TUTTOSCIENZE 4 novembre 92


L' ISOLA DIVORATA Il suolo di Nauru, nel Pacifico, è stato interamente asportato per ricavarne fosfati. Gli abitanti chiedono a un tribunale internazionale di essere risarciti per il disastro ecologico
Autore: FAZIO MARIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, INQUINAMENTO, SANITA', MEDICINA
NOMI: DOWIYOYO BERNARD
LUOGHI: ESTERO, NAURU
NOTE: 073

LA Corte dell' Aia è chiamata per la prima volta a pronunciarsi su un disastro ecologico. Imputata è l' Australia, principale responsabile della trasformazione di un' isola del Pacifico, Nauru, da Giardino dell' Eden a luogo lunare per nove decimi dei suoi 21 chilometri quadrati. Movente del delitto: i ricchissimi depositi minerali di fosfati, dovuti all' accumulo di escrementi degli uccelli e di micro organismi marini attraverso i millenni. Il suolo dell' isola è stato scavato per decine di anni, sconvolto, desertificato, lasciando in riva al mare una fascia verde profonda da 150 a 300 metri in cui si addensano 10 mila abitanti, divenuti relativamente ricchi grazie allo sfruttamento dei minerali, ma in gran parte ammalati. Rimasti privi degli alimenti naturalmente forniti dalla loro terra, come la papaya e l' albero del pane, gli isolani sono stati costretti a importare i prodotti dei Paesi industriali, adottandone la dieta. Gli effetti, imprevisti, richiamano su Nauru l' attenzione della scienza medica: obesità, diabete e malattie di cuore dilagano nella popolazione. Un quarto dei nauruani soffre di diabete: la più alta incidenza nel mondo. La vita media si è abbreviata a 50 anni per gli uomini, 55 per le donne. La vicenda (cui ha dedicato due pagine il settimanale Time) ha sapore di apologo. Narra come il miraggio del facile guadagno a spese della natura riveli a distanza di tempo le sue conseguenze rovinose. Oggi resta di Nauru (700 chilometri a Nord Est delle Salomone) soltanto l' aspetto esteriore, visibile dal mare: la barriera corallina, spiagge bianche, palme da cocco piegate al vento, acque color smeraldo. Il verde fitto della cornice costiera nasconde la devastazione dell' interno, dove le scavatrici hanno cancellato ogni forma di vita, creando un paesaggio di tipo carsico ma privo di un solo cespuglio. Sconosciuta ancor oggi, nel secolo scorso Nauru era considerata un pezzo di terra sperduto nel Pacifico. La Germania, dopo la scoperta dei giacimenti di fosfati, ne fece una sua colonia nel 1888, cominciando subito lo sfruttamento. Dopo la prima guerra mondiale la Lega delle Nazioni affidò il mandato alla Gran Bretagna, all' Australia e alla Nuova Zelanda. Utilizzarono l' isola come una miniera a cielo aperto, molto importante soprattutto per i coltivatori australiani, alle prese con terre vastissime ma povere, da fertilizzare con i fosfati che arrivavano a basso costo dal Pacifico. L' Australia ottenne l' amministrazione diretta dell' isola, distante 4000 chilometri da Sydney, fino al 1968. Quell' anno Nauru divenne un piccolo Stato indipendente. Un terzo della superficie era ormai desertificato: una distesa di sassi e di buche. Il nuovo governo si trovò alle prese con un dilemma: far ritornare la popolazione alla vita di un tempo sui due terzi di territorio ancora allo stato di natura, chiudendo le miniere e pagando all' Australia 15 milioni di dollari per gli impianti, oppure accordarsi per continuare l' estrazione di fosfati, incassando milioni di dollari. Così avvenne. Ogni anno 2 milioni di tonnellate di fosfati passarono da Nauru ai campi australiani; il governo accumulò grandi capitali; il reddito medio individuale salì negli Anni Ottanta a più di 8 milioni di lire. Un livello molto alto, nelle isole del Pacifico. La maggioranza della popolazione divenne sedentaria. Cambiarono modi e ritmi di vita mentre nelle miniere lavoravano immigrati da altre isole. Il governo introdusse il servizio sanitario gratuito. Ma la gente che credeva di essere ricca e quasi felice si trovò alle prese con malattie sconosciute nei paradisi di Gauguin, tipiche dei Paesi industrializzati e convulsi, come quelle cardiocircolatorie. La paura dell' infarto arrivò a Nauru mentre le enormi macchine delle miniere a cielo aperto stavano estraendo quantità sempre più grandi di minerale ricco di fosfati. Pare che i giacimenti abbiano riserve sfruttabili fino ai primi decenni del Duemila, sempre lasciando sul bordo dell' isola la densa cornice verde di vegetazione equatoriale che nasconde il disastro ecologico come un manto ipocrita steso sul delitto in famiglia. Il presidente di Nauru, Bernard Dowiyoyo, e i 18 membri del piccolo Parlamento, devono ora affrontare una situazione che non sembra offrire vie d' uscita. L' Australia ha offerto di pagare le spese del trasferimento in massa dei 10 mila abitanti su un' altra isola del Pacifico, ma i nauruani amano la loro terra e fanno sapere che non la lasceranno mai. Per restare occorrono centinaia di milioni di dollari. Almeno un terzo del territorio va restaurato, a costi che nessuno può prevedere con certezza, per restituire alla popolazione una parte del suo ambiente naturale con possibilità di ritorno alle coltivazioni tradizionali e a una vita più sana. Ma quando l' estrazione dei fosfati avrà fine, su quali introiti potrà contare Nauru? L' isola, remota e difficilmente raggiungibile, è talmente devastata da poter attrarre soltanto pochi visitatori con interessi scientifici e pochi turisti affascinati dall' orrido nella cornice da paradiso polinesiano. Il governo del presidente Dowiyoyo ha portato la documentazione alla Conferenza mondiale di Rio de Janeiro, ma senza ottenere risultati concreti. Soltanto generiche dichiarazioni di solidarietà e raccomandazioni rimaste sulla carta Subito dopo ha avuto un primo successo di fronte alla Corte internazionale dell' Aia, cui aveva fatto ricorso chiedendo che l' Australia fosse condannata a pagare almeno un terzo dei costi del restauro naturalistico dell' isola. La Corte ha respinto le obiezioni dei giuristi australiani che ponevano il problema della sua competenza e ha deciso che il processo deve continuare. Sono citate anche la Gran Bretagna, la Nuova Zelanda e la Germania. Questa per aver iniziato la rapina della ex colonia nei primi anni del Novecento. I governi dei Paesi imputati ribattono: «Per decenni avete consentito e incassato lauti proventi». Si parla di oltre mille miliardi di lire entrati nelle casse dello staterello dall' anno dell' indipendenza, malamente investiti in imprese fallite, come una compagnia aerea internazionale. «Avete dissipato le ricchezze accumulate grazie alle nostre industrie minerarie e ora ci chiedete i danni? ». La disputa di fronte alla Corte dell' Aia sarà lunga e aspra. Gli avvocati avversi apriranno questioni eleganti e sottili. Ma intanto, per chissà quanti anni, la gente di Nauru continuerà a vivere nelle condizioni di chi ha ingenuamente accettato la distruzione della natura e non trova il modo nè i mezzi per ricostruirla. La prossima udienza è a gennaio. Mario Fazio


FUSIONE TERMONUCLEARE: SE NE PARLA A PISA A piccoli passi verso l' energia pulita Ignitor e il megaprogetto Iter a confronto
Autore: COPPI BRUNO, PEGORARO FRANCESCO

ARGOMENTI: ENERGIA, FISICA, RICERCA SCIENTIFICA, NUCLEARI
NOMI: RUBBIA CARLO, PICASSO EMILIO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D I fondamenti della fusione
NOTE: 073

LA fusione termonucleare controllata, che promette di dare alla domanda mondiale di energia una risposta in linea di principio migliore di tutte le altre oggi disponibili, torna al centro dell' attenzione: il 9 10 novembre alla Scuola Normale di Pisa si incontreranno alcuni dei maggiori esperti del settore. Ci sarà anche il Nobel Carlo Rubbia, sostenitore di una via di ricerca alternativa, ed è in programma una tavola rotonda moderata dal fisico Emilio Picasso, direttore della «Normale», tra scienziati, esponenti del mondo industriale, economisti e politici. L' occasione è propizia per fare il punto sulla fusione termonucleare alla luce dei progetti di studio dei prossimi anni, tenendo d' occhio le reali priorità scientifiche. La «fusione controllata» ha raggiunto uno stadio che la pone a breve distanza dal realizzare in laboratorio le condizioni in cui il processo di combustione nucleare si autosostiene senza che sia necessario fornire energia dall' esterno. E' un traguardo molto importante in quanto i processi fisici che determinano l' efficienza con cui l' energia fornita innesca le reazioni di fusione non sono ancora stati esplorati in condizioni realmente vicine all' «accensione». Questi risultati positivi si sono ottenuti attraverso lo sforzo comune di scienziati e laboratori in diverse nazioni, ma l' informazione che ha raggiunto il grande pubblico, e in parte anche la comunità scientifica, ha sottolineato in maniera quasi esclusiva il ruolo delle grandi «imprese sperimentali», ponendo in secondo piano risultati almeno altrettanto importanti ottenuti con investimenti molto minori. In più è stato presentato come obbligato lo sviluppo futuro di questa ricerca secondo una successione di grandi progetti, i cui tempi di realizzazione sono ormai quelli di una generazione umana e i cui costi rappresentano una parte non piccola dell' intero investimento nella ricerca scientifica, anche se divisi tra le nazioni che vi collaborano. In realtà, una linea di sviluppo della fusione basata solo su «grandi progetti» desta gravi preoccupazioni in quanto non è per nulla chiaro che essa rappresenti la strada più rapida e più efficiente in termini di costi e di risultati. In più c' è il timore che questi grandi progetti possano assumere un ruolo, in termini di investimenti, prestigio nazionale o interessi politici locali, che esuli dalle originarie motivazioni scientifiche e anzi finisca con il danneggiarle e rallentarle. Per la fusione pensiamo ci sia già stato un rallentamento. Ci saremmo avvicinati di più, più rapidamente e con minori costi alle condizioni di accensione, se avessimo proceduto rapidamente, come era stato proposto, alla realizzazione di un esperimento di accensione ad alto campo magnetico tra la fine degli Anni 70 e l' inizio degli Anni 80 Un simile esperimento era già allora possibile in base ai risultati degli esperimenti ad alto campo magnetico tipo Alcator, condotti al Massachusetts Institute of Technology (Mit) negli Anni 70. Il raggiungimento delle condizioni in cui le reazioni di fusione si autosostengono richiede che si riesca a ottenere valori elevati non tanto di singoli parametri fisici presi isolatamente, quanto di combinazioni di diversi parametri: ad esempio la densità dei nuclei che danno luogo alle reazioni di fusione moltiplicata per un tempo caratteristico, detto tempo di confinamento. Questo misura l' efficienza con cui l' energia fornita riesce a innescare e a mantenere le reazioni di fusione. Si può quindi raggiungere l' accensione con densità elevate e tempi di confinamento relativamente corti. L' approccio opposto, tempi di confinamento lunghi e densità basse, richiede esperimenti di grandi dimensioni e conduce quindi inevitabilmente a costi molto alti e a tempi molto lunghi che allontanano l' obiettivo della ricerca sulla fusione termonucleare. Si possono prevedere vari tipi di reattori per la produzione e lo sfruttamento dell' energia da fusione, basati su reazioni nucleari molto diverse tra loro per quanto riguarda ad esempio la quantità di neutroni prodotti a parità di energia. Noi crediamo, confortati dall' opinione di numerosi colleghi con esperienza diretta di lavoro in questo campo, che reattori di dimensioni molto grandi che utilizzino una mistura di deuterio trizio come combustibile difficilmente risulteranno economicamente e socialmente attraenti. E' chiaro tuttavia che la reazione deuterio trizio è quella più facile da innescare in un reattore sperimentale il cui scopo sia di provare la realizzabilità scientifica della fusione. Va poi ricordato che gli studi più avanzati prevedono per la realizzazione dei futuri reattori di potenza a fusione l' uso della tecnologia degli alti campi magnetici, sviluppata inizialmente con gli esperimenti tipo Alcator e della fisica che è alla base degli esperimenti di accensione ad alto campo. La linea delle grandi imprese sperimentali per la fusione termonucleare è rappresentata dal progetto Iter, di cui si progetta ora la realizzazione per la fine del prossimo decennio. Esso dovrebbe costituire lo sforzo unico e coordinato di Giappone, Russia, Stati Uniti ed Europa per acquisire tutte le conoscenze scientifiche e tecnologiche necessarie per poi passare alla costruzione di un reattore dimostrativo. Le stime del costo di questo progetto si pongono intorno alla decina di miliardi di dollari. Un progetto così esteso nel tempo e costoso contribuirà a rafforzare la situazione di disagio e le preoccupazioni notate prima. Se poi venisse più tardi bloccato, a causa dei suoi costi, prima ancora di venir realizzato, o se si rivelasse incapace, come è probabile, di soddisfare le molte aspettative in esso riposte, potrebbe travolgere con sè l' intera ricerca sulla fusione termonucleare. Noi pensiamo che un criterio più opportuno secondo cui indirizzare la ricerca sulla fusione sia quello di individuare obiettivi scientifici molto ben definiti, raggiungibili con una sequenza rapida di esperimenti relativamente poco costosi. Il primo obiettivo è il raggiungimento dell' accensione e la comprensione dei processi fisici in condizioni di accensione. Questo obiettivo può essere raggiunto in tempi più brevi e con costi di gran lunga minori di quelli previsti per Iter seguendo la linea degli esperimenti tipo Alcator, di piccole dimensioni e ad elevato campo magnetico. Questa linea prevede la realizzazione del progetto Ignitor, per raggiungere l' accensione in una miscela di deuterio trizio, e in un secondo tempo del progetto Candor per tentare di raggiungere le condizioni di combustione per fusione di una miscela di deuterio elio 3. In quest' ultimo caso è più difficile ottenere l' accensione ma ci si avvicina di più alla realizzazione di una ideale sorgente di energia «pulita» dato che, tra l' altro, nessuno dei due combustibili è radioattivo e la produzione di neutroni, che danneggiano le proprietà dei materiali e tendono a renderli radioattivi, è molto ridotta. Ignitor è stato il primo esperimento progettato con lo scopo di raggiungere l' accensione: il fatto che non sia stato fino ad ora realizzato può essere visto come un indice della non buona gestione della ricerca sulla fusione termonucleare. Attualmente Ignitor viene proposto da un gruppo di ricerca composto da fisici e ingegneri che fanno capo a diverse Università italiane, all' Enea, al consorzio industriale Fiat Ansaldo e al Cnr. Di recente una rappresentanza del Dipartimento dell' energia americano si è incontrata con questo gruppo a Torino per discutere una collaborazione al progetto e l' esito è stato decisamente positivo. Bruno Coppi Mit e Politecnico di Torino Francesco Pegoraro Università di Torino


INTELLIGENZA ARTIFICIALE: PARLA HOFSTADTER La mente? E' come un computer «E' una cosa fisica, è possibile scoprire come funziona riproducendone il modello meccanizzato sul calcolatore» «Nulla ci impedisce di immaginare che un giorno gli elaboratori elettronici imparino a imitare il pensiero umano»
AUTORE: PEIRETTI FEDERICO
ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA
PERSONE: HOFSTADTER DOUGLAS
NOMI: DENNETT DANIEL, HOFSTADTER DOUGLAS
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 074

SORRIDE Hofstadter, all' idea che il suo libro, «Godel, Escher, Bach: un' eterna ghirlanda brillante» sia visto come una versione moderna di Alice nel Paese delle meraviglie e che lui stesso possa essere considerato il Lewis Carroll della civiltà informatica: «Mi piace il suo paragone, ma il mio non è certo un libro per bambini. Non riesco a immaginare che dei bambini, neanche fra cent' anni, possano essere in grado di capire quello che io sono arrivato a mettere insieme faticosamente solo dopo i trent' anni. Se pensa invece ad un diverso livello di lettura del libro di Lewis Carroll, quello per adulti, allora potrebbe aver ragione». Douglas R. Hofstadter, che parla correntemente italiano, ha quarantotto anni e insegna all' Indiana University, nel dipartimento di informatica. Lo abbiamo incontrato nei giorni scorsi a Torino, dov' era di passaggio «soltanto per vedere un amico», il fisico Enrico Predazzi. Il suo libro «Godel, Escher, Bach» è stato un grande successo, anche editoriale: seicentomila copie sono state vendute solo nell' edizione inglese e cinquantamila nella traduzione italiana, che è stata pubblicata dall' editore Adelphi Si tratta di un saggio sull ' intelligenza artificiale, un tema sviluppato attraverso giochi e provocazioni, indagini e confronti che hanno al centro la nostra coscienza ovvero, secondo il titolo di un altro suo libro, pubblicato in collaborazione con Daniel C. Dennett, «L' io della mente». Una serie di dialoghi paradossali fra Achille e la Tartaruga, protagonisti di un grande viaggio nel Paese delle meraviglie dell' intelligenza artificiale, introducono ad ogni capitolo le nuove idee di Hofstadter, che si muove ai confini ancora misteriosi dei rapporti fra l' uomo e il calcolatore. «In un certo senso dice Hofstadter studio la mente, facendone modelli al calcolatore. Ma non sono io a fare i programmi, li fanno i miei studenti. Io studio piuttosto l' architettura dei programmi, cioè la concezione ad un livello un po' astratto del "programma in se "', se questo può avere un senso. E' possibile cercare di descrivere l' attività della mente in termini esatti, in modo da poterla inserire in un calcolatore. Se il programma è sufficientemente "flessibile" allora potrà riprodurre in qualche modo il comportamento della mente». Professor Hofstadter, le ripropongo la domanda che si poneva Turing: le macchine possono pensare? «Turing in realtà non diede una risposta a questa domanda. Si limitò a stabilire un metodo per determinare se un calcolatore pensa o no. Io direi ancora pressappoco la stessa cosa. Cioè io non potrei mai affermare che i calcolatori di oggi possono pensare, no, ma in linea di principio non vedo nessuna ragione per la quale calcolatori o sistemi artificiali non potrebbero un giorno imitare il nostro pensiero e avere pensieri umani. Credo che la mente sia una cosa fisica e come tale soggetta alle leggi della fisica. Di conseguenza ritengo che sia possibile scoprire le regole che ne descrivono il comportamento». Però, come dice nel suo libro, è necessario tenere presente che sappiamo molto poco sul nostro cervello. «Certo conosciamo ben poco del cervello e non riusciamo ancora a capire molto bene la struttura del pensiero umano. Questo potrebbe voler dire che non siamo ancora arrivati alla soglia della comprensione della mente, ma forse non ne siamo così lontani. Potremmo anche arrivare a scoprire strutture, sottosistemi della mente che funzionano a livello più alto dei neuroni. In fondo non è necessario fare riferimento alle cellule per capire come funziona il cuore». Al centro dell' intelligenza Douglas R. Hofstadter colloca quelli che chiama gli Strani Anelli. Un esempio di Strano Anello è una scala disegnata da Escher, che continua a salire all' infinito, ritornando però sempre al punto di partenza, una scala simile a quella messa in musica da Bach o a quella che Hofstadter vede al centro del teorema di Godel. Questo spiega il collegamento fra i tre nomi citati nel titolo del suo libro. «La mia tesi è che l' intelligenza artificiale è possibile e che riusciremo a capire la mente soltanto creandone modelli al calcolatore. La "meccanizzazione" del pensiero sul calcolatore è uno dei punti centrali del mio libro. Non ho usato il teorema di Godel, le scale di Escher o quelle musicali di Bach per suggerire un paradosso, ma soltanto perché intendevo dare in questo modo un' immagine della struttura misteriosa della coscienza di un essere umano. Vorrei anche precisare che mi interessa la struttura del pensiero, non del ragionamento. Il pensiero non sempre è logico, la maggior parte delle volte è irrazionale. La logica non è che una parte molto piccola del pensiero umano: più della logica quindi direi che mi interessa l' illogica». Ci potrebbe dare un esempio pratico del suo lavoro attuale? «Mi interesso alle lettere dell' alfabeto, cioè alla forma grafica delle lettere che sono esempi di concetti molto flessibili. Prendiamo ad esempio le migliaia di forme diverse della "a": l' insieme di tutte queste forme, a volte anche molto diverse fra loro, è una struttura quasi fisica che a livello più astratto crea una categoria, un concetto molto esteso che contiene migliaia di esemplari diversi. Io vedo un centro con le "a" più facilmente riconoscibili, dal quale si passa poi alla periferia dove ci sono "a" sempre meno riconoscibili. I " creatori di lettere", ad esempio i pubblicitari, americani, sono molto più conservatori, più limitati, di quelli italiani che hanno invece un' immaginazione molto ricca. Per questa ragione mi piace molto venire in Italia a cercare lettere, quella che io chiamo la " letteratura" italiana. Sono un collezionista di lettere». Federico Peiretti


DOPO IL BOOM L' informatica cerca il rilancio nella ricerca universitaria e in una didattica rinnovata
Autore: GIORCELLI ROSALBA

ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA, UNIVERSITA', DIDATTICA
NOMI: DADDA LUIGI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 074

L' informatica fa autocritica; dopo gli anni della crescita tumultuosa (più 11% nel ' 90) il settore dà segni di stanchezza (più 7, 8 del ' 91 che rappresenta comunque un valore complessivo di circa 20 mila miliardi di lire tra hardware, software e servizi) e più 6, 6 previsto per il ' 92. Sul mercato mondiale la crescita nel ' 91 è stata del 4, 4%; in due anni gli organici si sono ridotti di un quarto. Nulla è perduto purché, è stato detto al congresso annuale dell' Associazione italiana per l' informatica e il calcolo automatico (Aica) svoltosi a Torino, il necessario rinnovamento del settore coinvolga la ricerca universitaria, la scuola e soprattutto la pubblica amministrazione. Ora si pensa a lavorare sodo, a proporre nuovi prodotti, a rinsaldare il rapporto con la ricerca universitaria; ci si preoccupa per la formazione, definita un problema centrale. La didattica è da ripensare. Che cosa bisogna insegnare, e a chi? Risponde il professor Luigi Dadda del Politecnico di Milano: «Una cosa è la preparazione dello specialista informatico, destinato a studiare tutta la vita; un altro è insegnare ai tecnici come si lavora al computer; è di queste figure medie che c' è bisogno. I corsi di base per gli operatori non servono più, il codice macchina è una curiosità da appassionati: bisogna insegnare alla gente che cosa succede sul loro video e a che cosa serve la tastiera. Lo stesso sistema scolastico deve adeguarsi; nelle scuole superiori non si è ancora capito che le professioni sono cambiate: a chi interessa più la partita doppia, se tutti usano il foglio elettronico per la contabilità ? ». L' informatica ha bisogno anche di una nuova ricerca universitaria: una ricerca applicativa, poiché sono applicativi i prodotti su cui l' Italia e l' Europa stanno puntando. Solo in una moderna università l' industria informatica può trovare appoggio per risolvere i problemi applicativi che investono ogni campo, dalla sanità all' ambiente. Una proposta concreta viene dal presidente dell' Aica, Giancarlo Martella: un «Politecnico dell' informazione» che, nello spirito dei Politecnici nati 90 anni fa, sia punto di incontro tra impresa e ricerca. Facoltà che si chiamino facoltà di informatica, di elettronica, di comunicazione, ad esempio; all' interno della facoltà di informatica, corsi di laurea in ingegneria informatica, scienze dell' informazione, tecnologie informatiche, informatica economica, bioinformatica e via dicendo. Rosalba Giorcelli


DAL LABORATORIO ALLE APPLICAZIONI Realtà virtuale, ecco a cosa serve Il chirurgo si esercita sul paziente elettronico
Autore: INFANTE CARLO

ARGOMENTI: ELETTRONICA, MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: KRUEGER MYRON, SUTHERLAND DONALD, FISHER SCOTT, LANIER JARON
ORGANIZZAZIONI: CNR, AGENZIA SPIN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 074

AL Salone delle Nuove Tecnologie, a Torino Esposizioni, si svolge oggi un seminario promosso dal Centro estero camere di commercio piemontesi, Cnr e Agenzia Spin su «Realtà virtuali: i valori d' uso» . Le «realtà virtuali» rappresentano oggi lo stadio più avanzato del rapporto uomo macchina. Con esse si può agire all' interno di una simulazione videografica, di un «ambiente» che esiste solo nella memoria di un computer. Questo è possibile in primo luogo (sono diversi gli approcci con sistemi diversi) attraverso un visore stereoscopico che trasmette immagini in tre dimensioni soggette ad un' interazione (attraverso sensori) con i movimenti del capo che indossa il visore e della mano che calza un guanto innervato di fibre ottiche interfacciate con il computer generatore dello scenario interattivo. I primi esperimenti risalgono alla seconda metà degli Anni 70 negli Usa, con Myron Krueger sulla cosiddetta «realtà artificiale», e con Donald Sutherland sulla stereoscopia; ma il vero salto di qualità della ricerca è del 1985 quando presso la Nasa Scott Fisher istituisce il Virtual Environment Workstation. Solo qualche anno dopo, nel 1989, Jaron Lanier (ricercatore " indipendente" operante nel VEW) conierà il termine «realtà virtuale» commercializzando con la VPL i primi sistemi e aprendo i giochi. E i giochi sono aperti a tal punto da non concedere nessuna limitazione di campo, come una certa «casta» tecnocratica vorrebbe stabilire. Superata l' enfasi dell' ultima scoperta si tratta ora di arrivare a stabilire i «valori d' uso» delle tecnologie avanzate per spostare in avanti i termini della percezione del mondo in trasformazione. Le «realtà virtuali» (usiamo il plurale proprio per non limitarci ad una tecnologia solamente) possono quindi essere affrontate secondo le possibilità applicative che offrono e le implicazioni sensoriali e psicologiche che determineranno con il loro uso potenziale. Per ora si possono solo intravedere le applicazioni nei campi più disparati, a parte quello militare e aereospaziale in cui gli investimenti sugli addestramenti speciali e le simulazioni di volo sono stati il preludio di tutto il fenomeno. In campo industriale sarà possibile «testare» i processi produttivi in tempo reale, controllare con la «telepresenza» sistemi robotizzati in operazioni delicate (nello spazio o nei fondali sottomarini), progettare le soluzioni ergonomiche di un' autovettura abitandola virtualmente. Nel campo dell' urbanistica le «realtà virtuali» permettono di visualizzare dall' interno la simulazione grafica di una città (una piazza, un edificio, un aeroporto... ) progettandolo così a misura d' uomo. Nella comunicazione lo sviluppo procederà di pari passo con la multimedialità e la telematica fino alla ridefinizione dei termini dello scambio elettronico quando in una teleconferenza ci si potrà stringere la mano distanza. Nei servizi possiamo pensare al controllo di sistemi di trasporto automotizzati o alla possibilità per un cliente di scegliere l' arredo del proprio appartamento (questo sistema è già attivo ai Magazzini Matsushita di Tokyo). I campi possibili sono quindi i più diversi, dalla sanità all' educational, dalla simulazione di volo (con proiezione dei vari scali in cui atterrare) per i piloti al training per chirurghi, che in via endoscopica possono operare virtualmente su un paziente; fino a quelle terapie riabilitative che si stanno sperimentando per il recupero di pazienti con problemi neuro motori o alle possibilità di traduzione dei gesti dei sordomuti (sistema Slim: Sign language intelligent machine). Carlo Infante


ALLARME OMS Malaria, un morto ogni trenta secondi Armi spuntate: cresce in tutto il mondo la resistenza al chinino e al Ddt In Italia, cinquecento casi all' anno, tutti importati dai viaggi esotici
Autore: VERNA MARINA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SANITA', DEMOGRAFIA E STATISTICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T I dati dei decessi in Italia e nel mondo
NOTE: 075

LA malaria è tornata fra noi, anche se non ce n' eravamo accorti. Ci voleva la storia di Tivoli, con una donna contagiata senza aver mai viaggiato nelle zone a rischio, per ricordarci che le vacanze avventurose e i voli intercontinentali hanno riportato anche in Italia una malattia che, con le ultime bonifiche del dopoguerra, era considerata estirpata per sempre. Invece non è così. I casi ufficiali, in Italia, erano 155 nell' 83. Nel biennio ' 90 91, 1. 022. Nel ' 90, in tutta Europa, erano stimati in almeno ottomila. Comunque, dicono all' Istituto Superiore di Sanità, in Italia non ci sono rischi di epidemia: mancano le condizioni ambientali perché gli insetti vettori si moltiplichino. Ben diversa è la situazione in Africa e in Asia. Secondo i dati dell' Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha riunito nei giorni scorsi ad Amsterdam i rappresentanti di 102 Paesi per una grande conferenza internazionale, ogni trenta secondi nel mondo c' è un morto di malaria. I più esposti sono i bambini: nell' Africa tropicale rurale uno su venti ne muore prima di aver raggiunto i cinque anni. La malaria non è una malattia cronica tutto sommato poco grave: è la malattia tropicale più mortale. L' uomo la subisce da millenni, l' aveva già descritta Ippocrate nel IV secolo a. C. Non sono passati molti decenni da quando infuriava ancora a livello endemico in Europa e in alcune zone degli Stati Uniti. Più di un secolo dopo l' identificazione dei diversi parassiti all' origine della malattia, la malaria è più florida che mai e l' ha spuntata su tutti i farmaci messi in campo per batterla: ha sviluppato una crescente resistenza al chinino, l' antimalarico più utilizzato e più abbordabile; si è rivelata più furba dei vaccini, che infatti non riescono ad afferrarla; nonostante il Ddt e analoghi insetticidi, sta invadendo regioni un tempo indenni. E oggi colpisce sempre di più gli adulti, una categoria relativamente risparmiata. Infatti i bambini che sopravvivono agli attacchi sviluppano progressivamente un' immunità che rende quelli successivi sempre meno gravi, a meno che il loro equilibrio immunitario non venga intaccato da altre malattie. Le donne incinte, invece, rischiano di danneggiare il feto, soprattutto nei primi due mesi di gravidanza. Di fronte a questo disastro, l' Oms non parla più di «strategie di sradicamento» ma di «strategie di lotta». La conferenza di Amsterdam ha riconosciuto ufficialmente l' insuccesso delle contromisure prese negli Anni 50 e, limitandosi a «obiettivi realisti», punta a una «riduzione della malattia e della mortalità ». Tanto più che la gravità dell' epidemia di Aids, e la riduzione di tutti i bilanci per la salute, stanno riducendo all' osso la fetta di finanziamenti destinabili alla malaria. Ma con quale strategia? La storia dimostra che nessuna, alla lunga, si è rivelata vincente. L' introduzione, negli Anni 40, del Ddt e di altri insetticidi poco costosi aveva permesso di disinfestare l' ambiente, liberandolo dagli insetti che veicolano il parassita. Inoltre era stato scoperto un antimalarico di sintesi poco costoso e relativamente sicuro come il chinino. Dopo le prime batoste, zanzare e parassiti hanno però cominciato a sviluppare una solida resistenza a tutte le sostanze messe in campo contro di loro. E fin dagli Anni 60 è apparso chiaro che questa resistenza, sommata ai tanti problemi economici e logistici prima sottovalutati, non avrebbe portato nulla di buono. Il chinino conserva comunque la sua efficacia clinica, unita a un' assenza totale di effetti collaterali. Per questo resta il farmaco di prima scelta, soprattutto nelle zone più periferiche rispetto all' epidemia. Quando risulta inefficace, si può ricorrere alla combinazione di un sulfamidico con la pirimetamina. Intanto si cerca anche in una direzione nuova, almeno per la medicina occidentale: i derivati dell' artemisia. Da duemila anni la medicina tradizionale cinese utilizza le foglie e le infiorescenze dell' Artemisia annua per trattare la febbre che accompagna la malaria. Le ricerche degli ultimi dieci anni confermano che alcuni derivati dell' artemisia riescono ad abbassare la febbre e a eliminare il parassita dal sangue più rapidamente di tutti gli antimalarici conosciuti. La chinina era stata isolata dalla corteccia della china nel 1834: da allora, non c' è più stata una vera novità. Marina Verna


Un frutto del degrado Nel Terzo Mondo allentata la lotta
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, DEMOGRAFIA E STATISTICA, SANITA'
ORGANIZZAZIONI: OMS
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T C Malaria ripartizione geografica e zone critiche
NOTE: 075

C HE la malaria torni ad affacciarsi anche nei Paesi avanzati è un ' amara sorpresa. «La guerra alla malaria è perduta» ha ammesso l' Organizzazione mondiale della sanità, l' Oms, organo delle Nazioni Unite. «In tutto il mondo ha annunciato drammaticamente il suo presidente, Hiroshi Nakajima la situazione è ogni giorno più inquietante». Ci sono due miliardi e mezzo di uomini a rischio cioè il 40 per cento della popolazione della Terra, ogni anno muoiono più di un milione di persone e il numero di nuovi casi supera i 100 milioni. Perché questa nuova fiammata? Non c' è, probabilmente, una causa unica ma un groviglio di cause che hanno però una matrice comune: la crisi profonda, economica, politica, demografica di moltissimi Paesi del Terzo Mondo. In molte regioni tropicali i programmi di lotta sono stati ridimensionati e la creazione di servizi sanitari di base è stata più lenta del previsto perché i governi sono stati costretti a diminuire gli investimenti. A questa situazione ha contribuito, come del resto ha denunciato più volte la Banca Mondiale, la politica di restrizione del credito ai Paesi più indebitati attuata dagli organismi finanziari internazionali, che ha costretto i governi a tagliare anche su investimenti chiave come la scuola e la sanità. Inoltre le condizioni economiche di molti Paesi arretrati sono peggiorate anziché migliorare; come sottolinea l' ultimo rapporto (settembrè 92) della Banca Mondiale i prezzi dei prodotti di base che sono la loro principale fonte di entrata sono diminuiti del 4, 8 per cento per il terzo anno consecutivo. In Africa e in Asia guerre e rivoluzioni hanno portato tutte queste difficoltà ad un livello insostenibile. In Vietnam su 60 milioni di abitanti 40 milioni sono esposti alla malaria e ogni anno vi sono due milioni di nuovi casi; in Cambogia, dove i ceppi malarici sono ormai resistenti alla maggior parte dei medicinali, è a rischio la totalità degli 8 milioni di abitanti e i casi sono passati con rapidità folgorante da 200 mila a 500 mila l' anno; la malaria infierisce in Etiopia e in particolare in Eritrea, dove le strutture sanitarie sono state completamente distrutte dalla guerra civile; in Afghanistan i nuovi casi di malaria sono balzati dai 12 mila dell' 83 a 320 mila del ' 90. Solo pochi Paesi hanno fatto importanti progressi, come il Burundi, il Messico e soprattutto la Cina. L' Oms indica, tra le cause di questo ritorno di fiamma, le modificazioni causate all' ambiente da alcuni progetti di sviluppo agricolo che hanno scardinato l' equilibrio naturale e favorito la proliferazione della zanzara anofele; situazione aggravata dalle migrazioni di massa e dall' urbanesimo disordinato in Africa, Asia e America Latina. Un' altra causa, sulla quale peraltro sembra lecito avere qualche riserva, è indicata nell' aumento della temperatura del pianeta che avrebbe portato la malaria in regioni, come quelle montuose dell' Africa orientale, che in passato erano troppo fredde per consentirne lo sviluppo. E' un fatto che alcune delle epidemie più preoccupanti degli ultimi anni sono state registrate in regioni montuose dell' Africa; la più grave quella che ha colpito il Madagascar nel 1988 facendo 20 mila vittime. In America Latina i casi sono passati da 600 mila nel 1980 a un milione 100 mila nel ' 90. Qui, secondo l' Oms, la causa è del tutto particolare; i due terzi dei nuovi malati sono persone impegnate nei lavori di sfruttamento della foresta amazzonica; per questo in Brasile i nuovi casi sono passati da 66 mila nel 1974 a 560 mila nel 1990. Ad Amsterdam sono stati indicati i termini finanziari di un piano credibile di lotta: 250 300 milioni di dollari l' anno. Questi soldi dovrebbero venire dai Paesi industrializzati; i quali non possono pensare che la cosa non li riguardi; su 22 Paesi delle sponde asiatica e africana del Mediterraneo, per fare un esempio che ci tocca direttamente, quelli in cui la malaria continua a esistere sono ben 14. Vittorio Ravizza


IL PARASSITA Un vivaio nella saliva dell' anofele
Autore: SABATINELLI GUIDO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 075. Malaria

L' INFEZIONE malarica è provocata nell' uomo da quattro specie di protozoi appartenenti al genere Plasmodium: P. falciparum, P. vivax P. ovale e P. malariae. Il primo è responsabile della forma clinica detta «malaria terzana maligna», che se non curata può condurre al decesso, il secondo e il terzo della «malaria terzana benigna» e il quarto della «malaria quartana». Il parassita malarico può essere trasmesso solo dalle zanzare femmine del genere Anopheles. In Italia i vettori potenziali sono essenzialmente due: A. labranchiae, nel centro, nel sud e nelle isole; A. sacharovi nelle coste alto adriatiche e tirreniche e in Sardegna. Il ciclo riproduttivo del parassita malarico si compie nell' uomo (ospite intermedio) e nell' anofele (ospite definitivo e vettore). Al momento della puntura la zanzara inocula nel sangue i parassiti, che raggiungono le cellule del fegato. Qui maturano e si moltiplicano senza separarsi, diventando grossi parassiti multinucleati (schizonti). La rottura della cellula epatica parassitata libera nel circolo sanguigno numerosi piccoli parassiti che invadono i globuli rossi, si nutrono di emoglobina, mutano di aspetto e, moltiplicandosi senza separarsi, diventano schizonti. La rottura dei globuli rossi parassitati libera tanti piccoli parassiti, che invadono altri globuli rossi e incominciano un nuovo ciclo riproduttivo. Sono appunto gli episodi ciclici di rottura dei globuli rossi a provocare le febbri ricorrenti. Dopo qualche ciclo «schizogonico», alcune forme plasmodiali si differenziano in parassiti sessuati maschi e femmina che, ingeriti dalla zanzara anofele col sangue dell' uomo portatore, raggiungono lo stomaco, dove si fondono in un unico parassita. Successive divisioni nucleari portano alla formazione di numerosissimi elementi fusiformi e la rottura della oocisti libera circa mille sprozozoiti mobili che raggiungono le ghiandole salivari dell' insetto, pronti a essere inoculati alla successiva puntura. Guido Sabatinelli Istituto Superiore di Sanita


SCIMMIE SCOIATTOLO Tutte in coda per un superdotato E parti simultanei per organizzarsi contro i predatori
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ANIMALI, ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 075

SONO piccole e graziosissime, le saimiri o scimmiette scoiattolo. Sembra che abbiano intinto il musetto nella marmellata di mirtilli, perché hanno tutt' intorno alla bocca un alone scuro che contrasta con il colore chiaro del resto del viso. Pesano circa mezzo chilo la femmina e poco più di 800 grammi il maschio. Questo spiega la leggerezza e l' agilità con cui si lanciano da un ramo all' altro o addirittura da un albero all' altro, in volata. Vivono nelle foreste tropicali del Centro e del Sudamerica, ma mentre nel Sudamerica godono ancora di relativa buona salute, non si può dire altrettanto della modesta popolazione che abita il Centro America. A Panama la specie è praticamente estinta. Nel Costa Rica è molto vicina all' estinzione, a causa della deforestazione selvaggia per l' espandersi dell' agricoltura e del turismo. Ed è proprio alla piccola popolazione del Costa Rica che si è rivolta l' attenzione della biologa americana Sue Boinski. La studiosa, osservando per tre anni il comportamento delle saimiri che vivono nel Parco Nazionale Corcovado, situato sulla costa costaricana del Pacifico, ha scoperto che in fatto di sesso e di riproduzione queste scimmiette non assomigliano a nessun' altra specie di primati. Per poter riconoscere individualmente i vari componenti del branco, anzitutto Sue Boinski li marca con un contrassegno sparato mediante un fucile a siringa. Si accorge così che i maschi, quando si avvicina la stagione degli amori, vanno incontro a una singolare metamorfosi. E' come se si gonfiassero improvvisamente: la massa corporea aumenta di circa il 25 per cento. S' ingrossa soprattutto la parte superiore del corpo, ma anche i testicoli raddoppiano di volume. Non tutti i maschi subiscono un cambiamento così vistoso, ma quelli supersviluppati è come se moltiplicassero il loro sex appeal agli occhi delle femmine, le quali fanno ressa intorno a loro per accoppiarsi. Ci tengono a farsi fecondare dai maschi superdotati e solo quando questi sono esausti, fanno avances ai meno dotati. Durante la maggior parte dell' anno, i maschi sono tutti all' incirca della stessa grandezza, ma due o tre mesi prima della stagione riproduttiva, alcuni di loro incominciano a gonfiarsi. Non che aumentino di mole perché mangiano di più nè l' ingrossamento è in rapporto con la capacità riproduttiva, dato che i maschi sono fertili tutto l' anno. Le ricerche di laboratorio hanno dimostrato che il fenomeno è dovuto alla trasformazione del testosterone, l' ormone maschile, in estrogeno, l' ormone femminile. Più testosterone un maschio possiede, più estrogeno produce e più si gonfia. Sono comunque sempre le femmine che si scelgono il partner dando la preferenza ai più grossi. Secondo l' opinione della studiosa, sarebbe proprio la scelta femminile quella che nel corso dell' evoluzione avrebbe portato all' aumento stagionale di mole dei maschi. Analogamente, secondo la teoria darwiniana della selezione sessuale, si sono evolute, proprio perché piacciono alle femmine delle rispettive specie, le corna ramificate dei cervi o le code spettacolari dei pavoni, tutti attributi maschili di nessuna utilità, anzi addirittura d' impaccio nella vita quotidiana. Tra le scimmie scoiattolo, maschi e femmine hanno destini diversi. Mentre le femmine abbandonano il branco d' origine in età giovanile, unendosi a un altro branco, i maschi vi rimangono almeno per quattro o cinque anni finché non raggiungono la maturità sessuale. Ma Sue Boinski ha notato che non esiste tra loro nessuna rivalità, nessuna competizione, nemmeno quando le femmine diventano recettive. E nessun maschio si sogna di usare violenza a una femmina costringendola ad accoppiarsi con lui. Accetta passivamente la scelta femminile. Gli accoppiamenti avvengono quasi tutti nella stessa epoca. Vi è una singolare sincronia nella recettività sessuale delle saimiri di sesso femminile. Anche le nascite sono sincrone: un buon numero di femmine partorisce nella stessa notte, mentre le altre danno alla luce i figli a poche settimane di distanza. Questa singolare sincronia di comportamenti che non si riscontra in nessun' altra scimmia, incuriosisce la Boinski, che vuole scoprirne le ragioni. E anzitutto polarizza la sua attenzione sulla disponibilità di cibo nelle varie stagioni. Nel Corcovado vi è una stagione particolarmente umida con piogge intense, che va da settembre a metà dicembre, e una stagione di piogge scarse che va da gennaio ad aprile. Nella prima c' è un notevole calo degli insetti e dei ragni di cui le saimiri si nutrono, ragion per cui le scimmiette impiegano gran parte della giornata (il settanta per cento) alla ricerca affannosa del cibo. Nella seconda invece, come pure tra maggio e settembre, il cibo abbonda e la caccia assorbe solo il quaranta per cento del tempo. Le nascite si concentrano in un periodo limitato, compreso tra febbraio e aprile. E siccome i piccoli vengono svezzati all' età di quattro mesi, trovano certo cibo in abbondanza. Ma c' è un altro fattore che influenza il ciclo riproduttivo delle saimiri: la predazione. La ricercatrice è testimone di una quarantina di attacchi di aquile e falchi di varie specie, cinque soltanto dei quali hanno successo. La maggior parte vengono sventati, perché le scimmiette sono estremamente vigili. Non appena una di loro scorge un uccello da preda, dà immediatamente l' allarme e tutte si mettono al riparo. Ma le madri hanno un altro sistema per fronteggiare i predatori. Si stringono l' una all' altra, ciascuna con il suo piccolo aggrappato alla schiena. E quando l' aquila o il falco cercano di acchiappare un neonato, fanno fronte comune. Così il più delle volte riescono a scacciare il nemico. E' proprio il caso di dire: l' unione fa la forza. Questo spiega perché le femmine partoriscono tutte nello stesso periodo. Se le nascite fossero scaglionate nel tempo, una singola madre non sarebbe certo in grado di salvare il suo piccolo dall' attacco dei predatori. Isabella Lattes Coifmann


PIOGGE ACIDE E l' acqua del vostro balcone? Un test con reagenti facili da fare in casa
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C T Le zone più colpite dalla pioggia acida. I test
NOTE: 076

LE piogge acide sono una forma di inquinamento che sta uccidendo boschi e laghi d' Europa. A formarle concorrono gas come l' anidride solforosa e gli ossidi di azoto, che nell' aria si trasformano in acidi mescolandosi poi alle goccioline d' acqua che formano le nubi In natura, le piogge acide sono una conseguenza dell' eruzione di un vulcano. In questi anni, però, l' uomo le ha pericolosamente moltiplicate bruciando combustibili fossili in centrali elettriche e i vari carburanti per auto e camion. Per analizzare la pioggia, basta fabbricarsi delle cartine reagenti. Si comincia versando del succo di mora in una caraffa. Ritagliare delle striscette di carta assorbente larghe un centimetro e alte cinque. Immergerle nel succo e tenervele finché non sono diventate rosse scuro. Toglierle e metterle ad asciugare su un giornale. Ora passare all' aceto. Immergervi la cartina rossa: essendo un acido, non deve cambiare colore. Se il liquido fosse alcalino, la cartina sarebbe diventata blu. Per divertirsi, analizzare latte, té, succo di limone, succo di pomodoro o Coca Cola. Ritornando al test delle piogge acide, aggiungere al succo di more, lentamente, un po' di detersivo. Quando la miscela è diventata blu scuro, fermarsi. Immergere altre strisce di carta assorbente, poi farle asciugare sul giornale. Questi sono i reagenti. Riprovare a immergerli nell' aceto: le cartine diventeranno rosse. E adesso, provare con la pioggia.


STRIZZACERVELLO Insalata aritmetica
Autore: PETROZZI ALAN

ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 076

Insalata aritmetica Per questa settimana vi proponiamo alcuni brevi quesiti di aritmetica elementare. Naturalmente la brevità si riferisce all' esposizione dei problemi: la soluzione potrebbe richiedere un tempo inversamente proporzionale. A) se abbiamo due 2, li possiamo separare sia con il segno «più » che con il segno «x» senza alterare il risultato (2più 2 = 2x2); se invece abbiamo tre numeri, l' unica soluzione analoga è 1più 2più 3 = 1x2x3. Sapreste trovare l' unica soluzione per 4 numeri e le tre soluzioni per 5 numeri? B) tra le cifre 987654321 scritte nell' ordine si possono mettere in due modi dei segni «più », ottenendo il totale di 99; come? C) tra le cifre 1234567, invece, mettendo dei «più » si può ottenere il totale di 100; anche qui due possibilità. La soluzione domani, accanto alle previsioni del tempo. (a cura di Alan Petrozzi)


LE DATE DELLA SCIENZA Un telescopio costruito a tasselli precursore degli strumenti moderni
Autore: GABICI FRANCO

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA
PERSONE: HORN D' ARTURO GUIDO
NOMI: HORN D' ARTURO GUIDO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 076

VENTICINQUE anni fa moriva a Bologna, quasi novantenne, Guido Horn d' Arturo, direttore dal 1920 dell' Osservatorio astronomico di Bologna, fondatore della rivista «Coelum» e ideatore del «telescopio a tasselli», precursore dei moderni multi mirror. L' idea del «telescopio a tasselli» venne a Horn d' Arturo considerando le difficoltà della costruzione di specchi monolitici di grandi dimensioni. Il peso della massa vitrea, infatti, provoca autodeformazioni e inoltre resta pur sempre difficile lavorare vetri di grandi dimensioni. Horn d' Arturo pensò allora di risolvere il problema ideando uno specchio di 180 centimetri di diametro che anziché presentarsi come un monoblocco, risultasse composto di tanti «tasselli» esagonali di 20 centimetri di apertura e 3 di spessore. I «tasselli» erano disposti in gironi circolari concentrici e un opportuno aggiustamento dei singoli pezzi conferiva al sistema la curvatura desiderata. Il «telescopio a tasselli» venne montato negli Anni Trenta alla base di un pozzo verticale ricavato nella torre della Facoltà di Astronomia di Bologna. Lo specchio è fisso e guarda lo Zenit e con questo strumento Horn d' Arturo ottenne migliaia di fotografie della fascia di cielo allo Zenit di Bologna. Curiosità: l' idea di Horn d' Arturo prevedeva la costruzione di 16 «telescopi a tasselli» dislocati ciascuno a 75 chilometri di distanza (nel senso della latitudine) per avere la possibilità di fotografare tutto il cielo d' Italia. Horn d' Arturo fu inoltre un vero anticipatore della divulgazione scientifica e «Coelum», dal 1931 al 1986 (anno della chiusura), fu un vero punto di riferimento non solo per astrofili, ma anche degli astronomi. Horn d' Arturo era convinto che la divulgazione dovesse essere uno strumento per innalzare il livello delle conoscenze. Nel caso dell' astronomia, come scrisse Livio Gratton ricordando gli anni della rivista, gli astrofili dovevano elevarsi all' altezza della materia e non questa scendere al livello dei lettori più sprovveduti. Franco Gabici


LA PAROLA AI LETTORI Mare mosso, il pesce esce a caccia... e finisce cacciato
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 076

M OLTI lettori sono tornati sulle risposte pubblicate la settimana scorsa. Ecco le due lettere che abbiamo scelto: «Tecnicamente, il passo dell' oca, passo di parata chiuso, veniva eseguito con una cadenza di cento passi al minuto, tenendo la gamba distesa e rigida con il tallone a 40 centimetri dal suolo, e iniziando a cento passi dalla persona alla quale si doveva rendere onore. Per evitare di perdere l' equilibrio, i soldati stavano accostati, con il gomito destro appoggiato a quello sinistro del compagno di fila, in modo da formare una catena». Ricciotti Lazzero, Argegno, CO «Non sono d' accordo con il lettore di Verbania quando afferma che lo shuttle " a questo punto sarebbe così pesante da non riuscire più a staccarsi dal suolo": infatti una gran massa l' avrà già espulsa per accelerare sino a una certa velocità. Se non decolla come un aereo, è perché questo non ha senso. Lo shuttle è una macchina che deve arrivare a una velocità di caduta libera intorno alla Terra (velocità orbitale), quindi è sottoposto a vincoli, come il rapporto di massa (tra la macchina con i serbatoi pieni e la macchina con i serbatoi vuoti). Questo vincolo è così severo che costringe l' uomo, che oggi dispone di elevatissime energie di origine non chimica, ad accontentarsi di espellere dai reattori la massa con minor impulso, sfruttando l' energia della combustione. Non si può allo stesso tempo trovare un compromesso tra i diversi vincoli e permettersi di far decollare uno shuttle come un aereo». (La lettera prosegue con due pagine di dimostrazioni, per le quali manca lo spazio). Angelo Fugis, Torino Perché in camera operatoria tutto il personale indossa divise verdi? Se il personale delle camere operatorie indossasse divise bianche, queste rifletterebbero la luce emessa dalla grossa lampada scialitica (quella che sovrasta il tavolo operatorio) con conseguente disturbo e affaticamento per la vista degli operatori. Il colore verde, invece, possiede una lunghezza d' onda tale da non sovraffaticare l' occhio umano. Per questo motivo, oltre che per i camici degli adetti alle sale operatorie, il verde viene utilizzato anche per il video dei computer e gli occhiali da sole. Questo colore risulta così gradevole alla vista umana probabilmente per ragioni evolutive, tant' è che è costantemente presente nella natura che ci circonda Raffaele Alboni, Faenza, RA C' è anche un' altra ragione: il sangue, a contatto con il verde, perde quel suo caratteristico colore rosso. Tale tinta, oltre a essere stancante per l' occhio, innervosisce chi la fissa. Deborah Rosso, Savigliano, CN E' vero che ascoltare musica con le cuffie è dannoso all' udito? In teoria, la pressione sonora raggiunta dalla maggior parte delle cuffie attualmente in commercio non arriva a provocare seri danni all' orecchio umano. In realtà esistono in commercio apparecchi portatili che hanno in dotazione cuffie con una elevata pressione sonora. Queste cuffie, con un ascolto prolungato ad alto volume, possono provocare sensazioni di fastidio o anche, in alcune persone il cui apparato uditivo non sia più in perfette condizioni, danni seri all' udito. Il consiglio, valido per tutti, è di non esagerare con il volume. Daniele Rocca, Caselle, TO Perché i pesci abboccano di più con il mare mosso? Questo è vero solo nei bassi fondali, dove il maltempo smuove la sabbia e tutta la piccola fauna che vi si rifugia. I pesci lo sanno e si mettono in caccia. Inoltre le onde grosse nascondono alla loro vista ami e fili. Anche la pesca alla trota nei torrenti di montagna è più fruttuosa quando piove: le onde infatti erodono le rive e trascinano in acqua i vermi. Le trote quindi escono dai loro rifugi e mangiano... Giuseppe Bracco, Noli SV Tutte le orbite note sono ellittiche. Per quale motivo non potrebbe esisterne almeno una circolare? Non «tutte» le orbite conosciute sono ellittiche, ci sono anche quelle paraboliche e iperboliche. Fra le ellittiche, potrebbe in teoria esistere anche un' orbita circolare, essendo il circolo un caso limite di ellisse nel quale i due fuochi coincidono, ossia l' «eccentricità » è zero. Ma la probabilità di avere un' orbita esattamente circolare è di uno su infiniti casi possibili, cioè una probabilità praticamente nulla. Esistono tuttavia traiettorie che si avvicinano molto a una circonferenza: la stessa orbita descritta dalla Terra intorno al Sole ha un' eccentricità di appena 0, 0167, e quella di Venere è ancora minore (0, 0068), per cui la sua orbita è quasi circolare. Franco Romanisio, Pino Tor. In teoria può esistere anche un' orbita perfettamente circolare. E' però molto improbabile perché ciò dipende criticamente dalle condizioni iniziali in cui i due corpi hanno incominciato a interagire gravitazionalmente. Per convincersene basta vedere come non sia semplice dare un' orbita circolare ai satelliti artificiali. Enzo Patria, Palermo & Che cosa succede alle pallottole sparate in aria dalla polizia come intimidazione? Sono un pericolo potenziale per chi passa nei paraggi? & Che cosa c' è nella formula chimica dei detersivi concentrati? Perché ne basta così poco? & Da dove viene l' espressione «essere di buon umore» ? & Perché a volte l' orecchio percepisce una sorta di fischio che scompare dopo pochi secondi? Carlotta Pavese, TO _______ Risposte a: «La Stampa, Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure al fax numero 011 65. 68. 688, indicando chiaramente «Tuttoscienze» sul primo foglio.




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