TUTTOSCIENZE 5 gennaio 94


SCI O SNOWBOARD? Il ginocchio dello sciatore E il pollice del surfista: i rischi in pista
Autore: VERNA MARINA

ARGOMENTI: SPORT, MEDICINA E FISIOLOGIA, INCIDENTI
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. INCIDENTI SULLA NEVE. Percentuale di feriti e tipo di lesione con Snowboard e Sci
NOTE: 001

SONO stati considerati intrusi per anni, i cultori dello snowboard, così stravaganti nella divisa, arroganti nell'esibizione, indecifrabili nel gergo. Sembravano dominare le piste ed emarginare gli sciatori classici. Oggi, messi da parte gli eccessi e accettate le regole per una pacifica convivenza, è giunto per loro il momento di una piccola rivincita: la tavola da neve è meno pericolosa dello sci. Meno fratture, meno gravi, meno lunghe da guarire. Lo prova uno studio di quattro anni, condotto da un gruppo di ortopedici australiani su poco più di settecento traumatizzati arrivati al Pronto Soccorso con le ossa rotte. Gli sci sono dunque nettamente più pericolosi di questa tavola da neve nata all'inizio degli Anni 80 negli Stati Uniti, subito adottata dai francesi, appassionatissimi di ogni forma «glisse», e ormai popolare anche sulle nostre nevi. Nonostante l'apparente somiglianza, si tratta di due sport completamente diversi: saper sciare è di scarso aiuto, con la tavoletta. Molto meglio aver praticato il windsurf e, soprattutto, la skateboard. Infatti lo snowboard sta allo sci un po' come l'arrampicata sportiva sta all'alpinismo: è una tecnica che esula dall'ambiente, conoscere la neve e la montagna è soltanto un dettaglio. Sulla neve farinosa o comunque morbida, un surfista dopo due giorni già riesce a fare le prime curve. E alla fine di una stagione intensa può affrontare bene qualunque pendio: un successo impensabile con gli sci tradizionali, che hanno tecniche di discesa molto più complesse. Le cadute, con la tavola ai piedi, sono poco più che scivolate dai danni contenuti, finché non si affrontano le grandi sfide. Qui però il rischio di farsi davvero male c'è, perché mancano i bastoncini per tenersi in equilibrio, le gambe non sono indipendenti l'una dall'altra e i piedi restano bloccati in un attacco che non si sgancia. Ecco perché i voli possono essere davvero rovinosi e concludersi in barella. Le percentuali, comunque, dicono che le fratture da sci comportano degenze più lunghe in ospedale e assenze più lunghe dal lavoro. Il punto critico per gli sciatori è il ginocchio: un incidente grave su quattro riguarda proprio questa articolazione. Quasi sempre, spiegano gli ortopedici, all'origine c'è un errore nella spigolata interna, gli sci si allargano e si cade malamente, «a pelle di leopardo», con una distorsione del compartimento mediale del ginocchio. In genere si verifica una lesione del legamento collaterale mediale. Ma nei casi più gravi si arriva a una lacerazione della capsula interna, del menisco mediale e del legamento crociato anteriore: quella che gli americani chiamano la «tragica triade». Anche con la tavola da neve questo incidente è uno dei più probabili, alla pari con le fratture del piede. Relativamente frequente, a differenza dello sci, è farsi male alle mani che, in assenza di racchette, diventano un'appendice fondamentale. Tipico è lo strappo dell'articolazione del pollice, al quale si può ovviare soltanto in due modi: utilizzando guanti ben imbottiti e rinforzati nei punti critici e imparando buone tecniche di corsa e di caduta, che rendano superfluo il ricorso alle mani. Anche l'avambraccio è una zona a rischio, con lo snow-board. Ma sono comunque gli arti inferiori i più esposti. Nel 65 per cento dei casi, slogature e contusioni riguardano le gambe, soprattutto la parte bassa: il rigidissimo fissaggio dei piedi alla tavola, dove non sono possibili attacchi di sicurezza, blocca infatti le forze di rotazione impresse dal ginocchio. Questo tipo di frattura è invece in ribasso tra gli sciatori, le cui caviglie, praticamente «ingessate» dagli scarponi alti, rigidi e aderenti, sono però protette dagli attacchi di sicurezza con sgancio laterale anteriore, che liberano il piede quando la pressione diventa pericolosa. Colpiscono praticamente solo gli sciatori principianti, ancora lenti sulle piste, le fratture spiroidi della tibia, determinate da un trauma torsionale, mentre anche i più abili possono essere vittima di fratture tronche a livello del bordo superiore degli scarponi, che agiscono come un fulcro su cui si frattura la tibia nelle cadute in avanti. Per tutti i traumatizzati, il futuro comunque non è tragico. Per le ossa fratturate sono praticamente spariti i gessi che impedivano di camminare per mesi e sono diventati rari gli interventi chirurgici che lasciavano brutte cicatrici. Oggi si ricorre a un tutore gessato che lascia liberi il ginocchio e la caviglia e consente di camminare benino già dopo un mese. I traumi al ginocchio si risolvono anch'essi con un tutore articolato in plastica e alluminio e solo nei casi più gravi, quando l'instabilità dell'articolazione è rischiosa, si ricorre alla chirurgia. Marina Verna


IL CALCOLO MENTALE E tu, le moltiplicazioni come le fai? Un lavoro sommerso di solito ignorato perché conta soltanto il risultato
Autore: OLIVERIO FERRARIS ANNA

ARGOMENTI: DIDATTICA, MATEMATICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 001. Metodi di calcolo

FATE, a mente, questa semplice operazione: 7X8. Ora interrompete per un attimo prima di proseguire e domandatevi in che modo avete eseguito l'operazione. Se trovate che la domanda non ha senso in quanto ritenete che il procedimento che avete usato sia l'unico possibile, ebbene, sappiate che state sbagliando. Ecco come sei diversi bambini di quinta elementare hanno risposto alla domanda: «Lo so, perché ho imparato le tabelline». «So che 6 per 8 fa 48, poi ho aggiunto un 8». «Li ho sommati: 8, 16, 24, 32, 40, 48, 56». «8 e otto sono 64, ne tolgo uno e fa 56». «2 sette sono 14; 2 quattordici sono 28; 2 ventotto sono 56». «10 sette sono 70, togli 14 ed è 56». Se esistono varie strategie per eseguire un'operazione così semplice, è ovvio che vi sono approcci differenti anche per risolvere problemi di maggiore complessità. Ecco alcuni dei metodi mentali usati da persone diverse per calcolare il 60% di 40. 10 per cento di 40 è 4, quindi 6X4=24; Il 50% è 20, il 10% è 4, quindi 20 più 4; 60/100X40/1 = 0,6X40 = 24,0. 60 per cento è 3/5; 1/5 di 40 è 8, quindi 3X8=24. Oltre ai metodi formali ve ne sono di informali, o soggettivi, che ognuno di noi usa normalmente senza chiedersi il motivo. E infatti, se si domanda a una persona come ha selezionato quel particolare metodo di calcolo mentale la risposta più comune è: «Mi è venuto in mente». Ognuno, tuttavia, tende a usare lo stesso metodo nel fare i calcoli mentali, sia pure con delle variazioni in rapporto al tipo di operazione o di numeri: per esempio, è difficile che il metodo usato per calcolare il 60 per cento di 40 venga adottato anche per calcolare il 19 e mezzo per cento di 47. Tutto questo lavoro sommerso che avviene quando si fanno calcoli mentali - dai più semplici ai più sosfisticati - viene in genere ignorato e considerato irrilevante: ciò che generalmente interessa l'insegnante è il risultato, non il metodo o la strategia individuale con cui un allievo vi perviene. Ciò accade anche perché gli insegnanti sono preoccupati di insegnare il metodo «corretto» o ufficiale, il che spesso finisce per disamorare alcuni bambini che non sono «in linea» con la strategia proposta per eseguire i calcoli. Invece, secondo alcuni pedagogisti inglesi (che ne parlano nel volumetto Mental Methods in Mathematics: A first Resort), si può fin dall'inizio rendere piacevole l'uso dei numeri ai bambini se si valorizzano i loro diversi stili di calcolo: in un'atmosfera non competitiva li si incoraggia a rendersi conto dei metodi individuali che essi usano inconsciamente nell'eseguire i diversi calcoli mentali e li si stimola a usarne di alternativi, ossia li si incoraggia a sperimentare quelli dei loro compagni o dell'insegnante. «Giocando» in questo modo non soltanto essi possono acquisire una maggiore flessibilità nel calcolo, ma possono anche toccare con mano che si può arrivare alla stessa soluzione facendo percorsi diversi. In tal modo, essi imparano a distinguere i metodi rapidi e produttivi da quelli troppo lunghi o ingombranti e la loro mente compie un esercizio di plasticità che va ben oltre il campo specifico del calcolo numerico. L'esercizio può essere fatto anche se ci si avvale del calcolatore, il cui ruolo in molti casi è soprattutto sussidiario, di appoggio o di verifica, ma non sostitutivo del ragionamento necessario per impostare i calcoli meno banali. Ecco un esempio. Se il compito è quello di trovare due numeri consecutivi che moltiplicati tra loro danno 1406, una strada possibile è quella di procedere per approssimazione, utilizzando sia il calcolo mentale che il calcolatore. Siccome 30X30=900 e 40X40=1600 e poiché 1406 si trova tra 900 e 1600 se ne deduce che i due numeri consecutivi da individuare devono cadere fra 30 e 40. A questo punto il calcolatore può essere di aiuto per provare rapidamente tutte le possibilità (30X31, 31X32, 32X33...). Tuttavia uno dei limiti del calcolatore è quello di incoraggiare un modo di procedere «alla cieca». In questo specifico caso, il processo può essere accelerato se si riflette sul fatto che i soli numeri consecutivi che moltiplicati tra loro possono produrre un 6 come ultima cifra sono 2 e 3, oppure 7 e 8. Seguendo questo ragionamento si comprende, dunque, che non è necessario provare tutte le coppie di numeri fra 30 e 40, ma che è sufficiente provarne due: 32X33 e 37X38. L'uso misto del calcolatore e del calcolo mentale serve anche per lavorare più agevolmente coi numeri decimali e negativi e per riflettere sui motivi che ci portano a fare degli errori di calcolo. Anna Oliverio Fe


PROGETTO CROP Dentro la crosta della Terra
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 002. Studio dell'interno della Terra

IL progetto Crop (dalle iniziali di Crosta Profonda) è un tentativo di realizzare il sogno ricorrente di tutti i geologi, sogno che ha assunto spesso i connotati di un incubo a causa dell'impossibilità - anche metaforica - di essere attuato: calarsi in profondità dentro la crosta terrestre e osservarne uno spaccato come al di là del vetro di un'immensa finestra. Da quella prospettiva, l'interno della Terra non apparirebbe distorto dallo spesso filtro delle rocce superficiali e sarebbe possibile verificare se e come i discontinui indizi epidermici si riconnettano a una trama profonda dal disegno finalmente chiaro. Un punto di vista come quello ci farebbe capire come e dove avvengono i terremoti che periodicamente sconvolgono l'Italia, ci direbbe da dove traggono alimento i molti vulcani attivi e ci aiuterebbe a riconoscere quali zone possono avere importanza applicativa perché più «adatte» a ospitare idrocarburi o fluidi geotermici. Non è invece possibile indagare direttamente la crosta terrestre - solo una perforazione si è spinta al di sotto dei 10-15 chilometri. Per ricavare informazioni più profonde possiamo solo sfruttare la proprietà che ha la Terra di lasciarsi attraversare dalle onde elastiche (sismiche). La trasmissione delle onde sismiche generate da un terremoto o - più opportunamente - da fonti energetiche artificiali (esplosioni o vibrazioni) è fortemente condizionata dalla composizione e dalla struttura interna del pianeta e quindi costituisce un mezzo potente e facilmente accessibile per la indiretta realizzazione del sogno di cui sopra. Il risultato è una sezione si smica, cioè uno spaccato cifrato della crosta in cui è possibile leggere - come in un'ecografia - la disposizione profonda dei più importanti corpi geologici, i loro rapporti e le relazioni con le strutture superficiali notevoli. Il progetto Crop si occupa appunto dello studio della crosta terrestre italiana mediante l'esecuzione di profili sismici a riflessione. Impostato a metà degli Anni Ottanta (e cominciato ufficialmente nel 1988), esso ha la struttura formale di una convenzione fra il Cnr, l'Agip e l'Enel. Quasi tutti i geologi italiani sono coinvolti in una ricerca di base che - pur essendo quella maggiormente finanziata nel campo - ha un costo limitato (circa 3-5 miliardi/anno, circa lo stesso budget del Servizio giardini del Comune di Roma) e sarà, almeno per i prossimi cinque anni, senza dubbio il più importante progetto di ricerca nel campo delle Scienze della Terra in Italia. Qualche primo risultato è già disponibile. Gli studi condotti nelle Alpi occidentali (in collaborazione con l'analogo progetto francese Ecors) hanno permesso la definizione di un'immagine crostale molto rinnovata rispetto al «disegno» ipotizzato e perfezionato negli anni dai geologi alpini. Quel patrimonio di conoscenze non va però sottovalutato: molte caratteristiche erano già state intuite in passato, ma quanti geologi della generazione di Argand - il primo sistematico interprete delle Alpi negli Anni 20 - potevano immaginare che, per esempio, il mantello (cioè lo spesso «strato» che si trova al di sotto della crosta) sarebbe risultato coinvolto nella costruzione della catena alpina? E che le Alpi stesse potessero racchiudere tracce della presenza di più antiche catene formatesi - probabilmente - quando ancora non era cominciata la collisione fra il continente europeo e quello africano? Nell'ambito del Crop (dopo i profili alpini) è prevista l'esecuzione di alcune migliaia di chilometri di rilievi sismici che in parte sono già stati acquisiti (Mar Tirreno, Italia meridionale) e in parte devono esserlo ancora (Appennino centro-settentrionale, Alpi orientali, Adriatico). L'estensione a grandi profondità (fino a 50-60 km) delle prospezioni di sismica a riflessione in verticale è un tema di frontiera per le ricerche nel campo della geologia, non tanto per le tecnologie richieste, quanto per l'indispensabile elaborazione di modelli geologici esaustivi che tengano conto dei dati profondi e di quelli superficiali. All'acquisi zione dei dati e alla loro elaborazione (processing) segue perciò una fase di interpreta zione che riveste un'importanza decisiva. Ma cosa si vuole ottenere dal progetto Crop? Prima di tutto una conferma o una smentita ai modelli che sono già stati costruiti per spiegare l'assetto geologico della penisola italiana: in altre parole, una crescita complessiva delle conoscenze di base, presupposto senza il quale anche i miglioramenti tecnici non potranno essere sfruttati a fondo. E nuove informazioni il Crop potrà senz'altro dare sullo «scontro» fra la placca eu ropea e africana: ancora oggi non è infatti possibile delinearne con precisione i limiti, nè caratterizzare meglio il tipo e il grado di deformazione derivata dalla collisione. Sarà anche più semplice individuare zone in grado di sviluppare terremoti come quelli dell'Irpinia o del Friuli (pre venzione delle catastrofi na turali), identificare luoghi stabili (insediamenti industriali in condizioni di massima si curezza) e strutture in grado di ospitare idrocarburi (utiliz zazione ragionata del sotto suolo e sfruttamento minera rio). Il riscontro economico è dunque notevole e procede di pari passo con la ricerca di base, anche se è bene ricordare che la conoscenza dei primi 50-60 chilometri resta ancora piccola cosa di fronte ai 6370 chilometri di raggio della Terra: siamo ancora fermi alla buccia della «grande mela» su cui viviamo. Mario Tozzi Cnr, Istituto di Geologia


VALANGHE Traffici intensi sotto la neve Le continue trasformazioni dei cristalli
Autore: BO GIAN CARLO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA, NEVE, VALANGHE, FISICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Tipi di valanghe
NOTE: 002

CON la neve arrivano le valanghe. Spettacolari a vedersi, sono l'incubo di abitanti e frequentatori della montagna: la morte bianca è sempre in agguato. Un manto nevoso, a dispetto della pace che offre allo sguardo, cela un certo «traffico» di fenomeni perché i cristalli di neve, come tutto in natura, hanno una loro vita, durante la quale subiscono varie trasformazioni. Il legame delle molecole d'acqua che costituiscono un fiocco determina la struttura esagonale dei fiocchi di neve. Una volta che s'è formato il cristallo iniziale, le molecole del vapor d'acqua si diffondono, si raccolgono agli angoli del cristallo e danno il via alla crescita verso l'esterno, formando le strutture laterali. La realizzazione di una particolare configurazione anziché un'altra pare dipenda da vari ingredienti, come la velocità di caduta, la temperatura e la disponibilità delle molecole di vapore. La neve fresca contiene fino al 90 per cento di aria, i cristalli sono stellari, come fiori con petali sottili. Via via che la neve si assesta, l'altezza del manto diminuisce e il suo peso specifico aumenta: il cristallo incomincia ad arrotondarsi e in due o tre giorni si forma la buona neve farinosa per sciare. Con una temperatura costante di 5 gradi sotto zero, il «fiore» «appassisce». Strati di neve caduti successivamente lasciano circolare tra loro acqua e vapore, tuttavia ogni precipitazione contiene aria e cristalli diversi. Diversa è anche la temperatura ai vari strati. E' noto che le coltivazioni sono protette dalle gelate notturne perché la neve, che non è un buon conduttore di calore, si comporta da isolante; con temperature anche di decine di gradi sotto zero, il terreno si mantiene intorno allo zero. Le differenze di temperatura all'interno di uno strato di neve producono circolazioni d'aria dalle masse più calde a quelle più fredde, tanto più vispe quanto è maggiore il contrasto di temperatura. Anche il vapore interno sublima e induce curiose metamorfosi. Rilevante è la formazione di brina di profondità, una particolare conformazione a «calice» dei cristalli, a forma piramidale esagonale. Il manto di neve si presenta come se fosse «caricato», la stabilità della struttura esistente viene compromessa e favorito lo slittamento della neve successiva inducendo la formazione della valanga. Altri elementi concorrono, come la temperatura, il vento, la pendenza. Un improvviso riscaldamento può fare scivolare una neve in quantità sufficiente a produrre abbastanza acqua con effetto di lubrificante che asseconda lo scivolamento della neve restante. Un improvviso raffreddamento può essere ugualmente pericoloso. Al tramonto, per esempio, l'abbassamento di temperatura può far congelare l'acqua già presente e il conseguente aumento di volume può far precipitare la valanga. D'inverno sono tipiche le valanghe di neve polverosa che seguono forti nevicate; nel disgelo ci sono soprattutto quelle di neve pesante e bagnata. Le velocità variano da 40 a 80 chilometri all'ora. In una valanga di neve asciutta, una grande nube di particelle precede la massa nevosa che precipita dal versante della montagna a velocità fino a 300 km/h con forza sufficiente ad abbattere grandi alberi e a smuovere ponti d'acciaio. Le escursioni in zone innevate richiedono particolari attenzioni, sia per l'attrezzatura che per la scelta del momento migliore per l'attraversamento. Per quanto riguarda la neve, è opportuno non avventurarsi in zona se non dopo 2 o 3 giorni di tempo buono dopo una forte nevicata, per dare tempo alla neve di assestarsi. Tenere d'occhio, con diffidenza e con termometro e altimetro-barometro, gli improvvisi aumenti di temperatura. Gian Carlo Bo


IL CIELO DEL '94 Eclisse solo in Cile Nessun evento spettacolare in Italia
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ESTERO, CILE
NOTE: 002

ALL'ITALIA i fenomeni astronomici del '94 non riservano eventi spettacolari. C'è però un buon numero di curiosità per intenditori, cioè per appassionati di astronomia che possiedano almeno un piccolo telescopio e siano armati di una buona dose di pazienza. Tra queste curiosità spiccano alcune occultazioni («eclissi», per intenderci) di stelle da parte di asteroidi. Dove però non sempre la parola «eclisse» corrisponde alla realtà: capita, infatti, che il pianetino sia meno luminoso della stella davanti alla quale si trova a passare, per cui può succedere che l'osservatore veda la stella scomparire semplicemente perché il suo telescopio è abbastanza potente per mostrargli la stella, ma non il più fioco pianetino. Sul quale, tuttavia, osservando in molti l'occultazione da luoghi diversi, diventa possibile ricavare interessanti informazioni, e in particolare il suo diametro e la sua forma (che spesso risulta irregolare). Il 25 febbraio, per esempio, l'asteroide Sylvia, il cui diametro è stimato in 270 chilometri, passerà davanti a una stellina di decima magnitudine. Poiché Sylvia apparirà 10 volte più debole, per chi osserverà con un telescopio sotto i 10 centimetri di obiettivo, la stella scomparirà. Chi invece disporrà di uno strumento più potente potrà seguire la marcia di avvicinamento del pianetino e poi l'occultazione della stellina, che avrà la durata massima di 35 secondi. Un fenomeno simile avverrà il 17 aprile con il pianetino Tamara e il 30 ottobre con il pianetino Venusia, che passerà davanti a una stella di magnitudine 9, alla portata di un buon binocolo, mentre lui, il pianetino, essendo di magnitudine 16,65, potrà essere scorto solo con un potente telescopio. Queste e migliaia di altre informazioni si ricavano dall'«Almanacco astronomico 1994» di Salvo de Meis e Jean Meeus, puntualmente edito da Hoepli (150 pagine, 22 mila lire). Passando a fenomeni meno esoterici, si può ricordare che Giove sarà l'unico pianeta in evidenza nella prima metà dell'anno e che sarà in opposizione, cioè culminerà a Sud, a mezzanotte il 30 aprile. Saturno raggiungerà invece l'opposizione il 1 settembre. Per chi ha voglia e possibilità di viaggiare, una eclisse anulare di Sole sarà visibile il 10 maggio dagli Stati Uniti: dall'Italia sarà osservabile, con difficoltà, come piccola eclisse parziale. Una eclisse totale, più interessante, interesserà il 3 novembre il Cile del Nord e il Brasile del Sud. L'ultima annotazione riguarda ancora un pianetino. Il 25 agosto l'asteroide Geographos, famoso per la sua orbita molto allungata, si troverà ad appena 5 milioni di chilometri dalla Terra. «Clementine», una piccola sonda della Nasa, dovrebbe fargli visita. Per un uso in parallelo alle effemeridi dell'«Almanacco» Hoepli segnaliamo ancora l'agenda «Il cielo 1994» edita da Drioli (tel. 031-340.797), contenente oltre ventimila dati astronomici. Piero Bianucci


RAPPORTO FAO Cresce la produzione di cibo e vince la corsa con le bocche Ma il conto lo paga la natura
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, PRODUZIONE, AGRICOLTURA, SONDAGGIO, DEMOGRAFIA E STATISTICA
ORGANIZZAZIONI: FAO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 002

LA produzione di cibo nel mondo è cresciuta più rapidamente delle bocche da sfamare, tanto che oggi le disponibilità alimentari di ogni abitante della Terra superano del 18 per cento quelle di vent'anni fa. La buona notizia apre il rapporto «Agricoltura: verso il 2000» da poco reso pubblico dalla Fao, l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura. La corsa a inseguimento tra crescita demografica (che pure continua a ritmi molto sostenuti) e disponibilità di cibo segna dunque un risultato positivo. Ma a parte il fatto che per molti Paesi poveri i vantaggi sono limitati e che anzi alcuni hanno visto peggiorare la propria situazione (è il caso dell'Africa sub-sahariana, dove si sta peggio di 20 o 30 anni fa) è possibile dire senz'altro che la rincorsa ha imboccato un trend positivo destinato a durare? Entro il 2010, dice lo studio della Fao, i sottoalimentati cronici caleranno dagli 800 milioni di oggi a 560 milioni (con una diminuzione nell'Asia meridionale ma con un aumento nell'Africa sub-sahariana). La crescita della produzione agricola sarà in parte assicurata dalla maggiore resa dei terreni consentita da tecniche migliori e colture più redditizie. L'introduzione del riso ibrido in Cina, Indonesia, Corea del Nord, Vietnam e India, iniziata negli Anni 70, ha fatto salire il raccolto da una media di 1-1,5 tonnellate per ettaro a 2,5 tonnellate. Progressi analoghi potranno essere ottenuti con il mais, il sorgo, il frumento. Le biotecnologie avranno un ruolo importante. Anche l'irrigazione consentirà un aumento della produzione, ma lo studio della Fao avverte che il forte incremento dell'uso di risorse idriche sotterranee (in India i 90 mila pozzi del '50 sono diventati oggi 12 milioni) non è una strada che si possa battere all'infinito, perché il tasso di estrazione spesso supera la capacità di ricostituzione della falda mentre le acque «fossili» sono a tutti gli effetti risorse non rinnovabili, esattamente come il petrolio, e quindi destinate a esaurirsi. Nei Paesi in via di sviluppo, ammette lo studio della Fao, dovranno essere messi a coltura almeno 100 milioni di ettari di terreno in più rispetto ad oggi, per un totale di 850 milioni di ettari. In Medio Oriente e nell'Asia meridionale le terre ancora disponibili sono minime, mentre la maggior parte del suolo potenzialmente adatto alle coltivazioni si trova in America Latina e nell'Africa a Sud del Sahara, e si tratta di terreno coperto da foreste. All'incirca 50 milioni di ettari di foresta tropicale dovranno quindi essere sacrificati solo per mantenere (o migliorare di poco) la situazione alimentare attuale nei Paesi in via di sviluppo, nei quali la popolazione nei prossimi vent'anni dovrebbe aumentare di 1,9 miliardi. Senza contare le terre che saranno occupate dall'espansione delle città, delle vie di comunicazione e del turismo. E senza spingere lo sguardo, giustamente preoccupato, al di là dei termini temporali dello studio della Fao. Possiamo anche immaginare che per un certo tempo (quanto?) la corsa tra cibo e bocche da sfamare resti a favore del primo. Ma se si accetta questa prospettiva, sarà anche necessario accettare come inevitabile, come implicitamente ammette anche la Fao, un'accelerazione degli attacchi alla natura; diventerà cioè sempre più difficile preservare ciò che resta della vita selvaggia, della diversità biologica e delle popolazioni autoctone, spinte in aree sempre più ristrette e disagiate. I grandi animali in corsa nella prateria resteranno soltanto nelle immagini dei documentari. Vittorio Ravizza


ALBATROS E BALENE Un satellite ficcanaso spia i viaggi e gli amori Oggi è possibile seguire dall'alto le tracce di animali che nelle loro migrazioni arrivano a coprire anche 15 mila chilometri
Autore: MORETTI MARCO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, TECNOLOGIA, ANIMALI
NOMI: MARTIN TONY
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 003. Monitoraggio «Argos»

GLI indiani delle grandi praterie del Nord America appoggiavano l'orecchio sul terreno per cogliere l'avvicinarsi di una mandria di bisonti. I cacciatori di diverse tribù si comunicavano con segnali di fumo il passaggio di un branco di animali da preda in migrazione. Finiti i tempi della caccia, gli zoologi dovevano muoversi fra percorsi accidentati per disegnare con grande approssimazione gli spostamenti stagionali delle diverse specie. Un ricordo del passato: ora gli studiosi della vita animale possono seguire comodamente le loro prede dai laboratori grazie a un occhio che scruta la terra dal cielo. L'Americàs National Oceanic and Atmospheric Administration ha lanciato in orbita due satelliti - chiamati NOAA-11 e NOAA-12 - ciascuno dei quali passa sopra i poli, ogni cento minuti circa, osservando la vita animale sulla crosta terrestre. Il sistema di monitoraggio chiamato Argos permette di seguire le tracce di un animale al quale è stato applicato un collare «radiotrasmittente» abbastanza potente da essere captato dal satellite. La posizione della preda può essere definita con l'approssimazione di un solo chilometro. Il sistema di ascolto, gestito da una base in Francia, funziona per mezzo di segnali simili a quelli di una frequenza radio: passando attraverso il collare, l'onda riporta la posizione di un lupo o di una renna sperduti fra i ghiacci del Polo Nord. L'intervento del satellite rivoluzionerà lo studio sul comportamento degli animali. Gli etologi potranno seguirli anche in territori finora inaccessibili, fra climi insopportabili dall'uomo. E un unico scienziato sarà sufficiente per controllare gli spostamenti di molti capi. Le prime applicazioni hanno rivelato, ad esempio, che gli albatros (Diomedea exu lans) arrivano a coprire fino a 15 mila chilometri durante le loro migrazioni fra il Sud dell'Oceano Indiano e le isole del Pacifico. Il satellite non è capace di sondare gli abissi marini, ma il sistema Argos può essere usato con le specie che hanno bisogno di emergere dalla superficie dell'acqua per respirare, come le foche e le balene: basta incollare un «radiotrasmettitore» sul loro dorso. Tony Martin del Sea Mam mal Research Unit della Cambridge University ha utilizzato il satellite per studiare una specie di balene canadesi in pericolo di estinzione: ha scoperto che hanno un forte impulso a vagabondare e che non sono, come si credeva, un gruppo separato, ma si accoppiano con i cetacei della Groenlandia. Così prossimamente le migrazioni in massa per la stagione degli amori delle balene grigie, dallo Stretto di Bering alla Bassa California, e delle balene gobbe, dall'Antartide alla Grande Barriera Corallina, diventeranno argomento di pettegolezzo, oltre che di ricerca. Sapremo esattamente quanto impiegano, quante volte emergono per respirare nei loro viaggi di migliaia di chilometri, ma anche come, quando e con chi s'accoppiano. Grazie a un satellite ficcanaso. Marco Moretti


SCIMPANZE' A CACCIA Colobo, ti sbrano vivo Una crudeltà difficile da accettare
Autore: VISALBERGHI ELISABETTA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 003

HO visto di recente un documentario che mi ha fatto molto pensare. Dopo un lungo inseguimento nel folto della foresta del Tai National Park in Costa d'Avorio, un gruppo di scimpanzè catturava e smembrava un colobo - una splendida scimmia dal lungo pelo di bianco e nero - mangiandoselo vivo. Perché avevo trovato questa scena più agghiacciante delle tante immagini di leonesse che si avventano su una gazzella o di gatte che portano topini tramortiti ai loro piccoli? Prima di rispondere vorrei descrivere il comportamento di caccia degli scimpanzè, anche perché da più parti si è sostenuto che la caccia - insieme all'uso di strumenti, la divisione del cibo e la differenziazione dei ruoli del maschio e della femmina - è stata una chiave di volta nel corso dell'evoluzione della nostra specie. Dagli studi sistematici degli scimpanzè in natura è emerso che questi Primati cacciano regolarmente e che, iniziata una battuta di caccia, riescono a uccidere la loro preda con frequenza simile a quella di alcune specie di carnivori. Ciò significa che gli scimpanzè sono «bravi» quasi quanto quei predatori il cui comportamento di caccia è essenziale alla sopravvivenza e perciò è stato selezionato nel lungo corso dell'evoluzione. Come risulta dagli studi condotti dai coniugi Boesch, due primatologi svizzeri, gli scimpanzè di Tai cacciano 19 differenti specie di mammiferi, sebbene la preda di gran lunga più frequente siano scimmie, in particolare quelle del genere Colobus. Ma ciò che più colpisce, e che risulta di estremo interesse per i paleoantropologi, è che gli scimpanzè caccino in gruppo e che la preda venga mangiata da più individui. In particolare, più del 90 per cento degli episodi di caccia coinvolge più scimpanzè (in genere cinque o sei, soprattutto maschi). E più sono i partecipanti, più aumenta la probabilità di successo. Sembra proprio che «l'asso nella manica», la modalità che rende vincenti gli scimpanzè, sia l'essere in molti. A un'analisi più attenta, risulta che i vari individui non solo inseguono la stessa preda, ma a volte assumono ruoli complementari: ad esempio, se uno scimpanzè sta inseguendo, un altro può bloccare la via di fuga e un altro ancora fare una manovra per accerchiare la preda. Questo tipo di collaborazione, in cui più individui hanno uno scopo comune e assumono differenti ruoli (che non sono fissi ma rispondenti alle varie esigenze che di volta in volta si vengono a creare), è molto meno frequente negli episodi di caccia di alcuni carnivori come lupi e leoni, anzi leonesse, e completamente assente tra iene e licaoni. Quando uno scimpanzè ha catturato una preda, la condivide con altri individui. Ma come passa di mano in mano? Anche in questo caso si sono osservate modalità molto differenti, che vanno dal furto al dono, con molte variazioni intermedie. Generalmente colui che possiede la preda permette anche ad altri scimpanzè di staccarne dei bocconi o di prenderne dei pezzi. Per chiedere un pezzo di carne, questi primati utilizzano un particolare gesto che assomiglia alla nostra richiesta di elemosina. A volte può anche capitare che uno scimpanzè regali a un altro individuo un pezzo ben più grande di ciò che gli rimane. Solo in rarissimi casi un individuo dominante sottrae la preda all'individuo che l'aveva presa. Ma perché tanti comportamenti altruistici quando si tratta di collaborare nella caccia e soprattutto nel dividersi il bottino e tanta apparente crudeltà nello smembrare un povero colobo e mangiarselo vivo? Una possibile spiegazione è che la capacità di mettersi nei panni di un altro individuo, anche di specie differente, e di condividerne le emozioni non sia presente o lo sia in misura limitata negli scimpanzè (inutile dire che essa è assente negli animali meno evoluti dello scimpanzè). E' proprio l'empatia, - cioè la capacità umana di immedesimarsi negli altri - che ci fa pensare che un colobo mangiato vivo soffra. Inoltre, i nostri principi morali ci portano a pensare che far soffrire è ingiusto. Sono le nostre capacità di empatia e il riconoscere nello scimpanzè un individuo simile a noi a farci sentire a disagio vedendolo mangiare un'altra scimmia, impassibile di fronte alle sue sofferenze. Elisabetta Visalberghi Istituto di Psicologia, CNR


FILARIOSI DEL GATTO In guardia con le zanzare Inoculano un parassita che marcia dritto sul cuore
Autore: ANSALDO LUCA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI, MEDICINA, CONGRESSO
NOMI: GENCHI CARLO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 003

LA filariosi cardiopolmonare è una malattia che i proprietari di cani conoscono bene. La divulgazione attuata dai veterinari e dalle riviste specializzate ha lanciato l'allarme, giustificato dal rapido diffondersi negli ultimi tempi di questa malattia mortale per il cane. Fino a pochi anni fa nessuno si sarebbe però mai immaginato che anche il gatto potesse essere colpito dalla stessa malattia parassitaria. Lo ha rivelato in un recente congresso di medicina felina Carlo Genchi dell'Istituto di Patologia generale veterinaria dell'università di Milano. La filariosi è provocata da un parassita nematode, la Dirofilaria im mitis, che viene inoculata nei tessuti dalla zanzara. Da qui il parassita raggiunge, dopo aver subito due mute, il ventricolo destro del cuore, l'atrio e le arterie polmonari, dove si sviluppa sessualmente. Dopo l'accoppiamento, la femmina produce delle microfilarie che arrivano al sangue periferico. La zanzara, succhiando il sangue di un animale infestato, ingerisce le larve divenendo così vettore della malattia. L'interferenza meccanica che i parassiti adulti esercitano sul cuore e sui vasi determina gravi scompensi circolatori che mettono in pericolo la vita dell'animale. I sintomi sono subdoli in quanto nel cane si manifestano inizialmente solo nei soggetti sottoposti a un intenso esercizio fisico con uno scarso rendimento atletico. Alla comparsa dei sintomi il danno agli organi interni può essere già così grave da compromettere la guarigione. L'Italia è la nazione europea più colpita dalla dirofilaria. La malattia è inoltre in continua espansione. Fra gli Anni 60 e 70 veniva considerata sporadica. Oggi nel Nord Italia 24 cani su cento sono colpiti ma in alcune zone della Val Padana si arriva al 95 per cento. Focolai di una certa consistenza sono stati riscontrati in Toscana e in Sardegna. I ricercatori rivelano ora che non soltanto il cane, ma anche i carnivori domestici e selvatici in genere possono risultare vittime della Dirofilaria. Ed ecco che nel Vercellese compare un otto per cento di volpi colpite. Ma la notizia più fresca è che anche il beneamato gatto può sviluppare la malattia. Secondo il professor Genchi, la filariosi cardiopolmonare nel gatto ha messo radici nelle stesse zone endemiche per il cane. Le aree interessate sono quelle ricche di laghi e di fiumi, dotate di ampi sistemi di irrigazione e con elevate temperature estive, tutti fattori che rendono ottimale lo sviluppo della zanzara, vettore della malattia. Su 120 gatti osservati in questa zona, il 12,5 per cento è risultato colpito. Rispetto al cane, il gatto risulta però più resistente al parassita. A livello cardiaco il numero di filarie riscontrate è sempre molto limitato e inoltre la longevità delle filarie nel gatto è di due anni, contro i cinque anni del cane. La diagnosi della malattia risulta invece molto complessa in quanto i test elaborati in questi ultimi anni per il cane non sono sensibili nel gatto. Le microfilarie nel sangue periferico, di facile riscontro nel cane, non sono comuni nei felini. E' comunque possibile prevenire facilmente la malattia con gli stessi strumenti terapeutici utilizzati nel cane. La prevenzione è infatti, in questo campo più che in altri, l'arma vincente in grado di proteggere i nostri amici animali. Luca Ansaldo


VALICHI ALPINI Che bella strada, perché non provarla? La disponibilità di nuovi percorsi aumenta il numero dei veicoli
Autore: FRAMARIN FRANCESCO

ARGOMENTI: TRASPORTI, VIABILITA', MONTAGNA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 003. Traffico attraverso le Alpi

QUANDO Goethe venne in Italia nel 1775, l'intero arco alpino era attraversato da alcune decine di migliaia di viaggiatori all'anno e da un numero minore di tonnellate di merci. Oggi le persone che attraversano le Alpi ogni anno son divenute 60 milioni e il traffico annuale di merci ha superato i 70 milioni di tonnellate e raddoppia ogni 10-12 anni. Della ventina di valichi transalpini, i più frequentati sono, nell'ordine, il Brennero, il S. Gottardo e il Moncenisio. Meno noto, anche se frequentato quasi come il Brennero, è l'asse ferroviario e autostradale degli Alti Tauri fra Salisburgo e Villach, per Udine e Lubiana. La distribuzione del traffico nei diversi valichi risponde anzitutto a ragioni di convenienza in fatto di tempi e costi dei percorsi. Questa ovvia osservazione mostra come sia vano cercare di risolvere i problemi solo aumentando e facilitando i percorsi. Infatti è proprio la disponibilità dei percorsi una delle cause della crescita del traffico, poiché bassi tempi e bassi costi dei trasporti permettono di compensare altri costi nel processo produttivo e di vendita. Inoltre il libero mercato tende di per sè a saturare ogni spazio libero e a sfruttare ogni minimo vantaggio. Oggi prodotti del tutto simili viaggiano in direzioni opposte, sugli stessi percorsi, per profittare di piccole differenze dei mercati; prodotti grezzi o semilavorati vanno e tornano all'origine per utilizzare salari inferiori o norme meno strette di tutela del lavoro o dell'ambiente. E così via. Nel campo del turismo, il miglioramento della viabilità ha conseguenze non sempre positive. In molti centri turistici, infatti, l'aumento del traffico indotto peggiora la qualità ambientale su cui era basata la loro attrattiva, poiché crea gli stessi fenomeni di congestione e di inquinamento dei centri urbani. Inoltre la riduzione dei tempi necessari a raggiungerli induce molti turisti a divenire pendolari, per risparmiare le spese di pernottamento. Ora le principali richieste di incrementare le strade di attraversamento alpino riguardano il raddoppio del tunnel del M. Bianco e del S. Gottardo e la creazione dei seguenti nuovi assi autostradali (con relativi nuovi tunnel): Cuneo-Nizza (Argentera), Torino-Briancon (Monginevro), Ulm-Milano (passo Resia), Kurfstein-Cortina d'Ampezzo-Vittorio Veneto (Alpi Aurine), Linz-Graz-Maribor (passo Pyhrn). Salvo guerre o crisi economiche, petrolifere, ecologiche, è facile prevedere, sulla base di una crescita annua delle merci del 4-5 per cento, che anche queste vie transalpine si saturerebbero in pochi decenni - non senza aver aggravato l'inquinamento e sfigurato ulteriormente l'ambiente delle Alpi. Una vera politica dei trasporti alpini, che tenga conto anche dell'ambiente e della qualità della vita, dovrebbe prevedere misure ben diverse dal semplice rincorrere la domanda. Una soluzione sarebbe quella di convogliare il traffico delle merci soprattutto sui treni, ma essa non funzionerà in base alle sole leggi di mercato. Le limitazioni del traffico a tutela dell'ambiente e della qualità della vita, non offrendo di per sè alcun vantaggio economico, devono essere mantenute o modificate su basi politiche. Gli abitanti dei cantoni alpini hanno proposto un referendum con il quale chiedono che tutte le merci in transito per la Svizzera siano trasferite entro 10 anni su ferrovia e che non sia aumentata la capacità attuale delle grandi trasversali (e quindi non ne siano costruite di nuove). Le nazioni alpine hanno interesse ad armonizzare i rispettivi punti di vista e le normative sul traffico: è quanto cerca di fare la cosiddetta Convenzione Alpina, un dettagliato schema di regole che dovrebbe mettere d'accordo la capra dello sviluppo con i cavoli dell'ambiente, ma che stenta a essere approvata. Nonostante i molti aspetti tecnici, nessuna grande decisione sul traffico alpino è puramente tecnica, dovendo mediare vantaggi e inconvenienti fra loro non omogenei e riguardanti «utenti» molto diversi. Gli aspetti ambientali avranno comunque un ruolo sempre maggiore nelle decisioni, perché il contributo negativo di nuova viabilità e di un nuovo traffico alla qualità della vita appare sempre più chiaro, nelle Alpi meglio che altrove. Francesco Framarin


LA COMPETIZIONE SESSUALE TRA GLI UOMINI Che fatica, essere maschio Una lotta invisibile per sconfiggere il rivale
Autore: CARRADA GIOVANNI

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA, SESSO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 004

LA fatica di essere maschio, in natura, può essere grande. Bisogna portare pesanti palchi di corna, trascinare penne di lunghezze inverosimili, o ingaggiare pericolosi combattimenti. Tutto perché la misura del successo è il numero di figli portatori dei geni paterni. Ma la conquista della femmina, presso moltissimi animali, non è l'ultimo traguardo della competizione tra i maschi, che può proseguire invisibile (grazie a raffinate armi fisiologiche o comportamentali) anche dopo l'accoppiamento se il seme di più di un maschio si trova a «convivere» per qualche tempo nella femmina. In realtà, almeno oggi, ci sono anche nell'uomo tutte le condizioni perché questo tipo di competizione abbia luogo. Molte cose possono succedere nei circa cinque giorni nei quali lo sperma rimane attivo nella donna, compreso l'accoppiamento con un altro partner. E più di quanto ci piacerebbe credere. Secondo diversi studi compiuti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (il primo nel 1940!), un numero compreso tra il 5 e il 30 per cento dei neonati ha un gruppo sanguigno diverso da quelli di entrambi i genitori, e ha quindi un padre diverso da quello dichiarato. Altra cosa però è dimostrare che anche noi siamo attrezzati per questa lotta silenziosa. E' quello che hanno fatto Robin Baker e Mark Bellis, dell'Università di Manchester, con uno studio che farà discutere. Secondo i due ricercatori, la competizione tra lo sperma di uomini diversi avviene realmente e ha giocato un ruolo così importante nella nostra storia evolutiva da aver contribuito a plasmare due comportamenti apparentemente inspiegabili come la masturbazione maschile e l'orgasmo femminile. Lo studio presentava comprensibili difficoltà, anche etiche, superate grazie alla collaborazione davvero generosa (sui cui dettagli pratici si può sorvolare) di studenti e colleghi. Ed ecco i risultati. «Lontano dagli occhi, lontano dal cuore», si dice, ma anche un sondaggio condotto nel corso dell'indagine ha rivelato che le probabilità di infedeltà femminile aumentano con il prolungarsi delle separazioni. E infatti i ricercatori hanno constatato che quanto più i rapporti in una coppia sono separati nel tempo, tanto più sperma viene rilasciato nel corso di ogni rapporto. La speranza (naturalmente inconscia) è quella di sconfiggere il possibile rivale con la forza dei propri numeri. In generale, ogni uomo tende a mantenere nel suo partner una quantità «ottimale» di sperma, quantità diversa per ogni coppia ma che aumenta nelle situazioni più a rischio. La masturbazione maschile invece è un comportamento che si instaura in assenza di rapporti sessuali. Disporre di meno sperma in caso di un rapporto nei giorni successivi potrebbe rappresentare uno svantaggio, ma non è così. La masturbazione infatti mantiene «giovane» lo sperma a disposizione, e lo studio ha rivelato che questo tipo di sperma non solo ha minori probabilità di essere espulso fuori dalla vagina, ma vi può rimanere attivo e vitale più a lungo. Ma qui entrano in scena le donne. Poco dopo il rapporto, un terzo circa del seme può essere espulso insieme ai liquidi vaginali. Ma a volte può essere espulso quasi tutto. Secondo i due ricercatori inglesi, le contrazioni muscolari dell'orgasmo femminile servirebbero proprio a «risucchiare» verso l'utero il seme maschile. Infatti, se l'orgasmo coincide con l'eiaculazione, o la segue, viene espulsa una quantità molto minore di sperma di quando invece la precede. In teoria, una donna che ha due amanti ha così a disposizione uno strumento per favorire il seme del suo uomo preferito. Non solo perché riesce a darle più piacere. Un orgasmo frapposto tra due rapporti successivi, ad esempio, fa aumentare le probabilità di essere fecondate dallo sperma del primo partner, a danno del secondo. Sarebbe interessante sapere se le donne, inconsciamente, si servono di questa possibilità di scelta. Comunque vadano oggi le cose, se è vero che l'evoluzione ci ha dotati di meccanismi fisiologici così sofisticati per la competizione tra il seme di uomini diversi, vuol dire che l'infedeltà coniugale deve essere sempre stata praticata dai nostri progenitori, al punto di diventare una parte integrante della strategia riproduttiva della nostra specie. Giovanni Carrada


L'OLIO DI LORENZO Inefficace dicono i test
Autore: GIACOBINI ENZO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, BAMBINI
NOMI: ODONE LORENZO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 004

IL signor Odone (Nick Nolte nel film «L'olio di Lorenzo») è il padre intelligente ed eroico che, dopo aver letto tutto il leggibile sulla grave neuropatia che affligge il figlio di sei anni, arriva a scoprire la prima terapia dell'adrenoleucodistrofia. Lorenzo ha oggi 15 anni: ne sono dunque passati 9 da quando gli specialisti del centro di Baltimora hanno stabilito la diagnosi di questa terribile malattia. I primi sintomi sono comportamentali. In pochi mesi, Lorenzo, da bambino normale, diventa aggressivo, non è più attento a scuola ed è costretto a lasciarla. Perde progressivamente l'udito e a due anni dalla diagnosi è confinato a letto, praticamente paralizzato. Perfino l'alimentazione diventa difficile e solo la madre riesce a nutrirlo. Crisi respiratorie con minaccia di polmonite denunciano la mancanza dei riflessi normali della deglutizione, segno di danni cerebrali gravi. Al tempo della diagnosi (1984) la malattia è conosciuta da poco e tutti i casi vengono riferiti a un centro specializzato della John Hopkins University di Baltimora, dove esiste un team di specialisti unico al mondo per queste affezioni. La forma cosiddetta cerebrale della malattia si manifesta solo nei bambini di sesso maschile: il gene difettoso è localizzato nel cromosoma X ed è la causa della perdita progressiva della guaina mielinica che circonda le fibre nervose. Generalmente la forma cerebrale porta alla morte nel giro di tre anni. Questo tipo di adrenoleucodistrofia è trasmessa dalla madre. Nel caso di Lorenzo, la madre è sconvolta nell'apprendere il verdetto. Il gene difettoso è la causa di una mancata normale degradazione degli acidi grassi a catena molto lunga (24-26 atomi di carbonio) che si accumulano nella sostanza bianca cerebrale e nella corteccia della ghiandola surrenale (di qui il nome della malattia). Tali acidi grassi sono i prodotti sia di una dieta normale che dell'organismo stesso che è in grado di formarli. Ragionando sul fatto che tali acidi grassi possano essere la causa della distruzione della guaina mielinica, il signor Odone, ex commercialista diventato esperto in neurologia e biochimica, arriva alla conclusione logica che è indispensabile arrivare alla loro riduzione. Di qui il primo tentativo descritto nel film, la riduzione drastica degli acidi grassi nella dieta di Lorenzo, con risultato tragicamente negativo. La malattia prosegue inesorabile. Il signor Odone non si dà per vinto e continua a studiare e a formulare nuove strategie. Nel 1986 si scopre per caso che l'acido oleico, ottenuto dal comune olio di oliva, può ridurre gli acidi grassi a catena molto lunga negli animali da esperimento. Perché non provare su Lorenzo quel che ha funzionato nei topolini? E' proprio il padre di Lorenzo il primo a suggerire l'uso di un altro olio, l'acido erucico estratto dall'olio di rapide, in associazione con l'acido oleico. Nonostante lo scetticismo dei clinici, il signor Odone si procura l'olio e quasi per miracolo il giovane Lorenzo, già paralizzato e quasi morente, riacquista parzialmente la parola e alcuni movimenti. Il signor Odone ha vinto contro la scienza accademica e conservatrice, che riconosce i suoi meriti con una laurea in medicina honoris causa. Dal 1988 a oggi si sono susseguiti numerosi tentativi terapeutici a base di trioleato e trierucato di glicerolo, con risultati variabili e mai definitivi. Un articolo sul New England Journal of Medicine (settembre 1993) riferisce i risultati di uno studio durato due anni e condotto su 14 pazienti affetti da una forma di questa distrofia che colpisce preferibilmente il midollo spinale e i nervi periferici, l'adrenomieloneuropatia. Anche qui si è usato il famoso «olio di Lorenzo». Tre diversi centri francesi sono coinvolti nello studio. Sfortunatamente in questi casi «l'olio di Lorenzo» non ha funzionato. Lo sviluppo razionale di una strategia terapeutica presuppone la conoscenza delle cause della malattia. In mancanza di tale conoscenza, i medici, come l'opinione pubblica, sono in balia di ipotesi e congetture. Non è quindi con l'esperienza aneddotica, gli articoli pseudoscientifici e le esperienze personali che si sviluppa una terapia sicuramente efficace. Solo le prove cliniche su un numero adeguato di pazienti per un periodo sufficientemente lungo (generalmente diversi anni) portano a un risultato serio e affidabile. Il film suggeriva in modo prematuro che la terapia del signor Odone potesse essere di giovamento nella forma clinica giovanile di adrenoleucodistrofia e forse anche in altre forme della stessa malattia. Malauguratamente non è così. Trattandosi di una malattia ereditaria, una speranza futura potrebbe venire dalla cosiddetta geno-terapia in combinazione con trapianti di midollo osseo. Il lavoro è già iniziato in questa direzione dopo la recente scoperta del gene della malattia. Si attende ora di trasferire il gene malato in un topolino, ottenendo così un modello transgenico della malattia. Da questo punto in poi, sarà possibile tentare un modello di terapia anche per l'uomo. Enzo Giacobini Università del Sud Illinois


INTERAZIONI TRA SISTEMA ENDOCRINO E NERVOSO Senza figli per lo stress Attraverso l'ipotalamo e l'ipofisi, qualsiasi tipo di logorio psicofisico può ripercuotersi sull'equilibrio ormonale dell'intero organismo, in particolare sulla funzione riproduttiva
Autore: LIMONE PAOLO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA, PSICOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 004

ANCHE chi non è medico sa che le donne sottoposte a stress soffrono spesso di alterazioni del ciclo mestruale. I meccanismi sono stati chiariti soltanto in parte. Per comprenderli meglio, bisogna considerare che un organismo sottoposto a stress mette in atto dei meccanismi di adattamento per aumentare lo stato di vigilanza e migliorare la capacità di reazione. In questo modo le risorse vengono concentrate nella risposta alla situazione stressante, anche a discapito di funzioni non ritenute fondamentali per la sopravvivenza. Ad esempio, quella riproduttiva. Un ruolo chiave nella risposta allo stress è svolto dal cervello, in particolare dall'ipotalamo. Qui, attraverso fasci nervosi, vengono convogliati gli stimoli provenienti dall'ambiente esterno e percepiti da altre aree del cervello (soprattutto dalla corteccia). L'ipotalamo li integra traducendoli in segnali ormonali che regolano l'attività dell'ipofisi, ghiandola importantissima in quanto sovrintende all'attività di varie altre ghiandole endocrine (tra le quali testicolo e ovaio). Attraverso l'ipotalamo e l'ipofisi, qualsiasi tipo di stress psicofisico può quindi ripercuotersi sull'equilibrio ormonale dell'intero organismo. Una delle prime conseguenze è l'attivazione delle ghiandole surrenali. L'ipotalamo produce infatti una sostanza, chiamata corticotropin-releasing hormone (CRH), che ha il compito di stimolare l'ipofisi a secernere ACTH, cioè l'ormone che induce le ghiandole surrenali a produrre maggiori quantità di cortisolo, altro ormone che migliora la reattività allo stress. Il CRH agisce contemporaneamente anche su altri gruppi di cellule dell'ipotalamo che producono una molecola appartenente alla famiglia degli oppioidi endogeni, naturalmente presenti nell'organismo e così chiamati in quanto esercitano effetti, come la sedazione del dolore, simili alla morfina. Sempre attraverso l'ipotalamo e l'ipofisi, questa molecola ha la capacità di inibire la funzione ovarica con conseguenti irregolarità del ciclo mestruale, fino all'amenorrea (cioè alla prolungata assenza di flussi mestruali) e all'infertilità. In queste interazioni tra sistema nervoso ed endocrino trovano spiegazione i disordini mestruali delle atlete sottoposte a intensi allenamenti e frequenti competizioni o, più in generale, delle donne sottoposte a importanti stress psico-fisici. I meccanismi di questa reazione sono senz'altro più complessi di quanto finora delineato, ma sembra importante sottolineare come le risposte dell'organismo agli eventi stressanti si riflettano contemporaneamente su vari organi e apparati con un regolatore comune. In questi fenomeni l'ipotalamo gioca un ruolo centrale in qualità di integratore di impulsi nervosi e dell'attività delle ghiandole endocrine. Questo spiega perché l'attivazione di un asse neuro-endocrino (cioè quello ipotalamo-ipofiso-surrenalico) determini contemporaneamente l'inibizione dell'altro (ipotalamo-ipofiso-ovarico), con pesanti conseguenze sulla funzione riproduttiva. Paolo Limone Università di Torino


IL DISABILE IN CLASSE E l'insegnante confida nel computer Ampia scelta di programmi, per imparare secondo i propri modi e tempi
Autore: GIORCELLI ROSALBA

ARGOMENTI: DIDATTICA, HANDICAP, INFORMATICA, SCUOLA
ORGANIZZAZIONI: CNR, SIVA, ASPHI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 004

QUANDO entra in classe è una festa: il personal computer è il compagno di banco preferito di tanti ragazzini, soprattutto dei disabili. E' «intelligente», «buono», non prende in giro, anzi aiuta a studiare e imparare. Se poi è anche «bravo», cioè attrezzato, allora sa parlare a chi non vede, o permette di scrivere anche a chi non riesce a muovere le dita sulla tastiera. Spesso con il computer si impara giocando, e poco male se qualche volta è lui a dare i voti. E il maestro, il professore? Non servono più? L'uso del computer a scuola dovrebbe trovare una giustificazione all'interno del corso di studi, quindi l'insegnante ha la fondamentale funzione di preparare l'esperienza, favorire la collaborazione tra gli studenti, valutare i risultati, controllare che vengano rispettati i tempi e i modi di apprendimento di ognuno. E' questa una delle conclusioni di «Informatica, didattica e disabilità», un convegno che si è svolto di recente a Torino, nel quale si è sottolineato come le nuove tecnologie stiano trasformando i ruoli tradizionali dell'insegnante e dell'alunno. La graduale scomparsa delle scuole speciali pone gli insegnanti di fronte al problema di come trattare l'handicap nelle classi normali, e il computer a qualcuno sembra un'ancora di salvezza, una guida certa verso l'integrazione. Ma si tratta di uno strumento tra i tanti, e se la sua introduzione non viene preceduta da un'analisi delle difficoltà educative e dall'individuazione di obiettivi reali, l'innovazione può risolversi in un fallimento. Preziosi punti di riferimento e consulenza per gli insegnanti possono essere i gruppi H dei provveditorati agli studi e i vari centri di documentazione sull'handicap. Comandi e voce, apparecchiature o protesi rendono accessibile il computer a persone con qualunque tipo di handicap fisico. Molti ragazzi disabili grazie al computer hanno imparato una professione: tra gli ultimi esempi, il corso sperimentale di introduzione all'informatica per 10 ragazzi Down tra i 17 e i 25 anni, organizzato dall'Associazione Bambini Down e dall'Italsiel. La centralità dell'immagine, sempre più marcata nelle ultime realizzazioni, penalizza però chi ha difficoltà visive: per questo si auspica il perfezionamento di schermi «tattili». Gli «scanner», che collegati a un computer e a una stampante Braille consentono di memorizzare intere pagine di libri, leggerle con voce sintetica o stamparle in caratteri Braille, non risolvono il cronico problema della carenza dei testi scolastici in Braille: infatti i libri di testo in uso hanno un'impronta grafica giocata tutta sull'immagine e sul colore, quindi una semplice trascrizione in Braille è impossibile o inutile. La scelta di programmi didattici è vasta. Il Centro di documentazione Informatica ed Handicap dell'Associazione Area di Torino pubblica un catalogo di software giudicato positivamente e reperibile presso il laboratorio informatico (dove tra l'altro alcuni bambini sordi hanno inventato delle «fiabe elettroniche»). L'Istituto per le tecnologie didattiche del Cnr di Genova, la banca dati Siva di Milano, l'Asphi di Bologna sono altre miniere di informazione. I programmi di questi cataloghi possono essere utilizzati da tutti gli alunni: sono diversi i tempi e le modalità di apprendimento, ma le materie trattate sono comuni (italiano, lingue straniere, matematica, geometria, geografia). Accanto a questo software, si trovano poi programmi e apparecchiature specifiche messe a punto per i bimbi sordi. Grande interesse stanno suscitando le applicazioni multimediali didattiche, dove il bambino è libero di scegliere un percorso di apprendimento-divertimento sentendosi addirittura un piccolo esploratore: è il caso de «Gli animali della savana» realizzato dall'Istituto di Psicologia del Cnr di Roma con un riguardo particolare per gli utenti sordi: l'informazione è infatti presentata attraverso filmati, disegni, testi scritti, parlati o «segnati» in Lingua dei Segni Italiana. Disponibile su personal computer, utilizzato nella didattica per disabili motori gravi, il linguaggio simbolico di comunicazione alternativa «Bliss» (Aica, Milano), ora è sperimentato anche in applicazioni industriali. Si chiama «didattica estrema» la teledidattica o didattica a distanza per studenti disabili motori gravi, che possono così seguire le lezioni da casa. A questo proposito è in fase di sviluppo il progetto Record del Consorzio Università Distanza; altre sperimentazioni per studenti normali potrebbero essere estese ad alunni con handicap (Progetto Finalizzato Telecomunicazioni del Cnr, Genova). Un altro progetto di teledidattica interesserà l'Ospedale Silvestrini di Perugia, con un collegamento audio-video tra stanze sterili, aula scolastica e insegnante all'esterno. Anche la Comunità Europea si sta occupando dell'accesso dei disabili alle applicazioni telematiche con i progetti Race R1066, Race R2009 e Tide 103; l'obiettivo è standardizzare a livello europeo le soluzioni tecniche e industriali. Rosalba Giorcelli




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