TUTTOSCIENZE 28 aprile 93


SIMULAZIONE AL COMPUTER Sboccia la vita artificiale Allevati i primi «organismi virtuali»
Autore: CARRADA GIOVANNI

ARGOMENTI: ELETTRONICA, INFORMATICA, BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: RAY THOMAS, REYNOLDS CRAIG, HILLIS DANIEL, TAYLOR CHARLES
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 065

SI celebrano in questi giorni i quarant' anni della scoperta, da parte di Watson e Crick, della struttura a doppia elica della molecola di Dna, la più importante per la vita perché ad essa è affidato il patrimonio genetico di tutte le creature. Lo studio dei geni è senza dubbio una via maestra verso la comprensione dell' origine della vita e della sua evoluzione. Ma di recente un aiuto insperato è giunto dalla simulazione di forme viventi tramite computer. Thomas Ray, biologo evoluzionista dell' Università del Delaware, deciso a scoprire qualcosa di più sull' origine dell' incredibile diversità biologica che aveva imparato a conoscere nelle foreste centroamericane, tre anni fa cominciò a sviluppare «Tierra», un ecosistema artificiale tutto contenuto nella memoria di un computer. In un blocco libero di memoria, che battezzò «il brodo» , Ray liberò l' Antenato, un programma di 80 istruzioni che si autoreplicava costantemente. Nel «brodo» i discendenti mutavano in modo casuale le istruzioni a ogni replicazione, e dovevano competere tra loro per lo spazio di memoria e i cicli di calcolo. Ray lasciò girare Tierra nel suo computer, dando il via a un esperimento di evoluzione aperta, non indirizzata cioè in alcun modo. Con sua grande sorpresa, dopo poche ore sullo schermo comparvero veri e propri parassiti di 45 istruzioni, seguiti più tardi da mutanti immunizzati degli organismi originari, e così via in una classica «corsa agli armamenti» evolutiva che diveniva sempre più complessa. In questo ecosistema artificiale che non ha mai smesso di perfezionare Ray ha potuto sperimentare diverse situazioni tipiche in natura, come la nascita di nuove specie, la coevoluzione, l' iperparassitismo, o l' effetto dell' introduzione di un predatore, con il vantaggio di poter costantemente controllare l' assetto genetico (le istruzioni) dei suoi organismi. Una specie di Big Bang evolutivo, simile e quello che 600 milioni di anni fa diede origine alle principali forme di vita sulla Terra. Ma cosa ha visto Ray sul suo computer? Possono le sue creature essere considerate «vive» ? La questione è aperta, perché nonostante tutte le scoperte della genetica, della fisiologia, della biochimica o dell' ecologia, non esiste ancora una definizione universalmente accettata del fenomeno vita. Nessuno riesce a includere tutto quello che intuitivamente chiamiamo «vivo», e solo quello. Ray non è stato un pioniere isolato. A candidare il computer a strumento per lo studio della vita è un eterogeneo gruppo di ricercatori matematici, informatici, embriologi, entomologi, evoluzionisti, studiosi di intelligenza artificiale che si riconoscono in una nuova disciplina scientifica, quella della «vita artificiale», più nota tra gli addetti ai lavori con il nome A life. Due sono le loro convinzioni di base. La prima è che la complessità a volte veramente straordinaria dei fenomeni biologici sia il risultato dell' azione comune di regole semplici (codificate, naturalmente, nel Dna). Che la complessità, cioè, sia proprietà «emergente» Come non c' è scopo nell' evoluzione biologica, così non ci sono direttori d' orchestra nei sistemi viventi. La seconda è che ciò che veramente distingue il vivente dal non vivente è la capacità di usare l' informazione per ricostruire se stesso, cercare le risorse di cui ha bisogno, evolversi e imparare. La vita, insomma, non sarebbe una proprietà della materia, ma dell' organizzazione della materia. Che questo processo informativo sia basato sulla chimica del carbonio oppure esista solo nella memoria di un computer, non importa. Craig Reynolds, servendosi di un programma di computer grafica, ha creato uno stormo di uccelli artificiali il cui comportamento è straordinariamente simile a quello di uno stormo vero. Assegnate tre semplici regole a ogni uccello (stare vicino agli altri, non avvicinarsi troppo, regolare la propria velocità su quella dei più vicini) lo stormo artificiale si muove in un paesaggio creato dallo sperimentatore proprio come farebbe uno stormo «vivo». Stimolati da questa possibilità, un gruppo di entomologi dell' università di Bruxelles ha ricreato la complessità di una colonia di termiti a partire da poche semplici regole di comportamento individuale, ricavate dall' osservazione in natura. Altri insetti sociali questa volta le formiche sono stati al centro di AntFarm, forse il più complesso esperimento di vita artificiale, realizzato da Robert Collins all' Università della California. Ciascuna delle oltre due milioni di «formiche» della simulazione, composta di 25. 590 bit, sa andare a cercare il cibo, lo sa raccogliere, si lascia dietro feromoni, e usa una bussola mentale per tornare al formicaio. Aristid Lindenmayer, botanico e logico, ha simulato lo sviluppo di molte piante applicando in modo ripetitivo poche semplici regole, nell' ipotesi che siano proprio quelle che valgono in natura. Due suoi allievi dell' Università di Utrecht, in Olanda, hanno trasformato le serie di bit da lui ottenute in disegni di piante sullo schermo del computer. Girasoli, cactus, tulipani di qualità quasi fotografica così ottenuti hanno una somiglianza sorprendente con le piante vere. Przemyslaw Prusinkiewicz, Università di Calgary, in Canada, sta invece cercando di riprodurre i primi stadi di sviluppo di un embrione animale. In un computer dell' Università della California a Los Angeles, Charles Taylor ha ricreato tutta la complessità di un ecosistema vero, quello in cui vivono le zanzare di Orange County, uno dei grandi sobborghi della sua città. Ram, il modello da lui sviluppato in base ai principi della A life, verificato in base ai dati decennali di temperatura, piovosità, consistenza delle popolazioni disponibili presso le autorità locali, riesce a simulare con buona approssimazione gli alti e bassi demografici delle zanzare, permettendo tra l' altro di ridurre drasticamente l' uso dei pesticidi. Le creature di Daniel Hillis, catapultato dai laboratori del mitico Mit di Cambridge, Massachusetts, alla guida di un' industria di supercomputer, non assomigliano a nessun organismo vero. Ma la loro evoluzione nei circuiti di una potente «Connection Machine» sta contribuendo a chiarire che ci potrebbe essere un meccanismo genetico, e non un cambiamento dell' ambiente, alla base della cosiddetta «evoluzione per equilibri punteggiati», il modello della storia della vita proposto tra gli altri da Stephen Jay Gould Vale a dire, il fatto che l' evoluzione biologica non sembra procedere gradualmente, ma per accelerazioni improvvise, seguite da lunghi periodi in cui non succede quasi nulla. Proprio come aveva spiegato Darwin a proposito di piante e animali, gli organismi artificiali sono capaci di cercare da soli le soluzioni migliori per sopravvivere e riprodursi nel loro ambiente. In un certo senso anche loro «apprendono». Per questo la A life ha attirato l' attenzione degli studiosi di intelligenza artificiale, disciplina che nonostante le promesse iniziali, non ha mai partorito grandi risultati. I ricercatori del laboratorio di intelligenza artificiale del Mit hanno letteralmente dato un corpo ai chip programmati secondo i principi della A life, costruendo piccoli robot capaci di muoversi tra gli ostacoli di un ambiente reale. Al robot tradizionale va prima fornita una mappa del territorio in cui si deve muovere, perché poi sappia riconoscere l' ambiente che si trova davanti. La cosa non soltanto crea un «collo di bottiglia» cognitivo nella macchina, che si deve fermare a riflettere ad ogni passo, ma la blocca del tutto se si trova di fronte un ostacolo imprevisto. A Genghis, il primo «scarafaggio» meccanico costruito con la nuova logica, i ricercatori hanno invece dato solo un certo numero di regole generali, e naturalmente uno scopo. Ma sono riusciti a ottenere da lui la soluzione immediata di problemi imprevedibili, e finora irrisolubili da una macchina, come quello di orientarsi in un labirinto di tavoli, sedie, cestini, persone che si muovono in continuazione. In altre parole, hanno ottenuto un comportamento. Come quello di uno scarafaggio vero. Giovanni Carrada


SINDROME DI FRANKENSTEIN Qualcuno teme il mondo post biologico
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 065. Simulazioni al computer di vita artificiale A life

OGNI «nuova creazione», come qualcuno ha già cominciato a chiamare la A life, evoca inevitabilmente la sindrome di Frankenstein. Così è stato per l' ingegneria genetica. La novità degli esperimenti di «vita artificiale», è che la tecnologia è infinitamente più semplice e accessibile. I virus dei computer, anche se hanno avuto una storia indipendente da quella della A life vera e propria, sono spesso considerati una delle sue creazioni più perfette, e più degne di aspirare al titolo di «vita vera». E tutti hanno imparato a conoscerne l' imprevedibilità e l' imprendibilità. Problemi molto più seri potrebbero essere creati da macchine programmate secondo la logica della «vita artificiale». Proprio le caratteristiche che le fanno più utili possono renderle più pericolose. Come un vero organismo, queste «creature» sono capaci di trovare soluzioni ai problemi che si trovano di fronte, in altre parole evolvono. Ma lo fanno secondo i loro bisogni, che possono anche cambiare rispetto a quelli previsti dal ricercatore. Come ha fatto notare Charles Taylor, uno dei pionieri della A life, una macchina del genere potrebbe facilmente violare la prima delle tre leggi immaginate da Isaac Asimov per la robotica: «Un robot non causerà danno a un essere umano, oppure, non agendo, lascerà che gliene venga causato». Basterebbe che le risultasse vantaggiosa una mutazione nel suo codice che le permette di saltare la subroutine del programma che contiene questa regola. Fantascienza? Non del tutto, visto il costante aumento dei finanziamenti per questo tipo di studi da parte dell' amministrazione militare americana. (g. c. )


A SIENA Il gufo ai raggi infrarossi Tecniche militari per studiare la fauna
Autore: LEONCINI ANTONELLA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 065

E' scattata l' operazione «Gufo infrarosso»: per la prima volta in Europa strumenti di tecnologia molto avanzata solitamente utilizzati dai militari a fini bellici sono riconvertiti al monitoraggio e allo studio della fauna selvatica. Una ricerca, condotta nella provincia di Siena in collaborazione con l' Università La Sapienza di Roma e le Officine Galileo, diventa occasione per una radicale riconversione di strumenti di guerra; essa infatti utilizza tecnologie sofisticate (per esempio, telecamere all' infrarosso) per un progetto di rilevazione e di studio degli animali, in particolare durante la notte. Le tecniche di telerilevamento da postazione fissa, dall' aereo e dai satelliti permettono l' osservazione continua e periodica di ampie zone della superficie terrestre e consentono di conoscerne lo stato e i mutamenti, siano essi imputabili a cause naturali o a cause antropiche. Le telecamere a infrarossi sono sensibili alle radiazioni termiche emesse dai corpi le immagini vengono poi elaborate elettronicamente e consentono il riconoscimento delle specie e delle loro caratteristiche morfologiche. La tecnica è quella dei falsi colori: tanto più è intensa una fonte di calore, tanto più forte è la tonalità del bianco. Gli strumenti di rilevamento segnalano variazioni di calore anche minime: le telecamere agiscono sulla banda di lunghezza d' onda da 8 a 12 micron. I metodi sviluppati dalle Officine Galileo hanno già trovato impiego in alcune regioni nella lotta agli incendi boschivi, con l' installazione di impianti automatici di avvistamento precoce, basati sull' infrarosso termico; risultati positivi sono stati ottenuti usando sensori progettati per la guida dei missili verso l' obiettivo. Nella lotta contro il fuoco il sistema, denominato Pais, garantisce il continuo monitoraggio su una vasta area boschiva e lancia l' allarme al minimo focolaio; in condizioni ottiche standard consente anche di avvistare precocemente il fumo sino a distanze superiori ai 10 chilometri. Il sistema Pais si compone di una rete di stazioni di rilevamento a terra, le unità periferiche locali, collegate attraverso un sistema di comunicazioni a maglia ad un centro operativo locale. Questa tecnica può essere estesa anche al controllo di altri rischi naturali come frane, valanghe, alluvioni, permettendo la valutazione dell' impatto ambientale e la pianificazione delle azioni d' intervento. La ricerca avviata nella provincia di Siena ha dato positivi risultati per lo studio del patrimonio faunistico. Già da alcuni mesi i sensori hanno «filmato» la vita degli animali: ungulati e altri mammiferi, uccelli ripresi in diverse condizioni climatiche e temporali. Le immagini sono state raccolte in un tape che racconta le vicende notturne dei boschi e delle campagne: così l' «obiettivo» ha sorpreso in trasparenza una lontra mentre nuota sott' acqua, è riuscito a filmare i movimenti di un cervo con le corna chiarissime perché nel periodo dell' accrescimento. L' obiettivo finale dello studio è quello di possedere strumenti e sistemi che, nell' ambito di un più vasto concetto di controllo e gestione del territorio e delle risorse nazionali, consentano il monitoraggio della fauna per la gestione e la pianificazione. In provincia di Siena i dati raccolti saranno utilizzati per la programmazione delle aree protette. Antonella Leoncini


SU TRITONE 235 C Gelida luna di Nettuno Il misterioso fenomeno dei geyser
Autore: BATALLI COSMOVICI CRISTIANO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
ORGANIZZAZIONI: VOYAGER 2
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 066

T RITONE, mitologico semidio figlio di Nettuno, è il nome di uno dei due satelliti scoperti nel 1846 intorno a Nettuno, ottavo pianeta del sistema solare. Con un diametro di 2784 chilometri (640 meno della Luna) è uno dei corpi più brillanti e più freddi che sono stati esplorati dalle sonde spaziali; trovandosi a ben 4, 5 miliardi di chilometri dal Sole, riceve appena un millesimo dell' energia solare che giunge sulla Terra. La sonda americana «Voyager 2» è passata a 38. 400 chilometri da Tritone il 25 agosto 1989, tra l' altro ha scoperto 6 nuovi piccoli satelliti con diametri fra i 30 e i 20 chilometri, non visibili dalla Terra. L' orbita inclinata e retrograda di Tritone (da Est a Ovest) faceva pensare che si trattasse di un oggetto di dimensioni lunari catturato dal campo gravitazionale di Nettuno dopo essere stato rallentato dall' attrito della tenue atmosfera esterna che si andava formando sul pianeta. In contrasto con altri satelliti del sistema solare esterno, i quali probabilmente si sono formati dal materiale orbitante intorno ai loro pianeti genitori, Tritone potrebbe rappresentare quella specie di corpi celesti che si sono aggregati in gran numero per formare Nettuno. Le misure del «Voyager» hanno mostrato che esso, con una densità di 2, 06 grammi per centimetro cubo (più del doppio di quella dell' acqua ghiacciata), deve essere composto in prevalenza da materiale roccioso e organico. Dovrebbe avere un nucleo di roccia di circa 1000 chilometri di diametro e un mantello e una crosta di ghiaccio d' acqua di circa 350 chilometri, mentre uno strato superficiale di ghiacci volatili (principalmente azoto e metano) non dovrebbe superare lo spessore di 1 chilometro. Tritone riflette circa il 90% della luce solare e, con una temperatura di _ 235 C, viene ad essere il corpo più freddo del sistema solare. Malgrado ciò, a causa di una notevole energia di calore interna, la temperatura superficiale riesce a salire di 1 2 C e questo effetto può essere misurato. Il forte potere riflettente (albedo) di Tritone è dovuto primariamente alla grande quantità di metano e azoto congelati sulla superficie e può anche superare il 90% del valore corrispondente a quello della neve fresca che cade sulla Terra. Nell' atmosfera vi sono però anche tracce di ossido di carbonio, anidride carbonica e altro materiale organico. Le fotografie del «Voyager» hanno mostrato striature scure nella calotta polare Sud ed esperti americani suppongono si tratti di geyser che emettono in continuazione gas, ghiaccio e polvere. Queste eruzioni possono essere provocate dall' energia solare che colpisce provocando la loro espansione e susseguente esplosione attraverso la superficie ghiacciata. Per spiegare questo fenomeno immaginiamo che nella calotta polare Sud di Tritone vi siano striature chilometriche di ghiaccio di azoto che sono relativamente trasparenti. In queste zone la luce solare penetra per molti metri al di sotto della superficie e viene gradualmente assorbita riscaldando il ghiaccio. Poiché l' azoto ghiacciato è un cattivo conduttore di calore, la temperatura a vari metri sotto la superficie tende lentamente a salire. Se ora queste zone trasparenti sono abbastanza estese esse vengono a comportarsi come dei giganteschi collettori solari, immagazzinando energia sotto forma di pressione gassosa. Quando poi la pressione raggiunge valori sufficientemente elevati, tali cioè da incrinare le parti più deboli del ghiaccio, l' energia immagazzinata su una vasta superficie viene liberata in modo esplosivo attraverso una piccola fessura e si forma un geyser di gas azoto. Altri scienziati affermano invece che i geyser sono provocati dal calore proveniente dall' interno di Tritone. Può anche essere che geyser siano soltanto innescati dalla radiazione solare, ma che ricevano la loro sorgente principale di energia dal calore interno. A mio avviso questi fenomeni osservati su Tritone e le loro cause sono molto simili a quelli che provocarono i getti di gas e polvere osservati nel nucleo della cometa di Halley. L' eruzione osservata su tale cometa nel febbraio 1991, quando essa si trovava a ben 2, 145 miliardi di chilometri dal Sole, deve essere stata provocata anch' essa da una sorgente di calore interna. Da qui l' importanza di uno studio più approfondito di Tritone in una futura missione spaziale che preveda anche l' esplorazione dell' ultimo pianeta conosciuto del nostro sistema: Plutone. Il «Voyager 2», il più grande successo della scienza spaziale americana, dovrebbe sopravvivere per altri 30 anni mandando dati dalla frontiera immaginaria che separa il sistema solare dal mezzo interstellare. Nell' anno 8571 si avvicinerà alla stella di Barnard, possibile candidata per avere un sistema planetario, ma solo fra 958. 000 anni si avvicinerà a meno di un anno luce ad un' altra stella, e se non verrà intercettata da eventuali extraterrestri, continuerà a girovagare per la galassia per milioni di anni portando con sè i messaggi del pianeta Terra incisi in 55 lingue su un disco d' oro nel lontano 1977. Cristiano B. Cosmovici Istituto di Fisica dello Spazio, Cnr, Frascati


SPELEOLOGIA Nelle grotte più vecchie del mondo Esploratori italiani al lavoro in Venezuela
Autore: BADINO GIOVANNI

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. Localizzazione e struttura dei «tepuy»
NOTE: 066

E' rientrata in Italia la spedizione speleologica nazionale «Tepuy 93» che ha studiato grandi grotte nelle rocce quarzitiche degli altipiani amazzonici venezuelani. Grotte in rocce quarzitiche? Nel Monte Bianco, per esempio, non ci sono grotte. E neanche nel Rosa, o nel K2. Le loro rocce non sono carsificabili, cioè non sono solubili nell' acqua. A differenza dei calcari, quelle masse di carbonati di calcio e di magnesio variamente metamorfizzati che formano i grandi e piccoli massicci pieni di grotte (Marguareis, Grigna, Canin, Alpi Apuane... ) che si sciolgono lentamente e tornano al mare. Un torrente che proviene dai calcari delle nostre montagne porta via 0, 1 0, 2 grammi di sali in ogni litro d' acqua sottraendoli al monte. Dalle precipitazioni è facile vedere che questo significa che, in media, da ogni chilometro quadrato di montagna calcarea viene sottratto un volume di roccia di 0, 5 centimetri cubi al secondo, una decina di metri cubi ogni anno. Da dove viene asportata questa roccia? Dalle superfici esterne, ovviamente, ma anche da quelle interne, l' altra faccia del monte visibile, dove si forma il mondo sotterraneo che esplorano gli speleologi. Il fatto è che, da un punto di vista chimico, anche le rocce delle montagne «non carsificabili» sono solubili: pochissimo, ma lo sono. La silice (biossido di silicio), ad esempio, il costituente principale delle grandi montagne del pianeta, riesce a dissolversi in acqua in ragione di frazioni di milligrammo per litro, centinaia di volte meno dei calcari: ma questo significa che se a una montagna silicica si dà tempo a sufficienza anche in essa si formeranno grotte. In Sud America questo tempo è stato concesso dalla estrema quiete tettonica delle sue regioni centro orientali. Nel Venezuela meridionale affiora un basamento roccioso (Scudo della Guayana) vecchio di più di tre miliardi di anni; sopra di esso fiumi e mari immemorabili hanno deposto migliaia di metri di rocce quarzitiche, che poi sono state erose e hanno lasciato il paesaggio straordinario che possiamo vedere adesso: vasti altopiani che si rilevano dalla pianura, isolati da essa da pareti che arrivano a 1500 metri. In cima al maggiore (l' Auyantepuy, 700 chilometri quadrati) scorre un fiume che poi, cadendone, forma la più alta cascata del mondo, il Salto Angel. Si tratta di ecosistemi quasi isolati dalla pianura e che hanno per questo un enorme interesse biologico. E ci sono grotte. Già gli speleologi venezuelani si erano accorti della presenza di grandi pozzi in certe zone dell' altopiano, e ne avevano disceso uno (la Sima Aonda) vastissimo, lungo 400 metri, largo una ottantina e profondo quasi trecento. Ma l' esplorazione dell' altopiano è molto problematica: l' erosione ha formato zone che sono un intrico di pozzi, anche profondissimi, e anche la vegetazione è spesso un intrico invalicabile. L' unico mezzo di spostamento è l' elicottero. Per questo le ricognizioni in genere sono state leggere e sono arrivate solo a sfiorare la vastità del problema speleologico di quelle aree. La spedizione «Tepuy 93» ha potuto (e dovuto) operare più massicciamente perché doveva realizzare un documento televisivo. Gli scopi della spedizione erano in linea con quelle sinora fatte dallo stesso gruppo di esploratori in altre regioni del mondo: una descrizione non tanto «speleologica» quanto geografica, puntando a descrivere e inquadrare le grotte nel contesto in cui sono, e dandone descrizioni multidisciplinari. Ne hanno fatto parte 18 esploratori italiani e 5 venezuelani, divisi in tre zone della parte settentrionale dell' Auyantepuy. I contatti fra i campi erano limitati alle radio e ai periodi di volo con l' elicottero. Durante i venti giorni di campo le tre zone sono state finalmente inquadrate con cura. Un grosso lavoro è stata la cartografia delle zone, prima inesistente a scale dettagliate. Sono state discese moltissime grotte (per un totale di oltre due chilometri di dislivello e cinque di sviluppo) iniziando a chiarire le modalità del trasporto ipogeo dell' acqua in quelle zone. Le gallerie profonde sono uguali a quelle che si formano nei calcari e dunque, per quanto detto prima, centinaia di volte più antiche. La maggiore delle grotte scoperte ed esplorate (battezzata «Rio Pintado» ) risulta attualmente la maggiore del mondo nelle quarziti: 360 metri di profondità e 2, 5 chilometri di gallerie sviluppate su più piani. I tre geologi presenti hanno studiato la solubilizzazione della silice nei numerosi torrenti interni ed esterni al variare delle precipitazioni: che, per inciso, nell' ultima parte del campo sono state tanto intense da creare gravissimi problemi di sicurezza in grotta. I tre medici della spedizione hanno invece condotto studi sull' impatto fisiologico delle discese in grotta (rilevazione continua di elettrocardiogramma e pressione arteriosa). La parte biologica si è limitata a prelievi, poi consegnati a specialisti del campo. In coordinamento con ricercatori del Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino sono state fatte numerose catture di insetti sia esterni che interni, attualmente sotto studio, e in collaborazione col Centro Ricerche Lepetit sono stati prelevati campioni di terriccio a varie profondità nelle grotte delle varie zone per studiare le popolazioni microbiche dei suoli. Giovanni Badino


I NOMI DELLA CHIMICA Cenere di pentola e colore della rosa Questo il significato di potassio e rodio; quel puzzone del bromo
Autore: VOLPE PAOLO

ARGOMENTI: CHIMICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 066

DA dove vengono i nomi degli elementi chimici? La loro storia spesso viene da lontano, altre volte è molto curiosa. Oro, rame, piombo, stagno, ferro, zolfo e carbonio (carbone) sono i nomi originali che gli antichi davano ai pochi elementi che conoscevano. In età greco romana erano noti anche l' argento, l' arsenico e il mercurio, i primi elementi che devono il loro nome alle loro caratteristiche; argento significa (in greco) bianco splendente e arsenico significa ardito, combattivo: questo elemento è infatti molto aggressivo chimicamente e biologicamente. Il mercurio era chiamato in origine argento liquido, e solo più tardi gli fu dato il nome del dio giocherellone. Nel Medio Evo furono scoperti due soli elementi, che ricevettero nomi ispirati alle loro proprietà: antimonio, dal greco «contro la solitudine» (non si trova mai da solo) e fosforo (phos fero = porto luce), per le sue note proprietà luminescenti. Solo una ventina di elementi sono stati scoperti in questo secolo, quasi tutti radioattivi naturali o artificiali e, salvo uranio, nettuno e plutonio, così chiamati per celebrare le recenti scoperte degli omonimi pianeti, tutti hanno nomi che ricordano grandi scienziati, Stati o Università: fermio, einsteinio, curio, californio, berkelio, ecc. La stragrande maggioranza degli elementi, ben 72, è stata scoperta nei due secoli che precedono il nostro e il nome loro dato ne ricorda una caratteristica particolare o il suo luogo d' origine. Così potassio in inglese significa cenere di pentola (pot ash) perché si ricavava da combustione di vegetali in pignatta; l' elemento ricavato originariamente dalla salsola soda (una pianta) è il sodio; l' elemento ricavato dalla calce è ovviamente il calcio. Il cloro e lo iodio sono rispettivamente un gas verde e un solido violetto (cloros e ioides, in greco); il rodio deve al colore dei suoi composti il suo nome che significa rosato e, sempre dal greco «cromos» (= colore) il cromo si chiama così per i suoi composti variamente colorati. Dal latino rubidus e caesius (rosso e azzurro) derivano invece i loro nomi il rubidio ed il cesio, per il colore delle loro righe spettrali. Più curiosi ancora sono altri nomi, tutti derivati dal greco: bario è «barus» (= pesante), il bromo è «bromos» (= puzzolente) e lo xeno viene da «xenos», cioè straniero, perché trovato inaspettatamente isolando altri gas. Il cobalto (kabalos) è un folletto sotterraneo, il lantanio si nasconde (lantanos = difficile da trovare) ed il disprosio è «inaccessibile». Non sono molte le nazioni o le città che possono vantare un elemento col proprio nome, vuoi in loro onore o semplicemente perché trovato originariamente nel loro territorio. La Francia ne ha tre: il francio, il gallio (la Gallia di Cesare) ed il lutezio (Lutece è l ' antico nome di Parigi); la Germania due: il germanio e il renio (da Renania); uno per uno l' hanno l' Inghilterra, la Polonia e la Russia: lo stronzio (da Stronthian, villaggio scozzese), il polonio e il rutenio (Ruthenia è il nome latino della Russia). Ma la parte del leone la fanno i Paesi scandinavi: hanno lo scandio (Scandinavo ), il tullio, l' afnio e l' olmio (da Thule, Hafnia e Holmia, nomi latini rispettivamente della Norvegia, di Copenaghen e di Stoccolma ), nonché l' ittrio, il terbio e l' itterbio, tre elementi che derivano tutti il loro nome da Ytterby, uno sconosciuto villaggio della Svezia. Paolo Volpe Università di Torino


Gli insetti che mangiano cadaveri possono diventare preziosi testimoni CRIMINI E INSETTI Un entomologo sul luogo del delitto
Autore: ANSALDO LUCA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, BIOLOGIA
NOMI: CATTS PAUL, GOFF LEE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 067. Criminologia, entomologia forenze, studio del comportamento degli insetti sul luogo di un omicidio

LE investigazioni criminali dell' ultimo decennio si sono avvalse di un supporto tecnologico assai sofisticato: microscopi a scansione elettronica, computer e microsonde hanno contribuito in modo decisivo a risolvere casi giudiziari complessi. Oggi accanto alle tecnologie più avanzate e alle biotecnologie si sta delineando una nuova branca della criminologia, l' entomologia forense. Gli specialisti del settore, poco meno di venti negli Stati Uniti, vengono sempre più spesso invitati a perlustrare il luogo del delitto. Gli insetti mangiatori di cadaveri, esseri ripugnanti ritenuti fino a poco tempo fa d' intralcio alle investigazioni, sono invece preziosissimi testimoni capaci di fornire informazioni rilevanti. Il loro ciclo biologico, dalla deposizione delle uova alla schiusa delle larve, dalla formazione del bozzolo alla nascita dell' insetto adulto, è scandito da un ritmo prefissato, modulato dalle stagioni, dalla temperatura e dall' umidità. Sono un orologio che permette di stabilire con precisione l' ora del delitto. Di fronte alla morte di un essere umano si avvicendano varie ondate di insetti. All' aria aperta i primi a entrare in scena sono la mosca carnaria e altri moscerini che depongono, entro dieci minuti dal decesso, migliaia di uova nel naso, nella bocca e nelle orecchie. Dodici ore più tardi le larve dischiuse dalle uova iniziano a cibarsi dei tessuti. Quindi si allontanano dal corpo e fanno il bozzolo nel terreno circostante. La seconda ondata è costituita per lo più da scarafaggi che, attratti dall' «odore della morte», accorrono a partecipare al banchetto. Gli ultimi a intervenire sono gli animali predatori, come ragni e millepiedi, che aggrediscono gli insetti precedenti e finiscono gli avanzi. Tra i vari invertebrati il coleottero Necrophorus è uno dei più specializzati nello sfruttamento dei cadaveri, in quanto dotato di antenne molto sviluppate, ricche di chemiorecettori sensibili agli odori della decomposizione. L' individuazione di una particolare ondata di insetti e del loro stadio di sviluppo consente quindi di calcolare a ritroso l' ora della morte. Ciò è fondamentale ai fini di un' indagine. Spesso infatti l' indizio che collega una persona sospetta alla vittima è il fatto che sono stati visti per l' ultima volta insieme, prova comunque del tutto insufficiente per una condanna. Gli entomologi forensi possono però intensificare il sospetto dimostrando che il delitto è avvenuto nel momento in cui indiziato e vittima erano assieme. L' entomologo M. Lee Goff ha di recente analizzato le larve rinvenute nel corpo di un ragazzo alle Hawaii, dimostrando che la vittima era stata uccisa centoventi ore prima. Questo indizio è risultato determinante nelle indagini, tanto da consentire la condanna dell' omicida che era stato visto con il ragazzo intorno all' ora del delitto. E. Paul Catts, entomologo forense alla Washington State University, ritiene che il comportamento degli insetti possa addirittura suggerire informazioni più precise, per esempio se la vittima è stata uccisa in un luogo chiuso o all' aperto, al sole o all' ombra, al caldo o al freddo. Alcune specie di invertebrati hanno infatti comportamenti unici e prevedibili. La deposizione delle uova può avvenire quando fa caldo o a mezzogiorno in punto, in altri casi si verifica solo all' ombra o con un certo grado di umidità. In alcuni casi è invece proprio l' assenza di insetti che può aiutare nelle indagini. Un uomo fu accusato di omicidio perché affermava di essere tornato a casa e di aver trovato le finestre aperte e la sua ragazza morta. La vittima era però deceduta da alcune ore ma nessun insetto era stato rinvenuto sul cadavere. In altri casi il particolare ambiente in cui vivono gli insetti è determinante per suggerire se la vittima è stata uccisa sul posto o vi è stata trasportata in un secondo tempo. In Florida un assassino è stato condannato grazie al ritrovamento, nel radiatore della sua macchina, di particolari insetti denominati efemere: l' omicida aveva abbandonato il corpo della vittima in una regione paludosa proprio negli unici giorni in cui le efemere sono attive. Gli esperti ritengono di conoscere per il momento solo metà degli insetti frequentatori di cadaveri. Questa particolare branca della criminologia è quindi in piena evoluzione. Si usano simulazioni al computer ed è allo studio una tecnica per individuare stupefacenti come l' eroina o la cocaina che con il tempo svaniscono dai tessuti umani, ma possono lasciare tracce nelle carcasse degli invertebrati. Luca Ansaldo


MAL DI SCHIENA La lombalgia dell' autista Ricerca sulla colonna vertebrale e l' auto
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, TRASPORTI
NOMI: GALLINARO PAOLO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 067

NUMEROSE sono le insidie per la nostra schiena, e tra queste c' è anche l' auto. Lo ha ricordato Paolo Gallinaro, direttore della prima Clinica ortopedica dell' Università di Torino, presentando recentemente all' Accademia di Medicina uno studio sulla colonna vertebrale e l' automobile fatto in collaborazione fra la sua scuola (Ardoino, Brach del Prever, Bruno, Indemini, Tabasso) e la Fiat Auto (Tamburro, Berra, Fubini). Intendiamoci, non attribuiamo all' automobile colpe che non ha. Molte sono le cause della lombalgia, o male di schiena, e basterebbe citare le deviazioni della colonna, le artrosi, l' osteoporosi, l' ernia del disco, l' ancora relativamente misteriosa degenerazione discovertebrale. Ma accanto a queste origini «interne» abbiamo quelle «esterne», come l' eccessivo peso corporeo, la sedentarietà, e appunto l' automobile. Sedentarietà e automobile sono strettamente connesse, ma l' auto può essere anche causa diretta di lombalgia perché durante la guida la colonna è sottoposta a vibrazioni agenti sui muscoli paravertebrali, dorsali e addominali. Ecco un mal di schiena «tecnologico». Altri componenti dell' auto potenzialmente corresponsabili di lombalgia sono gli ammortizzatori, lo schienale del sedile non in consonanza con le curvature fisiologiche della colonna, la posizione inadeguata del volante e del cambio. Ecco in proposito alcuni importanti consigli al guidatore: fare ginnastica prima e soprattutto durante i lunghi viaggi per ridurre la fatica muscolare, eseguire piccoli movimenti della colonna vertebrale mentre si guida, non sottoporre a sforzi la colonna dopo la guida. Il problema non lascia certo indifferente l' industria dell' automobile, essendo evidente che la vettura deve adattarsi all' uomo e non viceversa. I tecnici della Fiat dicono: è impossibile evitare che le vibrazioni raggiungano in qualche modo il corpo, ma occorre filtrarle agendo sulle sospensioni e sul sedile. Due sono le vie da percorrere, conoscere da un lato il comportamento biomeccanico del corpo umano, dall' altro la sensibilità alle vibrazioni per le diverse direzioni e frequenze. Si posseggono già validi elementi nei riguardi di camionisti, autisti di bus, guidatori di trattori, ora la Fiat sta perfezionando i dati sull' auto. Oltre alle vibrazioni occorre considerare un secondo tipo di sollecitazioni della colonna, le forze di inerzia (frenate, accelerazioni, curve), rispetto alle quali sono importanti le sospensioni, il sedile, il volante, e la corretta posizione del corpo. La collaborazione del medico è essenziale. Ma purtroppo non ci sono soltanto le vibrazioni e le forze di inerzia, ci sono anche i traumi della colonna e conseguenti fratture, con centinaia di paraplegici ogni anno, per lo più giovani, quando sia coinvolto il midollo spinale nell' interno della colonna. La chirurgia ha compiuto in questo campo grandi progressi ma è fondata su tecniche molto avanzate, eseguibili soltanto in centro specializzati. Nella Prima Clinica ortopedica dell' Università di Torino sono stati effettuati da tre anni a questa parte circa 50 interventi per frattura vertebrale con esiti incoraggianti. Ulrico di Aichelburg


INVECCHIAMENTO Più sei colto, meglio tiene la memoria I risultati di un' indagine su mille soggetti sani fra i 20 e i 79 anni
Autore: TRIPODINA ANTONIO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, DEMOGRAFIA E STATISTICA, SONDAGGIO
NOMI: CROOK THOMAS
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 067

LA memoria è una traccia stabile nel cervello. Ma non indelebile. E' infatti la funzione cerebrale che per prima decade con l' avanzare dell' età, venendosi a realizzare quel processo «fisiologico» che i ricercatori statunitensi del Centro di Bethesda capeggiati da Thomas Crook, hanno battezzato nel 1986 col termine Aami (Age Associated Memory Impairment, compromissione della memoria associata all' invecchiamento). E' una esigenza clinica molto sentita quella di valutare il più precocemente possibile se questo declino va oltre i limiti della normalità, sconfinando negli ancora oscuri campi della patologia. La speranza, futuribile ma fondata, è di poter intervenire in tempo con misure riabilitative o farmacologiche. E ciò in un contesto sociale che vede la popolazione anziana in continuo aumento: in Italia su 100 persone 20 hanno più di 65 anni. Ma proprio qui sta il problema. Per poter definire normale o patologica una qualsiasi manifestazione clinica è necessario che questa possa essere rapportata a dei valori di riferimento che indichino i limiti della normalità. Finora non erano mai stati piantati i «paletti» per delimitare i confini tra fisiologia e patologia per le facoltà cognitive (di cui la memoria è base essenziale) nelle varie fasce d' età. Per rimediare a questa carenza, sulla scia delle ricerche fatte dalle «Memory Assessment Clinics» statunitensi, nel 1988 è stato avviato in Italia il «Progetto Memoria» da parte di una industria farmaceutica particolarmente impegnata nel campo delle neuro scienze, in collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) e il National Institute of Mental Health (Nimh) di Bethesda negli Stati Uniti. A questo fine si è allestito un laboratorio viaggiante che sta esaminando soggetti ritenuti sani fra i 20 e i 79 anni, selezionati a caso dalle liste elettorali di vari centri. I primi dati, riguardanti circa mille persone, confermano che l' avanzare dell' età incide in modo graduale ma significativo sulla memoria, in particolare sulla memoria episodica, mentre la memoria semantica e la memoria procedurale sono poco interessate. Nell' anziano sano cala la capacità di apprendere nozioni nuove, non legate a conoscenze precedenti, sia per un minore potere di attenzione e di concentrazione, sia per una maggiore difficoltà ad elaborare strategie d' apprendimento che rendano più facile la fase di richiamo. Invece non è molto alterata la memoria remota, per cui facilmente vengono ricordati episodi lontani, specie se piacevoli. Questa è già una particolarità che distingue i soggetti sani dai soggetti patologici, in cui viene rapidamente dimenticato tutto ciò che si era appreso. Altra interessante osservazione è che la rapidità del decadimento fisiologico è correlata con la scolarità e col patrimonio intellettivo di partenza. Ciò significa che chi ha più cultura resiste di più e meglio al processo di invecchiamento e che è molto importante l' esercizio delle funzioni cerebrali con stimoli intellettuali. Rimane quasi intatta la capacità di utilizzare nel migliore dei modi le esperienze già acquisite, in modo che i benefici derivanti da decenni di esperienza possono sopperire ai disagi derivanti dall' indebolimento della memoria. Emerge anche il notevole ruolo di supporto alla memoria dell' affettività: concetto insito nella parola «ricordare», derivante dal latino «recordari», che significa «rimettere nel cuore» . Antonio Tripodina


PSICOLOGI A CONVEGNO Il guidatore ideale? Chi è consapevole dei suoi limiti al volante
Autore: SERRA LETIZIA

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, TRASPORTI, CONGRESSO, STATISTICHE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 067

DAL prossimo luglio potremo viaggiare più sicuri sulle strade grazie all' aiuto dello psicologo. Con il nuovo Codice della Strada chi vorrà ottenere la patente o rinnovarla, dovrà superare, oltre alla visita medica, anche una visita psicologica. Con questa norma l' Italia si adegua alla legislazione dei Paesi europei più avanzati, che già da anni applicano la psicologia nella prevenzione degli incidenti. I più recenti dati statistici confermano che il fattore psicologico è causa di ben 117 mila incidenti sui 170 mila che sono avvenuti nel 1992. E smentiscono pregiudizi profondamente radicati: difetti meccanici o guasti del veicolo hanno provocato solo mille incidenti; malesseri e problemi fisici del guidatore, appena 3. 200. Le stesse fonti Istat, elaborate dalla facoltà di Psicologia dell' Università di Padova, rivelano che gli incidenti stradali sono al primo posto fra le cause di morte nella fascia d' età fino a 35 anni. Gli anni di vita complessivamente perduti sulle strade sono il doppio di quelli che ci sottrae il cancro, ma per la prevenzione si considera naturale spendere una cifra 300 volte inferiore a quella impegnata nella ricerca sanitaria. Poiché il 90 per cento degli incidenti non ha cause meccaniche nè mediche ma comportamentali, vale la pena studiare quali caratteristiche psicologiche tengano lontano l' automobilista dagli incidenti, fino a renderlo, possibilmente, un guidatore ideale. Ci hanno pensato per prime le compagnie di assicurazione americane, quando hanno scoperto che il costo di pochi pessimi guidatori superava di gran lunga quello di tutti gli altri automobilisti disciplinati. Chi ha avuto un incidente ha, dicono le statistiche, maggiori probabilità di averne un secondo rispetto a chi non ne ha mai avuti, e a ogni incidente successivo le probabilità aumentano. Dal punto di vista psicologico, il miglior guidatore non è chi dimostra con stile sciolto ed elegante di aver superato la goffaggine tipica del principiante: gli incidenti aumentano, con l' aumentare della scioltezza, nel secondo anno di guida. Guidatore ideale non è neppure chi ottiene i migliori risultati ai test che misurano i tempi di reazione e che sono obbligatori, secondo il Codice, per selezionare i guidatori professionisti; i giovani hanno riflessi più pronti, ma provocano e subiscono incidenti molto più degli anziani. E allora? La risposta è semplice e inattesa. Guida meglio non chi fornisce prestazioni migliori al volante, ma chi è più consapevole dei propri limiti. Fino a ieri questa consapevolezza la si conquistava solo a prezzo del rischio continuo sulle strade, dei cosiddetti «quasi incidenti», che davano all' automobilista la percezione dei propri limiti, ridimensionando il senso di onnipotenza tipico del guidatore del secondo anno. Oggi invece la psicologia consente di misurare in modo scientifico le attitudini alla guida. Con test collaudati è possibile misurare quanto l' alcol, i farmaci, la stanchezza, la monotonia, la depressione, il sonno influiscano sulle nostre capacità al volante. «In altri Paesi europei da decenni si è abituati all' automisurazione psicologica in vista di decisioni importanti spiega Pierangelo Sardi, segretario nazionale all' Aupi, l' associazione di categoria degli psicologi italiani ; nel campo delle scelte lavorative, ad esempio, siamo uno dei pochi Paesi al mondo dove non si ricorre sistematicamente allo psicologo per la misurazione delle attitudini anche se queste hanno un peso decisivo nel determinare incidenti sul lavoro». Non mancano le diffidenze verso la nuova normativa. In realtà si tratta semplicemente di allinearsi con il resto del mondo civile e di utilizzare questa branca della psicologia, nel nostro Paese ancora poco conosciuta in un campo che è decisivo per aumentare le speranze di vita. Per approfondire questi temi che toccano tutti i cittadini, e non solo gli automobilisti, gli psicologi hanno organizzato a Bressanone, il 30 aprile e 1 maggio prossimi, il primo meeting internazionale sulla psicologia della sicurezza sulle strade. Presenteranno i dati della ricerca universitaria italiana e straniera nel settore, la legislazione europea più avanzata e gli strumenti professionali con cui dal 1 luglio sono pronti a contribuire all' incolumità di tutti sulle strade. E non è che il primo passo della psicologia sul cammino della sicurezza automobilistica. Letizia Serra


CINTURE DI SICUREZZA Legati e contenti Un «clic» che vale la vita
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D.
NOTE: 068

A LLA base del funzionamento delle cinture di sicurezza inerziali che ormai equipaggiano tutte le auto vi è un tamburo, sui cui è avvolta la cintura stessa, che si blocca in caso di scontro impedendo alla cintura di srotolarsi e al passeggero di essere proiettato in avanti; sui modelli più recenti si trovano altri due sistemi si sicurezza, lo «strozzatore» ( «grabber» in inglese) e il pretensionatore. Il meccanismo funziona in due tempi: una rapida decelerazione (una violenta frenata o un urto) spingono avanti una sfera la quale a sua volta spinge verso l' alto un dente di arresto che va a incastrarsi nel bordo dentato del tamburo bloccandolo. Ciò richiede però qualche frazione di secondo; durante questo breve lasso di tempo, mentre il tamburo è violentemente sollecitato a girare dalla trazione della cintura, entra in funzione lo strozzatore: un cuneo dentellato a contatto con la cintura stessa viene trascinato da questa in avanti e va a incastrarsi tra due blocchi fissi impedendo alla cintura di scorrere; più è forte la tensione più stretto si chiude il blocco. Il pretensionatore agisce sulla cintura attraverso la fibbia tendendo contemporaneamente sia la parte trasversale sia quella obliqua. La fibbia è collegata a una grossa molla mantenuta sotto tensione da una piccola leva; in caso di urto la decelerazione spinge una barra d' acciaio contro un ' altra molla più piccola la quale fa scattare una serie di leve e consente alla molla grande di distendersi e di far scorrere indietro la fibbia di circa sei centimetri lungo una guida dentata.


IPERMEDIA, ISTRUZIONI PER L' USO Una bussola per navigare tra le informazioni Tra testi e immagini ognuno può crearsi il proprio percorso
Autore: BOLLARINO FEDERICO

ARGOMENTI: INFORMATICA, DIDATTICA
NOMI: BUSH VANNEVAR
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 068. Multimedialità e teledidattica

MULTIMEDIA, ipertesti, ipermedia: se fino a qualche anno fa queste parole appartenevano al gergo del ristretto ambiente degli informatici, oggi, con la ventina di convegni all' anno sulla multimedialità, più di cinquanta laboratori di ipertesti e ipermedia in scuole e università, oltre 160 aziende italiane impegnate nel settore, questi termini stanno rapidamente diffondendosi nel linguaggio comune. E in più c' è l' interesse di illustri personaggi della cultura italiana, come Umberto Eco, che nello scorso settembre a Siena in occasione del convegno «Multimedialità e teledidattica nel sistema educativo italiano» è intervenuto sottolineando la necessità che dai nuovi corsi universitari di Scienza della Comunicazione, recentemente istituiti in alcune città italiane, debbano formarsi esperti di questa nuova forma di comunicazione. Ma che cos' è, dunque, la multimedialità ? La semplice scomposizione del termine indicherebbe un genere di comunicazione che fa uso di molti media, dove, cioè, vengono aggregate insieme immagini, filmati, suoni, testi scritti. Nulla di nuovo, quindi, se pensiamo che un qualsiasi programma televisivo è già tutto questo. In realtà il termine multimedialità è stato assunto convenzionalmente per indicare una comunicazione di tipo interattivo, fruibile attraverso un personal computer. Con la parola interattivo qui si intende quel rapporto, tra l' uomo e il mezzo di comunicazione, dove l' uomo decide come veicolare il flusso di informazioni che riceve, a seconda dei propri interessi. L' interattività non è sicuramente un concetto nuovo: la televisione stessa è un mezzo interattivo nel momento in cui decidiamo di cambiare canale, mentre lo è di meno quando guardiamo un suo programma. In particolare l' atto di «cambiare canale» individua un momento importante nella dinamica dell' apprendimento, perché la nostra mente è alla ricerca di qualcosa che interessa di più, su cui abbiamo voglia di concentrare la nostra attenzione. Ecco intervenire allora la multimedialità interattiva: le applicazioni multimediali ricreano sul monitor del computer una serie di «pulsanti» attivabili attraverso il «mause», una sorta di «telecomando» del computer. Tali pulsanti permettono di «cambiare canale», rimanendo però all' interno dello stesso «programma». Se immaginiamo un documentario multimediale che illustra la storia di una residenza barocca, sarà possibile approfondire alcuni aspetti «sintonizzandosi», ad esempio, sul canale «Affreschi e stucchi», poi da qui sul canale «Pittori e scultori del ' 600» e così via, lasciando magari ad una consultazione successiva il canale «Trasformazioni architettoniche». Il sistema consente di costruirsi il proprio «programma» come più interessa, usufruendo dei «pulsanti» che legano fra loro diversi «spezzoni» di informazione. Questa sorta di «zapping» viene chiamata nel gergo multimediale «navigazione» e rappresenta la grande prerogativa della multimedialità nei confronti degli altri media. L' idea di «navigare tra le informazioni» fu l' intuizione di Vannevar Bush, uno scienziato statunitense che in un articolo pubblicato nel 1945 dal titolo «Come pensa la nostra mente» aveva immaginato un sistema automatico che permettesse di collegare brani di testo di opere diverse per poterli richiamare successivamente su di uno schermo durante la lettura. Ne risultava quello che noi oggi chiamiamo un «ipertesto», cioè un «testo di ordine superiore», dove la sequenza dei brani che costituivano un saggio scritto veniva decisa non dallo scrittore ma dal lettore. L' ipertesto in altre parole è un grande libro computerizzato le cui parole o frasi possono diventare «pulsanti» che permettono di «cambiare canale» facendo proseguire il discorso su di un argomento che il lettore ritiene per sè più interessante. Se invece oltre al testo sono memorizzate immagini, suoni, filmati, è più corretto parlare di «ipermedia». Premendo le «parole pulsanti» vengono richiamate delle immagini, da queste altre immagini o altri testi o suoni e così via. Il fruitore di ipertesti e ipermedia è sempre meno spettatore e sempre più regista del programma che vuole vedere. La multimedialità interattiva si propone insomma come nuovo strumento di comunicazione capace di adeguarsi ai modi e ai tempi di apprendimento di ogni singola persona. E' una realtà che sta lentamente capovolgendo i tradizionali strumenti di divulgazione del sapere a partire dalla didattica scolastica fino alla manualistica professionale. Ai produttori di multimedialità rimane tuttavia il compito più arduo preparare programmi belli, piacevoli da vedere, facili da consultare, che ci permettano di «navigare» fra le informazioni per associazioni di idee, proprio come pensa la nostra mente. Federico Bollarino


STRIZZA CERVELLO Gli anni con più divisori
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 068

Gli anni con più divisori Questo problema risale all' anno 1980, rappresentato da un numero che vanta ben 36 divisori, compresa l' unità e se stesso; all' epoca ci si stupì non poco del fatto che appena l' anno precedente, il 1979, era indicato da un numero primo e che per trovare un altro anno con altrettanti divisori si doveva risalire addirittura al 1800. Il problema di quel periodo fu il seguente: quale sarebbe stato il primo degli anni successivi ad avere esattamente 36 divisori? Ora questa tematica merita un ulteriore approfondimento: quale sarà, da qui all' anno 9999, il primo anno ad essere rappresentato da un numero con la maggior quantità di divisori possibili? E ancora, dopo di esso ve ne saranno altri che lo eguaglieranno in termini di numero di divisori comprendendo sempre sia l' unità che il numero stesso? Le risposte domani, accanto alle previsioni del tempo.


LA PAROLA AI LETTORI CHI SA RISPONDERE? Perché in montagna fa freddo anche con il Sole
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 068

Perché da una pianta di trifoglio ogni tanto spunta uno stelo che di foglie ne porta quattro? Perché alcuni nascono più fortunati di altri. Aldo Gavassa, Torino Che temperatura raggiunge un corpo nello spazio? Nello spazio vuoto e lontano da stelle raggiunge circa 3 kelvin, cioè la temperatura residua dell' universo a 15 miliardi di anni dal Big Bang. Paolo Romeo, Genova Un oggetto nello spazio mantiene invariata la velocità iniziale? E perché ? Presumo che per «spazio» si intenda quello interplanetario e che ci si riferisca non solo al valore della velocità, ma anche alla sua direzione e al suo verso (cioè alla definizione che di essa viene data in fisica). Inoltre non ha senso parlare di «velocità » di un oggetto se non viene stabilito un opportuno sistema di riferimento che, nel caso in esame, potrebbe benissimo essere un qualunque corpo celeste Con queste premesse, e rimanendo nell' ambito della meccanica classica, in virtù del primo principio della dinamica o «principio di inerzia» ( «ogni oggetto mantiene il proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme fino a che su di esso non agisce una forza che modifica tale stato» ), la risposta è senza dubbio negativa. Infatti sull' oggetto in questione agisce la forza di gravità (dovuta alla presenza nello spazio dei vari corpi celesti). Quindi in base al secondo principio della dinamica, la sua velocità iniziale subisce in ogni istante una variazione che ha la stessa direzione e lo stesso verso di tale forza. Però, se un oggetto viene lanciato nello spazio secondo la direzione della tangente a un' orbita circolare (avente per centro un qualunque corpo celeste) con una velocità iniziale di valore tale che la forza (centripeta) d' attrazione dovuta alla presenza del corpo celeste sia bilanciata dalla forza (centrifuga) dovuta all' inerzia dell' oggetto, che tende a mantenersi in stato di moto rettilineo uniforme, questo oggetto può conservare il valore della sua velocità iniziale per un tempo molto lungo. In questo caso descrive un' orbita circolare intorno al corpo celeste e il valore della sua velocità è costante (la direzione della velocità, invece, essendo sempre tangente alla traiettoria circolare, cambia continuamente). Questa situazione però non è eterna. A lungo andare, l' oggetto o precipita sul corpo celeste dal quale è trattenuto, oppure se ne allontana. Ciò a causa dell' immancabile presenza di alcuni fattori (ad esempio, i campi gravitazionali degli altri corpi celesti), che tendono a modificare la situazione di equilibrio fra le forze. Mario Pelli, Torino Perché in montagna fa più freddo che in pianura? L' aria è riscaldata solo in parte dai raggi solari che arrivano direttamente dall' alto; in maggior misura si tratta di un riscaldamento indiretto, dal basso, perché la superficie terrestre raccoglie il calore dei raggi e lo rimanda verso l' alto. In questa irradiazione di ritorno il filtro dei gas atmosferici indebolisce il calore, man mano che si sale verso l' alto. Negli strati bassi la diminuzione di temperatura avviene con un ritmo regolare di circa mezzo grado ogni cento metri. Alessandro Corazza Torino In montagna fa più freddo perché ogni massa d' aria in movimento verticale subisce una variazione di temperatura a causa dell' espansione, e quindi del raffreddamento, che consegue a una salita. L' aria che segue tale movimento, se adiabatica secca, subisce una diminuzione della temperatura di circa un grado ogni cento metri. Se invece è adiabatica satura, avrà una variazione della temperatura comunque in diminuzione, la cui entità sarà minore di quella che per uguale spostamento comporterebbe l' aria secca. Riccardo Cannavina Torino


CHI SA RISPONDERE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 068

Perché quando sentiamo la nostra voce registrata, ci sembra diversa dal solito? Maurizio Orsi Perché in molte persone, anche con il passare degli anni, mentre barba e capelli diventano bianchi, le ciglia restano nere? Gian Luca Russo Quanto può resistere il nostro fisico senza riposare? Danilo Brandone E' vero che l' energia necessaria per costruire e poi smantellare un centrale nucleare è superiore alla quantità di energia che essa produrrà nel corso della sua vita?




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