TUTTOSCIENZE 16 settembre 92


IL PARCO COMPIE 70 ANNI Un Paradiso quasi perduto Minacce sul regno degli stambecchi
AUTORE: FRAMARIN FRANCESCO
ARGOMENTI: ECOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA, PARCO DEL GRAN PARADISO
NOTE: 045

IL parco nazionale del Gran Paradiso compie 70 anni. E' il più antico d' Italia, insieme con il confratello d' Abruzzo, e fra i primi istituiti in Europa, pur essendo di 50 anni più giovane del primo parco del mondo, l' americano Yellowstone. Come in ogni anniversario, è momento di bilanci. E anche di interrogativi. Anzitutto: è ancora valida l' idea di parco nazionale? Se si guarda al successo, non c' è dubbio che lo è: i parchi nazionali sono oggi circa 1400 in 90 Paesi del mondo. Fra le ragioni del successo vi sono anzitutto il turismo e il prestigio nazionale, che impone di tutelare i paesaggi più belli. Ma sempre più emerge la volontà di conservare la specie e gli ecosistemi, cioè i componenti della «diversità biologica». Questa finalità, relativamente recente, permette valutazioni di carattere scientifico. Per esempio mostra che i parchi nazionali italiani, che coprono l' 1, 2 per cento del Paese, sono pochi e piccoli, perché la fauna e la flora selvatiche hanno bisogno di spazio per sopravvivere: per proteggere il 50 per cento della fauna di una regione bisogna in teoria tutelare strettamente almeno il 10 per cento del territorio. Anche l' ubicazione dei parchi è importante e a questo riguardo la lacuna maggiore dell' Italia (e del mondo) è oggi negli habitat costieri e marini. Un' altra domanda riguarda la qualità della protezione fornita dai parchi nazionali e in particolare dal Gran Paradiso. E' naturale che la tutela sia molto diversa nei diversi parchi, dipendendo sia dalla scelta delle aree, sia dalla gestione. C' è attualmente un ampio consenso sulla necessità che ogni parco nazionale abbia una parte consistente del territorio, dell' ordine di almeno 2/3, priva di ogni occupazione o utilizzazione (escluse beninteso le visite disciplinate), allo scopo di lasciar libero corso alle forze e ai processi naturali (lo stesso concetto vale per i parchi naturali di altri tipi, pur se in proporzioni diverse). Il Gran Paradiso include di fatto vasti territori inutilizzati in alta montagna, ma non ha purtroppo una gestione ispirata a quel principio. Manca persino di un piano di zonizzazione che, differenziando le attività e i vincoli, riduca al minimo i conflitti di interessi e controlli l' urbanizzazione. Così, ad esempio, gli ecosistemi a bassa altitudine più scarsi e biologicamente più ricchi, come i boschi, non godono in pratica di alcuna particolare protezione per il fatto di essere nel parco. Causa principale di questa situazione è un' amministrazione troppo politicizzata, prigioniera di una malinteso e miope particolarismo. Un indubbio successo il parco nazionale Gran Paradiso l' ha ottenuto nella protezione della fauna, e particolarmente dello stambecco alpino. Si sa che questa specie fu portata al limite dell' estinzione all' inizio del 1800 e venne salvata per merito della riserva di caccia di re Vittorio Emanuele II (1856). Dalla riserva per iniziativa di re Vittorio Emanuele III nel 1919, appoggiata anche da Benedetto Croce, allora ministro della Pubblica istruzione nacque il parco. Erano gli anni difficilissimi del primo dopoguerra e può sembrare strano che proprio allora l' Italia pensasse per la prima volta ai parchi nazionali. Ma analoghe vicende anche nel secondo dopoguerra, sia in Italia (dove la rinascita del parco non fu così facile) sia in altre nazioni, indussero Giuseppe Oberto, presidente del Gran Paradiso per 25 anni, a notare: «Si direbbe che nell' inconscio dell' uomo vi sia un' esigenza riparatrice: dopo aver tanto rovinato e distrutto, si cerca qualcosa da conservare; dopo aver tanto odiato, si cerca qualcosa da amare» Oggi la popolazione di stambecchi si è stabilizzata da molti anni attorno a un numero fra 3500 e 4000 capi e quella delle Alpi, tutta originata dal nucleo del Gran Paradiso, supera i 30. 000 e non è più a rischio. Una buona sorveglianza è vitale per lo stambecco che, a differenza del camoscio, non sa difendersi abbastanza dal bracconaggio, tant' è vero che in Italia non vive fuori dai parchi e dalle riserve, pur godendo in teoria di una protezione assoluta. E' noto che la specie rischiò l' estinzione, nel parco, anche durante la seconda guerra mondiale per la guerriglia partigiana, allorché il numero scese a 400 (1945). Meno noto è che il collasso del servizio di sorveglianza era iniziato prima della guerra. Un improvviso decreto del regime fascista aveva sostituito nel 1934 il corpo dei guardaparco con la milizia forestale. Personale impreparato e sostituito di frequente, diverso tipo di servizio (fra l' altro: 8 ore al giorno anziché dall' alba al tramonto, come si fa ancor oggi), incompetenza degli amministratori fecero rifiorire il bracconaggio, che in cinque anni dimezzò il numero degli stambecchi. La vicenda non ha solo un interesse storico ma potrebbe ripetersi perché, sfortunatamente, la recente legge quadro sulle aree protette prevede qualcosa di molto simile allo sconsiderato intervento descritto. Questa legge tanto attesa ha messo in moto idee e procedure per proteggere a suo modo alcune aree italiane di indubbio valore, apparentemente destinate a rapido degrado (anche se i risultati pratici si stanno rivelando tanto faticosi quanto modesti). Ma le conseguenze sui parchi nazionali esistenti, fra cui il Gran Paradiso, destano preoccupazione più che speranza. Ad esempio, oltre la citata disposizione sulla sorveglianza, chiaramente demagogica appare quella sullo spostamento della sede entro i confini del parco. Ciò nel caso del Gran Paradiso vuol dire toglierla da Torino e portarla in qualche villaggio della Val Soana o della Valsavarenche; villaggi di qualche decina di abitanti e con pochi servizi, distanti fra loro più che a Torino, Ivrea, Aosta. In conclusione, è facile dire che la storia del parco nazionale Gran Paradiso, qui appena accennata, insegna molte cose: la complessità dei fattori necessari per tutelare efficacemente un vasto territorio naturale, l' impegno civile oltre che scientifico e tecnico necessario, la fragilità dei risultati eventualmente ottenuti, sempre soggetti a essere cancellati in un attimo e (nel caso di costruzioni) irreversibilmente. Il futuro del parco nazionale Gran Paradiso non è dunque scontato, anche se come scrive il direttore del confratello parco d' Abruzzo, Franco Tassi difenderlo significa approdare a una delle idee forti e giuste nel marasma del nostro tempo, cercare un' alternativa allo sviluppo cieco ed egoista che sta sfigurando la nostra Terra e inquinando le nostre coscienze. Francesco Framarin BUON compleanno ai due primi Parchi nazionali italiani, nati entrambi settant' anni fa: nel settembre 1922 quello d' Abruzzo e il 12 dicembre dello stesso anno quello del Gran Paradiso. La protezione di due aree montane di valore naturalistico eccezionale segna l' alba di un impegno ambientale che da allora è costantemente cresciuto, pur non essendo riuscito a impedire la distruzione di buona parte del paesaggio italiano. Gli anni del miracolo economico, ma anche gli anni di piombo, sono stati i peggiori dal punto di vista dell' ecologia. Recentemente però c' è stata un' inversione di tendenza forse tardiva, ma che ha portato in ogni caso alla nascita di 13 nuovi parchi nazionali (ad ognuno di essi segnaliamo il mensile «Airone» a partire da questo mese dedicherà una mappa e un ampio servizio). «Tuttoscienze» con questa pagina affronta i problemi aperti del parco del Gran Paradiso con un articolo di Francesco Framarin, che ne è stato per molti anni direttore, e presenta un nuovo parco marino spagnolo per ricordare che la tutela delle zone marine è oggi la questione ambientale emergente.


E ora salviamo il mare L' esempio della Spagna nell' isola di Cabrera
Autore: FAZIO MARIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, INQUINAMENTO
LUOGHI: ESTERO, SPAGNA, CABRERA
TABELLE: C
NOTE: 045

EL Parque Nacional Maritimo terrestre del Archipielago de Cabrera è nel Mediterraneo il più recente esempio di iniziativa di uno Stato per la tutela integrale di isole rimaste per vicende storiche quasi allo stato di natura (è ormai di vecchia data l' istituzione del parco nazionale francese dell' Isola di Port Cros). L' arcipelago di Cabrera è poco noto. Composto da 18 isole e isolette alcune di dimensioni minime e praticamente inaccessibili, ha una superficie di 1636 ettari che diventano 18. 000 con gli spazi marini protetti. Si trova a Sud di Maiorca, circa 10 chilometri da Cap de Ses Salines. Per visitare il Parco occorre un permesso scritto, rilasciato su domanda dall' ente di gestione Icona (Ministerio de Agricoltura y Pesce). Nel porto naturale dell' isola madre non sono ammesse più di 50 imbarcazioni, sottoposte a vigilanza continua. Entriamo nella rada, aperta a Nord, dopo una breve navigazione a vela da Palma di Maiorca. Il porto è chiuso da un alto promontorio su cui si alza il castello, costruito nel XIV secolo a difesa dai pirati. Sulla piazzetta del villaggio (poche case bianche di pescatori) due vecchi cannoni ricordano che Cabrera ebbe importanza strategica. Nel corso della prima guerra mondiale l' isola fu espropriata dall' esercito spagnolo che la usò come poligono di tiro fino al 1986. Le Cortes approvarono nell' aprile dello scorso anno la legge istitutiva del Parco Nazionale. E' rimasta una piccola guarnigione di soldati. Assolvono anche i compiti dell' ospitalità, fanno da camerieri nella modestissima «Cantina del Puerto». Sono obbligati a indossare sempre le divise, anche con 40 gradi all' ombra. L' interesse immediato del visitatore va al paesaggio circostante. Un anfiteatro di colline rocciose che raggiungono l' altezza massima di 172 metri, in larga parte a gariga e macchia mediterranea dominata dal lentisco, con qualche ciuffo di pini. Al fondo della rada si apre una valletta: due alberi di fico, un campo di grano abbandonato, uno spiazzo usato dai militari per il gioco del calcio e per gli elicotteri. Greggi di pecore sulla spiaggia e sulle scogliere. Si può scendere a terra approdando al molo della guarnigione, dove si trova l' ufficio di accoglienza del Parco. Sono consentite esclusivamente visite (naturalmente a piedi) sui sentieri che salgono al castello (occorre la guida) e fanno il giro della baia, da Es Moll a Sa Plageta e S' Espalmador. I gommoni rossi della sorveglianza impediscono di raggiungere le rive in altri punti. La passeggiata di mezz' ora rivela facilmente l' estrema semplicità dell' ecosistema terrestre, condizionato dalla rarità delle piogge (330 mm l' anno), dalla forte insolazione, dalla ventosità e dalla salinità. La Ferula communis ha inflorescenze che arrivano a 3 metri di altezza. Abbondano i cespugli di lentischio, di fillirea, di ginepro fenicio, di Euphorbia dendroides e di Ephedra fragilis. Tra i sempreverdi del litorale sono diverse specie di Limonium e di Crithmum maritimum. Attraversano i sentieri piccoli rettili neri, appartenenti alla famiglia della Lagartija balear, estinta a Maiorca e Minorca. La fauna è ridotta alle specie che possono sopportare condizioni ambientali piuttosto severe e la povertà relativa della catena alimentare. Tra i predatori il falco pellegrino, il piccolo «falco tinnunculus», l' aquila pescatrice. Tra gli uccelli la piccola curruca sarda o Sylvia sarda appartenente a una subspe cie endemica delle Baleari. Cabrera è rifugio di uccelli marini, ieri minacciati di estinzione. Abbondano i cormorani, gli uccelli pescatori (Calonectris diomedea), oltre i gabbiani sempre più numerosi ovunque. Lo studio dell' ecosistema sommerso, destinato a protezione assoluta (i visitatori si guardino dal pescare e dall' entrare nelle insenature vietate), richiederà anni di ricerche. Per ora le conoscenze sono limitate. Si parla della foca monaca, ma i giovani addetti al parco mi confermano che è scomparsa. Aveva il suo habitat nelle grotte stupende che si aprono nella parte settentrionale di Cabrera, verso l' isolotto dei Conigli. Si progetta di reintrodurla, ma la loro sopravvivenza sarebbe messa in pericolo dai rumorosi battelli carichi di turisti che arrivano da Maiorca, entrano nelle grotte con gli altoparlanti al massimo volume, suonano le sirene per ottenere echi sorprendenti quanto disastrosi. Il fatto, in piena contraddizione con la tutela integrale, rivela una certa immaturità nella gestione del parco. La sosta in rada ne dà altre prove. Il numero delle imbarcazioni ammesse è limitato, ma le ancore salpate ogni giorno danneggiano il fondo, ricco di posidonie, in cui si annidano organismi rari come l ' enorme bivalve detto Nacra (Pinna nobilis). «Per l' anno prossimo dovrebbero essere disposte boe di ormeggio, evitando così le operazioni di ancoraggio» , mi dice un dipendente del Parco, un po' imbarazzato quando gli domando dove finiscano gli scarichi neri del piccolo villaggio e della guarnigione. La condotta sfocia direttamente sulla riva. In più le imbarcazioni alla fonda inquinano le acque, mancando a terra la dotazione indispensabile di servizi igienici. Il Parco Nazionale ha poco più di un anno di vita e questo può spiegare una certa precarietà. E' però apprezzabile la decisione del governo di Madrid che non ha ceduto l ' arcipelago a «valorizzatori turistici» ma ne ha fatto il primo Parco Nazionale marittimo della Spagna. E' uno dei segnali di svolta nella politica ambientale, dopo anni di permissivismo che hanno causato guasti enormi lungo le coste della Penisola e a Maiorca. Resiste meglio Minorca, ricca di insenature e di porti naturali ben conservati. La raggiungiamo a vela da Cabrera, a bordo del cutter «Antares» (con base nel porto di Alassio è destinato prevalentemente a crociere ecologiche) sopportando magnificamente un colpo di vento a 40 nodi. Mario Fazio


SCOPERTA ITALIANA NEGLI STATI UNITI Il quark Fascino rispetta la teoria Scontri tra materia e antimateria al Fermi Lab di Chicago per capire meglio il comportamento dei mattoni del cosmo Preoccupazione in Usa e in Europa per i finanziamenti dei supercollider del futuro
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: FISICA, RICERCA SCIENTIFICA, ASTRONOMIA
NOMI: CESTER ROSANNA, GELL MAN MURRAY, DAL PIAZ PIERO
ORGANIZZAZIONI: FERMI LAB, CHARM
LUOGHI: ESTERO, USA, CHICAGO
NOTE: 046

IMPORTANTE scoperta con firma italiana al Fermi Lab di Chicago, dove sorge il più potente acceleratore di particelle subatomiche del mondo. Una equipe internazionale guidata da Rosanna Cester ha individuato una risonanza del quark chiamato «Charm» (Fascino) intorno al livello di energia previsto dalla teoria della cromodinamica quantistica. Proviamo a tradurre in parole più semplici, per quanto possibile, questo linguaggio da iniziati. Tutto l' universo è costituito da due famiglie di particelle: sei quark e sei leptoni. I nuclei atomici della materia ordinaria sono insiemi di protoni e neutroni: entrambe queste particelle risultano dalla combinazione di quark Up e quark Down, che possiamo considerare i più comuni. Gli altri quark Strange, Charm, Beauty Top sono più esotici e possono essere osservati solo creando condizioni di altissima intensità di energia. Il quark Top, addirittura, non è ancora stato osservato proprio a causa delle difficoltà sperimentali, benché la teoria ci dia praticamente la certezza della sua esistenza. L' esperimento di Rosanna Cester era centrato sui quark Charm. Questi sono stati individuati attraverso la particella Psi scoperta nel 1974 da Ting e Richter, poi per questo premiati, due anni dopo, con il Nobel. Utilizzando la sorgente di antiprotoni del Fermi Lab si sono prodotti urti tra particelle intorno all' energia di 3, 5 Gev per generare una minuscola quantità di «charmonio», cioè un miscuglio di quark Charm e dei rispettivi antiquark (Charm di antimateria). Charm e anti Charm si annichilano, decadendo in una serie di stati di energia ben definiti e prevedibili per via teorica. Grossolanamente è un po' come se una palla cadesse lungo una scala: potrebbe rimbalzare solo da un gradino a un altro, non ad altezze intermedie Ogni gradino corrisponde a uno stato, un livello energetico o, come dicono i fisici, una risonanza. In questo caso appunto una risonanza del Charm. La teoria che regola il comportamento dei quark è la quantocromodinamica (corrisponde a ciò che la teoria elettrodinamica quantistica rappresenta per il comportamento della famiglia degli elettroni). Rosanna Cester (Università di Torino, in collaborazione con ricercatori americani e delle università di Ferrara Piero Dal Piaz e di Genova Alberto Santroni) è riuscita a verificare che una specifica risonanza del quark Charm si trova proprio nella zona di energia prevista, ottenendo così una nuova importante conferma che i fisici teorici, con la teoria quantocromodinamica, sono sulla strada giusta. Come si sa, i quark per la loro stessa natura non sono osservabili isolatamente, ma lo studio dei loro prodotti di decadimento non lascia dubbi. Dicevamo che l' acceleratore del Fermi Lab è il più potente oggi esistente nel mondo. Raggiunge l' energia di 1, 8 Tev in collisioni tra protoni e antiprotoni (1 Tev = mille miliardi di elettronvolt; l' elettronvolt è la quantità di energia normalmente in gioco tra le molecole nel nostro ambiente quotidiano). In questo caso però il problema non era di energia: i 3, 5 GeV necessari per l' esperimento di cui abbiamo parlato sono raggiungibili anche con macchine di dimensioni relativamente modeste. Eppure l' esperimento, denominato «E 760», ha avuto una vita difficile. La sua complessità ha richiesto sette anni di lavoro, è stato necessario mettere insieme una numerosa equipe internazionale con competenze molto varie, nè sono mancate difficoltà per i finanziamenti. Ma finalmente il risultato è acquisito. A proposito di soldi, ci sono nuvole all' orizzonte per i grandi progetti di fisica delle alte energie. Dopo che la Camera degli Stati Uniti aveva votato contro il finanziamento dell' acceleratore di particelle SSC (Superconducting Super Collider) che, con una circonferenza di 87 chilometri e ottomila magneti superconduttori, dovrebbe diventare il più potente del mondo, il Senato ha invece concesso un miliardo e mezzo di dollari (su un costo totale previsto di almeno 8 miliardi). Meglio di niente, ma un ridimensionamento e un ritardo del progetto saranno inevitabili. I fisici europei, a loro volta, si augurano che queste incertezze americane e i problemi interni di vario tipo che affliggono Paesi come Italia, Gran Bretagna e Germania non si riflettano anche sul loro progetto, il Large Hadron Collider (Lhc) che dovrebbe essere ultimato per la fine del secolo al Cern di Ginevra. Piero Bianucci


PROGETTO STRATEGICO DI TOKYO Un computer dotato di buon senso? E' la nuova sfida giapponese, ma forse è solo un bluff
Autore: SCARUFFI PIERO

ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA
ORGANIZZAZIONI: PROGETTO QUINTA GENERAZIONE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 046. Computer in grado di ragionare come un essere umano

NEL 1981 i giapponesi lanciarono il progetto «Quinta Generazione» che, nelle intenzioni del loro ministero dell' Industria e Commercio (Miti), avrebbe dovuto portare a un super computer in grado di ragionare come un essere umano (e di sbaragliare l' industria informatica Usa). Quel progetto non ha mantenuto le promesse (il computer più avanzato prodotto in Giappone è ancora molto lontano dai più potenti degli Usa), ma i giapponesi hanno intenzione di riprovarci. Questa volta il progetto, avviato in queste settimane, si chiama «Real World Computing», durerà 10 anni e le sue ambizioni sono più limitate: non costruire un computer, ma finanziare semplicemente le ricerche in quei settori dell' informatica che avranno un forte impatto economico sulla società del Duemila. I teorici della Quinta Generazione assumevano che una sarebbe stata la tecnologia fondamentale del futuro: quella programmazione «logica» che negli Usa è comunemente associata ai «sistemi esperti». Il nuovo progetto parte invece dal presupposto che più tecnologie contribuiranno all' emergere del computer del futuro, per esempio l' elaborazione ottica (nella quale i calcoli vengono eseguiti tramite la luce) e le reti neurali (insiemi molto grandi di calcolatori molto piccoli collegati fra di loro in modo da simulare il modo in cui operano i neuroni del nostro cervello). I giapponesi non si pongono un obiettivo unico, ma se dovessimo estrarre dalle loro dichiarazioni un riassunto lapidario diremmo che il computer del futuro, a differenza di quelli attuali, dovrà soprattutto essere in grado di elaborare informazioni «intuitive»: riconoscere che una certa immagine rappresenta un albero, capire la differenza fra «alto» e «basso», sapere che il cielo è azzurro e la neve è bianca e così via. Queste tecnologie, per la cronaca, sono tutte nate negli Usa; le reti neurali negli Anni Cinquanta in università come il Mit, la «fuzzy logic» a Berkeley negli Anni Sessanta, la logica «del buon senso» a Stanford e al Mit negli Anni Settanta. Ed è negli Usa, all' Mcc di Austin, che è in corso il progetto più ambizioso di questo genere, denominato «Cyc». Il progetto giapponese è organizzato con un laboratorio centrale e diversi laboratori periferici. Mentre il primo (a Tsukuba, la «città della scienza» ) sarà gestito direttamente dal Miti, gli altri saranno aperti a collaborazioni internazionali (su pressioni Usa, nel maggio 1991 il governo giapponese ha riveduto il cosiddetto «editto Nedo» in modo da favorire la cooperazione internazionale). Alla presentazione del programma di ricerca erano presenti osservatori di Corea, Francia, Gran Bretagna, Canada, Germania, Olanda, Italia, Australia e Usa. Complessivamente saranno circa ventimila i ricercatori giapponesi coinvolti in questo progetto, e tutte le grandi «corporation» ne avranno un pezzo. In Occidente si ha talvolta l' impressione che questi progetti ciclopici tanto reclamizzati servano da «specchietto per le allodole». Per esempio mentre tutti tenevano gli occhi puntati sulla fantomatica «Quinta Generazione», Hitachi, Canon, Matsushita e tanti altri progettavano segretamente avanzatissimi processori fuzzy che oggi danno loro un vantaggio tecnologico non indifferente (persino le loro lavatrici e le loro macchine fotografiche contengono i processori fuzzy in grado di renderle più intelligenti). Anche questa volta il dubbio è legittimo. L' ordine di grandezza dell' investimento è ridicolo (mezzo miliardo di dollari in dieci anni, quando la Fujitsu da sola spende due miliardi all' anno) ed è sospetto il fatto stesso che il progetto sia aperto agli stranieri. Il governo americano ha fatto capire di non essere favorevole: diversi consiglieri del governo Bush ritengono che il Giappone stia semplicemente tentando di ottenere finanziamenti dall' estero e di stabilire relazioni con società ed enti che sono più avanti nella ricerca, in modo da poter, ancora una volta, «copiare». Che quelle tecnologie siano vitali è però fuori dubbio. Chi riuscisse a realizzare un processore «ottico» spiazzerebbe tutta l' industria americana; e il computer dotato di «buon senso» potrebbe finalmente diventare un assistente nelle nostre incombenze quotidiane, rendendo possibile costruire i robot tuttofare dei film di fantascienza. Anche il titolo del progetto, dedicato al «mondo reale», è significativo di come siano cambiati i tempi: dieci anni fa si tentava di costruire una intelligenza «artificiale», sperando che quella riuscisse a trattare con il mondo reale; oggi (capovolgendo i termini del problema) si tenta di costruire una macchina capace di operare nel mondo reale, e non ci stupiremmo se alla fine si scoprisse che serve un' intelligenza molto più «naturale». Piero Scaruffi


A TORINO «EXPERIMENTA» C' è anche una meridiana di tipo digitale Vediamo come funziona
Autore: P_B

ARGOMENTI: DIDATTICA, TECNOLOGIA, MOSTRE
NOMI: MORRA LUCIO MARIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 046

GLI orologi a lancetta sono analogici: lo spostamento delle lancette corrisponde ( «è analogo» ) allo scorrere del tempo, che è senza soluzione di continuità. Invece gli orologi elettronici sono digitali: in essi l' ora, i minuti e i secondi sono indicati da cifre (digit, in inglese), e quindi il loro tempo viene rappresentato come se procedesse a «scatti». Le meridiane appartengono, ovviamente, alla categoria degli orologi analogici: è difficile immaginare qualcosa di più continuo del moto apparente del Sole, che è poi il moto reale di rotazione della Terra. Eppure si può anche costruire una meridiana digitale. Ci è riuscito Lucio Maria Morra, un esperto di gnomonica di Fossano, e il suo strumento è al centro della mostra «Experimenta ' 92», organizzata dalla Regione Piemonte a villa Gualino, sulla collina torinese, e aperta fino al 18 ottobre. La soluzione è davvero originale. La meridiana è costituita da un mezzo cilindro alto 160 centimetri e con un diametro di 80 inclinato in modo che il suo asse sia parallelo a quello dell' asse di rotazione terrestre. Il lato curvo del semicilindro, rivolto a sud, reca incastonate una serie di lamine disposte a raggera: 12 per le ore e 11 per le mezze ore. Tra loro due lamine consecutive delle ore formano un angolo di 15 gradi, che corrispondono al percorso apparente del Sole in un' ora. Tra le lamine sono ricavati dei fori attraverso cui passa la luce, i cui raggi vanno a illuminare i numeri che indicano le ore dentro una camera oscura. Le lamine formano un' ombra in tutti i settori della raggiera tranne in quello sul quale batte il sole. Viene così individuata l' ora vera locale, che può essere letta in cifre affacciandosi alla camera oscura. Delle meridiane e dei quadranti solari sono state realizzate nei secoli infinite varianti, ma questa è certamente singolare e conferma, tra l' altro, quante possibilità didattiche offrano questi strumenti. A questo proposito, ci sono due iniziative da segnalare. La prima è di Bruno Zallio, preside della scuola media «Defendente Ferrari» di Avigliana: dopo aver fatto realizzare una meridiana nel proprio istituto e aver proposto di fare altrettanto in ogni scuola, ha lanciato un censimento delle meridiane esistenti nella provincia di Torino. La seconda iniziativa è dell' Unione Astrofili Bresciani, che ha bandito una nuova edizione del concorso «Le ombre del tempo» per costruttori di meridiane. Due le categorie: dilettanti e professionisti. Sono in palio viaggi a Parigi e collezioni dei volumi di «Tuttoscienze». Per altre informazioni ci si può rivolgere all' Unione Astrofili Bresciani, presso Musei civici di Scienze, via Ozanam 4, Brescia.


LEPIDOTTERI Metamorfosi mostruose Inganni e prodezze nel regno delle falene
Autore: STELLA ENRICO

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 047

S' INCONTRANO d' estate, finché fa caldo: questa è la stagione dei notodontidi, falene diffuse nelle regioni calde e temperate, Italia compresa. Una famiglia di lepidotteri che suscita l' interesse degli studiosi non soltanto per certi comportamenti esclusivi, ma anche perché i bruchi sono autentici mostri, nel senso originario della parola monstrum, che significa «prodigio». Tra i bruchi di notodontidi nostrani ce n' è uno che per l' aspetto bizzarro si è meritato una serie di nomignoli: i francesi lo chiamano «scoiattolo » , gli inglesi «aragosta», i tedeschi «ragno del faggio». Una vaga somiglianza con un grosso aracnide si può infatti ravvisare in questa creatura grottesca, registrata all' anagrafe zoologica come Stauropus fagi. In greco, il primo nome significa «piede in croce» l' altro si riferisce a una delle sue piante nutrici. Davvero eccezionale, per un bruco, è la lunghezza del secondo e del terzo paio di zampe, che allo stato di riposo si incrociano sul torace, mentre le due estremità del corpo rimangono sollevate, nell' immobilità più assoluta. Il cranio, grande e oblungo, è un vero «capoccione» fatto a pera; il dorso reca una doppia serie di gobbe appuntite, mentre dall' estremo posteriore, fortemente rigonfio, spuntano due esili bastoncelli: sono false zampe. Gli entomologi hanno a lungo dissertato sulle sembianze e sui vari atteggiamenti che questa larva assume, anche in rapporto all' età: i neonati sembrano formiche, ma più tardi possono essere scambiati per foglie secche accartocciate. Quando l' insetto è irritato o impaurito, tradisce la propria emozione con un tremolio degli arti anteriori. Chi volesse conoscerlo farà bene a cercarlo soprattutto in montagna, fino a 1500 metri di altitudine, nelle foreste di faggi e betulle, o nei querceti. Là vive in solitudine: un eremita intento a meditare, con le lunghe «braccia» incrociate. Molti sono i nomi volgari di un altro notodontide, assai comune in Italia: arpia, bruco della frusta, coda forcuta... Quello ufficiale è Cerura vinula. Se lasciato in pace, il bruco (che raggiunge i sei centimetri di lunghezza) cerca di passare inosservato e può riuscirci, grazie all' immobilità prolungata, alla colorazione mimetica e a un particolare disegno «dirompente»: mentre i fianchi sono verdi, il dorso presenta un' ampia figura geometrica, color grigio castano, bordata di bianco. E' probabile che alcuni predatori non riconoscano il bruco come tale, ma vedano due oggetti diversamente colorati, di forma insolita, che non ricordano nulla di commestibile. Anche il profilo della strana larva è inconsueto: i tre segmenti del torace sono progressivamente più alti, tanto che l' ultimo, dotato di un' escrescenza mammellonare, appare gibboso. L' addome si assottiglia posteriormente e termina con due prolungamenti tubolari, lunghi un paio di centimetri; questi hanno origine dalla trasformazione dell' ultimo paio di pseudozampe. Il nome Cerura deriva dal greco keras (corno) e ura (coda) e allude proprio alle appendici caudali, che riservano una sorpresa. Quando riposa, il bruco tiene il capo quasi nascosto, incappucciato dalla prima porzione toracica, ma se qualcuno lo sfiora o tenta di afferrarlo, il pacifico insetto si trasforma all' improvviso in un terrificante mostro: solleva di scatto la testa, scoprendo un' aureola scarlatta, con due macchie nere che sembrano occhi e, come un drago sputafuoco, espelle con forza, contro il nemico, un getto irritante di acido formico. Contemporaneamente, la parte posteriore del corpo si erge e si protende in avanti, mentre dalle code spuntano due lunghi filamenti vermigli, che si agitano a guisa di frustini, tentando di colpire e flagellare l' avversario o, almeno, di cacciarlo via. Cessato il pericolo, l' animaletto si placa: il mascherone rosso scompare, le fruste dardeggiando rientrano nei loro astucci e l' apertura della ghiandola acida, su cui brilla ancora una gocciolina, si chiude. In verità, se escludiamo lo spruzzo irritante, tutto il resto è un bluff. Il trucco funziona con qualche uccello (ciò nondimeno merli, cince e picchi fanno scorpacciate di questi bruchi), ma i veri nemici dell' arpia sono altri insetti, piccoli e insidiosi, che, guidati dalle proprie antenne, riescono comunque a scoprire l' arpia e non si lasciano per nulla intimidire dal suo atteggiamento minaccioso. Nella fondamentale monografia di Giorgio A. Fenili (Stazione di Entomologia agraria di Firenze) dedicata a questo lepidottero sono elencate almeno trenta specie di vespine che iniettano le loro uova nel corpo del bruco, condannandolo inesorabilmente a essere divorato dall' interno. Anche le larve di alcune mosche si comportano da parassiti e lo uccidono, a poco a poco, svuotandolo. Quando il bruco riesce a superare indenne la fase di sviluppo, che dura in media quattro settimane, un rapido viraggio di colore, dal verde al rosso vinoso, ne annuncia la maturazione. L' insetto abbandona allora la chioma dell' albero e scende lungo il tronco, in cerca di un riparo conveniente. Sfruttando l' acido formico prodotto dalla ghiandola toracica compie un' operazione preliminare; utilizza il liquido caustico per rammollire le fibre legnose della corteccia, preparandole all' attacco delle mandibole che le spezzetteranno minutamente. Così il bozzolo dell' arpia risulterà costituito da una trama serica, rinforzata da tanti pezzetti di legno, mentre la secrezione acida conferisce alla seta un' eccezionale resistenza e durezza, e la rende impermeabile all' acqua. Ne risulta un guscio inespugnabile, che proteggerà l' artefice da ogni tentativo di penetrazione da parte di predatori. L' arpia è capace anche di altre prodezze: gli studiosi del secolo scorso sapevano già che, chiudendo in un astuccio di piombo alcune larve prossime all' incrisalidamento, queste riuscivano a intaccare il metallo con l' acido formico e a usarne i frammenti asportati per tappezzarne il bozzolo] Più recentemente si è osservate l' erosione del piombo di cavi telefonici ad opera di bruchi maturi... L' insetto murato vivo si trasforma in crisalide e trascorre nove o dieci mesi di clausura, in uno stato di completa inattività. C' è da chiedersi come la delicata farfalla, apparentemente priva di strumenti da scasso, possa poi evadere dalla camera blindata. Quando, nella primavera successiva, è pronta alla schiusa, si trova infatti a dovere infrangere due involucri, la tunica crisalidale e il bozzolo Liberarsi della prima è facile: grazie all' aumento della pressione interna, la fragile spoglia cede e si apre lungo linee di frattura già predisposte. Ma in questo caso accade un fatto singolare: una parte della tunica, corrispondente a una porzione del capo della crisalide, armata di due punte dure, rimane attaccata sulla faccia della falena, a guisa di elmo munito di visiera. Eccolo, dunque, l' arnese da scasso che servirà a perforare il bozzolo e a proteggere gli occhi dell' adulto da possibili traumi. Ma non è tutto: l' azione meccanica da sola non basterebbe; per indebolire quel guscio ligneo occorre l' intervento di una sostanza chimica disgregatrice e l' insetto ce l' ha già pronta; si tratta di una soluzione di idrossido di potassio in grado di sciogliere il cemento del bozzolo e di scollarne i fili. Al momento opportuno, la farfalla ne rigurgita alcune gocce che imbibiscono la seta presso il polo superiore; poi comincia a battere il capo contro lo stesso polo, in modo che le due punte acuminate della visiera possano lacerare il tessuto già intaccato dal liquido corrosivo. L' intervento meccanico continua ad alternarsi metodicamente con quello chimico e gli strati di seta, uno dopo l' altro, a partire dal più interno, subiscono l' insulto di questa azione combinata, fino alla totale perforazione. Ora la falena può attraversare la breccia e, nel momento in cui esce all' aperto, appare come un antico guerriero, con elmo e visiera: un guerriero vittorioso, che ha lottato strenuamente per conquistare la libertà. La porzione di tunica crisalidale, che copre ancora la fronte e gli occhi, sarà presto eliminata. Dieci mesi di clausura, tanta fatica per liberarsi, e tutto per pochi giorni di volo: l' insetto alato ha appena il tempo di riprodursi e, dopo una settimana, è già decrepito. Enrico Stella Università di Roma


IN MOSTRA A CASTELL' ARQUATO Balenottere dell' Appennino ricordo di quando il mare ricopriva la Pianura Padana
Autore: FABRIS FRANCA

ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA, MOSTRE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 047

QUANDO buona parte dell' Italia settentrionale era ricoperta dal mare e la Pianura Padana era sommersa dalle acque dell' Adriatico, anche l' Appennino della provincia di Piacenza faceva parte del fondo marino e le acque erano popolate da numerose specie animali, fra cui molti molluschi che oggi vivono nelle acque calde del mar Rosso. Tale situazione è durata per millenni ed è finita con l' emersione dell' area. Balenottere, delfini, squali (anche di grandi dimensioni), elefanti e rinoceronti avevano stabilito il loro habitat in questo ambiente marino. Nei dintorni di Castell' Arquato, piccolo borgo che conserva quasi intatta la sua bellissima struttura medievale, avvennero i primi ritrovamenti di grandi ossa fossili risalenti al Pliocene ma, a parte lo sgomento provocato negli abitanti, non si diede a questi primi resti l' importanza che avevano. Basti dire che in una chiesa di Piacenza, all' inizio del secolo scorso, veniva conservata un' enorme costola di balena che la superstizione popolare attribuiva a un malefico drago. Le prime ricerche scientifiche sui fossili dell' Appennino piacentino risalgono all' inizio del ' 700 e furono condotte per lo più da appassionati collezionisti che poco avevano dello scienziato. Nel 1806 ci fu il fortunato ritrovamento di uno scheletro quasi completo di balena. Il materiale fossile che veniva via via raccolto passò (in gran parte) dal Gabinetto paleontologico di Piacenza al Museo di Milano, dove rimase in bella evidenza fino al giorno in cui un bombardamento aereo della seconda guerra mondiale non lo distrusse completamente. Secondo i dati forniti dal Museo Geologico della provincia di Piacenza, gli esemplari a tutt' oggi ufficialmente documentati, rinvenuti sui calanchi dell' Appennino piacentino, sono di 15 balenottere e 8 delfini. La storia geologica e paleontologica della zona è piuttosto tormentata e complessa. Circa 3 o 4 milioni di anni fa cominciò il raffreddamento climatico che precedette l' inizio delle glaciazioni, mentre continuava l' innalzamento delle catene montuose alpina e appenninica. Un milione e seicentomila anni fa le acque erano sufficientemente fredde da ospitare un mollusco, l' Arctica islandica, che vive oggi alle latitudini dell' Islanda e della Groenlandia, mentre settecentomila anni fa il mare si era ritirato dalla parte di Pianura Padana che corrispondeva all' attuale Emilia occidentale, conferendo via via alla zona l' aspetto attuale. Il materiale ritrovato nel territorio piacentino è stato in parte raccolto in un piccolo ma organico museo a Castell' Arquato: nel cinquecentesco edificio dell' antico Ospitale Santo Spirito sono raccolti reperti paleontologici di enorme interesse fra cui la Balaenoptera acutorostrata cuvieri, trovata sui calanchi di Rio dei Carbonai (non lontano da Castell' Arquato) nell' aprile del 1983. L' esemplare, lungo un paio di metri, da alcuni giorni occupa la parte più importante della Sala del Pliocene, dopo un lungo e accurato restauro. Nel Museo è pure presente un cranio frammentario di delfino, recentemente restaurato, che ha la particolarità di avere, ben conservata, l' impronta dell' encefalo. Dallo scorso giugno, presso il museo, è allestita anche una mostra permanente sui cetacei fossili: è possibile ammirare gli scheletri di tre balenottere e tre delfini, ognuno con le opportune spiegazioni scritte in maniera molto facile e comprensibile, accompagnate da grandi illustrazioni che ricostruiscono l' ambiente in cui vivevano questi mammiferi, l' albero evolutivo, le caratteristiche fisiologiche principali e lo sciagurato sterminio perpetrato dall' uomo. Nel museo si trova anche un' interessantissima sala interamente dedicata alla malacologia del Pliocene, dove sono esposte alcune centinaia di esemplari di molluschi. Per rendere più evidente la somiglianza tra antico e moderno, accanto a quelli fossili sono stati posti esemplari attuali. Franca Fabris


ANNI 80: TEMPERATURA COSTANTE Dubbi sull' effetto serra Un futuro caldo o freddo? Non si sa
Autore: VITTORI OTTAVIO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA, ECOLOGIA, INQUINAMENTO, STATISTICHE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T G
NOTE: 047

SIA la Conferenza di Rio sia quella tenutasi in agosto a Erice si sono chiuse con un nulla di fatto. Non c' è da meravigliarsi. Che le cose sarebbero andate come sono andate era già stato previsto dalla maggioranza della comunità scientifica internazionale. Il summit di Rio ha messo in chiara evidenza la gravità del conflitto che esiste oggi tra scienza e politica e ha suggerito come per certi aspetti il termine stesso di scienza possa essere ambiguo: molti partecipanti provenienti dalla fisica ambientale hanno sposato a scatola chiusa le previsioni più pessimistiche sul futuro del clima terrestre, non condivise da molti degli scienziati che sono rimasti a casa. L' effetto serra è causato dalla presenza, nell' aria, di gas che hanno la proprietà di intrappolare parte della radiazione infrarossa restituita dalla superficie terrestre allo spazio. La temperatura media della Terra vista dallo spazio (satelliti artificiali) è di 18 C, mentre quella media dell' aria che ci circonda è di più 15 C. I 33 C di guadagno sono dovuti all' effetto serra. Se l' aria non contenesse vapore acqueo e anidride carbonica (i più importanti fattori dell' effetto serra) la superficie della Terra avrebbe una temperatura media di poco superiore ai 18 C e quindi inadatta a ospitare la vita. Sembra ragionevole formulare l' ipotesi che l' aumento di anidride carbonica nell' atmosfera causato dalle attività umane (centrali termoelettriche, traffico automobilistico, riscaldamento domestico) debba incrementare l' effetto serra e quindi spingere il clima della Terra verso il caldo. La comunità scientifica, in possesso di modelli matematici sofisticati, ha previsto che verso gli Anni 2000 la temperatura media della superficie terrestre subirà un aumento di circa 2 C. Al profano un tale incremento potrebbe sembrare modesto, ma gli effetti sarebbero estremamente vistosi per non dire catastrofici. Non è il caso di elencare tutto ciò che succederebbe. Valgano per tutti i disastri causati dal sollevamento delle acque degli oceani. Milioni di chilometri quadrati di terre emerse verrebbero sommersi dall' acqua di mare. Siamo vicini al Duemila e non c' è segno delle catastrofi previste. E allora? Cosa c' è di sbagliato nei modelli matematici? Galileo usava affermare che «la logica non va contro i fatti». Ciò significa che non esiste modo, attraverso il ragionamento, il calcolo e lo sviluppo dialettico di ipotesi, di costruire eventi che contrastino con «i fatti», vale a dire la realtà osservabile. La risposta alla domanda formulata precedentemente va ricercata in un altro aspetto del problema. Questi modelli non possono tener conto delle risposte del pianeta al previsto «aumento dell' effetto serra». Chiariamo con un esempio. Supponiamo che l' effetto serra aumenti e quindi si innalzi la temperatura della superficie della Terra. Maggior quantità di vapor acqueo evaporerebbe dagli oceani e la concentrazione di vapore nell' atmosfera aumenterebbe. Di qui un ulteriore aumento dell' effetto serra e così via. Nel corso del tempo, attraverso un processo inarrestabile, la Terra sarebbe soggetta a un effetto serra «a valanga» che innalzerebbe la temperatura a valori elevatissimi. Venere, poco tempo dopo la sua formazione (4, 6 miliardi di anni fa) fu sede di un effetto serra a valanga. La temperatura della superficie di quel pianeta è vicina a quella della fusione del piombo. Affrontiamo il problema da un altro punto di vista. Abbiamo detto che in conseguenza di un aumento dell' effetto serra una maggior quantità di vapor acqueo verrebbe immessa nell' atmosfera. Ciò comporterebbe una più estesa copertura di nubi nell' atmosfera planetaria e quindi un aumento della quantità di radiazione solare che la Terra rinvierebbe indietro verso lo spazio. Minore quindi sarebbe la quantità di radiazione solare in arrivo sulla sua superficie. Il clima andrebbe verso il freddo. La scienza non possiede le cognizioni adatte a prevedere in quale delle due direzioni estreme di clima la Terra si avvierebbe, nè in quale misura i due effetti si compenserebbero l' un l' altro. Un' ulteriore informazione. Proprio in questi giorni, sono pervenuti agli studiosi di fisica dell' atmosfera i risultati delle misure della temperatura media della superficie terrestre effettuate da satellite. Bene, negli ultimi dieci anni non si è verificata la minima variazione della temperatura media della superficie del nostro pianeta. Ottavio Vittori Cnr e Università di Bologna


CLENBUTEROLO, L' ANABOLIZZANTE SOTTO ACCUSA Era l' amico di tutti gli asmatici Un largo e collaudato impiego in medicina e in veterinaria Gli effetti sulla muscolatura furono scoperti casualmente
Autore: VALPREDA MARIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SPORT
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 048

MAGRI e muscolosi con l' aiuto del doping chimico: atleti o animali non fa differenza. Ha riempito le cronache estive la notizia che una delle stelle dell' atletica, la tedesca Katrin Krabbe, campionessa mondiale in carica dei 100 e 200 piani, si preparava ai record con l' aiuto del clenbuterolo, una sostanza che serve a ingrassare i vitelli. Ma per la bella Katrin e compagne non si è affatto trattato, come potrebbe apparire a prima vista, di una incauta (o coraggiosa? ) sperimentazione di un prodotto usato, peraltro illecitamente, in zootecnia. In realtà per il clenbuterolo, contrariamente alla regola, l' utilizzo come anabolizzante negli animali è stato preceduto da un largo impiego nella medicina umana. E' infatti un farmaco ben noto ai malati di asma, di enfisema polmonare e ai sofferenti di broncopatie ostruttive. L' azione broncodilatatrice ne fa un presidio di buona efficacia per alleviare i sintomi di queste patologie, anche se, ancora recentemente, ricercatori canadesi e neozelandesi ne hanno denunciato i rischi, raccomandando ai medici cautela di prescrizione. Anche in veterinaria il prodotto è registrato e autorizzato esclusivamente per uso terapeutico. Sono in particolare i cavalli che, corridori per eccellenza, sono spesso soggetti a fastidiose affezioni respiratorie che ne limitano il rendimento. Si va dalle banali bronchiti alla temuta sindrome bolsaggine, caratterizzata da un inguaribile enfisema alveolare cronico. Si è poi scoperto, quasi casualmente, che queste molecole, classificate come beta agonisti con azione simile alle catecolamine naturali, hanno notevoli capacità anabolizzanti in molte specie animali. Determinano infatti uno spiccato aumento delle masse muscolari, per incremento della sintesi proteica e riduzione del catabolismo dell' azoto. A trarne beneficio sarebbero soprattutto le fibre muscolari bianche, a contrazione rapida, piuttosto che quelle di tipo rosso, più coinvolte nelle prestazioni di resistenza. Quindi, con i beta agonisti, vantaggi su due fronti: gli sprinter umani diventano più veloci mentre i vitelli crescono di più, sviluppando specialmente i quarti posteriori, i più pregiati economicamente, perché è da lì che si traggono le richiestissime fettine. Ma clenbuterolo e molecole affini (salbutamolo, cimaterolo, fenoterolo, mabuterolo) determinano anche un altro effetto: fanno aumentare la lipolisi e diminuire la lipogenesi. Provocano cioè, negli animali trattati, una forte riduzione del grasso di deposito. Effetto anche questo in piena sintonia con le richieste del mercato che, sotto l' incubo del colesterolo, vuole carne sempre più magra. Ma non mancano i rischi per chi mangia le carni degli animali gonfiati con queste sostanze. In Francia e Spagna si sono persino registrati episodi di intossicazione collettiva in persone che avevano consumato fegato di vitelli ingrassati con clenbuterolo. I sintomi erano impressionanti tremori muscolari, tachicardia, crisi convulsive e cefalee. Il pericolo che i residui arrivino in tavola non è secondario: infatti, non appena si sospende la somministrazione dei farmaci, l' effetto dimagrante cessa rapidamente. In pratica si è costretti a trattare gli animali fino al momento della macellazione. Nel 1991, in Italia, i servizi veterinari hanno denunciato oltre cento aziende sorprese a far uso di beta agonisti. Tuttavia la lotta ai sofisticatori non è facile: a fronte di oltre trenta composti illecitamente impiegati nel circuito produttivo degli animali da reddito, i nostri laboratori pubblici sono in grado di ricercarne solo una decina. Uno stacco rilevante, che riduce fortemente l' efficacia dei controlli. Mario Valpreda


UDITO Esami top per misurare l' orecchio
Autore: FILIPPIN SILVANO, BALLARIO ROBERTO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 048

UNA sordità o una diminuzione dell' udito di una certa entità presente alla nascita o nei primissimi anni di vita ha, per il bambino, conseguenze molto più gravi di quelle che la stessa sordità causerebbe in un adulto. La percezione del suono è infatti indispensabile allo sviluppo dell' intelletto e del linguaggio del piccolo essere, il quale nasce privo di conoscenza, ma è atto ad acquisirla rapidamente mediante i suoi organi di senso che devono risultare il più possibile perfetti. Nel bambino di una certa età l' indagine audiometrica, cioè la misurazione della funzione uditiva, è facile. Non altrettanto nel bambino molto piccolo o nel neonato, dal quale non ci si può attendere alcuna collaborazione (l' esame audiometrico standard richiede una partecipazione attiva da parte del soggetto, il quale deve comunicare all' esaminatore se percepisce o no i suoni che gli vengono inviati attraverso l' audiometro). Diventano allora necessarie tecniche diverse, che consistono essenzialmente nella ricerca di riflessi, sia incondizionati sia condizionati, provocati da uno stimolo sonoro. Si tratta comunque sempre di tecniche lunghe, che richiedono un minimo di partecipazione da parte del bambino e una grande esperienza e pazienza da parte dell' esaminatore. Risultati molto più precisi sono stati ottenuti in questi ultimi anni grazie alla cosiddetta «impedenzometria» e in particolare alla «reflessometria stapediale» Uno stimolo sonoro inviato in un orecchio udente provoca la contrazione riflessa di un piccolo muscolo dell' orecchio medio, lo stapedio. Tale contrazione può essere valutata mediante registrazione. A partire dagli Anni 70 si sono venute infine sviluppando tecniche ancor più nuove basate sulla registrazione, a vari livelli, dei potenziali neuroelettrici «evocati», cioè provocati da una stimolazione acustica (Era: Electric Response Audiometry). Fra queste ricordiamo l' elettro audio encefalografia uno stimolo acustico può indurre una modificazione del tracciato elettroencefalografico (Svr: Slow Vertex Responses) segnalando in tal modo l' avvenuta percezione del suono. Ancor più specifici sono da considerare i «potenziali evocati dal tronco encefalico» (Bser: Brain Stem Evoked Responses, o Absr: Auditory Brain Stem Responses) che forniscono informazioni sull' attivazione dell' apparato uditivo, dalla periferia fino ai nuclei centrali. E' possibile così capire se il suono è stato adeguatamente percepito e spesso anche stabilire a quale punto delle vie uditive si trova l' eventuale lesione. Un discorso a parte si deve fare per l' elettrococleografia, o Ecog, che consiste nella registrazione dei potenziali di azione del nervo a livello della coclea per mezzo di un elettrodo posto sulla parete mediale della cassa timpanica o del condotto uditivo. Questo esame richiede però nei bambini un' anestesia generale e va quindi eseguito solo nel caso in cui gli altri accertamenti non abbiano condotto a conclusioni utili. Ultimi in ordine di tempo, ma non di importanza, sono gli studi sulle otoemissioni acustiche evocate (Oae), suoni emessi dalla coclea verso l' esterno, registrabili nel condotto uditivo mediante una sonda miniaturizzata. Esse possono essere spontanee oppure provocate da uno stimolo sonoro e la loro presenza pare dipendere dall' integrità delle cellule uditive. Possono essere modificate da lesioni dell' orecchio medio, ma non da eventuali lesioni delle vie acustiche oltre la coclea. Se mancano, bisognerà pensare a una patologia dell' orecchio esterno medio e interno, e sottoporre il piccolo a tutti i test audiometrici classici. Uno studio recente condotto su 52 neonati presso la clinica Orl dell' Università di Perugia ha permesso di affermare che i neonati con normale risposta Oae possono essere considerati normoudenti, mentre quelli con Oae assenti costituiscono casi da analizzare meglio: proprio i soggetti che non avevano avuto normale risposta Oae manifestavano ipoacusia anche all' esame Abr. Silvano Filippin Roberto Ballario


LABORATORIO Io, rea di animalismo I nazisti non hanno il monopolio
Autore: CASTIGNONE SILVANA

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: NUOVA ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 048

A leggere il saggio di Ar luke e Sax citato da «Nuova Ecologia» nonché alcuni dei commenti apparsi nei giorni scorsi su «La Stampa » , sembrerebbe esistere un nesso inscindibile tra animalismo e ideologia nazista, sicché chiunque si ritrovi a occuparsi di tutela degli animali o a essere fautore dei loro diritti dovrebbe farsi un serio esame di coscienza e chiedersi con angoscia: «Ma chi sono io veramente? Un assassino e un torturatore in potenza di esseri umani deboli e indifesi? ». E' in effetti vero, e del resto noto, che il regime hitleriano nel 1933 emanò alcune leggi a favore degli animali e contro la vivisezione. Ma vorrei far notare sommessamente che la prima Società per la protezione degli animali nacque a Londra nel 1824; che il Martin' s Act, o Legge sul maltrattamento del bestiame, comparve in Inghilterra nel 1822 mentre, sempre nel medesimo Paese, il Protec tion Animal Act fu emanato nel 1911: ed è una normativa, tuttora in vigore, che contempla numerosissimi tipi di abuso e di crudeltà nei confronti degli animali. E allora, tutti nazisti in incognito gli inglesi del secolo scorso? Seguaci di Hitler ante litteram i legislatori del 1911? In Italia la prima Società per la protezione degli animali fu fondata a Torino a finè 800 con la sponsorizzazione di Giuseppe Garibaldi. Nazista anche Garibaldi? Se dovessimo rivedere le bucce animaliste ai Padri della Patria troveremmo altre sorprese e altre figure da depennare in quanto «naziste»: Giuseppe Mazzini, per esempio. Il fatto è che alla tutela degli animali si può arrivare attraverso molti percorsi differenti: i nazisti perché esaltavano il vigore e la lotta e li celebravano nelle forze della natura, intatta e non degenerata come erano invece, secondo loro, alcune società umane; gli indù perché credono nella trasmigrazione delle anime e nel carattere sacro di ogni cosa vivente; Kant perché temeva che la crudeltà verso gli animali portasse alla crudeltà verso gli uomini; i membri e simpatizzanti attuali delle varie leghe e associazioni animaliste semplicemente perché ritengono immorale e indegno di persone civili maltrattare e seviziare degli esseri sensibili e capaci di soffrire i quali in più non hanno fatto nulla di male per meritarsi una tale sorte. C' è anche una seconda osservazione che vorrei fare, sempre sommessamente come si conviene a una persona rea di animalismo al punto da avere introdotto in Italia alcuni anni fa il dibattito filosofico sui diritti degli animali. E cioè che l' equazione «I nazisti amavano gli animali, gli animalisti amano gli animali, quindi sono nazisti» assomiglia come una goccia d' acqua allo pseudosillogismo che ci illustravano al liceo, per farci capire, data la sua palese assurdità, che si trattava di un modo sbagliato di impostare i sillogismi: «Tutti i gatti hanno la coda, Fido ha la coda, ergo Fido è un gatto»; oppure «Tutti gli uomini sono mortali, Fido è mortale, quindi Fido è un uomo». Nel ragionamento corretto il soggetto della premessa minore deve rientrare nella categoria dei soggetti della premessa maggiore, altrimenti si arriva a conclusioni demenziali, come si è visto sopra. Ad esempio è corretto il sillogismo, notissimo, che dice: «Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è mortale». E se invece di agitare lo spettro di Hitler gli anti animalisti cominciassero a studiare un poco di logica? Silvana Castignone Università di Genova


L' ERBA DELLE STREGHE Iniziati a una vita d' inferno Ecco come agisce la droga dei prati
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: BOTANICA, DROGA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D Datura
NOTE: 048

E' recente la notizia di sette ragazzi di Lucca finiti al reparto di rianimazione in stato confusionale grave con allucinazioni. Sono l' avanguardia dei nuovi scopritori di un' erba allucinogena pericolosissima, la Datura stramonium, conosciuta anche come l' erba delle streghe. Apparentemente ignari della farmacologia di questa pianta, i giovani si erano preparati una bella tisana di foglie, sperando di ottenere una droga più economica. Infatti quest' erba cresce anche in Italia ed è a portata di mano. I giovani, dopo aver ingerito la pozione, sono stati trovati in gravissime condizioni ai margini di una strada vicino a Lucca e soccorsi dai carabinieri. In Francia la Datura è ben conosciuta e ha fatto la sua ricomparsa da tempo, causando già tre morti. Si tratta di una solanacea originaria del Sud America, in particolare della regione delle Ande è una bella pianta che gli orticoltori conoscono benissimo. Storicamente è sempre stata usata per le sue proprietà allucinogene, capaci di provocare reazioni che ricordano psicosi come la schizofrenia. Nelle società primitive ha giocato un ruolo predominante nei riti religiosi, per i suoi presunti poteri magici, divinatori e profetici. E' stata usata anche nella medicina popolare come mezzo diagnostico e terapeutico. Nelle tribù indiane del Nord America al Nord del Messico viene tuttora usata per riti di iniziazione degli adolescenti. I giovani, dopo l' ingestione, manifestano una sindrome caratterizzata da allucinazioni, perdita della memoria e agitazione, che culmina in uno stato stuporoso, quasi comatoso. Questa condizione dura una ventina di giorni (un dato utile per i medici della rianimazione). Al risveglio, i giovani si sentono uomini maturi e hanno il diritto di sedersi con gli anziani. Nel Sud America le preparazioni di Datura sono assai varie, ma quelle più frequenti sono a base di semi seccati, polverizzati e disciolti nelle bevande. L' intossicazione si manifesta nel giro di pochi minuti e inizia tipicamente con uno stato di agitazione violenta tale da rendere necessario un intervento coercitivo. Le allucinazioni sono esclusivamente di tipo visivo. Allo stadio di violenza subentra una fase di sonno agitato, caratterizzato da sogni che vengono interpretati dagli indigeni come segni profetici, prova dell' intervento divino. Nella tribù degli Jivaro dell' Ecuador, la Datura viene usata tra i giovani a scopo educativo. Anche gli Incas ricorsero alla Datura, che si diffuse come erba magica e medica dalla Colombia al Cile, lungo le coste del Pacifico e in alcune parti dell' Amazzonia, dove è tuttora usata. La maggior parte delle specie di Datura contengono sostanze ora ben identificate dal punto di vista chimico e farmacologico: appartengono alla famiglia degli alcaloidi tropanici come la scopolamina, la iosciamina (l iosciamina) e la ioscina (l ioscina) Sostanze simili sono reperibili anche nella pianta di belladonna. Le molecole agiscono sul sistema nervoso centrale e periferico bloccando l' effetto di un neurotrasmettitore, l' acetilcolina. L' uso di tali sostanze derivate da piante della famiglia delle solanacee, a cui appartiene anche la patata, è noto in Europa fin dal Medioevo. E' conosciuto anche il sito cerebrale del loro effetto: si tratta dei recettori chiamati muscarinici. Dosi alte di estratti di belladonna, iosciamo o datura producono prima una stimolazione e poi una depressione (sonno, coma) del sistema nervoso centrale. Prima di giungere al sonno si passa appunto attraverso la fase allucinatoria con torpore e disorientamento. Per quanto riguarda l' introduzione della datura come droga in Europa, dobbiamo forse ringraziare il medico parigino Jacques Moreau dell' ospedale di Bicetre, responsabile anche dell' uso della cannabis in psichiatria. Nel 1841, decise infatti di sostituire nella terapia dei malati di mente l' hashish con la datura. Dopo tre anni di esperimenti, pubblicò i risultati assieme a Gautier, già conosciuto per il suo libro sui travestiti, «Mademoiselle de Maupin » . Moreau, Gautier e Baudelaire erano tutti membri del «Club des Hashischins» famoso per le sperimentazioni in gruppo di sostanze allucinogene. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois




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