TUTTOSCIENZE 27 aprile 94


IERI L'ANNUNCIO UFFICIALE Scoperto il quark Top Ultimo mattone-base della materia
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: FISICA
NOMI: BELLETTINI GIORGIO, RUBBIA CARLO, GELL-MANN MURRAY
ORGANIZZAZIONI: FERMILAB
LUOGHI: ESTERO, USA, CHICAGO
TABELLE: D. Acceleratore Tevatron
NOTE: 057

FINALMENTE l'annuncio ufficiale, dato ieri contemporaneamente in Italia, negli Stati Uniti e in Giappone: l'ultimo mattone-base della materia, il quark Top, è stato scoperto al Fermilab di Chicago, dove funziona il più potente acceleratore di particelle del mondo. Con il Top (cioè Alto; ma c'è chi lo chiama Truth, verità) l'edificio della fisica subnucleare può considerarsi completato. Top è infatti il sesto quark previsto dai fisici, l'unico che mancava all'appello. La sua cattura scrive la parola fine sotto un affascinante capitolo della scienza. Per stanarlo c'è voluta una squadra di 400 fisici americani, giapponesi e italiani: questi ultimi, una cinquantina, guidati da Giorgio Bellettini dell'Università di Pisa. Il resto lo ha fatto una macchina, il Tevatron, che fa scontrare protoni e antiprotoni alla fantastica energia di 1800 GeV (1800 miliardi di elettronvolt). Per darvi un'idea, è come se su un singolo protone si concentrasse tutta l'energia di una palla da tennis colpita dalla racchetta del Borg dei bei tempi. Nonostante la pubblicazione della scoperta sia stata accettata dalla prestigiosa «Physical Review», un minimo di cautela è ancora opportuno. Gli stessi fisici del Fermilab prima di dare l'annuncio hanno tenuto una sorta di conclave per decidere, a maggioranza, che valore attribuire ai dati raccolti. Singolare applicazione dei metodi parlamentari alla scienza, ma anche prudente saggezza. «I Top che riteniamo di aver individuato - spiega Giorgio Bellettini - sono una quindicina. La loro massa è molto grande: intorno a 170 GeV, al limite della potenza che l'acceleratore del Fermilab ci mette a disposizione. Tuttavia riteniamo che la probabilità che non si tratti del Top sia appena una su 400». A voler fare l'avvocato del diavolo, possiamo osservare che l'equipe internazionale del Fermilab si è trovata di fronte a un bivio: 1) limitarsi, con un eccesso di cautela, a interpretare i propri risultati come un limite superiore di energia oltre il quale si colloca il Top; 2) con una concessione all'ottimismo sbilanciarsi a favore di una effettiva identificazione dell'ultimo quark. Si è scelta questa seconda via. «Ma - aggiunge Bellettini - sarà Lhc, l'acceleratore 8 volte più potente di quello del Fermilab che il Cern dovrebbe realizzare a Ginevra, a darci una conoscenza davvero completa del Top». E a proposito di Lhc, proprio in questi giorni al Cern si è sperimentato con successo il prototipo (firmato dalla Ansaldo) dei 1300 dipoli superconduttori che formeranno la nuova eccezionale macchina. La statistica su una quindicina di possibili Top non è grande. Anche Carlo Rubbia, quando identificò i fotoni pesanti W e Z, disponeva di pochissimi candidati: ma allora la «firma» degli eventi osservati era più esplicita. Nel caso del Top le interpretazioni possono essere più di una, e i pochi candidati disponibili sono stati estratti da un rumore di fondo di milioni di eventi estranei. Già il 4 luglio 1984 c'era stato un falso allarme. Allora l'annuncio veniva da Rubbia, che pochi mesi dopo avrebbe avuto il Nobel per la scoperta delle particelle W e Z. Un esame più attento dimostrò che i dati raccolti a Ginevra erano stati interpretati troppo frettolosamente. Il 1 novembre del 1992 un altro allarme: il quark Top alle tre del mattino aveva fatto una fugace apparizione al Fermilab (fugace è una parola inadeguata: la vita media della particella è di un milionesimo di milionesimo di milionesimo di secondo). La notizia rimbalzava subito nei laboratori di tutto il mondo e anche nella redazione di qualche giornale. Ma non ci fu il tempo di pubblicarla: altrettanto pronta arrivava la smentita. Da quella notte (Halloween, per gli americani la notte delle streghe) il quark Top è rimasto ostinatamente nascosto. Fino alle osservazioni di questi ultimi mesi. Tutta la materia dell'universo, secondo la teoria oggi comunemente accettata, è costituita da sei quark (particelle pesanti) e da sei leptoni (particelle leggere). L'ipotesi dei quark si deve a Murray Gell-Mann, che la formulò negli Anni 60 per riportare un po' di ordine nella troppo numerosa popolazione delle particelle ritenute «elementari». La parola quark la derivò da un gioco di parole dello scrittore dublinese James Joyce in Finnegan's Wake, il suo libro più criptico. Benché abbiano la proprietà di non poter essere osservati isolatamente, negli ultimi vent'anni 5 quark sono stati scoperti: Up (Sù), Down (Giù), Strange (Strano), Charm (Incanto) e Bottom (Basso). Top ha resistito tanto alla caccia perché per produrlo occorrono enormi energie. Quanto ai leptoni - elettrone, muone, particella Tau e i loro neutrini - l'inventario è già completo: solo per il neutrino Tau sarebbero auspicabili ulteriori conferme. Piero Bianucci


TEORIA CONFERMATA Hanno trovato l'ago nel pagliaio
Autore: REGGE TULLIO

ARGOMENTI: FISICA
ORGANIZZAZIONI: FERMILAB
LUOGHI: ESTERO, USA, CHICAGO
NOTE: 057. Quark Top

E' giunto il tanto atteso annuncio della scoperta del sesto quark, il Top, l'ultimo mattone che mancava per completare il modello standard che inquadra le particelle elementari. E si sa che non è stato per niente facile arrivare al risultato finale: i fisici si sono cimentati con la classica ricerca dell'ago nel pagliaio. Il modello standard deriva tutta la materia conosciuta da tre famiglie di particelle ognuna delle quali contiene quark, leptoni e relative antiparticelle. La prima famiglia comprende i quark U, D (Up, Down), elettrone e neutrino e rende conto di tutti gli stati della materia ordinaria. Le altre famiglie includono rispettivamente i quark S, C (Strange, Charme) e T, B (Top, Beauty) e danno luogo ad aggregati effimeri che sono rilevabili solamente con esperimenti fatti ad energie molto elevate. Dobbiamo poi tenere conto delle particelle che legano assieme quark e leptoni. Tra queste, il fotone, responsabile delle interazioni elettromagnetiche, la luce pesante scoperta da Rubbia e altri gruppi al Cern, i gluoni che legano assieme i quark e permettono l'esistenza dei nuclei. Il modello standard funziona molto bene e riassume quasi un secolo di grandi progressi nella nostra comprensione della struttura ultima della materia. Esso ha un ruolo simile a quello del sistema periodico di Mendeleyev ma rende conto di fenomeni che si svolgono su una scala di energie che è circa un trilione di volte più estesa. Proprio il successo del modello standard, ampiamente confermato dagli esperimenti svolti al Lep di Ginevra, allontana le prospettive di una crisi nella fisica, costringendola sui binari della «scienza normale». Forse i fisici sono viziati dal successo spettacolare di rivoluzioni scientifiche come la Relatività e la meccanica dei quanti. La scoperta del Top giunge poco dopo la rinuncia americana alla costruzione di Ssc, il grande acceleratore che doveva scrutare ancora più a fondo i segreti della materia. Da tempo mi attendevo una decisione del genere, che impone un cambiamento di strategia nella fisica delle alte energie e non solo per quanto riguarda gli esperimenti. La tecnologia degli acceleratori ha fatto enormi progressi dal tempo in cui Lawrence costruì il primo ciclotrone. La battuta d'arresto imposta negli Usa indurrà i fisici a cercare nuovi sistemi, più efficienti e meno costosi, per accelerare particelle fino a energie ora impensabili. Faremo di necessità virtù. Tullio Regge Università di Torino


LE FINALI A HONG KONG Quando l'ostacolo è un teorema Olimpiadi matematiche, l'Italia va alla riscossa
Autore: CONTIGIANI BRUNO

ARGOMENTI: MATEMATICA, CONCORSI, SCUOLA
NOMI: WILES ANDY
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 057

NEI ricordi scolastici di molti italiani la matematica è associata a paure e difficoltà, eppure mai come oggi si può sostenere che essa goda anche di popolarità. Il riferimento non è alla tanto attesa dimostrazione del teorema di Fermat da parte del ricercatore inglese Andy Wiles, ma al grande successo che ha avuto la fase eliminatoria delle Olimpiadi della Matematica nel nostro Paese: 85 mila studenti di 1200 scuole superiori (30 mila del primo biennio e 45 mila del triennio) vi si sono cimentati e ora attendono il responso dei professori della Scuola Normale di Pisa per sapere se faranno parte dei 300 che in maggio a Cesenatico si disputeranno la partecipazione alle finali in programma a Hong Kong. Le Olimpiadi di Matematica sono alla 35^ edizione. Vi si confrontano Università, ministeri e associazioni di 80 Paesi. Anche se non possono essere considerate un vero e proprio test per giudicare il livello della matematica in ogni Paese, sono da parte degli organizzatori nazionali vissute come tali e affrontate con grande impegno. L'Italia ha iniziato a parteciparvi con una selezione pubblica solo da pochi anni, e dopo una lunga sosta nel gruppo di coda, grazie al lavoro della Scuola Normale di Pisa (a partire dal 1987) e alla collaborazione di Agip, Ferrari e Intel, sta risalendo molte posizioni: oggi si trova intorno al ventesimo posto. Francia, Gran Bretagna, Canada e Australia sono considerati alla nostra portata, mentre la Germania dopo la riunificazione è praticamente irraggiungibile, essendo balzata al secondo posto. La parte del leone, in passato appannaggio dei Paesi dell'ex Urss o a essa collegati, spetta oggi alla Cina Popolare, che nelle ultime edizioni ha sempre piazzato i suoi studenti ai primissimi posti. Quali i motivi di tanto successo? Al di là della base di massa su cui avviene la selezione e delle scuole speciali da cui proviene la maggior parte dei candidati, alcuni sostengono che i giovani cinesi sarebbero avvantaggiati dalla forma mentis a cui sono costretti nell'apprendimento degli ideogrammi della loro scrittura. Lo confermerebbero anche i brillanti risultati ottenuti da Taiwan (al quinto posto nel 1993). Sul piano statistico, resta il fatto che le gare sono a prevalente partecipazione maschile (l'anno scorso alle finali in Turchia le ragazze erano 30 su 400 partecipanti, alle finali italiane 50 su trecento). Un modo per migliorare la nostra posizione in classifica potrebbe venire da un livello di selezione ancora più allargato. Lo spunto viene dalla Francia con il concorso Kangourou, a cui partecipano, pagando 10 franchi a testa, 500 mila studenti di ogni ordine e grado, che ricevono una risposta sull'esito della propria prova tramite il Minitel (un Videotel molto più efficiente). Un aiuto potrebbe venire inoltre da nuovi contenuti, quali l'analisi di algoritmi, con relativo aggancio all'informatica, certo più apprezzata dai giovani della matematica. Bruno Contigiani


A FIRENZE I videogiochi nelle Università Riabilitati come prezioso strumento didattico
Autore: NERI GIOVANNI

ARGOMENTI: DIDATTICA, GIOCHI, ELETTRONICA, UNIVERSITA'
NOMI: CALVANI ANTONIO, MARCHI DEMIRO, HOLDER JOHN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 057

IN principio c'erano uno schermo nero e tre quadratini luminosi. Due che correvano in verticale sui lati del video, uno che rimbalzava da una parte all'altra con il rumore di una pallina da ping pong. Erano gli Anni 70, e nelle sale giochi monopolizzate dai flipper quegli scatoloni simili a televisori trionfarono. Il salto di qualità è arrivato un paio di anni dopo con «Space Invaders», il primo vero videogioco: una navicella spaziale sparava fasci di luce contro piccoli alieni che si disintegravano in decine di pixel. Adesso i giochi elettronici entrano all'Università, dopo un lungo purgatorio di affinamento e un breve inferno di polemiche durante il quale sono stati descritti come i nuovi corruttori della gioventù. Un'accusa che il convegno «Il computer tra gioco e studio, videogames, ipertesti e educazione», svoltosi qualche giorno fa alla facoltà di Sociologia di Firenze, ha ribaltato, perché, come spiega Antonio Calvani, docente di Informatica e tecnologia dell'educazione, tra le migliaia di videogiochi molti sono buoni, pochi diseducativi. Alcuni, quelli del tipo «spara e fuggi», si basano soltanto sulla prontezza dei riflessi e per soggetti labili possono risultare alla lunga dannosi. Altri, invece, consentono al ragazzo di formulare ipotesi e scoprire regole nascoste. Basta non esagerare, per evitare forme di dipendenza. In vent'anni i videogiochi sono diventati così sofisticati da trasformarsi in simulazioni interattive della realtà. Si guida una macchina di Formula 1, si naviga nel passato, si pilota un aereo da caccia della nuova generazione. Il gioco ha sempre goduto di un grande interesse nel mondo scientifico. Con le nuove tecnologie ai ricercatori vengono proposti scenari inediti e i videogiochi, spiegano psicologi come Malone e Greenfield, possono diventare strumenti educativi. Per immergere lo studente in un dato periodo storico lo si può far giocare con il video per poi passare ai libri tradizionali. Al convegno di Firenze hanno partecipato anche Demiro Marchi, titolare della cattedra di pedagogia generale, e John Holder, psicologo, presidente della Leader, la più grande società italiana distributrice di software ludico, che fa da apripista a un altro capitolo della storia didattica del software: la Realtà Virtuale. Con caschi stereoscopici, guanti e tute con ritorno di forza, gli studenti entrano in un mondo sintetico costruito dal computer. E così bardati possono visitare la Roma dei consoli, la Firenze dei Medici o la Wurttenberg della Riforma. Viaggiando sulla mai inventata «macchina del tempo». Giovanni Neri


PRIMI ESPERIMENTI Il robot fabbrica aerei Sugli Airbus infila 16 mila rivetti
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA, INDUSTRIA, AEREI
ORGANIZZAZIONI: DASSAULT, AIRBUS
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 058

L'ASSEMBLAGGIO finale di un aereo conserva, a dispetto dell'avanzatissimo ambiente tecnologico in cui avviene, molte caratteristiche artigianali. Non ci sono grandi apparecchiature, i tecnici usano poche semplici macchine, molte attività sono puramente manuali. Le macchine a controllo numerico e i robot sono usati per costruire molte parti di minori dimensioni ma non servono nella fase in cui tutti questi componenti vengono infine messi insieme per dare vita alla macchina volante. Robot di montaggio hanno fatto la loro prima comparsa nel nuovo stabilimento di Airbus Industrie di Tolosa costruito per l'assemblaggio degli Airbus A-330 e A-340, identici in tutto e per tutto salvo il numero dei motori, due il primo quattro il secondo. Lo stabilimento Clement Ader già di per sè rappresenta un primato, tanto che un'agenzia di viaggi di Parigi lo propone come meta di un "pacchetto" turistico: costruito alla periferia di Tolosa ai bordi dell'aeroporto, è lungo oltre 500 metri e alto 46 (come un palazzo di quindici piani). Ader, ingegnere, nato nel 1841 e morto a Tolosa nel 1925, dopo avere studiato a lungo il volo degli uccelli, costruì alla fine del secolo scorso una serie di prototipi di aeroplani uno dei quali, dalla forma a pipistrello, potrebbe essere stato, nell'ottobre del 1890, il primo apparecchio più pesante dell'aria a sollevarsi da terra spinto da un motore a vapore; il suo volo, sul quale peraltro esistono contestazioni, fu di appena una cinquantina di metri a una quota di una trentina di centimetri, e anticiperebbe di ben 13 anni quello storico dei fratelli Wright. In questa cattedrale tecnologica i robot sono usati per congiungere le tre sezioni principali della cellula e per collegare le ali alla fusoliera dei due modelli più grandi del consorzio europeo, con oltre 60 metri di lunghezza e oltre 63 di apertura alare. Muovendosi su binari che seguono la forma dell'aereo otto robot forano la lamiera, vi iniettano una sostanza sigillante e vi infilano i rivetti; dall'interno un operaio chiude il rivetto mentre il robot prepara il foro successivo. Una operazione che deve essere ripetuta 16 mila volte, che sui modelli non robotizzati richiede settimane e che oggi viene eseguita in soli tre giorni. Queste grosse macchine, che abbracciano interamente tutta la parte centrale dei giganteschi velivoli, sono state progettate dagli stessi tecnici Airbus. Anche la Dassault nel suo stabilimento di Bordeaux ha affidato a una macchina studiata appositamente il montaggio delle ali dei caccia «Mirage 2000»: l'assemblaggio è centralizzato intorno a cellule robotizzate di due robot che lavorano simultaneamente sulle due facce dell'ala compiendo le operazioni di foratura, fresatura, rivettaggio, spianatura, controllo e assemblaggio. In pratica la grande ala a delta del caccia, composta di centinaia di elementi, esce pressoché completa. Per il momento nel montaggio finale i robot hanno ancora un ruolo secondario, di aiuto all'uomo, il quale, nel caso di Airbus, continua ad affiancare la macchina; forse gli aeroplani non potranno mai essere costruiti come le auto (mancano i grandi numeri che giustificherebbero l'allestimento di una costosa catena robotizzata) ma la tendenza è quella di delegare all'automazione operazioni sempre più complesse. Per quanto riguarda i due nuovi mega-Airbus l'assemblaggio è la parte finale di un processo costruttivo che si svolge in decine di stabilimenti situati ai quattro capi d'Europa: il troncone centrale di congiunzione tra fusoliera e ali è della Aerospatiale, che lo fabbrica in due stabilimenti diversi (Meaulte e Nantes) e lo assembla in un terzo a Saint-Nazaire; anche l'estrema parte anteriore, quella che contiene la cabina di pilotaggio, viene dagli stessi stabilimenti; la sezione che va dalla parte anteriore al troncone centrale e quella che va da questo alla coda è fabbricata in Germania così come la deriva verticale; le ali, costruite dalla British Aerospace, arrivano dall'Inghilterra, dove sono state completate con alcune parti frabbricate in Belgio; la deriva orizzontale, infine, è spagnola. Questo per citare solamente i grossi blocchi, ai quali concorrono a loro volta decine di altre industrie, tra cui vi è il gruppo canadese Bombardier, la statunitense Textron Aerostructure, la Korean Air e l'australiana Asta. Un autentico puzzle, una apparente inestricabile confusione, che miracolosamente si compone con precisione millimetrica sotto l'azione dei nuovi robot di montaggio. Vittorio Ravizza


A ROMA Una mostra sugli inganni del peso
Autore: PANARESE ROSSELLA

ARGOMENTI: FISICA, MOSTRE
ORGANIZZAZIONI: MUSIS
LUOGHI: ITALIA, ROMA
NOTE: 058

E' una mostra tutta da toccare, senza strumenti o macchine difficili da usare o da capire. E' anche un laboratorio di scienze fuori dai tradizionali schemi dei gabinetti scolastici di fisica o chimica. E' un'iniziativa rivolta a studenti, insegnanti e a tutti coloro che vogliono scoprire e comprendere alcune proprietà fondamentali della materia. Si chiama «Cercatori di massa», prototipo di un laboratorio didattico del Musis. Il Musis, ricordiamo, è il progetto del Museo della scienza e dell'informazione di Roma e questa mostra-laboratorio, ospitata nell'Istituto Vittoria Colonna (via Arco del Monte 99, Roma, tel. 06 686.17.12) è uno dei poli nei quali questo progetto si sta costituendo nella capitale. Il «laboratorio» (ideato e realizzato dal gruppo Mizar), già proposto in via sperimentale, è diventato permanente, a disposizione non solo della scuola che lo ospita, ma di tutto il pubblico interessato. L'inaugurazione si è avuta in aprile nell'ambito della Settimana della cultura scientifica. Cosa esplorano i cercatori di massa? Innanzitutto il peso e la massa di un corpo. Nella vita comune li pensiamo equivalenti, ma la prima sala del laboratorio permette di capire, sperimentando in prima persona, che il peso varia da luogo a luogo. Se sulla Terra pesiamo 60 chili sulla Luna arriviamo appena a 10 chili e se abbiamo problemi con la bilancia, è meglio pesarci in montagna, dove seppur di poco, il risultato sarà più clemente. La massa, al contrario, è una proprietà intrinseca della materia e si misura con l'unità chiamata newton. Il visitatore-sperimentatore può fare i conti con la massa gravitazionale e con il mondo dell'estremamente piccolo. Ad esempio come valutare la massa di un elettrone. La riproduzione dell'esperimento con il quale J. J. Thomson per la prima volta rivelò l'esistenza dell'elettrone darà anche a noi la risposta. In Italia, a volte, la stessa parola divulgazione non gode di buona fama: può accadere di considerarlo contiguo al termine semplificazione. Ma uscendo da questa mostra proviamo, più che una sensazione di semplificazione, una piacevole sensazione di semplicità. Rossella Panarese


TECNOLOGIA Lubrificare secondo natura L'olio per auto a impatto zero
Autore: RIOLFO GIANCARLO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, TECNOLOGIA, INQUINAMENTO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. I CONSUMI ANNUALI DI LUBRIFICANTI ====================================== In Italia 340.000 tonnellate di olio per motori ----- In Europa 4.500.000 tonellate di olio industriale e per motori ----- In Europa finiscono nell'ambiente 800. 000 tonnellate di lubrificanti ======================================
NOTE: 058

OGNI anno in Italia consumiamo 340 mila tonnellate di olio per motori. In Europa, sommando ai lubrificanti destinati agli autoveicoli quelli usati dall'industria, si raggiungono i quattro milioni e mezzo di tonnellate. Un mare d'olio che oggi viene per lo più recuperato e raffinato nuovamente per essere riutilizzato. Talvolta, però, finisce nell'ambiente, con conseguenze nocive per l'ecosistema. E' quanto accade ogni anno in Europa a 800 mila tonnellate di lubrificanti usati. In Italia, come in Francia e in Germania, esiste da tempo un sistema di raccolta e trattamento (il Consorzio Obbligatorio Olii Usati), mentre in altri Paesi questa prassi inizia a diffondersi solo ora. Non si tratta solo di cambiare le cattive abitudini: bisogna superare l'ostacolo dei costi elevati della raccolta, che da noi sono coperti per legge dalla stessa industria di produzione attraverso una tassa su ogni litro in commercio. Non gettare l'olio usato dove capita, è il primo passo (il discorso riguarda soprattutto l'automobile, perché nell'industria il recupero è la norma). Ma non basta. Ci sono i motori a due tempi (scooter, motociclette, fuoribordo), che consumano una miscela di olio e benzina: non tutto il lubrificante viene bruciato nei cilindri e così in parte finisce nell'aria. Anche i motori a quattro tempi, soprattutto i grandi Diesel dei camion, possono emettere un po' di lubrificante attraverso i gas di scarico. E poi ci sono impieghi in cui l'olio è «a perdere», come nell'edilizia, dove serve per ungere le casseforme prima delle colate di cemento. Di qui la necessità, la spinta verso lubrificanti meno dannosi per l'ambiente. Il rischio è legato all'accumulo nel terreno di sostanze nocive, come zolfo, cloro, aromatici e ancora zinco, fosforo e altri additivi. I lubrificanti dei motori contengono anche residui tossici della combustione. Nell'acqua, poi, l'olio si raccoglie in superficie, dove forma uno strato sottile che impedisce lo scambio di ossigeno con l'atmosfera. Un solo chilo di lubrificante può coprire un chilometro quadrato d'acqua, con danni enormi per la fauna e la flora. I prodotti oggi in commercio sono biodegradabili al 30-35 per cento: in altre parole, circa un terzo delle sostanze presenti nell'olio che finisce nell'acqua o nel terreno viene assimilato e trasformato dai microrganismi. Il resto rimane inalterato nell'ambiente. Recentemente la Fiat Lubrificanti ha posto in commercio una linea di prodotti biodegradabili al 70 o addirittura al 90 per cento. Sono oli per motori a due tempi, per circuiti idraulici, per automobili a benzina e per i grandi motori Diesel. Tutti contraddistinti dal marchio «Zero Impact Trend» (verso l'impatto zero). I lubrificanti ecologici sono la carta che l'azienda del gruppo Fiat ha deciso di giocare. E lo ha fatto con un certo anticipo sulla maggior parte dei concorrenti, nella convinzione che in futuro all'olio verrà chiesto non solo di ridurre l'attrito nelle condizioni più proibitive di funzionamento di un motore o di un meccanismo, ma anche di non danneggiare l'ambiente. Tutti i lubrificanti sono costituiti da una «base», generalmente minerale, cioè derivata per raffinazione dal petrolio, oppure prodotta dalll'industria chimica (oli di sintesi). Alla base sono aggiunti degli additivi, composti di fosforo e di zinco indispensabili per mantenere costanti nel tempo le caratteristiche lubrificanti, anche ad alte temperature. Per ottenere oli «ecologici» bisogna impiegare nuove basi di tipo sintetico (diverse da quelle oggi usate per i motori ad alte prestazioni), oppure di origine vegetale. Queste ultime hanno il vantaggio della completa biodegradabilità, ma sono inadatte per impieghi a temperature superiori agli 80 gradi. Per i motori, quindi, si è dovuto ricorrere a nuovi prodotti di sintesi, più costosi ma capaci di resistere ad alte temperature. Così sono nati Selenia Ecotech, lubrificante per autovetture a benzina, e Urania Ecotech, olio per motori Diesel, entrambi biodegradabili oltre il 70 per cento. Sempre a base sintetica sono i nuovi lubrificanti per motori a due tempi, per i quali è opportuna una biodegradabilità ancora più elevata e siamo addirittura oltre il 90 per cento. Per l'impiego nei circuiti idraulici, accanto ai prodotti di sintesi, sono impiegate basi vegetali. Anche in questo caso, i prodotti eventualmente dispersi scompaiono senza quasi lasciare traccia. Il futuro è una maggiore biodegradabilità, unita a una migliore «ecocompatibilità». Se il primo termine designa la capacità dei microrganismi presenti nell'ambiente di trasformare la sostanza estranea, il secondo misura gli effetti nocivi sulla flora e sulla fauna. Dopo aver realizzato nuove basi, la ricerca punta ora a identificare additivi meno dannosi. In ogni caso, lo studio di lubrificanti puliti è indispensabile per eliminare i danni legati soprattutto a perdite accidentali e ai motori a due tempi. Ma non deve far dimenticare la necessità di raccogliere l'olio usato. Lo impone la legge, che obbliga tutte le officine e le stazioni di servizio a ritirarlo, anche se non lo si è cambiato da loro. Giancarlo Riolfo


IN BREVE Scoperto il gene della cistinuria
ARGOMENTI: GENETICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 058

Nel 1810 alla Società Reale Inglese veniva segnalato il primo caso di un calcolo di cistina: una pietra di color giallo identificata nella vescica di un paziente. Accertamenti successivi identificarono nel calcolo aminoacidi contenenti zolfo e questa condizione dette poi il nome non solo alla cistinuria, ma anche agli aminoacidi cistina e cisteina. Sette anni dopo, la scoperta della stessa malattia in due fratelli ha suggerito le basi genetiche di questa patologia che colpisce in media una persona ogni tremila. A 177 anni di distanza dalla prima formulazione di un'origine genetica la ricerca congiunta di ricercatori italiani e spagnoli ha portato all'identificazione del gene responsabile della malattia. La ricerca è stata condotta presso l'Unità di biologia molecolare del servizio di genetica medica dell'Ospedale Casa sollievo della sofferenza di S. Giovanni Rotondo, meglio noto come l'ospedale di Padre Pio. Paolo Gasparini, Leopoldo Zelante e Bruno Dallapiccola hanno sfruttato un precedente risultato ottenuto da altri ricercatori spagnoli che avevano estratto da reni di topo e coniglio e poi da reni umani un frammento di Dna definito rBat che sembrava avere capacità di riassorbire a livello cellulare alcuni aminoacidi tra i quali la cistina. La comprensione della struttura e della funzione di questo gene consentirà di mettere a punto terapie mediche più efficaci.


IN BREVE Tv da satellite analogica e digitale
ARGOMENTI: COMUNICAZIONI
ORGANIZZAZIONI: EUTELSAT
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 058

Eutelsat ha sperimentato con successo per la prima volta in Europa una trasmissione televisiva simultaneamente analogica e digitale. E' stato possibile ottenere questo risultato grazie a un sistema di compressione delle immagini sviluppato dall'azienda inglese Ntl.


IN BREVE Treni levitanti con «Matlab»
ARGOMENTI: INFORMATICA, TRASPORTI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 058

Si chiama «Matlab» ed è un programma avanzatissimo per il calcolo di strutture e fenomeni complessi. Tra le applicazioni più significative di questo software, la progettazione del treno tedesco a levitazione magnetica, in grado di correre a 400 chilometri all'ora (Progetto Maglev), e lo studio di pilastri portanti capaci di resistere a terremoti di forte intensità (Progetto Wilson). Chi è interessato a conoscere meglio questo che oggi è tra gli ambienti più evoluti per il calcolo scientifico, può rivolgersi a «Teoresi», tel. 011-248.53.32.


DIDATTICA Sotto un cielo di stelle artificiali In funzione a Monaco il planetario più avanzato
Autore: KRACHMALNICOFF PATRIZIA

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, DIDATTICA
LUOGHI: ESTERO, GERMANIA, MONACO
NOTE: 058. Proiettore Zeiss Mk VII

MONACO di Baviera, presso il Forum Der Technik, ha un nuovo Planetario con una cupola dal diametro di 20 metri e 277 sedili rivolti verso un palcoscenico multifunzionale. Il cuore di questo teatro per creare un cielo artificiale è il proiettore Zeiss Mk VII posto al centro della stanza. La «macchina stellare» di Monaco costituisce una prima mondiale. Basata su fibre ottiche, permette una simulazione del cielo stellato, del sistema solare e dei voli spaziali verso i pianeti di una qualità senza precedenti. Il sistema multivisione lavora in sintonia con il proiettore, permettendo non solo l'animazione a campi singoli ma anche due proiezioni «a tutto cielo» che riempiono la cupola con una immagine continua. Sei videoproiettori sono collegati con una grande varietà di fonti compatibili con standard diversi, come videoregistratori S-Vhs e Betacam. Per una simulazione realistica su larga scala di effetti meteorologici e astrofisici, si usano proiettori per effetti speciali e un sistema d'illuminazione multicolore. L'innovazione più affascinante presentata da questo Planetario consiste nei pannelli di controllo posti su ogni sedile: una serie di pulsanti di colore diverso permette allo spettatore di assumere un ruolo interattivo nello spettacolo, e di organizzarsi un viaggio verso Venere, Marte o pianeti ancora più remoti. Questa importante innovazione naturalmente consente lo svolgersi di altri spettacoli, oltre a quelli del Planetario, e si presta particolarmente ad avvenimenti teatrali. Il Planetario diventa così una specie di «iperspazio multimediale», un palcoscenico per le relazioni tra l'uomo e l'universo, attualmente unico al mondo. In pratica non ci sono limiti all'interazione tra visitatori e multimedia: la gamma si estende dagli spettacoli per bambini dell'asilo alla simulazione dei viaggi attraverso tempo e spazio, tra pianeti, stelle e buchi neri. Si possono anche realizzare impressioni poetiche e musicali sotto la volta stellata, oppure viaggi nella realtà virtuale del Cyberspazio. Oltre al Planetario, l'altra attrazione di particolare interesse presente al Forum è il teatro Imax, con 329 posti e in funzione 365 giorni l'anno. Si tratta di uno schermo di ben 400 metri quadrati sul quale è possibile proiettare immagini della Terra vista dallo spazio, girate dagli astronauti durante i loro viaggi. Cinque film si avvicendano continuamente, con 12 proiezioni al giorno; il più interessante si chiama «Blue Planet» e mostra, con immagini enormi e abbastanza spaventose, l'opera distruttiva che l'uomo sta compiendo sulla Terra con la devastazione delle foreste e di molte altre risorse naturali. Patrizia Krachmalnicoff


AQUILA DI STELLER Molla quel pesce! Strategie di caccia: pirata è meglio
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
NOMI: LADIGIN ALEXANDER
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 059

MOLTI credono che sul nostro pianeta poco rimanga ancora da scoprire. Invece non c'è errore più marchiano di questo. Ci è ancora sconosciuta la maggior parte delle specie vegetali e animali che popolano la Terra (solo per quanto riguarda gli insetti, si parla di molti milioni di specie ancora da scoprire) e della parte nota abbiamo spesso conoscenze soltanto approssimative. Prendiamo le aquile. Uccelli così grandi e vistosi che non possono certo sfuggire all'osservazione dovrebbero essere noti e arcinoti. Invece proprio la più imponente rappresentante della specie, l'aquila di mare di Steller (Haliaetus pelagicus), è pressoché sconosciuta. Questa grande aquila dall'apertura d'ali spettacolare (fino a 2 metri e 80 centimetri) è strettamente imparentata con l'aquila dalla testa bianca nordamericana. Però si direbbe che sia la sua parente povera perché, mentre la specie americana, che non raggiunge dimensioni così spettacolari, è oggetto di studi e accurate ricerche, solo uno sparuto numero di ricercatori si è occupato finora dell'aquila di mare di Steller. Anche per difficoltà intrinseche, bisogna dirlo. Perché questo gigantesco rapace vive soltanto in Russia, in località remote e quasi inaccessibili. Si calcola che la consistenza numerica della specie sia globalmente di 4200 coppie nidificanti. Di queste, ben più di un quarto, e cioè 1200, nidificano nella penisola di Kamchatka. D'inverno alcune migrano verso il Giappone e la Corea, ma un migliaio rimane nel Lago Kuril che, circondato non solo da ghiacciai ma anche da vulcani, ha la prerogativa di non gelare durante tutto l'anno. E le aquile che basano la loro alimentazione esclusivamente sui pesci, possono procurarsi il cibo anche nei mesi più freddi. E' proprio in questa regione inospitale che le studia da sette anni un intrepido ricercatore russo, Alexander Ladigin. Vi si è trasferito coraggiosamente con la moglie antropologa e la figlioletta di quattro anni e durante il giorno spia il comportamento dei grandi rapaci da un rudimentale osservatorio simile agli igloo degli esquimesi. In generale, le aquile volteggiano isolate a grande altezza nel cielo in cerca di prede, le avvistano da lontano con la loro vista acutissima e scendono in picchiata per ghermirle con i forti artigli adunchi. Succede talvolta che alcune specie, come le normali aquile di mare, caccino in coppia. Mentre l'una insegue la preda che nuota nelle acque superficiali, l'altra descrive voli circolari a bassa quota in attesa che la preda emerga per calarsi in picchiata e catturarla. A differenza delle compagne di altre specie, le aquile di mare di Steller sono spiccatamente gregarie. Perfino nella stagione riproduttiva, quando la maggior parte degli uccelli abbandona lo stormo per formare coppie o nuclei familiari, le aquile di mare di Steller continuano a fare vita comunitaria e la caccia la praticano in gruppo. Indubbiamente questo loro comportamento dipende dal particolare tipo di alimentazione, cioè dal fatto che si nutrono prevalentemente di salmoni. Il fiume che collega il Lago Kuril al mare convoglia milioni e milioni di salmoni del Pacifico (genere Oncorhynchus), che vengono a deporre le uova in questo specchio d'acqua proprio per la sua particolarità di non gelare d'inverno. Un vero paese di Bengodi per una folla di uccelli affamati. Non solo aquile di mare di Steller, ma anche aquile di mare comuni, aquile reali, anatre, cigni, corvi e persino piccoli uccelli canori. Ma i grossi salmoni dalla pelle robusta che pesano tre o più chili non sono una facile preda neanche da morti. Muoiono infatti per la maggior parte subito dopo aver deposto le uova. Le aquile reali o le aquile di mare comuni impiegano ore e ore per riuscire a squarciare una carcassa di salmone: non hanno gli strumenti adatti per farlo. Ci riesce soltanto il becco massiccio dell'aquila di Steller. Proprio per questo motivo le altre due specie di aquile che frequentano il Lako Kuril preferiscono ripiegare su prede più facili, come gli uccelli acquatici o i mammiferi locali. Spesso però le aquile di Steller tendono a risparmiare energia e si procurano il cibo con l'astuzia. Invece di affannarsi a sventrare una dura carcassa di salmone, preferiscono fare i pirati dell'aria: aggrediscono una loro compagna che si è già accaparrata un bel pezzo di pesce e le strappano il boccone dal becco. Le aquile di Steller manifestano il loro spiccato istinto gregario anche quando nidificano, costruendo enormi nidi l'uno accanto all'altro lungo i fiumi popolati di salmoni. Ed è chiaro che tutti gli abitanti di un aggregato di nidi fruiscono di una zona di caccia comune. Secondo le stime di Alexander Ladigin, ciascuna aquila di Steller consuma una cinquantina di salmoni a stagione. Naturalmente con una dieta così ricca e nutriente, gli uccelli aumentano notevolmente di peso. Al punto tale che, quando uno di loro si è ingozzato ben bene di cibo, non riesce più a decollare e non è difficile acchiapparlo addirittura con le mani mentre si trascina pesantemente sul terreno. Nell'area in osservazione, il dormitorio comunitario delle aquile di Steller si trova sugli alberi di betulla da cinque a nove chilometri dal lago. Qui le aquile si scambiano informazioni sulle fonti di cibo. Appena una esploratrice trova un bel mucchio di salmoni morti, passa parola alle compagne e in men che non si dica si raccoglie sul posto una folla di uccelli affamati. Si direbbe che il motto dell'aquila di Steller sia: insieme c'è più gusto. Isabella Lattes Coifmann


Scaffale «State of the World 1994: rapporto sul nostro pianeta del Worldwatch Institute», Isedi
Autore: VERNA MARINA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 059

LE parole d'ordine sono sempre le stesse ormai da trent'anni: ridurre ogni genere di crescita materiale, attenuare gli interventi sulla natura, risanare i misfatti. Circostanziate ma, a quanto pare, pressoché inutili. Eppure c'è ancora chi non demorde e, fiducioso, diffonde il suo messaggio. Alla sua XI edizione, il «Rapporto del Worldwatch Institute sullo stato del mondo» torna sulle grandi difficoltà dei sistemi biologici terrestri, frutto di oltre tre miliardi di anni di complessi meccanismi evolutivi, a sopportare il crescente impatto con una specie umana in continua espansione. L'ultima teoria di ecologi ed economisti è quella dello «sviluppo senza crescita»: come la Terra evolve continuamente nel tempo senza però crescere, così la nostra economia, che è un sottoinsieme di quel sistema finito e non crescente, deve adattarsi a un analogo schema di sviluppo. Invece le necessità umane si moltiplicano incuranti dell'incompatibilità con quelle del mondo naturale. Di qui, il rinnovato appello del Worldwatch Institute a riconoscere questa limitatezza e accettare quel «modello di sviluppo sostenibile» che, chiaro nei suoi contorni teorici, non lo è affatto nei risvolti pratici. Siamo ancora profondamente ignoranti di tanti meccanismi di funzionamento della Terra: eppure, nonostante le profonde incertezze, dobbiamo prendere decisioni cruciali e in tempi rapidi. Anche perché il poco che sappiamo non è certo rassicurante: dopo decenni di tentativi per indurre la Terra a produrre di più, ad esempio, abbiamo ottenuto una diminuzione della sua capacità di sostentare ogni forma di vita. E' vero che fin dalle sue origini, l'umanità ha prodotto alterazioni sul pianeta. Ma mai con il ritmo e le proporzioni attuali. Ora che abbiamo saturato lo spazio ecologico del pianeta, per sopravvivere come specie non abbiamo alternative al di fuori di quelle, dolorose, che conosciamo benissimo: ridurre i consumi in eccesso, redistribuire ricchezze e risorse, accelerare lo sviluppo di tecnologie ecologicamente sostenibili, rallentare la crescita della popolazione. Pensare che ci siano altre soluzioni o che questo non ci tocchi è irresponsabile - e suicida. Il mondo è diventato troppo piccolo perché possiamo ancora raccontarci bugie.


Scaffale Fossey Dian, «Gorilla nella nebbia», Einaudi
Autore: VERNA MARINA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 059

Era il 1963 quando l'etologa americana Dian Fossey, che aveva sempre sognato di andare in Africa a studiare i gorilla di montagna, trovò i fondi per il suo primo safari nel Parc National des Virungas, nello Zaire: una fascia di 40 chilometri per 20 intorno a sei vulcani estinti. A parte brevi interruzioni, non avrebbe più lasciato la regione per 13 anni, tutta assorbita dallo studio quella che definisce un'«imponente e dignitosa grande scimmia, un primate non-umano, gentile per natura sebbene abbia cattiva fama». E la sua vita sarebbe finita nel vicino Ruanda, il 29 dicembre 1985, con un agguato notturno che la puniva per la sua appassionata difesa di animali che facevano gola a troppi. La storia di quella ricerca è raccontata nella bella autobiografia «Gorilla nella nebbia», dalla quale è stato tratto un film, e che ora esce anche in edizione italiana.


Scaffale Verne Jules, Bianucci Piero: «Caccia al meteorite», Editoriale Scienza
Autore: VERNA MARINA

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 059

Un meteorite d'oro che percorre un'orbita molto bassa, a 400 chilometri dalla Terra, guardato a vista da tre dilettanti e concupito dal mondo intero: quasi cent'anni fa, con «Caccia al meteorite», Jules Verne mescolava ancora una volta scienza e fantasia, con esiti sorprendenti. La storia viene riproposta oggi in una versione molto particolare: un libro per ragazzi che si sdoppia, qua la fantasia di Jules Verne, là la realtà di un giornalista scientifico, Piero Bianucci, che fa il punto su quanto oggi sappiamo degli asteroidi dimostrando quanto Verne avesse saputo guardare lontano. Marina Verna


OMINIDI FOSSILI Un cranio, e Lucy trionfa Maschi e femmine, due specie distinte I tratti del cranio confermano la teoria delle differenze tra i due sessi
Autore: ANGELA ALBERTO

ARGOMENTI: ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA
NOMI: RAK YOEL, WHITE TIM
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 059

E' il cranio più completo e più antico finora mai emerso dai sedimenti. E' quello di un nostro antenato vissuto tre milioni di anni fa in Etiopia, che testimonierebbe l'eccezionale «longevità» evolutiva del più antico gruppo di ominidi, gli Australopithecus afarensis: per quasi un milione di anni infatti, il loro aspetto scimmiesco cambiò pochissimo. L'esame dei tratti del cranio, secondo i suoi scopritori, confermerebbe la teoria che a quell'epoca esistesse una forte differenza fisica tra i maschi e le femmine dei nostri antenati. Una differenza che ha portato un certo numero di ricercatori a ritenere che si fosse addirittura di fronte a due specie distinte, una delle quali (la «femmina», più esile) avrebbe dato origine al genere Homo, mentre l'altra (il «maschio», più massiccio) si sarebbe estinta, con forme di limitato successo evolutivo. Il nuovo cranio fossile risolverebbe la questione a favore della prima ipotesi, anche se rimangono ancora alcuni punti poco chiari. La scoperta, avvenuta due anni fa e annunciata solo recentemente su «Nature», è stata compiuta nell'Hadar, un'area semidesertica dell'Etiopia molto nota per altri ritrovamenti di ominidi, tra i quali la famosa «Lucy», lo scheletro fossile sorprendentemente completo di una femmina rinvenuto nel 74 e con un'età leggermente più antica del nuovo reperto (che è stato scherzosamente battezzato «il figlio di Lucy»). Gli autori della scoperta, i paleoantropologi William Kimbel e Donald Johanson dell'Institute of Human Origins di Berkeley in California, e Yoel Rak dell'Università di Tel Aviv, non sono nuovi a questo tipo di ritrovamenti. Johanson è lo scopritore di «Lucy» e ha al suo attivo un gran numero di fortunate campagne di ricerca e di scoperte. L'Australopithecus afarensis è l'antenato che più si avvicina al noto «anello mancante», cioè al punto di separazione dei rami dell'Uomo e degli scimpanzè (e dei gorilla). Di questi ominidi (per ominidi s'intende il gruppo di bipedi che racchiude, oltre all'Uomo, tutti i suoi antenati, compresi i rami «secchi») disponiamo ormai di 300 reperti, purtroppo assai frammentari, rinvenuti negli ultimi vent'anni in Etiopia, in Tanzania e forse in Kenya. Fra i tre e i quattro milioni di anni fa l'umanità aveva davvero un aspetto inquietante: a prima vista avremmo scambiato i nostri antenati per degli scimpanzè bipedi. Fronte piatta, zigomi larghi e sporgenti, mento sfuggente e un profilo scimmiesco con un «muso» assai sporgente (prognatismo). Il cervello aveva le dimensioni di un pompelmo. Gli incisivi erano larghi, i molari massicci e i canini ancora molto sviluppati. Vivevano probabilmente in piccoli gruppi nei quali spiccavano i maschi con un'altezza di almeno un metro e mezzo e il peso di circa 50-60 chili, mentre le femmine si aggiravano su un metro, un metro e venti di altezza e 35-40 chili di peso. Una differenza tra i sessi (o dimorfismo sessuale) molto accentuata ma tutt'altro che anomala, se si considera l'enorme diversità che esiste per esempio tra i due sessi del gorilla. Si è arrivati a queste conclusioni esaminando e paragonando le singole ossa fossili grazie anche all'incredibile abbondanza di reperti che i siti etiopici hanno fornito in questa ultima manciata di anni. La sola area dell'Hadar ha fornito ben 53 nuovi «pezzi» in appena tre spedizioni. Considerando che già il ritrovamento di un singolo dente o frammento può considerarsi un successo per una stagione di ricerca, è facile capire perché queste aree così inospitali (e pericolose anche per l'instabilità politica e tribale) costituiscano un vero e proprio «Eldorado» per la ricerca, fornendo ogni volta qualche sorpresa. Da questi nuovi studi è emerso, per esempio, che gli Australopithecus afarensis avevano braccia «corte» e robuste simili a quelle di un uomo delle stesse dimensioni, mentre gli avambracci erano proporzionalmente più lunghi e paragonabili a quelli degli scimpanzè. Quando il nuovo cranio è stato rinvenuto nella valletta di un piccolo «canyon» dal professor Yoel Rak, era sgretolato in 13 grossi pezzi e oltre 200 frammenti, compresa una mezza mandibola. Ci sono voluti ben 2 anni per ricostruire questo «puzzle» preistorico, misurarlo e procedere alla pubblicazione. Fino a oggi il solo modo per osservare un cranio di Australopithecus afarensis era quello di affidarsi alla ricostruzione fatta anni fa da un altro importante paleoantropologo, Tim White, che partendo da pochi frammenti era riuscito a «prevedere» la vera forma del teschio, confermata dal recente ritrovamento di Rak. Tim White, ricercatore dell'Università di Berkeley e autore di numerose scoperte (per anni Johanson si è avvalso della sua preziosa collaborazione, soprattutto per lo studio di Lucy), è da anni coinvolto in campagne di scavo in Etiopia. Il suo «fiuto» per i fossili importanti è sorprendente: è suo il ritrovamento dell'omero di afarensis descritto nella pubblicazione su «Nature» e rinvenuto a poca distanza dalle tende durante una visita di poche ore all'accampamento di Johanson. Alberto Angela


CITOCHINE Ascoltami, io parlo così Capire il linguaggio delle cellule per trovare nuove terapie
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 059

LE citochine costituiscono un recentissimo capitolo fondamentale della biologia moderna, che in poco tempo ha investito la medicina. Il nome, d'origine greca, vuole indicare che le citochine «mettono in movimento le cellule». Definirle con precisione è difficile, diciamo che sono glicoproteine di massa molecolare modesta, messaggere per gli scambi fra le cellule. Inizialmente furono identificate nei globuli bianchi del sangue, ma ben presto si vide che quasi tutte le cellule le producono allo scopo di parlare con le loro vicine. Si è formato così un vero e proprio esercito con sigle, numeri e lettere che fungono da matricole: GF (growth factor o fattore di crescita), IL (interleuchine, provenienti dai globuli bianchi, il cui numero ha ormai superato la dozzina), CSF (co lony-stimulating factors, fattori stimolanti colonie di cellule), IFN (interferoni alfa, beta, gamma), TNF (Tumor necrosis factor, fattore di necrosi dei tumori, con due varietà, alfa e beta). Tutti questi neologismi formano un nuovo linguaggio medico in rapida evoluzione. Bisogna impararlo e comprenderlo: è il linguaggio che le cellule parlano fra loro. Volendo essere più precisi, le citochine sono mediatori glicoproteici che intervengono nelle interazioni a breve distanza fra le cellule. Esse agiscono sulle cellule-bersaglio attraverso recettori situati sulle membrane delle cellule, essi pure glicoproteine. Di continuo nuove molecole di questa famiglia (citochine, recettori delle citochine, antagonisti naturali di alcune citochine) vengono identificate. E col tempo si fanno luce le possibilità di applicazioni cliniche. Ciascuna citochina può prodursi in molteplici circostanze fisiologiche o patologiche e può avere funzioni diverse. Viceversa più citochine possono avere la stessa funzione. Esse agiscono come in un intreccio, ognuna potendo influire sulla produzione e sugli effetti delle compagne, cosicché le conseguenze su una data funzione possono essere diverse, addirittura opposte secondo le circostanze. Queste interazioni si spiegano specialmente col fatto che talune citochine utilizzano recettori e messaggeri intracellulari in parte comuni. Risultato? Ancora molte incertezze per i ricercatori, i produttori di farmaci, i medici. Tuttavia si possono proporre alcune linee direttrici per definire la personalità di ognuna delle principali citochine. Limitiamoci ad alcuni aspetti di importanza clinica. Nella reazione immunitaria intervengono specialmente le interleuchine, che agiscono su una o più tappe della maturazione dei linfociti B e T, e in senso più generale su tutte le fasi della risposta immune. Le citochine hanno dunque un ruolo fondamentale, positivo ma anche negativo, come accade con le malattie autoimmuni. Sempre a proposito di immunità si è visto che l'infezione da virus Hiv dell'Aids è causa di anomalie delle citochine, per esempio la produzione di IL 2 è inibita, il che ha certamente importanza per l'autoimmunodeficienza. Alcune citochine stimolano la moltiplicazione del virus (in vitro), mentre altre, come gli interferoni, la inibiscono. Le citochine sarebbero anche implicate nelle manifestazioni cliniche dell'Aids. Una migliore conoscenza di questo ambiguo ruolo delle citochine potrebbe aprire la strada a nuove terapie che utilizzino citochine o loro antagoniste specifiche per limitare la propagazione del virus e la sintomatologia. Ancora, le citochine fanno ormai parte dell'arsenale terapeutico delle leucemie e, per quanto occorrano ancora molte chiarificazioni, hanno già profondamente modificato i trattamenti nell'ematologia clinica. Applicazioni interessanti anche nella cura dei tumori, mediante IL, CSF, TNF, interferoni e così via. Molti ritengono che sia stata così aperta una nuova via terapeutica in cancerologia, fondata sulla stimolazione di una risposta immunitaria antitumorale. Numerosi gli esperimenti clinici nel melanoma, nei tumori del seno, dell'ovaio, della vescica, del pancreas, e per ridurre gli effetti negativi dei chemioterapici e della radioterapia. L'utilizzazione terapeutica delle citochine (per il momento soprattutto interferone alfa, interleuchina 2, CSF) è in pieno sviluppo. Queste sostanze sono ottenibili con la biotecnologia, o ingegneria genetica che dir si voglia, essendo noti alcuni geni codificanti le citochine, sovente localizzati su una stessa regione cromosomica, come il braccio lungo del cromosoma 5. E si dispone anche di molecole artificiali. Ulrico di Aichelburg


INFORMATICA Disegni in punta di penna Ventiduesima puntata
Autore: MEO ANGELO RAFFAELE, PEIRETTI FEDERICO

ARGOMENTI: INFORMATICA, DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 060

LE istruzioni per il disegno consentono di emulare lo spostamento di una matita sul foglio. Pertanto, la prima istruzione che abbiamo già visto, PSET, specifica la posizione in cui collocare la punta della matita per cominciare a disegnare. Ad esempio, se scriviamo PSET (60, 100), decidiamo di iniziare il disegno dal punto di coordinate 60 e 100. La seconda istruzione, chiamata DRAW, ordina lo spostamento della punta della matita dalla posizione in cui si trova, in una posizione diversa. Ad esempio, se scriviamo DRAW "L30" ordiniamo al calcolatore di tracciare un segmento verso sinistra ("L" è l'iniziale della parola LEFT che in inglese significa «sinistra» ), con uno spostamento di 30 pixel. Il programma corrispondente a questo esempio è il seguente: 10 SCREEN 1 20 CLS 30 PSET (60, 100) 40 DRAW "L30" 50 END Con DRAW, è possibile ordinare spostamenti in otto direzioni principali con i seguenti comandi: Un spostamento verso l'alto di n pixel Dn spostamento verso il basso di n pixel Ln spostamento verso sinistra di n pixel Rn spostamento verso destra di n pixel En spostamento in diagonale corrispondente a n pixel verso l'alto e a n pixel verso destra Fn spostamento in diagonale corrispondente a n pixel verso il basso e a n pixel verso destra Gn spostamento in diagonale corrispondente a n pixel verso il basso e a n pixel verso sinistra Hn spostamento in diagonale corrispondente a n pixel verso l'alto e a n pixel verso sinistra Vediamo ad esempio il programma che traccia un triangolo, a partire dal punto di coordinate (80, 140). 10 SCREEN 1 20 CLS 30 PSET (80, 140) 40 DRAW " F60L120E60" 50 END Le indicazioni fornite sono una stringa che dev'essere pertanto scritta fra virgolette. In alternativa le stesse indicazioni possono essere inserite in una scatola rossa. Ad esempio, riscrivendo il programma precedente, possiamo chiamare TRIANG$ la scatola con le indicazione relative: 10 SCREEN 1 20 TRIANG$ = " F60L120E60" 30 CLS 40 PSET (80, 140) 50 DRAW TRIANGOLO$ 60 END E' facile intuire i vantaggi derivanti dall'uso delle scatole rosse nel caso di disegni ripetitivi, per i quali quindi sarà sufficiente dare una volta sola le indicazioni necessarie, cambiando soltanto il punto di partenza del disegno. Se desideriamo effettuare spostamenti in direzioni diverse dalle otto fondamentali, dobbiamo usare il comando M x, y, dove x e y sono due numeri positivi o negativi che indicano rispettivamente: x positivo spostamento verso destra x negativo spostamento verso sinistra y positivo spostamento verso il basso y negativo spostamento verso l'alto Scriviamo un programma che, partendo dal punto di coordinate 50 e 100, disegni un triangolo isoscele: 10 SCREEN 1 20 CLS 30 PSET (50, 100) 40 DRAW "R40M-20, -60M-20, più60" 50 END Segnaliamo ancora il comando B che ci permette di effettuare uno spostamento da un punto a un altro, senza tracciare però tale spostamento. E' sufficiente anteporre B all'indicazione dello spostamento. Ad esempio, per costruire una doppia cornice, scriviamo: 10 SCREEN 1 20 CORNICE$ = " R280140L280U140BF20R240D100L240U100" 30 CLS 40 PSET (20, 20) 50 DRAW CORNICE$ 60 END Per riempire di colore un'immagine grafica, possiamo usare l'istruzione PAINT seguita dalle coordinate di un punto interno alla figura che si vuol colorare e da tre numeri che indicano, nell'ordine il colore della figura, quello del contorno e quello dello sfondo. Se non si scrivono il secondo e il terzo numero, restano validi quelli dati in precedenza con l'istruzione COLOR. Si provi, ad esempio, a inserire nel programma precedente queste due righe (passando poi a SCREEN 13 per provare altri colori): 35 COLOR 0, 1 55 PAINT (100, 100), 4, 6 oppure 55 PAINT (22, 22) 4, 6 (continua) SUPPONIAMO di volerci fare interrogare dal calcolatore, per vedere se ricordiamo le capitali dei più importanti paesi del mondo. Scriviamo per questo un programma del tipo seguente: 10 REM PRIMA DOMANDA 20 PRINT "Qual è la capitaledella Francia?" 30 INPUT R$ 40 IF R$ = "PARIGI" THEN GOTO 130 50 REM SEGNALAZIONE DI ERRORE 60 PRINT CHR$(7); CHR$(7) 70 PRINT "La risposta è errata!" 80 FOR N = 1 TO 1000 90 NEXT N 100 PRINT "Studia di più!" 110 GOTO 200 120 REM MESSAGGIO DICONGRATULAZIONI 130 PRINT "Bravo, la risposta èesatta!" 140 FOR N = 1 TO 1000 150 NEXT N 200 REM SECONDA DOMANDA 210... ecc. Il programma contiene alcune novità che non sono di grande importanza. La prima è la PRINT CHR$(7), che compare nell'istruzione 60. CHR$(7) è il carattere che ha codice uguale a 7 nella tabellina standard dei cosiddetti "codici ASCII". Questo codice non corrisponde a un carattere alfabetico, ma a un ordine elementare per il calcolatore, ossia all'ordine di emettere un "beep" , un breve fischio. L'istruzione 60 serve quindi a produrre due fischi consecutivi, che saranno emessi per dare maggior risalto alla segnalazione di errore. Le istruzioni 80 e 90 costituiscono un ciclo "senza corpo", ossia un ciclo che viene descritto 1000 volte senza fare alcuna attività oltre all'aggiornamento del contatore N. Lo scopo di queste due istruzioni è semplicemente quello di perdere tempo, per intervallare la visualizzazione del messaggio di errore e la formulazione della domanda successiva. Il tempo necessario per l'esecuzione completa del ciclo delle istruzioni 80 e 90 è molto variabile e dipende dalla velocità del calcolatore su cui gira il programma. Un 486 a 66 MHz è almeno cento volte più veloce degli elaboratori personali della prima generazione. Chi ha la fortuna di possedere un gioiello dell'ultima generazione dovrò quindi sostituire il numero 1000 dell'istruzione 80 con un numero più grande, mentre chi è rimasto alle prime macchine lo sostituirà con un numero più piccolo. Il gioco della regolazione dell'istruzione 80 sarà molto utile anche al fine di comprendere meglio quale sia la velocità di lavoro del calcolatore che si sta usando. Il programna di interrogazione che stiamo discutendo sarà probabilmente molto lungo e sarà costituito da tanti blocchi, uno per ciascuna domanda, e ogni blocco sarà composto da sezioni, come abbiamo visto nell'unico blocco che abbiamo trascritto: la sezione di interrogazione (istruzioni da 10 a 40), la sezione di errore (da 50 a 110) e la sezione di congratulazioni (da 120 a 150). Capitale della Francia? I blocco Errore Congratulazioni Capitale della Spagna? II blocco Errore Congratulazioni ecc. Nel programma la sezione di errore comparirà, sempre uguale, in tutti i blocchi. Analogamente, la sezione di congratulazioni comparirà sempre nella stessa identica forma, tante volte quante sono le domande che si intendono porre. Appare così evidente la convenienza di organizzare il programma nel modo indicato nella figura seguente. La sezione di errore e quella di congratulazioni compaiono una volta sola, con notevole riduzione della lunghezza del programma. Interrogazione sulla capitale della Francia. Se errore GOTO 1000. Se non errore GOTO 1200 Interrogazione sulla capitale della Spagna. Se errore GOTO 1000. Se non errore GOTO 1200........ 1000: ERRORE....... 1200: CONGRATULAZIONI......... Le sezioni "errore" e "congratulazioni" sono due primi esempi di "sottoprogrammi". Provi il lettore a riscrivere il programma nella nuova forma, usando le istruzioni di salto condizionato: IF...GOTO... L'esercizio è difficile perché occorre inventare un meccanismo per ricordare, quando si salta all'istruzione 1000 oppure 1200, dove ritornare dopo aver eseguito il sottoprogramma. L'esercizio sarà comunque molto utile perché ci aiuterà a comprendere il concetto di sottoprogramma, uno dei più importanti dell'informatica. Nella prossima scheda torneremo sull'argomento e vedremo una coppia di istruzioni che il BASIC, come tutti gli altri linguaggi di programmazione, mette a disposizione del programmatore per risolvere in modo facile il problema di saltare a un sottoprogramma e di ritornare, dopo la sua esecuzione, nella posizione corretta. (continua) di Angelo Raffaele Meo e Federico Peiretti


STRIZZACERVELLO Le sette moltiplicazioni
Autore: PETROZZI ALAN

ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 060

Le sette moltiplicazioni Abbiamo ormai stabilito che le 28 tessere del domino «doppio 6» (dalla 0-0 alla 6-6) rappresentano un ottimo materiale per inventare nuovi e curiosi problemi matematici. Quello proposto oggi consiste nel realizzare, utilizzando l'intera serie delle tessere, sette moltiplicazioni simili a quella mostrata in figura. Si tratta di disporre 4 tessere per volta in modo che ne risulti una moltiplicazione esatta e senza zeri non significativi tra due numeri di due cifre con un risultato di quattro cifre. Quella mostrata, che non rientra nella soluzione, è tra l'altro quella con il prodotto più alto ottenibile, e cioè 65 x 64 = 4.160. La soluzione domani, accanto alle previsioni del tempo. (A cura di Alan Petrozzi)


LA PAROLA AI LETTORI Avere un gemello, sogno impossibile del cavallo
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 060

Anche nel mondo animale possono nascere cuccioli ge melli (quindi con caratteristi che somatiche uguali), così come accade per gli esseri umani? Tutti i mammiferi si riproducono nello stesso modo, secondo quel criterio della riproduzione sessuata che prevede che un gamete maschile, lo spermatozoo, fecondi il gamete femminile, l'ovulo. Nei mammiferi che generano più cuccioli nello stesso parto è evidente che l'ovulo fecondato non sarà uno ma più di uno. Il che significa che più spermatozoi hanno fecondato uno stesso numero di ovuli. Nelle fratrie canine o feline, ad esempio, i gemelli fratelli (non identici) sono molto frequenti perché spermatozoi di uno stesso padre possono fecondare più ovuli, com'è anche vero che gli ovuli possono essere fecondati da padri differenti. A livello teorico non si può escludere anche negli animali l'eventualità di gemellarità identica (che, ricordiamo, è il frutto di un errore di divisione cellulare dello zigote, la cellula appena fecondata). Resta però il problema del riconoscimento di una tale eventualità: per avere la certezza assoluta, bisognerebbe non fermarsi all'analisi delle caratteristiche somatiche ma testare il genotipo. Il discorso dei mammiferi può essere esteso a tutti quegli animali che si riproducono in modo sessuato. Dario Amati, Omegna (NO) Nell'uomo, la comparsa di gemelli che derivano da uno stesso uovo fecondato da uno spermatozoo è dovuta a un fenomeno più generale, quello della poliembrionia, cioè lo sviluppo di due o più embrioni, dovuto alla segmentazione di un solo uovo fecondato da un gamete maschile. Gli individui che nascono sono dello stesso sesso e molto simili sia dal punto di vista morfologico sia da quello comportamentale. Questo particolare fenomeno può interessare tutti i vertebrati e gli invertebrati superiori. Gli insetti parassiti sono dei veri esperti in poliembrionia: la femmina cerca un solo ospite e lo punge una sola volta, deponendo un solo uovo fecondato, dal quale però possono nascere, in alcune specie, anche 1500 individui (con notevole risparmio di tempo e di energia!). Nel caso dell'uomo, non bisogna confondere i gemelli mono- ovulari con i «falsi gemelli», che derivano dalla contemporanea fecondazione di due uova diverse da parte di due spermatozoi diversi: in questo caso, gli individui possono essere di sesso diverso e avere caratteristiche morfologiche e comportamentali diverse. Marco Pastore Castellamonte (TO) Nella medicina veterinaria i casi di gravidanza gemellare non sono infrequenti, ma riguarda- no quasi esclusivamente gli animali di grosse specie, ordinariamente unipari. Vi sono però alcuni problemi: nella cavalla, ad esempio, la gemellarità è rara e spesso finisce in un aborto. Nella specie bovina, quando i due gemelli sono di sesso differente, la femmina risulta sterile. Gilberto Palmieri, Torino Qual è la cosa più vecchia del mondo?... Il mondo! Gabriele Barabino Tortona (AL) La memoria storica, con i suoi larghi limiti di approssimazione, difficilmente può rispondere alla domanda con sufficiente accuratezza. E l'indagine scientifica, con i suoi raffinati metodi di datazione, raggiunge elevate precisioni... ma solo fino alla prossima scoperta. Inutile, perciò, tentare una risposta. Pier Giorgio Fedeli, Piacenza Perché i sensi sono cinque? Non è pure l'equilibrio un senso a tutti gli effetti? L'equilibrio non viene considerato un senso perché non coglie nessun aspetto delle realtà che ci circondano e che vengono a contatto con noi. Quando si parla dei cinque sensi, la parola senso viene interpretata come facoltà di cogliere aspetti della realtà servendosi di determinati organi, informandone o no la coscienza. L'equilibrio non è un senso nè un organo sensorio: esso serve a gestire il corpo nello spazio, ma non aiuta a conoscere nessun aspetto della realtà. Alessandro Pozzo Castiglione Torinese


CHI SA RISPONDERE?
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 060

QDa che cosa deriva l'espressione «battere la fiacca»? QCome fa l'acqua a essere inodore, incolore e insapore? QEsiste veramente una sostanza che si chiama centrilium? Che cos'è? QCome fanno gli organismi marini a vivere a grandi profondità senza ricevere la luce del Sole? _______ Risposte a: «La Stampa-Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure al fax numero 011-65.68.688


Al Salone di Torino L'auto lunare Per la prima volta in Italia
Autore: LO CAMPO ANTONIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
ORGANIZZAZIONI: LUNAR ROVER
LUOGHI: ITALIA, TORINO (TO)
TABELLE: D.
NOTE: 060

Il Lunar Roving Vehicle (Veicolo per l'esplorazione della Luna) è una delle maggiori attrazioni del 65 salone internazionale dell'automobile in corso a Torino. Lo potremo ammirare fino al 1 maggio ambientato in una riscostruzione dell'ambiente lunare, accanto ad altri cimeli provenienti dal museo della Nasa al Johnson Space Center di Houston: kit di sopravvivenza degli astronauti, doccia di bordo dello Skylab, vassoi per l'alimentazione usati nelle missioni spaziali. Pur non avendo una linea molto elegante, l'Lrv è ancora oggi l'auto tecnologicamente più avanzata e costosa che sia mai stata realizzata, essendo capace di operare nel vuoto e con forti sbalzi di temperatura. E' la prima volta che l' «auto lunare» viene esposta in Europa: quello di Torino è una degli otto modelli realizzati dalla Boeing e dalla General Motors per le prove a terra e pr gli allenamenti degli astronauti. Costruito con un traliccio quadrato di alluminio per contenere il peso, l'Lrv veniva stivato e ripiegato su se stesso in un lato del Mosulo Lunare, vicino alla scaletta usata dagli astronauti per scendere sulla superficie selenica. Il mezzo veniva sbarcato con l'ausilio di due nastri di nylon. Dato che sulla Luna non c'e aria (e quindi neppure ossigeno), il veicolo non poteva disporre di un motore a scoppio; per questo l'Lrv era dotato di batterie con 25 celle a zinco-argento. Il veicolo lunare poteva sterzare sia con le ruote anteriori sia con quelle posteriori, e il «volante» era in realtà molto simile a una cloche come quella degli aeroplani; la sterzata avveniva con una variazione differenziale delle ruote, un po' come per i carri armati, pur non raggiungendo neanche i 20 km all'ora il fuoristrada lunare riusciva a superara pendii inclinati di 25 gradi, scavalcare sassi di 30 cm di diametro, attraversare crepacci larghi fino a 70 cm e inclinarsi fino a 45 gradi senza ribaltarsi. Un sofisticato sistema di navigazione automatica rendeva il fuoristrada lunare estremamente sicuro: lo si poteva guidare anche guardando tranquillamente il panorama. D'altra parte sulla luna il traffico non è molto intenso e non bisogna tenere d'occhio nè vigili nè segnali stradali... Antonio Lo Campo




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