ARGOMENTI: BOTANICA, MARE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C.
NOTE: 017
«WANTED», ricercata. Chi la incontra, chi ne ha notizia deve avvisare subito le autorità. Una taglia vera e propria non c'è, ma per stimolare la ricerca si fa leva sul bene comune, la difesa collettiva. La caccia è aperta dal confine spagnolo alle coste livornesi, Far West all'insegna di ombrelloni e di «pattini», dove si è accertata la presenza del killer. Il quale non ha la faccia feroce dei banditi con la Colt, ma le sembianze tutto sommato accattivanti della Caulerpa taxifolia, divenuta nota come alga assassina, di origine tropicale, venuta a invadere le acque del Mediterraneo. Sono ormai almeno sette anni che ha piantato saldamente i suoi rizoidi sugli scogli ai piedi del celebre Museo oceanografico di Monaco, da dove con ogni probabilità è fuggita insieme con l'acqua di ricambio delle vasche dell'acquario, e da allora nessuno è più riuscito a fermarla. Dove è arrivata ha rivoluzionato l'ecosistema marino, ha distrutto le praterie di Posidonia, «albergo» di innumerevoli specie, e ha dimostrato di avere eccezionali doti di viaggiatrice, facendosi portare clandestinamente a decine, centinaia di chilometri di distanza per creare nuove colonie. La nuova venuta vive sui fondali del Brasile, dei Caraibi, del Venezuela, del Mar Rosso, sulle coste della Somalia, della Tanzania, del Kenya, del Madagascar, in tutti i territori tropicali del Pacifico dalle Filippine all'Australia. Nel Mediterraneo, a dispetto delle temperature più basse che sembrerebbero poco favorevoli, mostra una vitalità superiore a quella dei luoghi di origine. E' una specie che si adatta a qualsiasi fondale, dalla roccia alla sabbia al fango, ama le baie riparate e i porti ma prospera anche sui capi battuti dalle correnti e dalle onde; non la spaventa neppure l'inquinamento. «Sui substrati invasi da almeno cinque anni Caulerpa taxifolia ha eliminato, ricoprendola, la maggior parte della vegetazione originaria, con una densità che può raggiungere le 8000 fronde e i 200 metri di stoloni per metro quadrato». Così descrive la sua irresistibile avanzata uno studio condotto da un team del Laboratoire Environnement Marin Litoral della facoltà di Scienze dell'Università di Nizza-Sofia Antipolis guidato da Alexandre Meinesz. Ottanta pagine, frutto di migliaia di immersioni, in cui viene ripercorsa la strada dell'alga assassina dalla sua comparsa ai piedi della rocca di Monaco nell'84 alla fine dell'anno scorso. All'inizio l'aliena occupava appena un metro quadro di scogli vicino alla presa d'acqua del museo: oggi, a chiazze più o meno estese, è presente da Livorno alla frontiera spagnola ed ha ormai colonizzato circa 4 milioni 270 mila metri quadrati di fondali. E continua a svilupparsi. La Caulerpa taxifolia si chiama così perché le sue «foglie» assomigliano a quelle di alcune conifere, in particolare a quelle del tasso, in latino Taxus. I sub che sono andati alla sua ricerca la descrivono come una bella alga verde-fluorescente. Una volta che si è fissata sul fondale, sviluppa delle radici, o rizoidi, dalle quali si dipartono gli stoloni, del diametro di 1-3 millimetri e lunghi anche più di un metro; dagli stoloni si sviluppano le fronde, erette e sfrangiate appunto come quelle del tasso, lunghe da 5 a 65 centimetri e non di rado ramificate. A mano a mano che gli studi proseguono, l'identikit dell'intrusa si precisa. Si è scoperto, ad esempio, che dispone di varie scelte riproduttive. La riproduzione vegetativa può svolgersi mediante la crescita e la ramificazione degli stoloni, particolarmente da maggio a novembre (essendo un'alga tropicale, nella stagione fredda riduce al minimo l'attività) al ritmo di 3 centimetri il giorno. Più è fitta, più corre verso l'esterno alla ricerca di nuovi spazi. A un certo punto le ramificazioni si interrompono per necrosi e nascono nuovi individui indipendenti. L'altra forma di riproduzione vegetativa fa affidamento sui movimenti dell'acqua: le forti mareggiate strappano fronde e stoloni che, essendo piuttosto pesanti, rotolano di preferenza verso il basso, andando a colonizzare fondali sempre più profondi. Tra Mentone e Saint- Jean-Cap-Ferrat le reti a strascico dei pescatori hanno tirato sù frammenti di Caulerpa da 300 metri di profondità, benché il suo habitat ideale sia tra zero e 60 metri. In laboratorio, da un solo frammento di fronda lungo 10 centimetri sono stati ottenuti 10 stoloni. Il terzo sistema di riproduzione è quella sessuata, ancora poco conosciuta. «Le fronde in fase di riproduzione presentano numerosi piccoli rigonfiamenti - dice lo studio coordinato da Meinesz - e abbiamo potuto osservare dei gameti flagellati. Benché non abbiamo ancora potuto identificare i due tipi di gameti e gli zigoti, questo modo di riproduzione potrebbe spiegare la configurazione delle apparizioni di nuove colonie, molto numerose l'anno che segue la colonizzazione di una zona». La diffusione della taxifolia è favorita dalla sua straordinaria capacità di approfittare di molti mezzi di disseminazione. Vi sono quelli naturali: si è scoperto che frammenti di alga si infilano sulle spine dei ricci di mare, riuscendo a farsi trasportare per qualche decina di metri. Vi sono poi vari modi di disseminazione antropica con un raggio molto più ampio. E' certo, per esempio, che nei porti è stata portata dalle reti dei pescatori: in questo modo è stato contaminato il vecchio porto di Mentone. In molte baie l'alga è invece arrivata con le barche da diporto che calano l'ancora in una zona infetta e la ricalano con frammenti di alga in una zona sana, dando origine a una nuova colonia lontana decine o centinaia di miglia. In questo modo la taxifolia è arrivata a Saint- Jean-Cap-Ferrat, Villefranche- sur-Mer, Saint-Raphael, Saint- Cyprien, Tolone, Hyeres e, in Italia, a Livorno e Imperia-Porto Maurizio. L'ultima segnalazione viene da Arma di Taggia, dove è stata trovata impigliata nelle reti da un pescatore professionista rientrando da una battuta di pesca a Est del nuovo porto di Marina degli Aregai, nel comune di Santo Stefano. Il Circolo Nautico Arma ha subito chiamato Meinesz e i suoi, i quali però non sono riusciti a ritrovare la taxifolia. E' probabile, però, che si tratti solo di cercare nel punto giusto. L'insidia maggiore viene però dagli acquari domestici. La Caulerpa taxifolia da qualche anno è in vendita in tutti i negozi specializzati ed è usata per decorare gli acquari; in questo modo il pericolo di disseminazione si è accresciuto enormemente. Vittorio Ravizza
ARGOMENTI: BOTANICA, MARE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 017. Alghe marine
LA Caulerpa taxifolia fa paura perché dove si insedia si sostituisce rapidamente sia alle altre alghe sia alla Posidonia oceanica (che invece non è un'alga ma una fanerogama, una vera e propria pianta subacquea). Anzi, proprio la Posidonia sembra essere la sua vittima designata, dato che vive sui bassi fondali sabbiosi preferiti anche dalla nuova venuta. La Caulerpa si espande particolarmente in autunno, quando le sue fronde sono più lunghe, approfittando del fatto che la Posidonia ha appena esaurito il suo ciclo vegetativo di primavera-estate. E non arretra più. «La competizione - sottolinea lo studio del Laboratoire Environnement Marin Litoral dell'Università di Nizza - contrappone due vegetali le cui caratteristiche di rapidità di crescita, di riproduzione e di disseminazione favoriscono la Caulerpa taxifolia. Questo spiega perché, se si constatano delle distruzioni di Posidonia da parte della Caulerpa taxifolia, non è stato ancora osservato il caso opposto». La Posidonia, si sa, costituisce la base preziosa per una ricca catena biologica. Al contrario, la taxifolia non lascia crescere nulla sotto di sè. Le ricerche più recenti hanno spiegato perché. Come tutte le specie del genere Caulerpa (compresa la più discreta Caulerpa prolifera, che è sempre stata presente nel Mediterraneo senza dare problemi), la taxifolia contiene delle tossine, studiate da tempo. Nella taxifolia del Mediterraneo, però, ne sono state individuate cinque finora sconosciute. «Il ruolo di queste tossine - spiega lo studio dell'Università di Nizza - è di due ordini: difesa contro gli animali brucatori (pesci, molluschi, ricci di mare) e mezzo di lotta contro i parassiti che tenderebbero a fissarsi sulla pianta». E infatti non ha predatori. «La tossicità dell'alga - sottolineano gli studiosi francesi - allarga considerevolmente il problema ecologico: la Caulerpa taxifolia entra in concorrenza dominante con la maggior parte delle specie vegetali bentoniche del Mediterraneo ma non rappresenta un nutrimento di sostituzione apprezzato dagli animali brucatori». E' dunque un impoverimento secco della vita dei nostri mari. Francesco Cinelli, docente dell'Università di Pisa, in un articolo sulla rivista «Aqua» si chiede se le tossine possano diffondersi nell'acqua. «Se ciò avvenisse - si è domandato - potrebbe esserci una concentrazione di tossine nelle catene alimentari tale da ipotizzare un danno alla salute umana?». Per il momento l'interrogativo resta senza risposta. Il tentativo di individuare qualche specie animale che gradisca il gusto della nuova venuta e ne tolleri i veleni per il momento non ha dato risultati sostanziali. Altrettanto aleatoria è la possibilità di altre forme di lotta; sradicarla, a parte le difficoltà tecniche derivanti dalla profondità di molte colonie, è diventato ormai impossibile, data l'estensione degli insediamenti. Resta, a questo punto, l'opera di prevenzione, per evitare di allargare l'infezione. (v. rav.)
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, TURISMO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 017
SE tutto l'anno si potesse mangiare solo quando si ha fame, bere quando si ha sete, dormire quando si ha sonno, si eviterebbero tante ulcere, coliti, infarti. Sarebbe bello ricuperare questa armonia almeno in vacanza. Alcuni riescono a ricreare in villeggiatura le condizioni che meglio rispondono alle proprie esigenze. Molti altri invece no. Per le casalinghe, spesso, il lavoro di casa è identico al mare o in città. Per altri gli obblighi mondani, gli orari degli alberghi, il turismo per forza, rendono la vacanza faticosissima. Perché la vacanza possa essere veramente salutare, il primo criterio per scegliere il luogo dove andare dovrebbe essere: riesco a stare dove mi piace, come mi piace? Per una persona sana, mare o montagna sono indifferenti. Particolari problemi di salute possono invece richiedere indicazioni specifiche. ALLERGIE: In se stessi mare o montagna sono indifferenti. Chi soffre di allergie (riniti, asma, reazioni cutanee, disturbi gastrointestinali) dovrebbe allontanarsi dal luogo dove è presente la sostanza che provoca la reazione. Può trattarsi di una pianta, della forfora di animali, della polvere di casa. Se si riesce a individuare il responsabile, basta cambiare luogo. In caso contrario, si può utilizzare l'occasione delle vacanze per procedere nei tentativi. INSUFFICIENZA RESPIRATORIA: Bronchite cronica ed enfisema sconsigliano l'alta montagna per la relativa carenza di ossigeno. Vanno bene la mezza montagna (fino a 1000 metri), la campagna, il mare, purché non faccia troppo caldo. CORONAROPATIE (Angina pectoris, pregresso infarto miocardico, cardiopatie scompensate, arteriopatie): anche in questo caso la carenza di ossigeno sconsiglia l'alta montagna. Bene un'altitudine che non superi i 1000 metri. Va bene anche il mare, ma in questo caso attenzione al caldo eccessivo, perché la forte sudorazione e la vasodilatazione prodotte dal calore possono facilitare i collassi cardiocircolatori. AFFEZIONI GASTROINTESTINALI: Meglio la montagna e la campagna che il mare. Il caldo facilita piccole alterazioni della flora intestinale, può spingere a un'ingestione eccessiva di bevande fredde, che a loro volta possono esacerbare i sintomi di gastriti, ulcere, coliti spastiche. Dato però che queste malattie hanno una componente psicosomatica, spesso il beneficio della distensione psichica, anche al mare, supera queste relative controindicazioni. MALATTIE DELLA PELLE: Il clima marino e l'esposizione al sole sono ottimi per la psoriasi, tanto che esistono cliniche specializzate dove vengono praticate la talassoterapia e la elioterapia. Qualunque spiaggia va comunque bene. Lo stesso vale per l'acne. Non conviene invece esporre al sole le cicatrici recenti e la pelle nel lupus erithematodes. Nella vitiligine il sole non fa male, ma mette in evidenza le chiazze chiare e questo succede anche nei casi di micosi cutanee. Attenzione nei casi di sospetti tumori della pelle: meglio farsi visitare prima di partire. Attenzione all'esposizione al sole quando si assumono medicinali: in quanto alcuni possono causare reazioni di fotosensibilità. MALATTIE REUMATICHE: Il mare è ottimo in caso di artrosi. L'osteoporosi trae grande beneficio dal sole e dall'attività fisica. In questi casi non sono controindicati i bagni di mare, a meno che non provochino una sensazione soggettiva di freddo. Il sole è invece controindicato nelle artriti, cioè in tutte quelle situazioni in cui le articolazioni sono infiammate, come nell'artrite reumatoide. Il caldo può scatenare reazioni infiammatorie con riacerbazione del dolore. ASCESSI: Paterecci, otiti, sinusiti, congiuntiviti, herpes labiale, nevralgie, sono tutte situazioni infiammatorie in cui l'esposizione al sole, sia al mare che in montagna, può riacutizzare la sintomatologia. MALATTIE DEI BAMBINI: E' luogo comune che la pertosse si giovi dell'alta montagna. Non è dimostrato che sia vero, ma comunque non fa male. In linea di massima, mare e montagna vanno bene ambedue, sia durante le malattie esantematiche, sia durante la convalescenza, purché significhino riposo e alimentazione sana. TIROIDE: La presenza di iodio nell'aria di mare può peggiorare una situazione di ipertiroidismo. INSONNIA, NEVROSI: Si dice che il mare «rende più nervosi». Può darsi che l'aria iodata, aumentando il metabolismo, possa dare in alcuni una sensazione di irrequietezza. Anche qui però è importante soprattutto la ricerca della distensione psichica. Marina Levi
ARGOMENTI: FISICA, AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: RUBERTI ANTONIO
ORGANIZZAZIONI: ASI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 018
DOPO i primi cinque anni di attività l'Agenzia spaziale italiana è giunta al momento del rinnovo dei vertici, presidenza, direzione e consiglio di amministrazione. Sarà questa l'occasione di un effettivo cambiamento della politica del Paese in campo spaziale? In questi anni l'Asi è stata al centro di numerose e pesanti critiche, interrogazioni parlamentari, rilievi formali da parte degli organi di controllo sulla gestione amministrativa, pubbliche denunce di inefficienza da parte dei protagonisti dei settori industriale e della ricerca. La causa principale di tale situazione è stata l'incertezza della dirigenza nella gestione programmatica ed economica delle consistenti risorse messe a disposizione dal governo per questo organismo di grande rilevanza nazionale. L'Asi fu voluta dal ministro dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, Antonio Ruberti, per favorire lo sviluppo dei gruppi di ricerca e delle industrie del Paese nelle scienze spaziali (astrofisica, fisica del sistema solare, fisica atmosferica, scienze della vita) e nelle tecnologie connesse (sistemi spaziali, robotica, telerilevamento, telecomunicazioni, microgravità). Purtroppo, una logica di lottizzazione politica nella nomina della presidenza, direzione, consiglio di amministrazione e comitato scientifico ha svuotato fin dall'inizio tali organi delle competenze necessarie per avviare una valida programmazione dei temi su cui intervenire nel complesso panorama internazionale. Di conseguenza, la gestione dell'Asi è di fatto naufragata a livello di assistenzialismo nei confronti degli utenti, lasciati peraltro completamente privi di direttive o aiuti strutturali. La difficile situazione politica dei governi che si sono succeduti negli ultimi cinque anni non ha consentito ai ministri competenti di intervenire puntualmente e con fermezza a richiamare l'Asi a svolgere con attenzione e solerzia i propri compiti. Basti dire che per una serie di faide tra dirigenza, consiglio di amministrazione e comitato scientifico, un intero anno di finanziamenti è stato fatto slittare. Il nuovo ministro, Umberto Colombo, ha chiaramente espresso la volontà di mutare un quadro così insoddisfacente, parlando di una vera e propria rifondazione dell'Asi. Una consistente parte dei ricercatori italiani, coordinati dal Consorzio interuniversitario per la fisica spaziale, cui aderiscono le Università di Catania, Firenze, L'Aquila, Milano, Roma La Sapienza, Roma Tor Vergata, Torino, Trieste, ha elaborato per il ministro alcune proposte per migliorare la situazione. Un primo punto: è necessario che l'Asi giunga al più presto, e coinvolgendo fortemente (cosa mai avvenuta finora!) i protagonisti della ricerca, alla formulazione di un piano spaziale nazionale nel quale discutere il panorama internazionale, individuare i campi di possibile intervento, analizzare le competenze e forze della ricerca e dell'industria spaziale italiana. Il piano rappresenterebbe il quadro entro cui, nei prossimi anni, i gruppi di ricerca italiani sarebbero chiamati a proporre i propri interventi. Altro punto: in analogia con l'Esa (l'Agenzia spaziale europea), è indispensabile la creazione di gruppi nazionali di lavoro nei vari settori, che consentano il costante dibattito tra la comunità che propone le attività scientifiche e i vertici Asi che debbono sollecitarle e vagliarle. Occorre favorire la collaborazione tratutti i protagonisti, ciascuno con il proprio ruolo primario. A tutt'oggi non esistono segnali se queste proposte siano state recepite dal ministro. La comunità scientifica, che si è guadagnata una solida reputazione internazionale in oltre 25 anni di collaborazioni alle principali imprese spaziali, rimane pertanto fortemente preoccupata per il rischio che si ripetano gli errori di organizzazione del passato recente. Sono in gioco centinaia di miliardi di fondi pubblici e la reputazione del mondo scientifico e industriale del Paese. Si tratta, cioè, di un problema che trascende le attribuzioni del solo ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, bensì si estende alle attribuzioni del governo nel suo insieme. Nell'imminente scadenza dei mandati dirigenziali la comunità spaziale, che ha ripetutamente e consapevolmente dichiarato di mettere a disposizione del ministro e del governo le esperienze maturate in ambiente internazionale, attende con impazienza chiare indicazioni dell'abbandono della logica di gestione puramente politica della ricerca spaziale e dell'inizio di una nuova e ricca fase di vero sviluppo. Attilio Ferrari, Direttore consorzio interuniversitario per la fisica spaziale
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 018
Le stelle cadenti di agosto, comunemente dette «Lacrime di San Lorenzo», costituiscono un tradizionale appuntamento nel cuore dell'estate. Questo «sciame meteoritico» è giustamente il più conosciuto perché, fra tutte le piogge di stelle, queste sono le più luminose e le più abbondanti. Quest'anno, però, le stelle cadenti di agosto si presenteranno con grande spettacolarità e, secondo le previsioni, si avrà il massimo del fenomeno nella notte fra l'11 e il 12 agosto. Le zone privilegiate saranno proprio le nazioni europee. Le ore migliori per l'osservazione saranno quelle della seconda parte della notte (dalle 22 fino alle 3) e la zona di cielo maggiormente interessata sarà quella intorno allo zenit, dove si troverà la costellazione di Perseo, punto dal quale, per un effetto prospettico, sembrano provenire le stelle cadenti (per questo motivo le «Lacrime di San Lorenzo» sono anche chiamate Perseidi). Il fenomeno, per la verità, era stato annunciato da alcuni antefatti apparentemente inspiegabili. Nel 1991 alcuni astrofili giapponesi avevano notato un insolito incremento del fenomeno delle Perseidi, uno sciame considerato particolarmente tranquillo. Lo stesso fatto venne registrato anche lo scorso anno. Il mistero di queste piogge eccezionali ha finalmente avuto la sua spiegazione con il ritrovamento, nello scorso settembre, della cometa Swift- Tuttle, responsabile del fenomeno. Fu l'astronomo Giovanni Schiaparelli, intorno alla metà del secolo scorso, a intuire la connessione fra «stelle cadenti» e comete e a dimostrare che le «piogge» si verificano tutte le volte che la Terra, durante il suo moto di rivoluzione attorno al Sole, incrocia l'orbita di una cometa, ricca di gas, di polveri e di detriti. La vicenda della cometa Swift-Tuttle è assai curiosa. Scoperta la prima volta il 15 luglio 1862 dal «cacciatore» americano Lewis Swift, che la individuò nella costellazione della Giraffa, la cometa fu trovata contemporaneamente da Horace Tuttle (per questo motivo la cometa è nota oggi come Swift-Tuttle). Di magnitudine 6,5, è importante nella storia della astronomia perché fu proprio osservandola e studiandola che Schiaparelli elaborò la sua teoria ancora oggi valida. Secondo gli astronomi, la Swift-Tuttle aveva un periodo di 120 anni e pertanto la cometa fu attesa all'inizio degli Anni Ottanta, ma quasi a ribadire il fatto che questi oggetti celesti si comportano a volte in maniera dispettosa, non si fece vedere. Grande, perciò, fu la sorpresa quando alla fine dello scorso anno il giapponese Tsuruhiko Kiuchi ne annunciò il ritrovamento. Il ritorno della cometa nei pressi della Terra ha dunque contribuito ad arricchire la sua orbita di gas e di polveri e ciò spiega le piogge recenti e la grande spettacolarità delle prossime Perseidi. Fra l'altro l'osservazione non sarà disturbata dalla luce della Luna, che in quel periodo sarà in fase avanzata di ultimo quarto e pertanto sorgerà molto tardi. Un fenomeno simile (abbondanti piogge di stelle cadenti) si verificò anche negli anni intorno al 1863, in corrispondenza del passaggio della Swift-Tuttle e ciò ribadisce la validità delle teorie di Schiaparelli. Nonostante la loro eccezionalità, le Perseidi di quest'anno non costituiscono però un record (si prevedono dalle 3 alle 6 meteore al minuto). Gli spettacoli più vistosi, infatti, sono stati offerti dalle Leonidi, le stelle cadenti di novembre legate alla cometa Temple- Tuttle. Molte intensa fu la «pioggia» fra il 17 e il 18 novembre del 1966, ma la più spettacolare di cui si ha testimonianza scritta è quella del 12-13 novembre 1833. Nell'arco di 9 ore i cieli del Sud America vennero attraversati da 240 mila stelle cadenti, suscitando grande paura. In occasione della pioggia di quest'anno, l'Unione Astrofili Italiani ha organizzato alcune serate di osservazione a occhio nudo, oppure con binocoli e telescopi. Sul Monte Avena (1452 metri), vicino a Feltre (BL), l'11 e il 12, a partire dalle 21; a Marina di Romea (RA) l'11 alle 21.30; al Colle San Bernardo, Lumezzane (BS) l'11 alle 21.30; sul campo di Motocross di Cingoli (MC) il 10-11- 12-13, alle 22; all'Osservatorio di Pian dei Termini (S. Marcello Pistoiese, PT) il 10 e l'11, alle 21. Franco Gabici
I puzzle di Maurits Cornelis Escher, quegli straordinari incastri di uccelli, pesci, angeli o diavoli che ricoprono l'intero foglio, nascono da un interesse molto particolare per un artista: la divisione regolare del piano. Escher, pur non avendo una preparazione matematica specifica, ebbe alcune grandi intuizioni sui tre spostamenti geometrici che conservano esattamente una forma data (traslazione, rotazione, simmetria di scorrimento). Da solo, studiando diversi testi specializzati, in particolare di cristallografia, trovò «le porte matematiche che davano sul giardino della divisione regolare», le aprì e pieno di curiosità esplorò i vari sentieri che gli si offrivano. Scoprì così come incastrare tra loro forme congruenti, dando loro di volta in volta la forma di animali diversi, senza riuscire a capacitarsi che la sua mente ragionasse come quella di un matematico. La storia di questo viaggio nello spazio astratto è raccontata nel bellissimo volume «Visioni della simmetria» che una matematica dell'Università di Yale, Doris Schattschneider, ha dedicato ai disegni periodici di Escher, con un'analisi meticolosa dei vari quaderni di appunti e dei progressi speculativi. Le leggi dei fenomeni che ci circondano - ordine, regolarità, ripetizioni cicliche - assumevano per lui un'importanza crescente, man mano che le sue intuizioni ottenevano conferme. E la frequentazione degli scienziati gli dava di volta in volta conferme e nuovi spunti. I matematici sono sempre stati affascinati dai lavori di Escher: si capivano al volo perché parlavano la stessa lingua e condividevano il medesimo approccio ai problemi dello spazio. Escher chiamava le sue intuizioni «teoria profana» e procedeva nelle sue esplorazioni in maniera molto pratica: in una certa fase della sua vita, si era semplicemente costruito un paio di quadrati con disegni di semplici linee e li affiancava in sequenze diverse, finché non trovava la scansione del piano che lo soddisfaceva. Più tardi, il suo interesse si spostò sui poliedri regolari e stellati, che lo portarono a costruzioni tridimensionali sempre più complesse: è rimasta famosa la scatola di latta per caramelle che aveva la forma di un icosaedro con venti facce triangolari.
Sono spesso stati in lite fra di loro, i paleontologi. Perché ogni fossile, ogni osso fortunosamente riportato alla luce, sembrava preludere a una nuova ricostruzione della storia dell'uomo. Effettivamente alcuni casi, come quello del cosiddetto «Cranio nero del Turkana», hanno distrutto con un solo reperto ipotesi consolidate e accanitamente difese. Ma sono rarità. Da tempo non si fanno più scoperte sensazionali e gli antropologi si intendono meglio, trovando convergenze grazie ai nuovi metodi di studio - in particolare la biologia molecolare - più oggettivi e meno estemporanei. Nessuno mette più in discussione, ad esempio, che la culla dell'umanità sia l'Africa orientale, da dove la famiglia degli Ominidi è partita per la conquista della Terra. In particolare il lago Turkana, nel Nord del Kenya, è uno degli snodi di quella grande epopea. Qui, nel 1984, il giovane Richard Leakey scoprì, con la sua squadra di cacciatori di fossili, lo scheletro quasi completo di un giovane morto un milione e mezzo di anni fa. La storia del «ragazzo del Turkana» è il punto di partenza dell'ultimo libro di Leakey, «Le origini dell'uomo», un quadro considerato plausibile e convincente del progressivo emergere di quelle qualità umane - la coscienza, la creatività e la cultura - che sono caratteristiche uniche della nostra specie.
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 018
«TUTTOSCIENZE» ha dato un'ampia informazione (Vittorio Ravizza, 21-7-1993) sul problema dell'esposizione a radiazioni ionizzanti del personale di volo delle compagnie aeree e, più in generale, dei cosiddetti «frequent flyers». Ci sembra utile tornare sull'argomento per sottolinearne alcuni aspetti più importanti. Innanzitutto, l'incredibile «dimenticanza» del legislatore. Non solo, infatti, i lavoratori del trasporto aereo - come del resto i marittimi - sono esclusi dal campo di applicazione della legge del '65 che tutela la salute dei lavoratori ma, in particolare, ad essi non viene riconosciuto quello status di «professionalmente esposti» rispetto al rischio derivante dalle radiazioni ionizzanti, che da decenni tutela chi lavora in una centrale nucleare o in un gabinetto medico di radiodiagnostica. Eppure gli elementi di carattere scientifico che sono alla base del problema sono ampiamente noti. La composizione e le caratteristiche fisiche della radiazione cosmica facevano già parte del programma di Fisica superiore quando noi eravamo studenti - ohimè - una trentina di anni fa. Dunque era ben noto che si era in presenza di radiazioni ionizzanti e sul danno sanitario indotto da tale fenomeno è ormai ben più di mezzo secolo che esistono certezze. In particolare, la questione dei tumori e delle leucemie o degli effetti sulla prole degli individui irradiati ha visto una mole enorme di studi e la nascita di comitati internazionali - come la Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni (Icrp) - che, da anni, dettano le loro Raccomandazioni ai governi per la messa a punto e l'aggiornamento delle normative. Basse dosi di radiazioni ionizzanti (particelle, radiazioni elettromagnetiche ad alta frequenza come i raggi X) possono danneggiare il Dna cellulare, cioè la macromolecola che contiene l'informazione genetica che viene trasmessa nella riproduzione delle cellule e innescare così effetti di trasformazione: esistono evidenze assai stringenti della correlazione tra mutagenesi e insorgenza di tumori o, più in generale, indebolimento delle difese della cellula stessa. Si tratta, come si comprende, di meccanismi che possono avere un lungo periodo prima di manifestarsi e, in ogni caso, si tratta di fenomeni governati da leggi non deterministiche, ma di carattere probabilistico. Mentre non c'è dubbio sulla possibilità che dosi comunque piccole di radiazioni possano indurre effetti sanitari gravi, più difficile è stimare, su una determinata popolazione che si è esposta a una certa dose di radiazioni, quanti saranno gli individui che risulteranno colpiti. Le stime oggi utilizzate per la correlazione tra effetti sanitari e dosi assorbite risalgono sostanzialmente a estrapolazioni effettuate sui dati delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki: queste stime sono state recentemente «rivisitate» dalla Icrp che ha ritenuto di dover indicare una maggior gravità del rischio sanitario. Certamente verrà nei prossimi anni, dalla vicenda di Cernobil, un'ulteriore e preziosa massa di informazioni a precisare le stime, ma non sposterà il dato essenziale: le radiazioni fanno male. Possono far male al paziente che si espone dalla diagnostica con i raggi X, ma in questo caso è chiaro il suo bilancio rischio- beneficio. Possono far male ai passeggeri che volano. Certamente più elevato è il rischio per il personale di volo: ore e ore di esposizione. Chi legge si aspetterà, noi crediamo, che alla luce di questi dati da anni fossero effettuate misure sulla dose assorbita dal personale di volo, ricerche epidemiologiche analoghe a quelle effettuate sui lavoratori di impianti nucleari, militari e civili. Ci si aspetterebbe anche che questo personale fosse coperto dalle normative che in qualche misura cercano di tutelare gli altri lavoratori professionalmente esposti alle radiazioni. Queste normative non sono certo uno «scudo salvifico» ma introducono elementi di informazione e prevenzione - sugli orari di lavoro, le visite mediche periodiche, l'esclusione delle donne incinte - ma certamente riducono il rischio e costringerebbero le compagnie aeree a mettere in atto quelle misure che minimizzino l'esposizione del personale: quote e latitudini delle rotte, schermature per gli aerei. Ebbene il lettore sappia che, sin qui, nonostante le iniziative dei sindacati e delle associazioni del personale di volo, nulla è stato fatto e ben poca informazione è stata data su questi elementi di rischio, nè più e nè meno di quello che si fa con i televisori o con i videoterminali. Schermare gli aerei o correggere una rotta costa un mare di quattrini e informare la gente sul rischio dei voli frequenti è un po' come dire che ai ragazzini fa male stare ore e ore appiccicati al televisore: le solite Cassandre contro il progresso! Gianni Mattioli Massimo Scalia
ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 019
L'UNIONE fa la forza sembra sia il motto di molte specie animali. E' noto che l'azione congiunta e la cooperazione di più individui danno risultati incomparabilmente superiori, ai fini della sopravvivenza, di quelli che otterrebbe l'individuo singolo se agisse isolato. E' soprattutto nella caccia che la cooperazione si dimostra valida. Le leonesse, quando vanno a caccia, procedono furtivamente con il passo felpato tipico dei felini tra l'erba alta della savana, spostandosi sottovento perché il loro odore non possa giungere alla preda. Quelle che si trovano al centro si muovono più lentamente, mentre quelle ai lati si spostano più rapidamente. In questo modo le inseguitrici formano presto una morsa a U che stringe la preda da tre parti. E' ben difficile che l'inseguita riesca a fuggire. Anche lupi e licaoni sembra si attengano a un preciso piano di attacco che coinvolge i vari membri del branco. Un altro efficace esempio di cooperazione l'ha scoperto lo zoologo Thomas T. Struhsaker dell'Università di California a Berkeley che, insieme con Lysa Leland della Società Zoologica di New York, ha condotto per sette anni una ricerca sul comportamento predatorio dell'aquila coronata (Spizaetus coronatus) nella Riserva della Foresta Kibale, in Uganda. Le aquile coronate sono terribilmente aggressive. Non per nulla vengono chiamate «leopardi dell'aria». Il loro nome deriva dalla cresta piumata che portano sulla sommità del capo e conferisce loro un aspetto regale. Pur non avendo una grossa mole - pesano dai tre ai quattro chili e mezzo - non esitano ad attaccare e uccidere mammiferi ben più grandi e pesanti di loro, uomo compreso. Fra le prede più comuni vi sono antilopi che pesano una dozzina di chili. In Sudafrica è rimasto memorabile il caso di un bambino di ventidue chili selvaggiamente ferito da un'aquila coronata e salvato in extremis dall'intervento tempestivo di un testimone che riuscì a uccidere il rapace con una vanga. La tecnica dell'aquila è quella di scendere in picchiata a grandissima velocità, cogliendo la vittima di sorpresa. Tra la raffica di vento e il formidabile colpo di becco che la colpisce, la preda rimane già mezza tramortita o addirittura muore, quando la beccata la raggiunge direttamente al cuore, come spesso succede. E' soprattutto tra le scimmie che l'aquila coronata compie le sue stragi. E la cosa non fa meraviglia, dato che nella foresta Kibale vi è la maggior densità di primati riscontrata in qualunque foresta tropicale: più di millequattrocento individui per miglio quadrato. Si è calcolato che quando l'aquila coronata ha il piccolo da nutrire, la coppia uccida ogni anno dalle cento alle centoventi scimmie di taglia media. Gli studiosi hanno visto in varie occasioni in qual modo maschio e femmina collaborino per la buona riuscita della caccia. Uno dei partner cerca di distrarre un branco di scimmie librandosi in volo in mezzo a loro o appollaiandosi bene in vista nei paraggi. Le scimmie femmine con i piccoli corrono a nascondersi in mezzo ai cespugli, mentre i maschi lanciano urla e assumono atteggiamenti intimidatori nei confronti dell'intrusa. E mentre l'attenzione delle scimmie è tutta rivolta verso l'aquila numero uno, ecco che d'improvviso piomba loro addosso l'aquila numero due che compie di sorpresa la sua strage. La foresta Kibale ospita undici specie di primati, ma nei nidi delle aquile coronate i ricercatori hanno trovato gli avanzi di scimmie appartenenti a sei specie soltanto. Poiché il primate più numeroso nella foresta è il colobo rosso, c'era da aspettarsi che il maggior numero di prede si contasse tra gli esemplari di questa specie. Invece, solo dieci carcasse furono identificate come colobi rossi. Come mai così pochi? Per rispondere a questo interrogativo, gli studiosi hanno studiato a fondo i colobi rossi e si sono accorti di quanta importanza abbia per questa specie di scimmie la struttura sociale e la stretta cooperazione tra gli individui. Intanto, a differenza dei guereza, dei cercocebi e di altre specie presenti nella foresta, i colobi rossi formano branchi grandissimi con anche un'ottantina di individui. Essere in tanti significa avere più occhi per spiare l'avvicinarsi di un'aquila e al tempo stesso diminuire la probabilità di venir catturato, perché il numero elevato di prede confonde e distrae il predatore. Altra scoperta sorprendente: le vittime sono prevalentemente di sesso maschile. I ricercatori non tardano a scoprirne la ragione. Mentre le femmine e i piccoli vanno a nascondersi quando un'aquila coronata è avvistata nei paraggi, i maschi adulti e subadulti affrontano con molta audacia il nemico. Cercano di cacciarlo via in tutti i modi, lanciando forti schiamazzi e saltando su e giù dai rami come indemoniati. Questo comportamento risponde all'aggressività innata della specie. Basti pensare che i colobi rossi hanno il coraggio di attaccare scimpanzè maschi quattro volte più pesanti di loro e si segnalano perfino casi di attacchi ai contadini che vivono nelle zone recentemente disboscate. Tutto questo si spiega anche con la loro insolita organizzazione sociale. Mentre nella maggior parte dei primati sono le femmine che fanno parte stabile del branco, e i maschi sono immigrati temporanei non imparentati tra loro, tra i colobi rossi avviene l'opposto. Il nucleo del branco è formato da maschi stabili, tutti parenti stretti. Di fronte a un nemico esterno è naturale quindi che formino un fronte unico compatto. Le aquile coronate hanno trovato, insomma, nei colobi rossi pane per i loro denti, una preda aggressiva come loro, che si difende, al pari di loro, con un comportamento cooperativo. Di conseguenza, quando le aquile hanno il piccolo, impiegano più tempo a insegnargli come catturare le grandi scimmie di cui si nutre la specie. Ecco perché occorrono trecento o più giorni prima che il piccolo diventi autosufficiente e impari il difficile mestiere di cacciatore di primati. E' questo uno dei più lunghi periodi di addestramento parentale che si conosca tra gli uccelli. Isabella Lattes Coifmann
ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI, MEDICINA, SANITA'
NOMI: MAUNDER JOHN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 019
ALLARME pulci: in molti Paesi occidentali è in atto una vasta epidemia. Secondo John W. Maunder, esperto del centro di entomologia medica dell'università di Cambridge, le infestazioni sono in aumento in buona parte degli Stati Uniti, in Gran Bretagna e negli altri Paesi dell'Europa Occidentale. La Germania, la Francia e la Svizzera hanno raggiunto vertici mai toccati in passato. L'Italia è sempre stata un buon serbatoio di questi fastidiosissimi parassiti, ma ogni anno la situazione peggiora. Tra i motivi di questa esplosione demografica, l'andamento cli matico degli ultimi anni ricopre un ruolo chiave. Estati più calde e inverni più miti hanno fornito ai parassiti prospettive per una vita migliore. La posizione geografica di molte regioni italiane consente alle pulci di pullulare anche durante la stagione invernale. Alcune caratteristiche della moderna edilizia hanno favorito la recente ondata di pulci. L'isolamento fornito dai doppi vetri e la presenza di umidificatori permettono di mantenere anche d'inverno un microclima a loro favorevole. I rivestimenti e le tappezzerie costituiscono innumerevoli nicchie difficilmente aggredite dai prodotti antiparassitari. Oggi si conoscono circa milleduecento specie di pulci, di cui centocinquanta vivono in Europa. La maggior parte non si interessa del sangue umano, ma è specializzata nel parassitare mammiferi e uccelli. La pulce più grande, poco più di mezzo centimetro, è ospitata dal toporagno, uno dei mammiferi più piccoli della terra. E' come se noi avessimo una pulce delle dimensioni di un topo. Responsabili dell'epidemia sono il Ctenocephalides canis e felis, ossia le pulci dei nostri affezionati animali domestici. In mancanza del loro ospite preferito non disdegnano tuttavia di aggredire altri animali disponibili, uomo compreso. La puntura della pulce comporta l'inoculo, tramite la saliva, di sostanze allergizzanti e di batteri responsabili di eczemi o dermatiti pruriginose. La trasmissione della Rickettsia moo seri ha reso la pulce del ratto responsabile della famosa peste bubbonica che dimezzò la popolazione europea nel XIV e nel XVII secolo. Al microscopio la pulce appare fortemente appiattita ai lati e dotata di una fronte a forma di chiglia, che le permette di fendere il pelo e muoversi in un fitto mantello come una scheggia. Ma la caratteristica preminente è l'ultimo paio di zampe che le consente di effettuare salti di dieci centimetri di altezza per una distanza di oltre trenta centimetri. Appena un animale giunge nel suo raggio d'azione, la pulce gli piomba addosso con una precisione sconcertante e inizia il suo pasto di sangue. Il segreto di un salto così sorprendente per un insetto così microscopico sta nel tendine che viene azionato nella fase di stacco. Esso è costituito da una speciale proteina, la resilina, che conferisce alla sua struttura una spiccata elasticità. Nella fase di preparazione al salto il tendine viene messo in tensione, dopo di che viene rilasciato con un meccanismo a scatto determinando quel salto prodigioso. Le pulci raggiungono la forma adulta attraverso gli stadi di uovo, larva e pupa. Lo sviluppo completo richiede da un minimo di tre settimane fino a diversi mesi, secondo il clima. L'adulto vive mediamente tre o quattro mesi ma, in assenza di cibo, e quindi in condizioni di immobilità forzata, può resistere fino a diciotto mesi. In seguito all'accoppiamento del maschio e della femmina, entrambi ematofagi, vengono deposte sul terreno una media di 400 uova. E' una bomba a tempo che nel giro di pochi giorni determina, in un ambiente infestato, la schiusa di migliaia di larve, pronte a rifugiarsi nelle fessure dei pavimenti, nei battiscopa, nelle moquette, dove fa il bozzolo. E' per questo che chi si limita a trattare solo il proprio animale con antiparassitari conduce una battaglia già persa in partenza. Il segreto sta nel trattare contemporaneamente il gatto, il cane e l'ambiente in cui essi vivono, per spezzare a più livelli il ciclo biologico della pulce. L'ultimo stratagemma messo a punto dai ricercatori consiste nell'utilizzare gli stessi animali domestici per trattare la casa. Al cane e al gatto viene somministrato per bocca un nuovo regolatore di crescita antipulci, chiamato Lufenuron. Quando la pulce fa il suo pasto di sangue, assorbe una dose di veleno sufficiente ad ucciderla. Luca Ansaldo
L'aspetto e l'atmosfera sono quelli dei college britannici: grandi saloni con pannelli di legno scuro alle pareti, lunghi corridoi silenziosi in cui si incontrano a piccoli gruppi studenti e ricercatori, aule e locali di estrema pulizia. Tutt'intorno, prati verdi e piante curatissime. Circondato da un imponente scenario di boschi e colline, ai piedi dei primi contrafforti dell'Himalaya, l'Istituto di Ricerche Forestali di Dehra Dun, nel Nord dell'India, è una delle istituzioni più avanzate e famose del mondo, nel suo settore: «Gli studi e le ricerche che conduciamo in questo istituto - spiega il direttore generale, N.K. Joshi - sono finanziate dalle principali organizzazioni internazionali e dai governi di tutti i Paesi del mondo. Anche l'Italia ci ha recentemente commissionato una ricerca sulla biologia dei pioppi e sulle loro potenziali utilizzazioni». Nei laboratori e nei centri di sperimentazione e di studio dell'istituto lavorano oltre 500 specialisti, ricercatori e studiosi, ma l'intera struttura, che comprende anche un giardino botanico molto ricco e bene organizzato, dà lavoro a oltre 1800 persone. «Nei nostri laboratori - spiega ancora Joshi - si effettuano ricerche di grande utilità per l'economia del Paese: a uno stadio particolarmente avanzato sono infatti gli studi sulla produzione di carta dalla canna di bambù, finanziati dal governo indiano». Tra gli altri settori nei quali l'Istituto di Dehra Dun ha dato un importante contributo, vi sono quelli della protezione delle risorse forestali, per la quale è stato messo a punto un trattamento specifico basato su arsenico, rame e cromo, che è ormai in uso in molte parti del mondo. Interessanti anche le tecnologie per il riciclaggio del legno e la sostituzione dei combustibili fossili per riscaldamento con materiali a minor costo. Nei prossimi vent'anni, l'Istituto rivolgerà i propri sforzi a un miglior sfruttamento delle aree coltivabili e al recupero delle zone attualmente non utilizzate. Fondato nel 1878, sotto la dominazione britannica, l'Istituto di Ricerche Forestali di Dehra Dun si è progressivamente sviluppato, con le sue strutture di ricerca, l'erbario e le biblioteche, all'interno di un'area di oltre 500 ettari, che ospita anche, in tante piccole villette immerse nel verde, le abitazioni del personale, degli studenti e dei ricercatori, le mense e le strutture di supporto, oltre a un'area destinata a giardino botanico, uno dei più ricchi e meglio organizzati del Paese. Attualmente l'Istituto, presso il quale è possibile ottenere borse di studio per periodi di tre- quattro anni ma anche per stages della durata di alcuni mesi, è ripartito in varie divisioni: silvicoltura, studio e gestione delle risorse, prodotti, protezione e botanica delle foreste, genetica e propagazione delle piante, sociologia forestale, ecologia e conservazione, prodotti minori delle foreste. L'Istituto, che fa parte di un organismo centralizzato a livello nazionale (Indian Council of Foresty Research & Education), ha due centri distaccati: uno a Simla, nel Nord del Paese (Stato dell'Uttar Pradesh), specializzato nello studio delle conifere di alta montagna, e l'altro a Ranchi, nel Bihar (a Est), dove vengono condotte ricerche ed esperimenti estensivi sulla cocciniglia della lacca, l'insetto che, deponendo le proprie uova sui rami di Ficus religiosa e Croton lacciferus, provoca la fuoriuscita della resina che viene utilizzata per la produzione della gomma lacca (utilizzata industrialmente come tintura, appretto, adesivo). Giorgio Vizioli
ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 019
SITUATA tra il continente australiano e l'Antartide, la Tasmania è «l'isola del diavolo e della tigre». Un appellativo misterioso con una soluzione zoologica: diavolo e tigre sono due specie di marsupiali endemici dell'isola; parenti del canguro per l'apparato riproduttivo, si distinguono dai marsupiali continentali perché carnivori. Della tigre (Thylacinus cynocephalus) non si hanno più notizie certe dal 1936, quando l'ultimo esemplare in cattività morì allo zoo di Hobart. La si crede estinta (non lo è ufficialmente), ma sono in molti a non essersi rassegnati alla sua scomparsa: ogni anno decine di persone assicurano di averla avvistata nelle regioni più remote della wilder ness; il 22 per cento dell'isola è parco nazionale ed è in parte ancora inesplorato. La thylacine è il più grande marsupiale predatore (lungo 180 centimetri dalla coda al naso e alto 58 centimetri), assomiglia a un cane con zampe corte e una grossa testa, il pelo marrone percorso da striature nere, da cui il soprannome tigre. Vive nelle foreste di eucalipti, dove la notte caccia canguri e opossum. Ritrovamenti fossili e graffiti aborigeni su roccia dimostrano che un tempo viveva anche in Australia e in Papua Nuova Guinea, dove si estinse attorno al 1300 a.C. probabilmente a causa della competizione col dingo (introdotto dall'Indonesia circa 6000 anni fa). Diverse specie animali scomparse sulla terraferma sopravvivono e prosperano in Tasmania grazie all'assenza del dingo e della volpe rossa. La mancanza di questi predatori placentati ha permesso la sopravvivenza del diavolo della Tasmania (Sarcophilus har ristii), un marsupiale carnivoro scomparso in Australia: ha un corpo massiccio (60 centimetri compresa la testa e 25 di coda, per 8 chilogrammi di peso) coperto da una folta pelliccia nera talvolta percorsa da macchie bianche fra il collo e le zampe anteriori. Ha abitudini notturne e si ciba principalmente di carogne che mangia completamente, ossa comprese, grazie ai suoi denti aguzzi e alla potente mascella; in mancanza di carcasse diventa predatore. Di giorno si rifugia in grotte, in buche nel terreno e negli alberi; i più giovani s'arrampicano anche sui tronchi degli alberi. S'accoppia a marzo e dà alla luce i piccoli dopo un mese: il cucciolo resta nel marsupio della madre per altre 15 settimane e diventa un adulto completamente formato dopo 7 mesi. Vive in boschi, foreste e nelle aree agricole, ed è molto frequente nel Nord-Est dell'isola. Le vicende della tigre e del diavolo dimostrano ancora una volta l'impossibilità per i mammiferi marsupiali di competere con i più evoluti placentati, un aspetto più evidenziato per una specie carnivora come la thylacine sopraffatta dal dingo nella lotta per il territorio. E il quoll (Dasyurus vi verrinus), un piccolo marsupiale carnivoro ancora diffuso, oltre che in Tasmania, nell'Australia sud-orientale, non s'è estinto grazie alle sue abitudini arboricole che lo esentano da battaglie con altri animali per lo spazio vitale. Un problema di salvaguardia delle primitive specie australiane che in termini più ampi riguarda anche i canguri: oltre a essere cacciati (4 milioni di capi abbattuti l'anno) si trovano a competere per i pascoli con le enormi greggi (164 milioni di ovini) e mandrie (24 milioni di bovini) introdotte dall'uomo bianco. Marco Moretti
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, ALIMENTAZIONE, PSICOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 020
VI piacciono le patate fritte? Gustate i pesci fritti e il gelato? Trovate che è quasi impossibile mangiarne una porzione sola? La colpa può esser tutta nella vostra testa. Un gruppo di ricercatori della Rockefeller University di New York ha scoperto che una piccola proteina, anzi un peptide, chiamato galanina ci sensibilizza verso la mancanza di grassi nel nostro cibo e ci indirizza verso questi. Lo stesso gruppo ha scoperto che un farmaco che blocca l'attività della galanina riduce anche l'appetito per i grassi. Oltre ai ben noti problemi cardiovascolari, esistono seri sospetti che un'alimentazione troppo ricca di grassi favorisca l'insorgere di particolari tumori, come quello della mammella e il carcinoma intestinale. Appetito, bilancio energetico, peso corporeo e accumulo di grasso sono controllati da una serie di fattori neurochimici e neuroendocrini. I segnali provengono da diverse parti del cervello, in particolare dall'ipotalamo, e sono costituiti da una ricca varietà di molecole. Sostanze nutritive presenti nel sangue quali grassi e zucchero, aminoacidi e neurotrasmettitori, esercitano rapidi effetti mentre neuropeptidi e ormoni hanno un effetto più duraturo, che modula i processi metabolici generali. Esiste una possibilità che disturbi del sistema neurochimico cerebrale possano contribuire a una abnormalità delle nostre abitudini alimentari (anoressia, bulimia e obesità, secondo i casi). L'integrazione delle informazioni metaboliche che giungono dalla periferia con i segnali più fini provenienti dal cervello rende necessari interventi molto specializzati da parte sua. L'ipotalamo rappresenta appunto una zona specializzata del cervello devoluta al controllo dell'attività neurochimica e neuroendocrina che influenza il comportamento dell'individuo nella scelta e nella quantità degli alimenti. Una serie di particolari sostanze individuate recentemente nell'ipotalamo sembrano avere precisamente questo ruolo specifico. Esse includono peptidi di tipo oppiaceo, corticoidi come l'aldosterone e, recentemente, la galanina. Ognuna di queste sostanze agisce selettivamente sulla regione media dell'ipotalamo potenziando l'ingestione di sostanze ricche di grasso. Sembrano esistere chiare differenze tra queste sostanze e quelle che potenziano l'ingestione dei carboidrati (zuccheri). Negli animali come nell'uomo l'appetito per i grassi aumenta progressivamente nel corso del pasto. La galanina è stata localizzata nel nucleo paraventricolare dell'ipotalamo che è pure la sede di potenti oppiacei reperibili nel cervello. Pare quindi che galanina e oppiacei agiscano assieme nel controllo non solo dell'appetito ma anche delle sensazioni del dolore. Una singola iniezione di galanina nel nucleo paraventricolare di un animale fa aumentare notavolmente l'assunzione di grassi per un periodo di 24 ore. La galanina potenzierebbe l'effetto dell'aldosterone e stimolerebbe i ricettori cerebrali degli ormoni steroidi che fanno aumentare l'ingestione di grasso e il suo accumulo nel corpo. Si tratta quindi di un'azione ben orchestrata e molto efficace. Il gene che controlla la galanina è in grado di controllare anche l'appetito dell'animale e il suo peso? Il gruppo della Rockefeller ha sviluppato recentemente un farmaco sperimentale chiamato M40, che ha l'effetto di bloccare selettivamente l'azione della galanina cerebrale. Tale farmaco diminuisce notevolmente l'interesse dell'animale per i cibi grassi, portandolo a nutrirsi con una quantità normale di grasso. Diverse industrie farmaceutiche stanno cercando di sviluppare farmaci di questo tipo per una terapia di soggetti obesi. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, ACQUA, BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 020
L'acqua rappresenta uno dei diritti umani fondamentali, essenziali per la salute e la sopravvivenza stessa. L'Organizzazione mondiale della sanità vuole che il decennio degli Anni 90 corrisponda alla cooperazione fra i Paesi e la Comunità internazionale, allo scopo di fornire a tutti i popoli l'acqua della quale hanno bisogno, ancora mancante a 1 miliardo e 200 milioni di persone. E non è tutto: pur essendo l'acqua abbondante, la salute non soltanto per questo è protetta. L'acqua malsana è causa diretta di malattie per milioni di persone. Danni irreparabili sono stati causati dall'inquinamento delle acque in città dell'Europa dell'Est, e il continente sudamericano è da qualche anno invaso dal colera, con centinaia di migliaia di casi. L'acqua, che costituisce oltre il 50 per cento della massa totale del nostro corpo, è extracellulare e intracellulare. Un delicato sistema di regolazione, affidato soprattutto ai reni, assicura il mantenimento dell'equilibrio fra entrate e uscite. E' un equilibrio di estrema importanza: la semplice diminuzione dell'uno per cento del volume dell'acqua corporea, pur non provocando sete, porta a una riduzione della capacità fisica e della concentrazione mentale. Questa è una chiara prova delle conseguenze d'una anche modesta disidratazione. Occorre tenerne conto specialmente nell'anziano, nel quale la diminuzione del contenuto corporeo d'acqua è abituale e si accompagna con una minore sensibilità del centro della sete, situato nel cervello, nell'ipotalamo laterale. Situazione patologica frequente, la disidratazione riguardante l'acqua extracellulare è legata alla quantità di sodio presente nell'organismo, e precisamente a una perdita di sodio superiore alle entrate, in rapporto con malattie dei reni, per esempio nefriti interstiziali croniche, o con l'assunzione di farmaci diuretici, specie negli anziani. Diversa è la disidratazione che può avvenire in questa stagione, quando si eliminano litri di sudore per un'attività fisica intensa in ambiente caldo. I sintomi sono caratteristici: stanchezza, mancanza di appetito, perdita di peso, pelle secca, occhi cerchiati. Non c'è sete. Numerosi sono i segni biologici: elevazione dell'ematocrito (volume percentuale dei globuli rossi rispetto al plasma del sangue) e delle proteine totali, abbassamento del sodio nel sangue, insufficienza renale funzionale. La disidratazione è grave nel lattante, il quale rinnova ogni giorno un terzo della sua acqua mentre l'adulto ne rinnova un quinto. Il lattante è dunque molto vulnerabile, le cause sono numerose, quelle digestive (diarrea, vomito) le più frequenti. Istante per istante i reni ricevono messaggi indicanti il volume dell'acqua e regolano il riassorbimento o l'escrezione del sodio in funzione delle necessità dell'omeostasi, ossia dell'equilibrio interno dell'organismo, che deve mantenersi stabile nonostante il variare delle condizioni esterne. Tali messaggi sono forniti dagli ormoni aldosterone e antidiuretico (o vasopressina), nonché da un ormone prodotto dagli astri del cuore, il fattore natriouretico (natriouresi = escrezione di sodio). Il cuore è dunque anche una ghiandola endocrina, il cui ormone agisce sui reni, sulle ghiandole surrenali e sul sistema vasale provocando eliminazione di sodio e d'acqua. A differenza dell'acqua extracellulare, in rapporto col sodio, quella intracellulare è tributaria in particolare del metabolismo dell'acqua libera, con un duplice sistema di regolazione: da un lato escrezione o riassorbimento d'acqua dai tubuli renali sotto l'influenza dell'ormone antidiuretico, dall'altro lato apporto di bevande sotto l'influenza della sete. La disidratazione intracellulare dipende dunque dal non bere a sufficienza, o dal non funzionamento del centro cerebrale della sete, per cui le uscite d'acqua sono superiori alle entrate e il bilancio è negativo. Importante è il problema dell'acqua per coloro che viaggiano durante le vacanze. Le principali infezioni trasmissibili con l'acqua sono colera, epatite, amebiasi, salmonellosi, shigellosi. Sempre bere acqua minerale in bottigle sigillate, non aggiungere ghiaccio. Si può rendere potabile l'acqua con l'aggiunta di cloro (amuchina, euclorina). Ulrico di Aichelburg
ARGOMENTI: ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA
NOMI: POSSUELO SIDNEY
LUOGHI: ESTERO, BRASILE, PARA'
NOTE: 020
IL Parà è uno degli Stati brasiliani in cui vivono indios che non hanno ancora avuto contatti con i bianchi. La salvezza di queste minoranze autoctone, più vulnerabili e indifese, rappresenta una grave emergenza che il governo deve affrontare in tempi brevi. Si tratta di piccole comunità, formate da poche decine o, al massimo, poche centinaia di individui, sparse su un immenso territorio, in zone di difficile accesso. Queste minoranze-relitto sono alla mercè di quanti, per sfruttare le ricchezze naturali dell'Amazzonia, prima o poi finiranno per invadere le loro terre, causandone la distruzione. «Contrariamente a quanto avveniva in passato - dice Sidney Possuelo, creatore della Coordenadoria de Indios Isolados, l'organismo della Funai (Fundacao Nacional do Indio) che cerca di identificarle, contattarle e proteggerle - noi oggi pensiamo che una popolazione, quando possiede le risorse sufficienti per vivere autonomamente in un dato territorio, non debba essere contattata. Ma il contatto si rende necessario solo quando il nostro programma di vigilanza risulta insufficiente a garantirne la sopravvivenza, oppure quando scoppiano conflitti interetnici tra popolazioni costrette a contendersi spazi e risorse vitali per sopravvivere». Il caso del gruppo etnico recentemente scoperto nel Nord del Parà è molto emblematico. Qualche mese fa i giornali brasiliani hanno dato la notizia che una equipe della Funai ha raggiunto per la prima volta questa popolazione sconosciuta in una regione isolata dell'Amazzonia, lungo il rio Cuminapanema, 270 chilometri a Nord di Santarem. Si è poi saputo, però, che essa era stata contattata sin dal 1982 da missionari evangelici americani, appartenenti alla Missao Novas Tribos do Brasil. L'avvicinamento era avvenuto senza alcuna autorizzazione e all'insaputa della Funai, che vieta alle missioni di operare in aree protette, dove è segnalata l'esistenza di gruppi indigeni ancora isolati o appena contattati. Gli indios del Rio Cuminapanema sono in tutto 142. Hanno una struttura piuttosto solida, parlano una lingua tupì e usano un curioso ornamento, un cilindro di legno lungo circa 15 centimetri (robempor), che inseriscono sotto il labbro inferiore all'età di sette-otto anni. Col passare del tempo questo ornamento deforma l'arcata dentaria inferiore. Il legno di cui è fatto si chiama poturù: da cui deriva il nome di Potur udjara attribuito agli indios dai loro vicini. Gli indios del rio Cuminapanema vivono in accampamenti formati da poche abitazioni comunitarie, prive di pareti, ciascuna delle quali può ospitare una decina di famiglie, con le loro amache. Praticano la caccia e l'orticoltura per debbio (bruciano cioè, la vegetazione prima di dissodare il terreno), coltivando manioca, mais, una pianta che produce una fibra molto resistente e una specie di pepe che mangiano in abbondanza, mentre non sembrano possedere strumenti per la pesca. Oltre ad archi e frecce (comprese quelle prive di punta, per catturare gli uccelli senza sciuparne il piumaggio), utilizzano strumenti tecnologici che ricordano quelli neolitici. Alle donne, che usano radersi una zona del cranio per appiccicarvi piccole piume di urubù-rei, spetta il gravoso compito di accudire alla prole e di garantire il sostentamento della comunità. Nel febbraio dell'89, quando Sidney Possuelo visita i loro tre villaggi, trova gli indios in condizioni di salute molto critiche: alcuni hanno la malaria, altri la tosse e la febbre e presentano numerose morsicature di serpenti. Prestate le prime cure, decide di tornarvi a maggio, con personale medico specializzato, per fare una serie di controlli e per vaccinare tutta la popolazione, esposta al pericolo di contrarre malattie contro cui non possiede anticorpi. Incontra una sola donna gravida e nessun bambino con meno di un anno di età: come è avvenuto tra i Nambikuara del Mato Grosso e gli Arara del Parà, vedendo minacciata la sopravvivenza della comunità le donne hanno rinunciato a procreare o deciso di abortire. Secondo il medico della Funai, Marcos Guimaraes, «era un vero miracolo che gli indios fossero ancora vivi, perché da quando erano stati avvicinati dai missionari della Missao Novas Tribos, ne erano morti più di venti e, in sei anni, i superstiti non avevano ricevuto alcuna assistenza medica e non erano mai stati vaccinati». «Non stiamo aggredendo la cultura indigena. Vogliamo solo portare questo popolo alla civiltà attraverso la parola di Dio!» afferma il responsabile della missione Paul Nagell. Ma Possuelo ribatte seccamente: «Questo modo di pensare è un anacronistico e inaccettabile atteggiamento colonialista. Proteggere gli indios significa rispettare anche il loro universo mitico e religioso». Le missioni evangeliche operano molto discretamente, impermeabili a qualsiasi interferenza esterna e alla stessa politica del governo, nelle zone più inaccessibili e di maggior interesse strategico dell'Amazzonia. Esercitando di fatto una forma di controllo sull'esistenza indigena, sui valori culturali, sui mezzi di comunicazione e sulle risorse economiche, tanto da far sospettare che esse non si pongano soltanto scopi spirituali. Una recente indagine ha rivelato che delle 53 missioni esistenti in Brasile soltanto 14 hanno firmato un accordo con la Funai. La maggior parte opera in aree indigene senza alcuna autorizzazione ufficiale. Le organizzazioni evangeliche presenti nel Paese, con sede dichiarata in Brasile o all'estero, sono nove. Tra esse, la Missao Novas Tribos do Brasil (affiliata alla New Tribes americana) con sede ad Anapolis, 60 chilometri da Goi°ania, promuove l'evangelizzazione sul territorio da circa trent'anni. Basando il loro operato sulla conoscenza delle lingue indigene per tradurre la Bibbia, le missioni evangeliche occupano uno spazio che la Funai, a corto di mezzi e di personale, ha lasciato libero. Secondo vari antropologi, della Missao Novas Tribos fanno parte persone di profonda fede religiosa, talvolta fanatica, con scarsa preparazione culturale e antropologica. Rispetto ai cattolici, gli evangelici hanno il vantaggio di presentarsi agli indios con mogli e figli: gli indigeni infatti considerano abbastanza incomprensibile il fatto che degli uomini (i missionari cattolici) possano vivere senza sposarsi e senza avere prole. Insieme alla conversione al Cristianesimo, gli evangelici perseguono l'assimilazione degli indios alla cultura occidentale, attraverso l'imposizione dei propri valori morali e modelli di comportamento, il ripudio e il disprezzo delle tradizioni autoctone, considerate pratiche selvagge e peccaminose, suscitando il timore di sanzioni divine e castighi apocalittici. In realtà anche in Amazzonia, ultima terra di conquista materiale e spirituale, dietro certi conflitti di competenze tra Funai e le missioni, tra il governo e la Chiesa, spesso si nascondonostrategie e interessi per il controllo delle risorse economiche e umane del territorio. Maurizio Leigheb