messi a punto dai centri hanno fruttato all'Australia in vent'anni utili aggiuntivi per 2,2 miliardi di dollari, hanno contribuito per 300 milioni di dollari l'anno alla produzione di pasta italiana di grano duro, mentre hanno concorso per un quinto alla produzione americana di riso. Ma ai centri, e ai Paesi in via di sviluppo che forniscono il materiale genetico su cui essi lavorano, di tutta questa ricchezza non va quasi nulla; perciò a Rio il Terzo Mondo ha rivendicato il diritto di disporre di questa risorsa, suscitando l'opposizione di molti Paesi industriali, in primo luogo gli Stati Uniti di Bush. Lo scorso maggio i centri hanno firmato un accordo con la Fao, l'organizzazione dell'Onu per l'alimentazione e l'agricoltura, per mettersi sotto il controllo della Intergovernmental Commission on Plant Genetic Resources, un organismo appoggiato dall'Onu. Ma la Banca Mondiale, in sintonia con i Paesi che finanaziano i centri, ha fatto sapere di essere contraria e ha contrapposto un piano per mettere i centri sotto il controllo di un comitato centralizzato, guidato dalla stessa Banca Mondiale. Nella Commissione intergovernativa dell'Onu ogni membro dispone di un voto e quindi il Terzo Mondo è in maggioranza; nella Banca Mondiale ogni Paese conta in proporzione alla propria contribuzione e quindi prevalgono i Paesi ricchi, in testa gli Usa. Come si vede, dietro le ricorrenti proteste di solidarietà verso il Sud depresso, riemerge l'eterna pretesa dei ricchi di disporre delle risorse primarie delle regioni sottosviluppate. Bisogna riconoscere che in questo braccio di ferro la Banca Mondiale ha ottimi mezzi di persuasione: i centri sono in crisi finanziaria e, al momento, non hanno altre entrate oltre alle donazioni dei Paesi ricchi, mentre la Banca ha già detto di avere pronte le risorse necessarie per assicurarne il funzionamento. Vittorio Ravizza


SQUILIBRI ALIMENTARI E tu, cosa metti in pancia? Guerra dei consumi nelle due Europe
Autore: STEINMAN FRANCESCA

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, MERCATO, EUROPEO
ORGANIZZAZIONI: UE UNIONE EUROPEA
LUOGHI: ITALIA

I Paesi del centro e dell'Est europeo hanno imboccato la strada del libero mercato e l'Europa industrializzata - che con gli Stati Uniti è uno dei due giganti del settore agro-industriale mondiale - fa il punto sulla situazione dell'agricoltura e dei consumi del continente. Recentemente, a tirare le somme per guardare al domani, non è stata soltanto l'Europa dei Dodici, ma tutta quella compresa nell'area regionale europea della Fao, che conta 38 Paesi e comprende vecchi e nuovi Stati, dai Balcani al Baltico, tutti in cerca di una soluzione ai loro problemi agro-alimentari, e non solo, nel libero mercato. Si sono trovate di fronte, ma non contrapposte, due Europe: da un lato quella che continua a produrre eccedenze e che per arrivare a tanto non è andata troppo per il sottile, finendo con il sacrificare anche un ricco patrimonio genetico di flora e fauna; dall'altro l'Europa che esce da una lunga esperienza di economia pianificata e deve a tutti i costi aumentare, migliorare e vendere la propria produzione. Il ragionamento, per la seconda, è semplice: crescere rapidamente e diventare fonte di materia prima agricola per tutti gli altri Paesi europei, che vanno per la maggiore nel settore della trasformazione. Cosa che, del resto, avviene di fatto nell'allevamento degli animali da carne e del pollame. Per L'Europa con una marcia in più, invece, si tratta soprattutto di aiutare la ripresa agricola dell'altra metà, per garantire la stabilità politica attraverso la sicurezza alimentare, ma anche per assicurare che la produzione sia di qualità tale da competere a pari livello sui mercati, senza ripetere gli errori ambientali del passato. Tuttavia, anche se gli economisti sanno che la strada intrapresa dopo la caduta del Muro è quella giusta, le popolazioni dell'Est europeo per il momento non possono che constatarne alcuni effetti negativi. Prendendo a caso i consumi alimentari di un nucleo familiare dell'Europa orientale - le cifre sono dell'Istituto nazionale dell'alimentazione e della nutrizione di Varsavia - il consumo di pane pro capite per una famiglia di impiegati, in Polonia, era di 86,4 kg all'anno nel 1985 e di 87,3 nel 1991, ma al tempo stesso, il consumo di farina di grano era calato da 14,2 kg all'anno per abitante nel 1985 a 12,6 nel 1991. E così era calato il consumo di patate, pesce e derivati, materie grasse e burro, latte e formaggi o zucchero e uova. In Europa occidentale i consumatori preferiscono prodotti di facile preparazione e consumo. Li vogliono freschi, saporiti, appetibili, sani, invitanti e dalla confezione attraente. La maggior parte degli alimenti consumati, circa l'80%, viene trasformata. Ed è proprio il settore della trasformazione quello che si evolve maggiormente; anzi, più l'alimentazione diventa un consumo «di moda», più accelera il tasso di rinnovamento dei prodotti. A questo contribuisce soprattutto la disponibilità di generi provenienti da tutto il mondo, come frutta e legumi esotici, vini e cibi prelibati. Prodotti coltivati o imballati, piatti già pronti, refrigerati o congelati, in conserva o liofilizzati. La riuscita di un alimento è già un successo se resiste sul mercato per un anno, afferma il Capo dell'ufficio regionale della Fao per l'Europa, Milan Zjalic: negli Anni 80, la media degli articoli alimentari venduti all'ingrosso è passata da 10.000 a 15.000 l'anno. A mantenere il dinamismo della produzione e dei mercati contribuisce la varietà della dieta europea. Un consumo minore di carne e latticini può far ridurre gli spazi da riservare all'allevamento; ma la preferenza di patate pre-confezionate per essere fritte, ad esempio, non comporterebbe una produzione inferiore; la domanda resterebbe la stessa. Potrebbe cambiare, invece, la varietà di patate richieste, l'epoca della raccolta, l'immagazzinaggio o le qualità di consegna, tutti fattori che implicano un controllo da parte del settore della trasformazione su quello della produzione agricola. Un'agricoltura su misura, insomma, grazie alle nuove tecnologie che permettono di controllare con precisione le caratteristiche qualitative di un prodotto lungo l'intera catena alimentare. L'evoluzione del commercio al dettaglio, la miriade di marche di prodotti grandi e piccoli, il frazionamento della domanda offrono enormi possibilità alla produzione e alla trasformazione. E potranno fornire prodotti di qualità a costi abbordabili. Francesca Steinman


UNO STUDIO DI IMMUNOEMATOLOGIA Nelle nostre vene, sangue etrusco e celtico La struttura genetica degli italiani è ancora quella dell'età del ferro
Autore: TURO GIORGIO

ARGOMENTI: GENETICA, ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. L'impronta delle migrazioni in Italia

IL corredo genetico degli italiani è in sostanza ancora quello dell'età del ferro (dal 1000 al 300 a. C.). Le diversità presenti nella popolazione italiana sono il risultato dell'insediamento e delle migrazioni di antichi popoli nell'Italia preromana: l'egemonia di Celti, Etruschi, Greci, Liguri, Italici, Fenici, Sardi ha esercitato una profonda e decisiva influenza sulla struttura genetica dei nostri antenati, la cui eredità biologica continua a prevalere nel nostro patrimonio genetico. Lo studio che qui viene esposto è il frutto di un'iniziativa di ricerca promossa dal Gruppo di studio Hla della Società italiana di immunoematologia (Siits- Aict). La dissomiglianza genetica della Sardegna in confronto all'Italia continentale e Sicilia sarebbe dovuta, oltre all'isolamento geografico, soprattutto alla mancanza, nell'isola sarda, del contributo genetico di Celti, Italici, Liguri, Etruschi, Greci e alla presenza invece dei geni di provenienza fenicia e sarda. La supremazia dei Celti al Nord, degli Etruschi al Centro e dei Greci al Sud avrebbe dato origine all'eterogeneità rilevata fra Italia settentrionale, centrale e meridionale. La variazione graduale, secondo la latitudine, della frequenza di molti antigeni Hla confermerebbe l'esistenza di gradienti delle frequenze geniche, che si irradiano dal Medio Oriente, probabilmente generatisi con la radiazione neolitica degli agricoltori dall'Asia occidentale all'Europa. E' presumibile che le colonie elleniche avessero un'elevata densità di popolazione, tale da giustificare l'espansione dei Greci, con il conseguente flusso genico, verso Nord: la penetrazione in Italia centrale dei Greci potrebbe contribuire a spiegare il contrasto genetico fra l'Italia settentrionale e quella centro- meridionale e la relativa affinità del Centro con il Sud d'Italia. Appaiono sotto l'influsso etrusco una porzione della Pianura Padana e della Campania, a Nord e a Sud dell'area geografica che corrisponde all'antica Etruria (Toscana, Lazio settentrionale e parte dell'Umbria). L'origine autoctona degli Etruschi ha un importante argomento a favore: essi praticavano il costume funerario della cremazione, tipico dell'età del bronzo. La minore eterogeneità evidenziata fra la Sardegna e la parte centrale d'Italia, rispetto alle regioni settentrionali e meridionali, si potrebbe interpretare in base a una supposta similitudine genetica fra i Sardi e gli Etruschi: queste civiltà autoctone dell'età del ferro derivano, verosimilmente, da genti dell'età del bronzo che discenderebbero da comuni antenati neolitici giunti in Europa dal Vicino Oriente. Sino al VI secolo a. C. la fascia occidentale dell'Italia settentrionale era dominata dagli antichi Liguri di presunta origine mediterranea e successivamente i loro geni si sono frammisti a quelli delle tribù celtiche dei Galli, invasori discesi dal Nord, per cui si giustifica l'esistenza dei cosiddetti Celti-Liguri. All'inizio del I millennio a. C. gli Italici si stabilirono in una vasta area della penisola e in Sicilia. Questi popoli, provenienti per lo più dall'area danubiana, giunsero in Italia oltrepassando le Alpi e attraversando l'Adriatico. E' plausibile che l'eterogeneità dell'Italia settentrionale sia in gran parte determinata da differenze fra le regioni occidentali, in cui vi è il contributo genetico dei Liguri, e quelle orientali, prive dei geni liguri. La disparità fra Veneto e Friuli-Venezia Giulia rifletterebbe l'estraneità del patrimonio genetico degli Italici (Veneti) con quello dei Celti. La mancanza dei geni di derivazione italica e l'esistenza invece di quelli di origine celtica in Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Trentino-Alto Adige spiegherebbe il maggior divario genetico delle regioni occidentali col Veneto e non con il Friuli-Venezia Giulia. L'omogeneità genetica riscontrata in Italia centrale sarebbe una conseguenza del considerevole sviluppo della civiltà etrusca e del prevalere, nelle moderne popolazioni, del genoma etrusco su quello italico. La predominanza, nelle odierne popolazioni meridionali, del genoma greco su quello italico avrebbe prodotto solo una somiglianza genetica fra le regioni interessate; quindi l'eterogeneità rilevata nel Sud d'Italia può essere una conseguenza dell'isolamento geografico della Sicilia, della conquista normanna di quest'isola e della mescolanza, nel corso dei secoli, della popolazione siciliana con quella araba nordafricana, turca, spagnola. Giorgio Turo


CERVELLO La società dei neuroni Doppio scambio, come tra le persone
Autore: CALISSANO PIETRO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, GENETICA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Neurobiologia

CHI avrebbe accettato, qualche decennio fa, la nozione che la nostra individualità di singoli esseri umani poggia sulle proprietà delle cellule nervose che costituiscono il nostro cervello? Oggi, anche uno studente di medicina o di biologia definirebbe ovvia questa affermazione. Soltanto il profano può ancora immaginare che la sua unicità di essere umano possa prescindere dai suoi costituenti cerebrali. Grazie agli studi compiuti nell'ultimo decennio, questa stretta associazione fra neuroni e individualità si è progressivamente vestita di connotati precisi e, cosa ancor più interessante, è andata ben oltre questa semplice equazione. Ciò che è emerso, per dirla in breve e rimandando il lettore interessato alle righe seguenti, è che ogni neurone sta al cervello cui appartiene un po' come ogni individuo umano sta alla società in cui opera. Immagino già qualche sorriso di circostanza, accompagnato dalla domanda di rito: siamo di fronte all'ennesimo caso di antropomorfizzazione di banali proprietà di una cellula? La risposta è: forse sì, ma comunque si tratta di un caso davvero degno di essere brevemente descritto. Come ormai sa anche il lettore non addetto ai lavori, il nostro cervello si compone di diverse decine di miliardi di cellule nervose o neuroni. Queste cellule costituiscono reti di comunicazione più o meno complesse che presiedono alla recezione degli stimoli, alla loro elaborazione, alla fissazione di questi stimoli sotto forma di memoria e alla emissione di risposte. Per queste operazioni i neuroni si giovano di un codice di comunicazione che impiega due tipi di simboli diversi: segnali elettrici e sostanze chimiche, dette neurotrasmettitori. Quando un segnale elettrico giunge all'apice (chiamato sinapsi) di una fibra nervosa, provoca la liberazione di un neurotrasmettitore che, a sua volta, innesca un segnale elettrico nel neurone ricevente. Fino a qui nulla di nuovo, se non per dire che la comprensione di questi meccanismi si è rivelata utilissima per il trattamento di molte malattie mentali, come la depressione e la schizofrenia. Ciò che sta emergendo è che, oltre ai neurotrasmettitori, che servono per la comunicazione nervosa vera e propria, a livello delle sinapsi vengono liberati altri tipi di molecole che hanno una funzione completamente differente da quella dei neurotrasmettitori «classici». La loro funzione, infatti, non consisterebbe tanto nel partecipare alla trasmissione nervosa vera e propria, quanto nel regolare l'attività dei geni dei neuroni che ricevono i messaggi. Ricordiamo che i geni forniscono le informazioni necessarie per la sintesi di tutte le proteine a loro volta indispensabili per qualsiasi funzione vitale. In sostanza, il neurone ricevente subirebbe una specie di doppia trasmissione di informazioni: quella necessaria per la propagazione degli impulsi nervosi tramite i neurotrasmettitori, e una seconda che avrebbe lo scopo di regolare le sue funzioni interne. Ma ogni neurone che riceve questo doppio tipo di segnali, dopo averli elaborati, ne emette altri che andranno a esercitare questa duplice funzione (trasmissione di impulsi e regolazione dell'attività genica) su di un altro neurone. Insomma, ogni cellula nervosa è allo stesso tempo un controllore e un controllato, dotato della duplice capacità non solo di ricevere ed emettere segnali tramite le sinapsi, ma anche di influenzare le proprietà dei suoi interlocutori agendo molto più a fondo che sulle strutture sinaptiche, arrivando fino al loro «cuore», cioè ai loro geni. Proviamo ora a paragonare questo comportamento neuronale a quello dei componenti di una qualsiasi società umana. In essa, ciascun individuo interagisce con molti altri: il postino, nel suo giro di distribuzione della posta, scambierà con i suoi interlocutori gli ultimi pettegolezzi; il pretore ascolterà l'arringa dell'avvocato di turno; il prete riceverà le confessioni dei suoi fedeli; il medico visiterà i pazienti. In tutti questi eventi, i singoli individui, spesso, non hanno solo «comunicato» con i loro interlocutori ma hanno «influenzato», talvolta anche in profondità, i loro concittadini. Se, infatti, le chiacchiere del postino avranno lasciato il tempo che trovano, quelle del pretore, del confessore o del medico potrebbero aver segnato, talvolta a fondo, il destino del loro interlocutore. In una comunità umana, grande o piccola che sia, questa situazione di interazione attiva e «plasmante» con gli altri individui è fondamentale. Di fatto, essa costituisce l'essenza stessa della società. Se ciascun individuo non avesse questo intrinseco potere di incidere sulle decisioni degli altri, sarebbe parte di una società chiacchierona e inconcludente. Una situazione analoga a quella descritta per gli abitanti dell'ipotetico villaggio si verifica anche nel nostro cervello per quanto riguarda i nostri cittadini-neuroni. Come si è accennato, ciascuno di essi non è un banale ricevitore ed emettitore di segnali, come un microchip di un computer, che assolve al suo compito senza essere influenzato dalla natura dei segnali che riceve e trasmette. Ogni neurone, al contrario, è dotato di una sua unicità che gli viene conferita dalle specifiche proteine che ha fabbricato sotto l'influsso degli altri neuroni. I neurobiologi sono in grado, oggigiorno, di incominciare a rilevare queste differenze, che sono un po' come i tratti somatici e caratteriali di un individuo. Queste proprietà, tra l'altro, sono alla base della estrema versatilità e plasticità del nostro cervello. Sono loro, in ultima analisi, che ci permettono di apprendere e memorizzare e, così facendo, mutare il nostro atteggiamento nei confronti del mondo e di chi ci circonda. Pietro Calissano Cnr, Istituto di Neurobiologia


PEDIATRIA Morte in culla più a rischio i maschietti
Autore: GALLONE GIANCARLO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, BAMBINI, MORTE, STATISTICHE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Mortalità infantile, SIDS

LA morte improvvisa in culla, definita nella letteratura come S.I.D. S. (Sudden Infant Death Syndrome) è un evento conosciuto e descritto fin dall'antichità. Ne troviamo citazioni presso la Bibbia e gli Egizi ma solo in questi ultimi venticinque anni si è focalizzato l'interesse dei pediatri in relazione anche alla riduzione della natalità e al decremento della mortalità infantile nei Paesi maggiormente industrializzati. In campo internazionale, in particolare modo nei Paesi anglosassoni, la ricerca sulla SIDS viene condotta con grande dispendio di risorse economiche, organizzative e umane. Grazie a questi numerosi studi oggi conosciamo l'incidenza di questa sindrome e alcune ipotesi patogenetiche: essa rappresenta la prima causa di morte nel primo anno di vita senza una motivazione dimostrabile neanche a una accurata indagine anatomo-patologica. E' comprensibile come tale evento comporti forti implicazioni emozionali e ne derivi un notevole impatto sociale. La sua frequenza è variabile: 0,5 per 1000 nati in Svezia, 1,6 negli Stati Uniti, 5 per 1000 in alcuni Stati Europei fino all'8 per 1000 in Nuova Zelanda. Per quanto riguarda l'Italia, esistono solo dati parziali relativi ad alcune aree come Milano, l'hinterland milanese e la regione Emilia-Romagna, che segnalano tale evento in circa lo 0,6 per mille nati vivi. La SIDS mostra una particolare distribuzione per l'età compresa fra il primo e il quinto mese di vita, con una maggior frequenza intorno al secondo-terzo e una diminuzione nei mesi successivi: il sesto, l'incidenza è minima. E' più frequente nei soggetti di sesso maschile con rapporto 1,6:1 rispetto al sesso femminile ed è caratterizzata da un andamento stagionale che nel nostro emisfero corrisponde alle stagioni fredde, da Novembre a Marzo. Si manifesta prevalentemente nelle ore notturne o comunque nei periodi di sonno del bambino e non sembra esserci una distribuzione preferenziale per i giorni della settimana. Dalle casistiche elaborate si sono potuti definire alcuni fattori di rischio: giovane età della madre, fumo in gravidanza, uso di droghe, allattamento artificiale, plurigravidanze, alcune patologie della gravidanza, parti multipli. Vengono considerati a rischio i bambini che presentino un basso peso alla nascita, prematurità, punteggio Apgar alla nascita basso (inferiore a 7), una precedente SIDS in famiglia, alterazioni elettrocardiografiche o patologie respiratorie neonatali, che abbiano richiesto intubazione e ventilazione meccanica. A rischio anche lattanti che abbiano presentato episodi di interruzione della respirazione tali da richiedere, da parte dei genitori, stimolazioni intense per la ripresa delle funzioni vitali. A queste considerazioni bisogna aggiungere segnalazioni, che devono essere ancora debitamente valutate, come la posizione nel sonno che possono assumere i bambini nei primi mesi di vita o l'eccessiva temperatura, a cui potrebbe essere sottoposto il bambino, legata sia all'ambiente sia all'uso errato di numerosi e pesanti indumenti. Gli elementi fin qui esposti comunque non spiegano le cause stesse della SIDS e le numerose ipotesi patogenetiche ci permettono di considerare la SIDS come un evento legato a cause multifattoriali ancora oggi in via di definizione. Occorrerebbe quindi una ricerca della causa di morte con modalità anatomo-patologiche standardizzate, oltre all'appoggio psicologico ai familiari colpiti. Per una approfondita valutazione dei bambini a rischio si ipotizza anche un supporto di controllo a domicilio, mediante monitor, che valuti le più importanti funzioni vitali: uno studio accurato della respirazione, della funzionalità cardiaca e di altri parametri per valutare i rapporti fra apnea, bradicardia, e reflusso gastroesofageo, tutti fenomeni molto frequenti nei primi mesi di vita. Giancarlo Gallone Centro SIDS. Ospedale Infantile Regina Margherita, Torino


TROPPO SOLE E le difese si abbassano L'Oms insiste sui rischi della tintarella
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: OMS
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Abbronzatura, radiazioni solari

UNA energica guerra contro la sovresposizione al sole viene condotta dalla medicina di oggi. Gli esperti che hanno partecipato a una riunione dell'organizzazione mondiale della sanità (OMS) a Ginevra hanno affermato che il pubblico non è ancora sufficientemente sensibilizzato ai pericoli dei raggi ultravioletti, legati alla riduzione dello schermo protettivo dell'ozono. Si suole dire che il sole è la vita. Certamente, ma i raggi ultravioletti che fanno parte della radiazione solare, per quanto riguarda la salute sono un'arma a doppio taglio: dosi modeste sono benefiche perché stimolano l'organismo a produrre la vitamina D, un'esposizione prolungata e intensa rischia invece di danneggiare seriamente il sistema immunitario e di provocare malattie cutanee ed oculari. L'indebolimento del sistema immunitario favorisce la formazione di tumori della pelle, che compaiono più presto e si evolvono più rapidamente d'un tempo. Gli esperti hanno detto che è essenziale proteggere i bambini e i ragazzi di meno di 15 anni: non stare troppo al sole specialmente fra le ore 10 e le 14, portare indumenti che riparino, compreso un copricapo a larga tesa, usare creme solari. Altrimenti c'è il pericolo che essi ricevano nei primi 20 anni di vita già la metà della dose totale di ultravioletti prevedibile per la vita intera. Naturalmente la raccomandazione, di particolare importanza per i giovanissimi, vale anche per le altre età. Studi epidemiologici hanno dimostrato che i tumori della pelle oggi colpiscono i cinquantenni, vale a dire dieci anni prima che negli Anni Sessanta. Si tratta, è vero, di tumori in genere benigni, ma ve ne sono anche di maligni, i melanomi (dal greco «melas», nero), spesso insorgenti su nei presenti fino dalla nascita. Sovente questi malati ebbero in precedenza gravi ustioni da sole. I soggetti a rischio dovranno quindi usare molta cautela. A parte il possibile rischio genetico (eventuali altri casi in famiglia), i fattori di rischio sono tre: un elevato numero di nei, la tendenza ad avere lentiggini, precedenti ustioni da sole. Soltanto su quest'ultimo possiamo agire dal punto di vista della prevenzione. Ecco dunque i consigli: esposizioni al sole nelle prime ore del mattino e nel tardo pomeriggio, quando il tasso di ultravioletti è cento volte meno elevato che a mezzogiorno, e non stare sdraiati ma muoversi, camminare. Un altro punto discusso dagli esperti a Ginevra riguarda gli occhi. E' dimostrato che l'esposizione ai raggi ultravioletti fa aumentare il numero dei casi di certi tipi di cataratta. Dunque portare occhiali da sole, ma con lenti filtranti di buona qualità, che impediscano il passaggio degli ultravioletti, senza di che la dose di ultravioletti assorbita sarebbe maggiore che a occhi nudi. Ulrico di Aichelburg


POLVERE DI AGLIO Toccasana misconosciuto Protegge il cuore: ma in che modo?
Autore: MORETTI MARCO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, ALIMENTAZIONE
NOMI: NEIL ANDREW
LUOGHI: ITALIA

UNO spicchio d'aglio al giorno toglie l'infarto di torno. E' questa in poche parole la conclusione a cui sono giunte diverse ricerche scientifiche condotte in Australia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti e Thailandia per valutare le proprietà dell'aglio di ridurre il tasso di colesterolo nel sangue ed evitare cardiopatie. L'ultimo e più approfondito studio è stato realizzato confrontando sedici diversi esperimenti condotti su più di mille pazienti da Christopher Silagy della Flinders University di Adelaide (Australia meridionale) e da Andrew Neil della Oxford Uni versity. Il primo risultato è stato un calo del 12 per cento del tasso di colesterolo a seguito di una cura di un mese a base di aglio polverizzato assunto in una dose giornaliera equivalente a uno spicchio. Non è un esito miracoloso: si ottiene lo stesso effetto con i medicinali usati tradizionalmente a questo scopo. Ma a favore dell'uso dell'aglio giocano l'assenza di effetti collaterali e il prezzo decisamente più basso rispetto ai rimedi chimici. Restano comunque alcuni dubbi. L'aglio in polvere, ottenuto macinando i bulbi essiccati, è venduto legalmente come medicinale per la riduzione del colesterolo in Danimarca, Germania e Olanda. Si sa che i suoi effetti benefici sono provocati dall'allicina, il principio attivo dell'Allium sativum, nonché il responsabile del suo caratteristico odore. Non si conosce però con esattezza come l'aglio agisca sul sistema cardiovascolare. L'aglio è usato come una sorta di panacea con proprietà tonificanti e antisettiche da oltre cinquemila anni. L'assenza di certezze sulla sua azione lo esclude però dalla farmacologia ufficiale della maggioranza dei Paesi, fra cui gli Stati Uniti. Per scoprire in che modo riesca a ridurre il tasso di colesterolo, Andrew Neil sta conducendo un nuovo esperimento, sponsorizzato dalla British Heart Founda tion, su 120 pazienti a cui è stato diagnosticato un livello di colesterolo superiore alla norma. Il monitoraggio del loro sangue dovrebbe svelare il funzionamento dell'allicina sul sistema cardiovascolare. Blocca la sintesi del colesterolo? Aziona delle cellule capaci di impedire che il colesterolo si fermi sulle pareti delle arterie? Riduce la densità del sangue e ne aumenta il flusso nei vasi? O provoca tutte queste reazioni messe insieme? Neil dovrebbe dare una risposta al quesito entro la fine del 1994. Se riuscirà a dimostrare come agisce, dovrebbe anche poter accertare se conserva l'effetto benefico quando viene cotto o comunque mescolato con i cibi. Così, oltre che per la cura, potrà essere usato in cucina da tutti i buongustai per prevenire le malattie cardiache. Marco Moretti




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