TUTTOSCIENZE 29 settembre 93


PREVISIONI SCIENTIFICHE Il futuro, sette milioni di anni Ipotesi sul destino della specie umana
Autore: FERRARI ATTILIO

ARGOMENTI: DEMOGRAFIA E STATISTICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: G. Evoluzione della specie umana. Fine dell' uomo
NOTE: 049

ISAAC Asimov nella serie dei suoi romanzi di fantascienza sulla «Fondazione» (è da poco uscito postumo l' ultimo volume) ha immaginato che tecniche di analisi statistica applicate alla storia possano consentire alla nostra civiltà di giungere nel futuro a prevedere e programmare il proprio destino; e ha battezzato «psicostoriografia» questa ipotetica nuova scienza. Sarà realizzabile un sogno come quello di Asimov? La scienza parla oggi con molta disinvoltura (spesso anche sicumera) dell' evoluzione dell' Universo fisico, dall' origine al futuro lontano. Ma che dice del futuro della civiltà umana? Si può trovare un valido metodo di analisi della questione? In genere nella scienza si applica il metodo sperimentale galileiano, basato sull' osservazione quantitativa dei fenomeni naturali, che permette poi la formulazione di modelli interpretativi, dai quali si ricavano previsioni da verificare successivamente. Purtroppo però la sperimentazione diretta è impossibile in cosmologia: solo Dio può divertirsi a fare Universi. Noi dobbiamo accontentarci di vedere una piccola parte del nostro e per un tempo molto breve rispetto alla sua età abbiamo dati su qualche centinaio di milioni di anni luce per un tempo di qualche centinaio di milioni di anni, rispetto a un universo che stimiamo invece estendersi per decine di miliardi di anni luce e con un' età stimabile in venti miliardi di anni. In pratica è come ricostruire la vita dei nostri nonni e bisnonni da una fotografia della famiglia. Nella fotografia vediamo noi stessi, i nostri genitori più vecchi, i nonni e i bisnonni ancora più vecchi: e dal confronto si indovina l' evoluzione umana e quel che ci aspetta nel futuro. Naturalmente non possiamo fondare le nostre ipotesi soltanto sul caso della nostra sola famiglia: è necessario controllare la nostra ipotesi su altre famiglie e su altre fotografie. E' questo un metodo scientifico statistico, usato molto spesso quando le informazioni su un fenomeno non possano essere dirette. Ed è con questo metodo che studiamo l' universo e la cosmologia. Ciò che ci ha rivelato finora questo studio è che noi viviamo sulla Terra in un momento della sua evoluzione che non è per nulla particolare; la Terra si trova in un sistema solare qualunque in un angolo di una qualunque galassia in una fase di vita per nulla speciale; la galassia sta in un ammasso di galassie qualunque in un angolo remoto di un universo omogeneo; forse il nostro stesso universo è un universo qualunque tra quelli esistenti, passati e futuri. Dall' antropocentrismo più orgoglioso Copernico ci ha portati al massimo della modestia. Se il principio copernicano vale per l' universo fisico, perché non pensare che valga anche per la specie umana? Questo è anche il suggerimento della teoria di Darwin: la nostra specie non sembra per nulla privilegiata, dal punto di vista evolutivo, rispetto alle altre, ne rappresenta solo la componente oggi più avanzata avendo raggiunto l' autocoscienza. Ecco dunque un possibile principio metodologico su cui basarsi per estrapolare il nostro futuro. Alcuni futurologi, come Freeman Dyson e Richard Gott di Princeton, hanno provato ad applicarlo con risultati piuttosto sconcertanti. Si può partire notando che il fatto stesso che abbiamo tempo per parlare della nostra civiltà indica che siamo in una fase tranquilla e di lunga durata della nostra evoluzione: per contro le fasi di cambiamento sono necessariamente rapide. Ebbene, accettare che viviamo in un «momento non speciale» della nostra evoluzione comporta che la durata del nostro passato non può essere molto diversa da quella del nostro futuro. Più precisamente: applicando i metodi della matematica statistica e ammettendo di essere «osservatori non speciali», si calcola che la durata del nostro futuro ha una probabilità del 95 per cento di essere compresa tra 1/39 e 39 volte la durata del nostro passato. Poiché l' Homo sapiens è sulla Terra da circa 200 mila anni, si ricava che potrà sopravvivervi per una durata compresa tra i 5 mila e i 7 milioni di anni. Molte altre specie, oggi scomparse, hanno avuto durate complessive comprese in questo intervallo: quindi forse la nostra considerazione non è così azzardata. In ogni caso, non saremo sulla Terra per un tempo infinito: non c' è modo di sfuggire a tale conclusione, se si adotta il metodo copernicano statistico. Per allungare la nostra durata avremmo dovuto avere un passato più lungo rispetto all' età dell' universo. L' argomento statistico permette anche di calcolare quanti esseri umani potranno ancora nascere nel futuro. Stimando che fino ad oggi siano nati 70 miliardi di uomini, nel futuro ne nasceranno ancora un numero compreso tra 2 miliardi e 3 trilioni. Poiché al ritmo attuale nascono circa 2 miliardi di esseri umani ogni 15 anni, è probabile che il numero sia prossimo ai trilioni, altrimenti la civiltà finirebbe nei prossimi 15 anni. Vari scenari sono stati immaginati dai futurologi, assumendo che la Terra non possa sostenere una popolazione di molto superiore ai 20 miliardi: 1) le nascite continueranno al ritmo attuale, raggiungendo una popolazione di una decina di miliardi entro il prossimo secolo, e poi crolleranno riducendo la durata della nostra specie a un periodo brevissimo; 2) le nascite avranno un ritmo elevato per un secolo fino a raggiungere i 10 miliardi e poi le condizioni di vita decadranno fino a ridurci a poche centinaia di migliaia di essere umani che sopravviveranno alla bell' e meglio per qualche milione di anni; 3) la popolazione umana si manterrà sul livello del miliardo per i prossimi 4 milioni di anni. Di queste tre possibilità, solo le prime due rientrano nei limiti statistici; infatti, per una lunghezza media della vita intorno ai 100 anni, la terza porterebbe a un totale di nascite di oltre 40 trilioni, al di fuori del nostro limite statistico. Non solo la nostra civiltà non sarà infinita, ma il suo periodo fiorente non potrà durare più di qualche secolo. L' alternativa è rinunciare al principio copernicano; ma è veramente produttiva? Due strade sono possibili, in linea di principio: 1) ammettere che noi viviamo in una fase «speciale» e perciò improbabile della nostra evoluzione (il 5 per cento rimanente oltre il 95 per cento) per cui il futuro può essere enormemente più lungo del passato, oppure 2) ammettere che la nostra specie possa nel futuro estendere la durata della vita enormemente oltre i 100 anni così da rallentare il proprio declino. Ho usato la parola «enormemente» di proposito: vuol dire aumentare quei valori di miliardi di volte. Il primo caso è sperimentabile: se siamo veramente in una fase speciale dell' evoluzione, ce ne accorgeremo nel corso della nostra generazione, perché entreremo nella fase non speciale molto presto Il secondo caso richiede la transizione verso una «superciviltà » che lasci la Terra e colonizzi la Galassia, ibernandosi per lunghi tempi e abbassando progressivamente il proprio ritmo vitale con il raffreddarsi dell' Universo in espansione. Con lo stesso argomento statistico già usato, si calcola che i voli spaziali, iniziati 30 anni fa circa, potranno caratterizzare la nostra civiltà solo per altri 1000 anni al massimo. Entro quel tempo dovremo muoverci dalla Terra in modo da formare la superciviltà intorno ad altre stelle o in stazioni spaziali. Ne saremo capaci? Certamente, ma il principio copernicano ci dice che già siamo nella fase di evoluzione non speciale. I 1000 anni rappresentano il tempo massimo entro cui addirittura perderemo la capacità di fare voli spaziali: quindi è improbabile che riusciremo a conquistare lo spazio, perché non ne avremo il tempo nè la spinta evolutiva. Altre civiltà sono però possibili, in altre parti della Galassia: si stima, sulla base del numero di possibili pianeti abitabili e del tempo richiesto perché la vita raggiunga il livello di autocoscienza, che una nuova civiltà nasca ogni 100 anni. Al momento dovrebbero essercene un centinaio nella nostra galassia in grado di mandarci segnali radio, e il programma Seti le sta cercando, in effetti con ben poche speranze perché solo pochissime sarebbero abbastanza vicine da essere ascoltate. Forse qualcuna di quelle specie autocoscienti ha già raggiunto o raggiungerà lo stadio di superciviltà. L' universo sarà forse popolato per sempre di civiltà intelligenti, ma non appare molto probabile, sulla base degli attuali dati statistici, che la nostra sia una di quelle. Ho detto «probabile»: questo è stato l' elemento base del nostro gioco. Da Copernico a Darwin abbiamo imparato a considerarci una specie molto comune e «prevedibile», che cioè rientra nella media statistica, e da ciò abbiamo derivato queste poche previsioni. Certo siamo ancora ben lontani dalla psicostoriografia di Asimov, ma stiamo fondando in qualche modo una nuova scienza. Un ultimo punto. Nel quadro tracciato da Dyson e Gott non è incluso lo spirito in senso religioso: forse questo è un elemento che ci rende differenti da altre civiltà e può farci uscire dalla media. Ma non abbiamo ancora ragioni per affermarlo. Attilio Ferrari Università di Torino


TRA UN MILIARDO DI ANNI Morte calda per gli ultimi viventi Un Sole in espansione brucerà piante e animali
Autore: CARRADA GIOVANNI

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, DEMOGRAFIA E STATISTICA
NOMI: ASIMOV ISAAC, CALDEIRA KEN, KASTING JAMES, LOVELOCK JAMES
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 049. Fine dell' umanita, del mondo, dell' uomo

LA vita sulla Terra durerà ancora un miliardo di anni, più o meno Un miliardo e mezzo nell' ipotesi più ottimistica, 900 milioni in quella peggiore. Dipende da chi sarà a dare il colpo di grazia alla biosfera, se la temperatura, diventata troppo alta, oppure la scarsità di anidride carbonica, fatale per le piante. Morirà comunque per opera del Sole, la cui radiazione, ci dicono i modelli dell' evoluzione stellare, sta aumentando dell' uno per cento ogni cento milioni di anni. Questa stima dell' età massima della biosfera è fornita da un modello matematico messo a punto da James Kasting e Ken Caldeira, della Pennsylvania State University, due tra i nomi più noti di quella che negli Stati Uniti chiamano «Earth System Science». E' la scienza appena nata, figlia delle preoccupazioni per la salute del pianeta che cerca di scoprire quali invisibili fili uniscono il nostro pianeta e le sue forme viventi. Al momento della comparsa della vita, circa tre miliardi e mezzo di anni fa, l' irradiazione solare era ancora così debole (poco più di due terzi di quella attuale) che tutta l' acqua presente sul pianeta avrebbe dovuto essere ghiacciata. Se la composizione dell' atmosfera fosse stata quella di oggi, naturalmente. E sarebbe rimasta ghiacciata per almeno un altro miliardo e mezzo di anni. Se le cose non sono andate in questo modo è perché allora l' atmosfera conteneva molta più anidride carbonica di quanta ne contenga oggi, e per effetto serra la temperatura si mantenne abbastanza alta da permettere la comparsa e lo sviluppo della vita. Il fatto più straordinario della storia della Terra è che a mano a mano che l' irradiazione solare è aumentata d' intensità, è diminuita l' anidride carbonica dell' atmosfera, e così l' effetto serra da essa provocato. Ma non è stata fortuna. Secondo Kasting e Caldeira il merito va a un meccanismo di regolazione sensibile alla temperatura basato sul ciclo dei carbonati e dei silicati tra continenti, organismi marini e oceani attraverso i fiumi e l' atmosfera. James Lovelock, padre della famosa teoria di Gaia, è invece convinto che il merito sia delle piante. Sarebbero state loro a sottrarre anidride carbonica all' atmosfera con la fotosintesi, in un gioco di coevoluzione di dimensioni planetarie che ha saputo mantenere la temperatura terrestre nei ristretti limiti tollerabili dagli organismi viventi. Comunque siano andate, anzi vadano le cose, a un certo punto il «superorganismo» Terra non ce la farà più a sostenere il confronto con il Sole. Le piante sono le prime a risentire della scarsità di anidride carbonica. Già 100 milioni di anni fa sono comparse le prime piante con un meccanismo fotosintetico che si accontenta di meno anidride carbonica, il cosiddetto C4. La più famosa è il mais. L' aumento dell' anidride carbonica provocato dall' uomo, che tanto ci preoccupa oggi, non è che un incidente trascurabile nella storia del pianeta. In futuro la Terra si riscalderà sempre più rapidamente, poi perderà l' acqua per fotodissociazione, e l' idrogeno così formato sfuggirà nello spazio. Sarà la fine di tutto. Un miliardo di anni fa non esistevano neppure gli organismi pluricellulari, e tra un miliardo di anni, chissà che strade avrà preso l' evoluzione. Per noi uomini, che sulla Terra siamo gli ultimi arrivati, è un' eternità. Una guerra nucleare o lo scontro con un asteroide possono sembrarci scenari molto più realistici per l' estinzione della nostra specie. Qualcuno però non mancherà di notare qualcosa. Che la finestra di opportunità offerta dal Sole per l' evoluzione di un organismo intelligente nell' unico caso che ci è dato di conoscere è così stretta che sembra quasi fatta apposta. E ci vedrà una nuova conferma del «principio antropico», la convinzione espressa dall' astronomo inglese Barrow secondo il quale l' universo è troppo ben congegnato in funzione dell' Homo sapiens perché la nostra esistenza sia puro frutto del caso. Giovanni Carrada


MORBO DI ALZHEIMER Test tacrina Gli Stati Uniti autorizzano la vendita del farmaco Non fa miracoli, ma migliora i livelli d' attenzione
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 050

LA buona notizia è comparsa, come al solito, non su una rivista medica ma sul Wall Street Journal, determinando un repentino aumento di due dollari per azione sul New York Stock Exchange a favore della ditta americana che porrà sul mercato, a partire da metà settembre, la prima medicina approvata dal severissimo organo regolatore, l' Fda (Food and Drug Administration) per il trattamento clinico della malattia d' Alzheimer. E' una notizia importante per gli oltre quattro milioni di pazienti affetti dalla più frequente forma di demenza senile e per i dieci milioni di familiari che li curano con grande spesa di energia fisica e psichica. Il governo americano ha concesso questo permesso dopo che il preparato è stato provato sperimentalmente in oltre tremila pazienti e per un periodo di oltre un anno. La motivazione dice che «la tacrina dimostra per la prima volta di possedere un' azione terapeutica piccola ma di rilievo clinico per diversi pazienti affetti dalla forma lieve o moderata di Alzheimer». In pratica questo significa che almeno un terzo dei pazienti afflitti da questo male ne riceverà un piccolo beneficio e nel 15 per cento tale beneficio sarà visibile e importante. Questo effetto si può tradurre in una maggiore igiene della persona, un aumento dell' attenzione tale da poter vedere la televisione per qualche ora o il riconoscimento dei famigliari. L' Fda e gli specialisti vogliono sottolineare che non si tratta di una vera terapia curativa della malattia, ma solo del primo effetto positivo constatato sulla malattia, che produce qualche sollievo per il paziente e i suoi famigliari. Estrema cautela, quindi, nel valutare l' effetto della tacrina (tetraaminoacridina) per non infondere speranze che verrebbero poi deluse. Un neuropsicologo, ha detto che la tacrina permetterà ad alcuni pazienti «di fare un giro dell' isolato senza perdersi». La tacrina appartiene a quel gruppo di sostanze chimiche che portano il nome di inibitori della colinesterasi, un enzima molto importante per il cervello umano. Si tratta di regolare la vita, cioè la durata dell' effetto a livello delle cellule nervose della corteccia cerebrale di una sostanza chiamata acetilcolina, segnale chimico essenziale per le funzioni cognitive e la memoria. Nel cervello dei pazienti affetti da Alzheimer la acetilcolina è in difetto. La tacrina non fa che prolungarne la vita, cioè l' effetto benefico della poca acetilcolina rimasta, impedendone l' inattivazione da parte dell' enzima colinesterasi. Risultato: un miglioramento della memoria nell' animale da esperimento e anche, sia pure in misura minore, nel paziente. Purtroppo la tacrina non è priva di effetti collaterali, il più serio dei quali è la tossicità epatica. Questo guaio ne limita l' uso (un terzo circa dei pazienti deve sospenderlo dopo pochi giorni) e ha di fatto aumentato l' esitazione da parte del Fda nel metterla in commercio. E' necessario quindi seguire accurati controlli ed esami del sangue periodici. La dose può esser ridotta a seconda dei casi, ovviamente con il rischio di ridurne anche l' effetto. La terapia va continuata per anni ed è sempre costosa. Il prezzo fissato in Usa a tre dollari circa (5000 lire) per compressa Ezio Giacobini Università del Sud Illinois


CONVEGNO A TORINO Per diagnosi più precise I nuovi strumenti forniti dalle biotecnologie
Autore: RICCARDINO NICOLA, BRACCO GUGLIELMO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA, CONGRESSO
LUOGHI: ITALIA, TORINO
NOTE: 050. Biotecnologia

IL trasferimento dalla ricerca alla pratica quotidiana di recenti conquiste della biotecnologia ha ampliato le possibilità diagnostiche dei laboratori di analisi, interessando numerosi settori della medicina: dalle malattie ereditarie alle patologie da infezione virale, dalle malattie endocrine a quelle tumorali. Le principali novità biotecnologiche che hanno contribuito a questo sviluppo sono la disponibilità di anticorpi monoclonali e l' applicazione alla diagnostica delle tecnologie del Dna ricombinante Il laboratorio ha sempre usato come reagenti sieri che contengono proteine, detti «anticorpi», che riconoscono specificamente un composto detto «antigene». Iniettando nell' animale l' «antigene» che si intende analizzare, se ne ottiene un siero immune (antisiero ) che contiene anticorpi contro l' antigene iniettato. Gli antisieri sono usati in laboratorio per evidenziare la presenza o assenza di un dato composto o per dosarne la concentrazione. Ad esempio, tutti i dosaggi quantitativi delle varie proteine plasmatiche (immunoglobuline, proteine della fase acuta), degli ormoni circolanti (insulina, gonadotropina corionica, ormoni tiroidei) e il riconoscimento di antigeni microbici e virali (salmonelle, virus dell' epatite) sono legati tuttora all' uso di questi «antisieri». La limitata specificità e soprattutto la pratica impossibilità di ottenere reagenti contro qualunque tipo di antigene hanno rappresentato un limite grave. La scoperta della tecnologia degli anticorpi monoclonali da parte di Milstein e Kohler ha consentito di superare queste barriere. Oggi è possibile ottenere quantità illimitate di anticorpi ad alta specificità diretti contro le proteine plasmatiche. Ma il contributo più affascinante di questa tecnologia è stato quello di consentire l' identificazione di proteine sino a quel momento ignote. I settori che ne hanno tratto più vantaggio sono stati: l' oncologia, attraverso l' identificazione di proteine tipiche di cellule neoplastiche (i marcatori tumorali) e la possibilità di monitorare le loro variazioni nel corso della terapia specifica; l' endocrinologia, che ha visto ampliare le possibilità diagnostiche mediante dosaggi ormonali; la microbiologia e la virologia, grazie al riconoscimento di antigeni microbici o virali in varie patologie umane. L' altra importante acquisizione diagnostica deriva dall' applicazione in laboratorio delle metodiche molecolari che consentono lo studio del Dna. Il primo impatto è stato sulle malattie ereditarie. Per molto tempo queste malattie sono state diagnosticate mediante l' analisi qualitativa e quantitativa della proteina anomala oppure mediante lo studio di un prodotto presente in quantità abnorme in quanto non metabolizzato dall' enzima deficitario. Appartengono alla prima categoria le emoglobinopatie, sia da difetto qualitativo, come l' anemia falciforme, sia da difetto quantitativo, come la più comune anemia mediterranea o talassemia; alla seconda la fenilchetonuria, caratterizzata dall' accumulo della fenilalanina plasmatica secondaria al deficit di un enzima, la fenilalanina idrossilasi. Anzi è proprio questo accumulo di fenilalanina a consentire la diagnosi neonatale di questa malattia che, se non diagnosticata e opportunamente curata per via dietetica, porta a una gravissima forma di ritardo mentale. Oggi la genetica molecolare è in grado, in molte malattie ereditarie, di isolare e «clonare» il segmento di Dna ( «gene» ) che, quando alterato ( «mutato» ), è responsabile o della mancata produzione di una specifica proteina o della sintesi di una proteina anomala. E' il caso delle talassemie, della fibrosi cistica, della distrofia muscolare di Duchenne, della fenilchetonuria, dell' emofilia. Questo elenco comprende oggi un numero notevole di patologie. Le nuove tecnologie applicate alla diagnostica, associate a fini tecnologie di laboratorio che permettono l' amplificazione di brevi tratti del Dna, permettono l' identificazione e caratterizzazione della mutazione, la diagnosi dei soggetti portatori sani, la diagnosi preclinica nelle malattie a comparsa tardiva e la diagnosi prenatale. Le tecnologie del Dna si usano anche nella diagnostica dei tumori mediante l' analisi molecolare di geni, gli «oncogeni», che nei tessuti tumorali subiscono mutazioni responsabili della trasformazione neoplastica. Un altro settore diagnostico che ha utilizzato queste tecnologie è quello delle patologie da microbi e da virus. Oggi sono disponibili «sonde molecolari» che consentono di riconoscere in diversi materiali biologici la presenza dell' agente microbico o virale responsabile della patologia infettiva. E' il caso delle epatiti dovute a vari tipi di virus o dell' infezione da Hiv. Di questi temi, e di numerosi altri di pari interesse per la medicina (calcolosi renale, trapianti, allergologia, marcatori tumorali, oncogeni), stanno parlando in questi giorni a Torino Esposizioni nel 25 Congresso nazionale delle Società italiana di Biochimica clinica, gli esperti che, nei laboratori di ricerca o in quelli ospedalieri, applicano quotidianamente i nuovi metodi analitici per contribuire all' identificazione di molte malattie fino a ieri di difficile diagnosi. Nicola Riccardino Guglielmo Bracco


LABORATORIO L' università come azienda Perché non privatizzare gli Istituti, a cominciare dalle facoltà scientifiche? Abolire i concorsi nazionali, assumere in base al merito scientifico e didattico
Autore: MARCHISIO PIER CARLO

ARGOMENTI: DIDATTICA, UNIVERSITA', SCIENZA
NOMI: PERA MARCELLO, COLOMBO UMBERTO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 050

QUAL è la differenza tra un' azienda e un' università ? Poca se consideriamo le due strutture come organi per la produzione di beni Da una parte le aziende che producono beni strumentali o servizi, dall' altra le università che producono beni intellettuali e addestrano giovani ad arti e professioni. Così le due strutture non differiscono molto: entrambe vanno valutate per la qualità dei loro prodotti e per il successo che questi incontrano sul mercato. Molti tuttavia negano che l' università sia omologabile a un centro di produzione di beni ma piuttosto la vedono come un' istituzione simile alla magistratura o alle forze armate. In questo quadro si può collocare anche il dibattito aperto da Marcello Pera su «La Stampa», seguito dall' intervento del ministro per l' Università e la ricerca Umberto Colombo. Di aziende e università ne esistono di due tipi: pubbliche e private. Le aziende private sono tenute a produrre reddito superiore alle spese fatte per produrlo e agli interessi dei capitali impegnati. Se l' azienda privata non rende, fallisce e chiude. Se guadagna, reinveste una parte dei suoi profitti in ulteriori espansioni. Non così capita per le aziende pubbliche sostenute dai contribuenti, che spesso si permettono pesanti passivi. Le conseguenze della cattiva gestione, a volte rese più pesanti da ingerenze estranee alla produttività aziendale, si ripercuotono sulle finanze dello Stato con gli effetti a tutti noti Che cosa dire dell' università ? Cominciamo da quella pubblica e trattiamola come se fosse un' azienda. Per ragioni di competenza mi riferirò alle discipline medico biologiche, ma probabilmente le considerazioni valgono anche per altri campi. L' università è sede di insegnamento e di ricerca: pertanto gli addetti sono tenuti a fare, almeno in egual misura, l' uno e l' altra. La produttività dell' insegnamento dell' università pubblica è notoriamente modesta: una quota troppo piccola di studenti raggiunge e comunque esce con una preparazione professionale così lacunosa da trovare difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro. La produttività della ricerca scientifica è, se possibile, ancora peggiore, pur con qualche notevole eccezione. Dati della Comunità Europea dicono che l' Italia è in coda per quanto riguarda l' investimento pubblico nella ricerca ed è Paese poco gradito ai laureati europei per compiere addestramento post laurea. Al contrario, i laureati italiani vanno in massa altrove per ricevere quel tipo di addestramento che qui non riescono ad avere e spesso, purtroppo, vi si fermano. Il bilancio dell' università pubblica è quindi vicino al fallimento e, se fosse un' azienda, l' avrebbe già raggiunto, visto che svende i suoi prodotti migliori senza nulla avere in cambio. Ma, dai più è considerata un' istituzione e quindi sopravvive senza stimoli producendo tecnici modesti, spesso destinati a rimanere disoccupati. Di università aziende private, ne esistono poche in Italia. In genere funzionano meglio e godono di buona fama. Della scarsa efficienza dell' università si parla da molto tempo. Provvedimenti per garantire maggiore autonomia alle università sono in corso di attuazione o in forma di proposte ma rischiano di subire ritardi anche per resistenze interne alla struttura universitaria. Mi chiedo se non sia il caso di privatizzare l' università, esattamente come si sta facendo per le altre aziende statali, a cominciare dalle facoltà scientifiche che producono anche conoscenze tecnologiche. Quali vantaggi si avrebbero e quali sarebbero i punti cruciali di intervento? Per prima cosa si dovrebbe intervenire sul reclutamento del personale. In un' azienda privata assumere personale inefficiente e improduttivo porta al fallimento. Nell' università privata, quindi più nessun concorso nazionale ma assunzioni sulla base del merito didattico e scientifico di candidati valutati da apposite commissioni responsabili su base locale. E' chiaro che se l' università azienda deve produrre conoscenza, i suoi dirigenti devono essere direttamente responsabili della cooptazione di colleghi validi e produttivi. Maggiore sarà il livello dell' università, più alta sarà la qualità dei suoi docenti e dei suoi ricercatori. Al pari crescerà il livello degli studenti educati in un ambiente di alto livello scientifico e, alla laurea, essi saranno preparati per essere competitivi sul mercato del lavoro. Questo tipo di selezione ha aspetti positivi ma presenta qualche pericolo. Se verrà meno l' abitudine dell' università pubblica di assumere docenti privi di produzione scientifica e di modesto profilo didattico, la responsabilità del progresso ricadrà interamente sui dirigenti dell' università azienda scelti per competenza e onestà. I migliori docenti ovviamente andranno alle sedi più competitive, divaricando ancora il livello di qualità delle università italiane già oggi molto variabile. Così funziona il sistema anglosassone, figlio naturale di una tradizione scientifica che ci manca per ragioni storiche. Morirà il sogno ottocentesco di un' università nazionale omogenea per ideali e per scelte, già morta per la corruzione di un sistema privo di senso dello Stato. Se una riforma non è attuabile, pensiamo almeno a centri capaci di trainare lo sviluppo della cultura scientifica del paese. Pier Carlo Marchisio Università di Torino


UN PARADOSSO ALIMENTARE Ma chi l' ha detto che il formaggio accorcia la vita? I francesi, pur eccedendo in grassi, sono assai longevi: il merito è probabilmente del calcio
Autore: CALABRESE GIORGIO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, MEDICINA E FISIOLOGIA, DEMOGRAFIA E STATISTICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 050

I francesi, ma anche gli italiani, vivono più a lungo di altri popoli e questo fenomeno è stato definito il «paradosso francese» La statistica mondiale ha accertato che essi soffrono e muoiono meno di malattie cardiovascolari. Si parla di «paradosso» perché questo popolo mangia molti grassi saturi, quelli definiti «cattivi» dai medici, derivanti in special modo da carne e formaggi. Inoltre beve molto vino e consuma molti vegetali. In questo i francesi assomigliano a noi italiani, che siamo altrettanto ben piazzati nella classifica mondiale della longevità. Si ha una vita più lunga, perché non tutti i grassi che introduciamo vengono assorbiti e contemporaneamente introduciamo una giusta dose di calcio che permette al nostro organismo di difendersi dagli attacchi alle arterie da parte dei lipidi, appunto. La chiave di tutto starebbe nella presenza positiva di saponi di calcio nell' intestino e quindi nelle feci. Questi saponi limitano notevolmente l' assorbimento degli acidi grassi saturi, soprattutto dei formaggi e del latte. Questi saponi insolubili calcici si formano dalle interazioni tra acidi grassi saturi e calcio. Il professore L. Gueguen, in un lavoro pubblicato sulla rivista francese «Cahiers Nutr. Dietet. », ha spiegato come la presenza di grassi nel latte e nei suoi derivati non faccia diminuire la giusta presenza nell' organismo, del calcio Ma come può il calcio del formaggio inibire da una parte l' assorbimento degli acidi grassi saturi, e non subire contemporaneamente una riduzione della sua biodisponibilità ? Gli acidi grassi e il calcio assieme formano, nell' intestino tenue, dei saponi calcici che sono poi eliminati con le feci. Non tutto il calcio che introduciamo coi formaggi però viene assorbito e assimilato. Infatti, quando il formaggio arriva nello stomaco deve subire l' attacco dei succhi gastrici molto acidi, che scindono i saponi calcici in calcio e grassi. Questo dimostra che i saponi eliminati con le feci sono di natura diversa da quelli ingeriti col formaggio e che questi saponi si sono formati nell' intestino tenue grazie al suo ambiente basico, associando acidi grassi liberi con una quota di calcio che, in ogni caso, non sarebbe stata assorbita dall' intestino. Si è visto che l' elevata concentrazione di calcio, soprattutto nel latte e nei formaggi a grana dura, è in grado di ridurre l' assorbimento degli acidi grassi aterogeni, che si trovano legati ai trigliceridi nella posizione 1 e 3. L' intestino tenue dell' uomo è attraversato almeno da 500 mg di calcio non assorbito, a cui si aggiungono circa 150 mg di calcio endogeno. Questa quota, teoricamente, è sufficiente a insolubilizzare la totalità degli acidi grassi saturi a lunga catena introdotti con 100 gr di formaggio. Quindi si può affermare che la presenza biologica di calcio nell' organismo è buona e, tutto sommato, non è influenzata dai grassi, mentre al contrario il calcio alimentare può favorire l' escrezione fecale di acidi grassi saturi sotto forma di saponi insolubili. Tutto questo meccanismo biochimico comporta un sovvertimento scientifico delle teorie della mortalità precoce per malattie cardiovascolari dovute ad aterosclerosi, cioè a una malattia attribuibile alla eccessiva introduzione di grassi saturi. Giorgio Calabrese


MIGRAZIONI La rotta te la dò io! Aereo guida uno stormo di oche
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, AEREI
NOMI: LISHMAN WILLIAM
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 051

FARE l' istruttore di volo di uno stormo di uccelli migratori forse non è nelle aspettative di un pilota, ma d' ora in poi è probabile che ne debba tener conto chi vuole intraprendere questa carriera. Per lo meno negli Stati Uniti, dove si sta tentando di insegnare alle oche una nuova rotta di migrazione guidandole con un aereo. Il progetto è dell' Università John Hopkins di Baltimora: se riesce, si utilizzerà questa tecnica per riportare nei loro antichi habitat uccelli divenuti rari, nel tentativo di salvarli dall' estinzione. Ai primi di ottobre il pilota americano William Lishman guiderà, con un aereo ultraleggero un velivolo costruito con leghe speciali, di dimensioni ridotte, monoposto un gruppo di oche del Canada (Branta canadensis) su una nuova rotta migratoria, che dall' Ontario in Canada le porterà a svernare nella Virginia del Sud negli Stati Uniti. Le oche sono i soggetti ideali per un esperimento del genere, per diverse ragioni. Innanzitutto, è dagli adulti più esperti che i giovani imparano la rotta della migrazione, quando si trasferiscono dalla residenza estiva, dove sono nati, a quella invernale. D' estate, sotto le amorevoli cure di babbo e mamma oca, i nidiacei crescono e si coprono di penne finché , ormai pronti all' involo, vengono sottoposti a un intenso programma di allenamento da parte dei genitori. Terminato il corso alla fine dell' estate, la famiglia compatta migra verso il luogo dove passerà l' inverno. Seguendo gli adulti, i giovani apprendono tutti i dettagli della rotta. In secondo luogo, in uno stadio molto precoce dell' infanzia le oche possono adottare come genitori un individuo che non appartenga alla loro specie. Va bene anche un oggetto, purché sia dotato di movimento. E' il meccanismo dell' «imprinting» descritto da Konrad Lorenz, che suo malgrado fu adottato dall' ochetta Martina appena uscita dall' uovo. Novello Lorenz, il pilota americano William Lishman durante l' estate ha tentato di «imprintare» cinquanta ochette dell' Ontario sul suo aereo. Proponendosi come mamma oca, prendeva quota con le ochette al seguito, guidando la formazione in voli di allenamento progressivamente sempre più lunghi. Finché a ottobre questa insolita famiglia partirà per il viaggio che, con l' aereo in testa, terminerà al Centro di Airlie vicino a Washington D. C., in Virginia. Di qui, in primavera, riprenderà quota per fare ritorno in Canada. Ma solo una parte delle oche usufruirà del volo guidato Le altre dovranno arrangiarsi da sole senza l' aiuto della balia meccanica. Provviste di una radio trasmittente, saranno le oche a dare indicazioni sulla rotta: si vedrà così se sanno ritrovare il luogo da cui sono partite orientandosi sui ricordi del viaggio di andata o se, invece, hanno bisogno di una guida anche per quello di ritorno. Che ci arrivino con le proprie forze o guidate, dal prossimo autunno le oche dovrebbero fare la spola tra il Canada e il centro di Airlie in Virgina da sole, senza aiuti di sorta. In questo caso la nuova rotta si sarà fissata nella memoria di ogni individuo e potrà essere trasmessa da una generazione all' altra nei corsi di addestramento delle migrazioni. Non è la prima volta che si tenta di insegnare alle oche una nuova rotta migratoria. Negli Anni 80 gli svedesi avevano persuaso l' oca lombardella minore (Anser arythropus) a passare l' inverno sulle coste olandesi, anziché sul Mar Caspio e sul Mar Nero come era sua abitudine. Lungo la rotta tradizionale, che partiva dalle zone di nidificazione dell' estremo Nord della Scandinavia, la lombardella minore subiva pesanti perdite, probabilmente vittima delle doppiette dei cacciatori. Fecero da balia, in quell' occasione, alcune coppie di oca facciabianca (Branta leucopsis), che normalmente fanno la spola fra l' Olanda (sede invernale) e la Svezia meridionale (sede estiva). Trasferite di qui all' estremo Nord della Scandinavia, le balie allevarono nidiate di lombardelle (il trucco riuscì con la sostituzione delle uova). Quando i giovani furono pronti per il grande viaggio, i genitori adottivi li guidarono in Olanda. Da allora la nuova rotta, tramandata dai genitori ai figli, è entrata nei piani di volo delle ultime generazioni di lombardella. Mai prima d' ora, però, si era ricorsi a un aereo come istruttore di volo per stormi di oche. Per questo la balia meccanica suscita negli scienziati non pochi dubbi. E se le oche seguissero ogni velivolo che incontrano in volo, credendolo il proprio genitore? Non c' è problema, rispondono gli autori del progetto. Sono così attaccate a «quell' aereo» che cessano di andargli dietro quando se ne altera il rumore. E se rimanessero traumatizzate da questa esperienza giovanile, dal momento che l' imprinting influisce sulla scelta del partner sessuale? «Per quanto oca ribattono ancora gli scienziati nessuna di loro si lascerà confondere. Un aereo anche un piccolo ultraleggero è troppo diverso da Mamma Oca». Maria Luisa Bozzi


NUOVO CODICE DELLA STRADA I riflessi pronti contano poco Tradita la psicologia nei test attitudinali
Autore: SARDI PIERANGELO

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, TRASPORTI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 051

GLI ultimi aggiornamenti al Codice della strada, in vigore dal 1 ottobre, non hanno fatto avanzare di un passo il contributo che la psicologia può dare alla sicurezza della guida. Anzi: ad alcuni gravi errori degli Anni 50 ne hanno aggiunti altri ancora più gravi. Per esempio rimane intatto e riapplicabile anche dopo il 1 ottobre l' articolo 324 del Regolamento, che impone ai guidatori professionisti di avere «tempi di reazione semplici superiori al quarto decile»; in parole povere, su 100 soggetti, gli aspiranti alla guida professionale dovrebbero collocarsi tra i 60 più veloci nel premere un pulsante subito dopo aver visto accendersi una luce. Se fosse applicata, sarebbe una cosa ingiusta e controproducente: è noto da molti esperimenti come i migliori piloti siano quelli che hanno «tempi di reazione semplici» più lenti della media, proprio perché hanno la virtù di mantenersi sempre disponibili con una parte della loro attenzione verso qualunque fatto imprevisto, cioè precisamente verso ciò che può causare un incidente se il guidatore si limita a rispondere in modo automatico il più rapidamente possibile. Per fortuna questo vecchissimo articolo, che risale al 1959, non viene quasi mai applicato nelle visite per le patenti. I pochi medici che avevano provato ad applicarlo si sono presto accorti che proprio quei soggetti che si collocavano non al di sopra ma attorno al quarto o anche al terzo decile risultavano i migliori nei test psicologici più complessi, con almeno due stimoli tra loro contrastanti: ad esempio al test di Stroop, che impone di rispondere alla vista delle due parole «Rosso» e «Verde», però non in base al loro significato ma solo al colore in cui compaiono, ovviamente a volte coincidente con il significato, a volte no. I soggetti a risposta abitualmente rapida si fanno prendere letteralmente dal panico dopo i primi errori, dovuti ai loro eccessivi automatismi, e spesso rinunziano addirittura a ritentare, rassegnandosi. E' uno stile cognitivo che sulla strada causa molti e gravi incidenti. Solo i soggetti più lenti riescono a rispondere correttamente sin dall' inizio, oppure anche se sbagliano una o due reazioni restano capaci di concentrarsi maggiormente sul compito inatteso, così da capire come risolverlo correttamente. Questi non sono più dati opinabili, sono acquisizioni ormai consolidate nel campo della diagnosi psicologica. Nonostante ciò, ancora oggi il nostro codice, se fosse applicato, riserverebbe ai più impulsivi, a quelli che scattano al comparire del verde senza saper evitare chi attraversa in ritardo, proprio la guida professionale: taxi, pullman, autoambulanze. Per le patenti A e B un progresso era stato fatto con la prima revisione, la quale, con l' obbligo di accertare i requisiti psichici necessari per guidare, aveva introdotto parallelamente la presenza obbligatoria dello psicologo iscritto all' albo con l' art. 2, se laureato in psicologia, oppure con gli articoli 32, 33, 34, se già medico o ingegnere. Inspiegabilmente le ultime modifiche votate il 7 settembre dal Consiglio dei ministri hanno nuovamente riservato l' accertamento dei requisiti psichici ai soli laureati in medicina, anche quelli che non hanno mai esercitato le attività tipiche della professione di psicologo. Forse il nostro legislatore ritiene ancora che i requisiti psichici necessari per guidare consistano solo nell' assenza delle tre gravi malattie mentali classiche: la psicosi, la turba psichica grave e l' insufficienza mentale grave. Sono le uniche tre cose da verificare, secondo la nostra normativa, anche se di regola sono sempre già verificatissime: dall' Inps per la pensione di invalidità, dal Comune per l' assistenza, eccetera. Eppure solo per questo la nostra normativa chiede nuovi accertamenti, portando adesso le apposite visite mediche dai già esorbitanti 6 milioni annui a 12 milioni, con un doppione del certificato medico. Invece la Direttiva Cee in materia, la n. 439/' 91, parla di ben altri requisiti psichici, che non sono affatto malattie e niente hanno a che vedere con la medicina. Proviamo a fare un esempio facile, accessibile anche all' intelligenza dei nostri governanti. I soggetti mancini o destri non sono più malati degli ambidestri, al contrario: la dominanza di un emisfero cerebrale sull' altro si instaura perché il soggetto, nel suo stile di vita precoce, la trova più utile. Ma ci sono alcune dominanze destre o sinistre che, pur essendo tutt' altro che malattie, anzi, pur essendo utilissime nella vita normale e persino indispensabili in mansioni più raffinate e difficili, tuttavia sono pericolosissime nella guida. Ad esempio, con i reattivi psicologici all' attenzione divisa per settori, si constata che alcuni soggetti per concentrare l' attenzione, abitualmente accentuano una dominanza, e quindi sottraggono attenzione alla zona opposta: vedono sì la macchina o il pedone che arriva anche da quella parte, ma tendono a farci meno caso. La visita oculistica non eccepisce nulla, e neppure gli interessati dopo i primi incidenti si accorgono della vera causa, se non notano qualche analogia fra un incidente e l' altro. Bene: nel resto d' Europa questi accertamenti psicologici si eseguono prima che la serie di incidenti si allunghi abbastanza per cominciare a generare qualche dubbio. Pierangelo Sardi


NUOVE TECNOLOGIE Lunga vita ai libri con i vapori di zinco Combattono l' acidità, principale causa di deterioramento
Autore: FOCHI GIANNI

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, CHIMICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 051. Conservazione libri

VERBA volant, scripta manent, dicevano i latini. Tuttavia ciò che è stato scritto sui libri negli ultimi centocinquant' anni non sembra destinato a durare. Le pagine, infatti, col passare dei decenni ingialliscono e diventano fragili. Sei anni fa un' indagine svolta nelle biblioteche degli enti di ricerca degli Stati Uniti rivelò che circa novanta milioni di libri (in pratica, uno su tre) non potevano essere consultati senza correre il rischio di sbriciolarsi. Ma dopo un secolo di tentativi, si sta finalmente approntando un rimedio applicabile su larga scala e a costi ragionevoli. Con i sistemi più vecchi esso ha in comune il concetto ispiratore: quello di combattere l' acidità, che è la causa principale del deterioramento. In ambiente acido le fibre della carta, che sono fatte di cellulosa, si spezzano per idrolisi. La cellulosa è infatti un polimero costituito da migliaia di unità di glucosio, unitesi per eliminazione d' acqua. Gli ioni idrogeno, che a 25 C nell' acqua pura sono presenti per un milligrammo ogni diecimila litri, nell' umidità invisibilmente trattenuta dalla carta stampata sono alcune centinaia di volte più abbondanti: la carta è leggermente acida e l' acidità è collegata proprio alla concentrazione degli ioni idrogeno. Questi catalizzano (cioè accelerano) l' idrolisi, ossia la reazione inversa alla formazione della cellulosa: le catene polimeriche catturano molecole d' acqua e si spezzano. Quando i tronconi s' accorciano al di sotto delle quattrocento unità di glucosio, il foglio diventa fragile. Un tempo la carta era fatta con gli stracci di cotone e lino, fibre tessili costituite da cellulosa abbastanza pura. All' inizio del secolo scorso i fratelli Fourdrinier inventarono la produzione meccanizzata e nel giro di pochi decenni si rese necessaria la ricerca d' una materia prima più abbondante. Nel 1866 l' industria cartaria cominciò a ricorrere alla polpa di legno. Questa, però, contiene anche lignina, che viene allontanata con processi chimici. Tuttavia un po' ne rimane e, insieme con altri componenti, reagisce lentamente con l' ossigeno dell' aria, producendo composti acidi. La fonte d' acidità più importante è però la parziale impermeabilizzazione, utile per evitare, in particolare, che l' inchiostro da stampa si spanda. Una resina viene depositata sulla carta con l' aiuto di un sale a reazione acida, il solfato d' alluminio, che serve sia per precipitarla dal bagno acquoso, sia per farla aderire meglio sulle fibre. Sulla loro superficie, infatti, ci sono cariche elettriche negative, mentre alcuni ioni alluminio (positivi) vengono catturati dalla resina: come si sa, cariche di segno opposto s' attraggono, e quindi ciò avviene anche tra resina e fibre. Fin dal 1891 si provò a neutralizzare l' acidità dei libri. Da allora sono stati studiati molti trattamenti, alcuni poco efficaci, altri efficaci ma troppo costosi o poco pratici (per esempio, richiedevano l' immersione, pagina per pagina, in bagni basici), altri ancora sconsigliabili dal punto di vista ecologico o sanitario (uso di solventi tipo Cfc o d' ossido d' etilene). Nel 1974 la biblioteca del Congresso di Washington inventò un metodo nuovo in collaborazione con la società Akzo: i libri venivano esposti a vapori di zinco dietile, che reagivano sia con l' acidità sia con l' umidità, liberando etano (idrocarburo gassoso). Il trattamento non provocava cambiamenti nell' aspetto, ed era efficace sia all' esterno sia all' interno dei volumi. Il lavoro necessario per lo sviluppo dell' invenzione fu appaltato alla Nasa, ma l' impianto pilota che questa costruì s' incendiò appena cominciò a funzionare: non si erano prese precauzioni sufficienti contro la tendenza dello zinco dietile a incendiarsi all' aria. Il compito passò quindi alla Texas Alkyls perché era la fornitrice del reagente e quindi doveva avere l' esperienza necessaria a maneggiarlo. Il nuovo impianto pilota entrò in funzione nella primavera del 1989; consisteva di speciali camere capaci di ospitare trecento libri per volta. Fatto il vuoto e seccata la carta fino a un' umidità inferiore allo 0, 5%, venivano introdotti i vapori di zinco dietile. Allontanati poi sotto vuoto l' etano prodottosi e il reagente in eccesso, le camere venivano nuovamente riempite d' aria Sono ora in allestimento impianti in scala industriale, capaci di bonificare ciascuno un milione di libri l' anno, a un costo medio previsto fra i sei e i dieci dollari l' uno. Gianni Fochi Scuola Normale di Pisa




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