TUTTOSCIENZE 8 luglio 92


UOMO E MACCHINA Che carattere quel computer] E' possibile grazie a un programma informatico di Intelligenza Artificiale progettare una " personalità virtuale"? Dalla teoria ai tentativi pratici
Autore: LENTINI FRANCESCO

ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA
NOMI: LANIER JARON, PENROSE ROGER
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 006. Realtà virtuale

Le macchine possono avere una personalità? Il termine "persona" viene dall'etrusco phersu, che significa "maschera". Dunque la domanda si può tradurre: è possibile trasferire in un computer la personalità di un individuo X, come se il computer indossasse la maschera di X? Secondo i fautori della cosiddetta "intelligenza artificiale forte" (Hofstadter, Minsky), tutti gli stati mentali sarebbero computazionali. In altre parole il cervello umano non sarebbe altro che il supporto hardware su cui girano gli algoritmi che costituiscono ciò che noi chiamiamo "mente". E' una tesi affascinante, che tuttavia ha trovato e trova moltissime argomentazioni contrarie (Weizenbaum, Searle, Penrose). Una delle argomentazioni più convincenti è quella della "stanza cinese", dovuta al filosofo americano John Searle. L'esistenza di un computer capace di riprodurre, per ipotesi, i comportamenti di una persona di madre-lingua cinese non implica che vi sia una rassomiglianza cognitiva tra quella persona e il computer. Tutto potrebbe essere spiegato con l'esistenza di una trasformazione nascosta (Ts), cioè di un algoritmo che, dall'interno di una stanza, produce lo stesso risultato. Ora è chiaro che questa situazione può avere un duplice sviluppo: o la Ts è così ben fatta che il computer risulta indistinguibile da un essere umano (supera il test di Turing), oppure la Ts non è così ben fatta da ingannare l'utente, ma lo è quanto basta per dargli l'impressione di conversare con una "entità" sconosciuta. Il primo caso non si è mai verificato nella storia dell'intelligenza artificiale. Il secondo si è verificato almeno due volte: la prima con il programma Eliza (Weizenbaum, 1966) e la seconda con Eloisa, il programma di conversazione in linguaggio naturale presentato su queste stesse pagine (Tutto-scienze del 5 febbraio 1992). Già Weizenbaum aveva osservato che gli utenti, pur sapendo benissimo di conversare con un computer, si rivolgevano ad esso come se fosse stato un essere umano. Per quale motivo? Qualcuno ha parlato di "effetto Eliza" (Hofstadter, 1979) o "sindrome di Eliza" (Partridge, 1986), tramando nella letteratura specializzata la descrizione di questa singolare tendenza. Oggi siamo in grado di descrivere meglio questo fenomeno e di proporre per esso una nomenclatura nuova. Eloisa è invisibile ai suoi utenti poiché conversa via modem, così come l'ipotetico computer di Searle era chiuso in una stanza. Una conversazione con Eloisa è in realtà un gioco di simulazione in cui la macchina indossa la maschera di un automa X o, come caso particolare, di se stessa. Dalle risposte emerge una "personalità" definibile come "meccanica e fortemente egocentrica", nel senso che le risposte sono calibrate in modo da dare questa impressione. Ma allora è sufficiente cambiare le risposte (cioè la base di conoscenza) per ottenere una diversa " interpretazione". Dal punto di vista dell'utente è come se Eloisa possedesse una personalità virtuale. Ho coniato questo termine per analogia con la realtà virtuale introdotta da Jaron Lanier. Se indossando un visore e un guanto, è possibile visitare un edificio prima ancora che questo sia stato costruito (e spostare oggetti inesistenti), con i programmi tipo Eloisa sarà possibile, in fututo, creare una vasta gamma di personaggi virtuali. In quest'ottica la " sidrome" di cui parla Partridge è una conseguenza del tutto ovvia: l'utente percepisce una certa capacità di "comprensione" da parte del personaggio-computer e tende ad allargare (più o meno inconsciamente) l'orizzonte del dialogo. Poiché questo fenomeno può essere sfruttato per espandere la base di conoscenza e migliorare la qualità della conversazione (tuttoscienze del 12 e 26 febbraio 1992), potremmo ribattezzarlo Effetto Eloisa. Credo che neanche Roger Penrose (La mente nuova dell'imperatore, 1992) avrebbe nulla da obiettare sulla previsione che la parte verbale della mente sarà la prima ad essere emulata da parte di un computer. I computer del futuro parleranno e ascolteranno la voce umana, indipendentemente dal fatto di essere considerati o no realmente intelligenti, e avranno perciò una personalità virtuale. Ma giàoggi è possibile creare situazioni interessanti. Inserendo in Eloisa i 999 aforismi di Josemaria Escrivà de Balaguer (il vescovo spagnolo beatificato proprio in questi giorni) si può "intervistare" Josemaria Escrivà de Balageur. Che domande pongono i diversi interlocutori? E come reagiscono alle risposte del computer? E' solo l'inizio. Einstein, Proust, Byron, Leopardi, Gesù: si può trasformare il loro pensiero in un migliaio (o un milione) di coppie domanda/risposta e inserirlo in un sistema di realtà virtuale? In effetti stabilire quali siano i limiti di un programma di Intelligenza artificiale, o di realtà virtuale, è difficile anche per il suo autore. Francesco Lentini


NUOVI MATERIALI Quando finirà il petrolio potremo coltivare l'albero della plastica?
Autore: FRANCESCHINI ALFREDO

ARGOMENTI: CHIMICA, RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 006

Coltivare la plastica? Può sembrare un paradosso, ma un giorno sarà forse la norma. A meno che non si scopra, nel frattempo, che anche senza plastica è possibile vivere. Consideriamo con qualche attenzione questo "affare" da 100 milioni di tonnellate l'anno, o poco meno. Tanti sono, infatti, i materiali plastici di vario tipo oggi prodotti nel mondo, e quasi tutti da combustibili fossili: alla base dei polimeri di maggior consumo stanno infatti etilene, propilene e benzene, tutti sintetizzati a partire da petrolio, carbone e gas naturale. In pratica le uniche eccezioni importanti alla provenienza fossile sono oggi alcuni derivati della cellulosa. Ovviamente 100 milioni di tonnellate (Mt) di materie prime per i polimeri, estratte ogni anno dai giacimenti di petrolio, gas o carbone, non sarebbero poi gran cosa: stime recenti parlano di riserve intorno a 100, 100 e 4000 Gt, rispettivamente (1Gt = 1000 Mt = 1 miliardo di tonnellate); le riserve si consumano ben più in fretta per produrre energia e i consumi complessivi attuali (oltre 10 Gt/anno carbone-equivalenti) fanno prevedere che gas e petrolio si esauriscano entro 50 anni, il carbone 200 anni più tardi. Su queste stime si può discutere ma è certo che entro qualche secolo petrolio e simili saranno scomparsi. Vediamo allora quali scenari si apriranno per i futuri "consumatori di plastica". Si può pensare a una soluzione radicale: svincolarci dalla "dipendenza fossile" sostituendo ai polimeri attuali, tutti a base di carbonio, materiali diversi, che utilizzano ad esempio il silicio. Esistono in effetti dei polimeri in cui le catene macromolecolari sono costituite da atomi di silicio e ossigeno, alternati; tutti li conosciamo, componenti essenziali della crosta terrestre, i silicati. Ma si tratta di materiali con legami interatomici di tipo ionico, non covalente: ne derivano caratteri fisici che li differenziano completamente dai polimeri al carbonio. Altri polimeri sono stati studiati, un po' più vicini a quelli convenzionali, con catene di fosforo e azoto alternati: i polifosfazeni; essi sono però poco stabili, a meno che non incorporino gruppi laterali a base di carbonio (e allora siamo daccapo). Le ricerche continuano, ma tutto lascia prevedere che non sarà questa la strada per una sostituzione generalizzata dei "plastici" tradizionali. A questo punto restano aperte due possibilità realistiche, entrambe legate in ultima analisi allo sfruttamento dell'energia solare attraverso la fotosintesi clorofilliana. La prima: tramite processi di degradazione, termica o fermentativa, ricavare dalle biomasse sostanze organiche semplici come metano, metanolo, etanolo; da queste poi preparare, con reazioni già note, i monomeri necessari per la produzione dei nostri polimeri: Sarà questa, probabilmente, la via maestra per i futuri polimeri di massa. Una seconda possibilità consisterebbe in una sorta di "ritorno alle origini": l'utilizzazione diretta dei polimeri sintetizzati dalla natura, come avvenne nel caso del caucciù e della cellulosa (in altri casi si potrebbe anche partire da sostanze naturali di minor peso molecolare, modificate chimicamente e poi polimerizzate). Su questa strada, da qualche tempo, si impegna un numero crescente di ricercartori. Così ad esempio, presso il Northern Regional Research Center di Peoria, in Illinois, si esplorano le potenzialità dell'amido dei cereali come punto di partenza per la sintesi di poliuretani; analogo tentativo, ma a partire dal caucciù, è stato descritto di recente dalle Università indiane di Madras e Cochin. L'università di Montreal sta dal canto suo investigando la preparazione di adesivi epossidici derivati dalla lignina di scarto dell'industria cartaria. Recentemente sono apparsi, sul Journal of Applied Polymer Science, due articoli dell'Università del Wisconsin e dell'Istituto di Tecnologia di Bombay dedicati all'impiego dell'olio del ricino nella sintesi di leghe polimeriche a reticoli interpenetrati. E si potrebbero ancora citare studi sulla chitina e sull'olio di anacardio. Ma bastano questi accenni per illustrare come già oggi la ricerca stia imparando a fabbricare una gamma ampia di polimeri, a partire da risorse naturali rinnovabili. Così assicurandoci sulla loro soppravvivenza, anche quando di carbone e petrolio resterà soltanto qualche campione, conservato con cura nei musei di Storia naturale. Alfredo Franceschini


ECCEZIONALE MISSIONE NELLO SPAZIO Suicidio sulla cometa Dopo aver visitato la "Halley" sei anni fa, venerdì la sonda europea Giotto punterà verso un astro dello stesso tipo ma meno attivo: vi si schianterà?
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 005. Asteroide Gaspra

ECCO l'evento astronomico dell'anno: per la seconda volta nella storia si incontrano una cometa e una sonda spaziale. L'appuntamento è per le 17,25 di venerdì, ora italiana, a 214 milioni di chilometri dalla Terra. La navicella si chiama Giotto, è reduce dal sorvolo della cometa di Halley nel 1986, viaggia da 7 anni e ha ormai percorso 10 miliardi di chilometri. Il massimo ritardo (o anticipo) sarà di 10 minuti, dato che segnaliamo all'Alitalia e all'Ente Ferrovie. Costo del rendez-vous spaziale: 8 miliardi di lire. Con i soldi spesi per Lentini, Berlusconi avrebbe potuto pagarsene quattro. In assoluto, è l'impresa astronautica più economica in un settore dove, per altro al contrario di quanto la gente crede, le cifre non sono folli, visto che ogni europeo versa alle attività spaziali duemila lire all'anno, il prezzo di un cono di gelato. La sonda è cieca, studierà la cometa - per così dire - al tatto. La telecamera, infatti, è fuori uso, ma funzionano gli strumenti per registrare l'urto con granelli di polvere cometaria, per analizzare gli atomi del plasma che avvolge il nucleo dell'astro, per misurare il campo magnetico. Le informazioni arriveranno al ritmo di 40 mila bit al secondo, equivalenti a due pagine dattiloscritte. La "palpazione" potrebbe anche essere più rude: c'è una probabilità su un milione che Giotto si schianti contro la cometa (che è la Grigg-Skjellerup, diametro presunto 500 metri, di sicuro inferiore a 4 chilometri). Il suicidio della sonda agli scienziati non spiacerebbe, perché ne caverebbero notizie di estremo interesse in vista di una futura missione, Rosetta, che si propone, verso il 2005, il prelievo di campioni da una cometa e il loro trasporto a Terra. A Darmstadt, vicino a Francoforte, tutto è pronto per ricevere i dati sotto la guida di Gerhart Schwehm, il responsabile scientifico dell'impresa (battezzata Gem, Giotto Extended Mission). Tra gli italiani c'è anche Ezio Bussoletti, che segue l'esperimento di impatto con le polveri cometarie, il più interessante. In trepidazione saranno anche Giacomo Cavallo, del direttorato dell'Agenzia spaziale europea, promotrice di Giotto, e Marco Gerevini, Alessandro Bellini e Marco Pascucci della Laben di Milano (gruppo Alenia), che hanno realizzato il "cervello" della navicella. E' lì, in quelle scatole nere nate alla periferia milanese, che si decide il successo del rendez-vous. Da quella distanza, per raggiungerci i segnali radio impiegano 12 minuti. Altrettanti sono necessari per la risposta. E' dunque impossibile pilotare Giotto dalla Terra. La navicella, incrociando la cometa a 14 chilometri al secondo, deve cavarsela da sola, fronteggiare gli imprevisti, immagazzinare i dati, trasmetterli mantenendo l'esatto orientamento verso le antenne terrestri. Ci sono buone probabilità che tutto vada bene: i "cervelli" Laben hanno già fatto miracoli nell'86, quando un granello di polvere da 3 centesimi di grammo sbatté contro Giotto a 68 chilometri al secondo: per mezz'ora il contatto andò perso, poi quelle scatole nere rimisero la sonda nella posizione giusta. Altre prove le hanno superate quando la sonda è stata rispedita verso la Grigg-Skjellerup e, il 7 maggio scorso, quando essa è stata risvegliata dal letargo con un segnale radio da 95 kilowatt trasmesso da un'antenna da 70 metri della Nasa. La risposta è stata di un miliardesimo di miliardesimo di watt. Meno di un sospiro. Ma è bastato. Piero Bianucci


GUASTA LA TELECAMERA La navicella è ormai cieca ma su dieci strumenti sette funzionano ancora bene
Autore: BATALLI COSMOVICI CRISTIANO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: GRIGG JOHN, SKJELLERUP JOHN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 005. Asteroide Gaspra

I signori Grigg e Skjellerup certo non immaginarono, all'inizio del secolo, che i loro nomi sarebbero stati immortalati al pari di quello del celeberrimo Halley grazie alla casuale scoperta e riscoperta di una insignificante cometa: una cometa periodica, fra le migliaia in giro per il sistema solare, sconosciuta alla maggior parte degli astronomi, visibile solo al telescopio, con un nucleo di appena 500 metri, 25 volte più piccola della Halley. Invece Grigg e Skjellerup sono diventati famosi grazie alla scelta della loro cometa da parte degli astronomi dell'Agenzia spaziale europea per una nuova missione della sonda Giotto dopo il fantastico incontro con la Halley nella notte del 13-14 marzo 1986. John Grigg (1838-1920), commerciante e musicista inglese emigrato in Nuova Zelanda, si dedicò all'astronomia costruendosi un piccolo osservatorio a Thames. Lì scoprì tre nuove comete: 1902 II, 1903 III e 1907 II. Fu il primo inoltre a rintracciare la cometa periodica Encke nel 1898. La cometa verso cui punta Giotto la scoprì il 23 luglio 1902, 90 anni fa, mentre dirigeva casualmente il suo telescopio da 9 centimetri verso le costellazioni del Leone e della Vergine: aveva allora una magnetitudine di 9,5. John F. Skjellerup (1875-1985) era un australiano di origine scandinava che si specializzò in telegrafia vincendo nel 1900 un posto di telegrafista in Sud Africa e trasferendosi a Citta" del Capo. Il suo interesse per l'astronomia fu innescato dalla maestosa apparizione della cometa di Halley nel 1910. In seguito riuscì a scoprire tre comete con un semplice binocolo Zeiss: 1920 I, 1920 III, 1922 I. La 1922 I non era altro che la cometa scoperta da Grigg nel 1902. Di qui il nome definitivo dato alla cometa. Skjellerup, nel 1921, durante una visita a Londra, acquistò un rifrattore da 7,6 centimetri con il quale scoprì la sua quarta cometa, 1923 I, e poi la quinta, 1927 IX, osservata contemporaneamente da dieci astronomi. Il 21 gennaio del 1941 concluse la sua carriera di cacciatore di comete con la scoperta della 1941 IV, che prese poi il nome di De Kock-Skjellerup 1941 IV. Anche oggi la maggior parte delle nuove comete (una decina all'anno) porta il nome di astrofili, e non di astronomi professionisti, specie dell'emisfero australe. L'australiano Bradfield detiene il record delle scoperte (12). La Grigg-Skjellerup è stata scelta in quanto ha caratteristiche opposte alla Halley: è infatti una cometa con un periodo medio di 5, 1 anni, appartenente alla famiglia di Giove (afelio: 741 milioni di chilometri, perielio: 149 milioni), poco attiva. Alle ultime misure del 1987 mostrava una chioma di circa 100.000 chilometri di diametro con deboli tracce delle principali componenti chimiche cometarie (cianogeno, carbonio dimero e trimero e radicale ossidrilico) e possedeva una tenue coda di plasma. Dai calcoli eseguiti, il suo potere riflettente è di 0,025% (Halley: 0,04) e solo lo 0,8 per cento della superficie è in attività, con una densità di 0,04 grammi/centimetro cubo (Halley: 1 g/cm3). Il confronto con la Halley sarà prezioso per stabilire se questi corpi celesti abbiano la stessa origine ed evoluzione o provengano da diverse parti del sistema solare esterno o dallo spazio interstellare. Di recente è stata scoperta una cometa, la Yanaka 1988 r, unica per le sue proprietà chimiche: è la sola cometa che presenti uno spettro senza composti del carbonio e con l'unica presenza di radicali amminici. Una spiegazione plausibile è che essa rappresenti un tipo completamente nuovo di comete che provengono da remote regioni dello spazio interstellare. Le foto dell'asteroide Gaspra eseguite recentemente dalla sonda americana Galileo mostrano una peculiare somiglianza morfologica con il nucleo della cometa di Halley. Gaspra è di poco più grande, ma presenta la stessa forma a fagiolo con una forte erosione al centro, erosione da cui esce il getto principale di gas e polvere nel nucleo della cometa di Halley. E' stata annunciata la settimana scorsa alla Conferenza europea di astronomia a Liegi una importante scoperta fatta con il satellite ultravioletto Iue: l'asteroide Ceres evapora acqua dalla superficie ghiacciata pur essendo un corpo inattivo. Tutte queste coincidenze rendono ancora più enigmatico il problema dell'origine delle comete e degli asteroidi. L'incontro con la Grigg-Skjellerup avrà luogo il 10 luglio a una distanza dalla Terra di 214 milioni di chilometri. Solo 7 dei 10 strumenti scientifici a bordo sono funzionanti. Purtroppo la telecamera, che ha fornito 3000 eccezionali immagini del nucleo della cometa di Halley rivoluzionando le nostre conoscenze dei nuclei cometari, è stata irreparabilmente danneggiata dai granelli di polvere della cometa di Halley. Tutti gli sforzi per riattivarla da Terra sono stati vani. E' veramente un grande peccato, in quanto l'incontro ravvicinato con una cometa inattiva avrebbe permesso di vedere il nucleo con una risoluzione spaziale di pochi metri e senza il pericolo della micidiale polvere cometaria. Questa nella Grigg Skjellerup è solo lo 0,75 per cento di quella emessa dalla Halley. Anche lo spettrometro di massa neutro è fuori uso e quindi si potranno misurare solo gli ioni, gli elettroni, la polvere e il campo magnetico. Sostanzialmente la fisica del plasma sarà il settore scientifico che trarrà più vantaggio da questa missione e quindi sarebbe più logico far passdare la sonda dal lato antisolare del nucleo, come la sonda americana Ice che passò nella coda della cometa Giacobini-Zimmer. La precisione di avvicinamento è più problematica rispetto al precedente incontro, in cui ci si servì dei dati delle sonde russe Vega, passate nelle vicinanze della Halley pochi giorni prima. Determinanti saranno i dati astrometrici forniti dai telescopi dell'emisfero australe, che potrebbero migliorare la precisione di avvicinamento al bersaglio portandola a 800 chilometri. Con lo Space Telescope la precisione potrebbe toccare i 100 chilometri. Tutti si augurano però che Giotto riesca a centrare il nucleo e a rimanervi sopra a testimonianza, per i futuri visitatori, della tecnologia terrestre del XX secolo (ambientalisti spaziali permettendo). Cristiano Batalli Cosmovici Cnr, Istituto di Fisica dello spazio


TRAPIANTI Pittsburgh, cresce la speranza per il cantante pop con il fegato di un babbuino
Autore: RAINERO FASSATI LUIGI

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SANITA'
NOMI: STARZL THOMAS, MARINO IGNAZIO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 005

Sta bene, al Presbyterian University Hospital di Pittsburgh, Pennsylania, il trentacinquenne cantante pop (il nome non è stato rivelato) sul quale nella notte tra il 28 e il 29 giugno è stato innestato il fegato di un babbuino. Il giovane ha superato la fase più critica seguita all'intervento, durato 11 ore, e reagisce bene alla terapia antirigetto messa in atto dall'equipe coordinata dal professor Thomas Starzl, l'artefice principale dell'impresa. All'intervento hanno preso parte anche gli italiani Ignazio Marino e Luigi Rainero Fassati, nostro collaboratore. Il professor Fassati, appena rientrato dagli Usa, riferisce qui sull'evoluzione delle condizioni del paziente e sulle prospettive che questo intervento potrebbe aprire a migliaia di malati. --- QUANDO l'altro giorno ha lasciato il Presbyterian University Hospital di Pittsburgh il paziente trapiantato con il fegato di babbuino era seduto in poltrona a guardare la televisione dimostrando molto interesse soprattutto per le notizie che lo riguardavano direttamente. Ho riportato in Italia tutti gli esami del sangue eseguiti in questi primi giorni postoperatori: documentano in modo inequivocabile una sorprendente ripresa funzionale del fegato trapiantato. Quasi tutti i valori sono tornati nella norma. Parlando con il professor Ignazio Marino che, dopo aver attivamente partecipato all'intervento, ha avuto l'incarico dal professor Starzl di seguire in prima persona il paziente, ci chiedevamo se stavamo vivendo nella realtà o in un sogno. Tutto ci sembrava troppo perfetto per essere vero... Forse il segreto sta tutto nel nuovo schema di terapia immunosoppressiva. Nello xenotrapianto ci sono due tipi di rigetto. Il primo (che non si verifica quasi mai nel trapianto interumano) si chiama rigetto umorale ed è dovuto alla presenza di anticorpi nel sangue circolante che tendono a distruggere il fegato trapiantato. Questo fenomeno si verifica di solito entro i primi giorni postoperatori ed è mediato da speciali cellule che si chiamano linfociti B. Il secondo (che si manifesta di regola in tutti i trapianti di organo tra individui della stessa specie) si chiama rigetto cellulare, insorge fra la quinta e la decima giornata postoperatoria ed è mediato dai linfociti T. Per questo secondo tipo di rigetto esistono molti farmaci che si possono usare per contrastarlo con successo. Il punto cruciale, quindi, nel caso di trapianto tra uomo e babbuino è di riuscire a dominare il rigetto umorale dei primi giorni, perché dopo diventa più facile tenere la situazione sotto controllo. Gli studi sperimentali condotti da Starzl sul trapianto fra animali di specie diversa hanno dimostrato che esiste un farmaco, la ciclofosfamide (conosciuto da decenni per la sua efficacia contro alcune forme di tumore maligno), che ha un'azione elettiva contro i linfociti B e di conseguenza è in grado di combattere il rigetto umorale. Oltre il 90 per cento degli animali trapiantati è sopravvissuto anche per lunghi periodi. Il gruppo guidato da Starzl non ha fatto altro che trasferire in campo clinico questi risultati sperimentali e, attualmente, al paziente vengono somministrati la ciclofosfamide e l'FK506, oltre al cortisone, per contrastare i due tipi di rigetto. Ciò che è importante sottolineare è che questo xenotrapianto umano è soltanto l'aspetto emergente di anni di silenziosa e straordinaria ricerca sperimentale, frutto di una collaborazione multidisciplinare tra le più diverse categorie di specialisti. Un'eccezionale acquisizione, in ogni caso, si è già ottenuta fin da oggi, e cioè la dimostrazione che lo xenotrapianto di fegato è valido per un'eventuale terapia dell'insufficienza epatica acuta se non si trova l'organo da un donatore umano. Il fegato di babbuino ha dimostrato di funzionare perfettamente per i primi cinque giorni e quindi di poter servire "da ponte" in attesa di un fegato umano. Questo è l'unico modo per salvare la vita al malato. Ma Starzl non vuole sentir parlare di ponte. Personalmente è convinto che questo fegato di babbuino funzionerà per sempre. Luigi Rainero Fassati


INVENZIONI Il profeta del treno magnetico Il rivoluzionario brevetto fu depositato cent'anni fa da un tecnico romano Ma solo oggi incominciano a essere disponibili le tecnologie per realizzarlo
AUTORE: ROGLIATTI GIANNI
ARGOMENTI: TRASPORTI, TECNOLOGIA
NOMI: APOLLONJ GIULIO MARIA, APOLLONJ GHETTI FABRIZIO
ORGANIZZAZIONI: KRAUSS MAFFEI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 006

CI sono state invenzioni così in anticipo sui tempi da non poter essere utilizzate per mancanza della tecnologia necessaria a realizzare in pratica l'idea geniale. Un caso del genere sembra essere quello del treno a motore lineare a levitazione magnetica di cui esistono oggi veri prototipi e che si presenta come una delle più attraenti soluzioni del trasporto passeggeri su medie distanze ed a velocità concorrenziali con quelle degli aerei. Un articolo pubblicato su "La strenna dei romanisti" alcuni anni fa (1980), scritto da Fabrizio Apollonj Ghetti, ha per titolo "Il treno elettromagnetico dell'avvenire fu inventato da un romano nel 1895". In esso si fa riferimento al brevetto del padre Giulio Maria (depositato appunto nel 1895) riscoperto in famiglia quando ormai era scaduto e quando invece in ambienti scientifici si cominciava a parlare seriamente della possibilità di realizzare un simile sistema. L'autore scrive che un giorno (intorno al 1923-24) il padre gli parlò dell'invenzione in questi termini: "Immagina un motore elettrico (ad induzione) che abbia un raggio infinito. In esso il rotore - la parte rotante - e lo statore - la parte fissa - sarebbero rettilinei e il primo, invece di rotare, si sposterebbe in senso lineare, sollevandosi alquanto sul secondo. Nel 1895 brevettai un tipo di ferrovia elettrica basato su questo concetto". Tutto qui, semplice e chiaro. Il brevetto esiste ed è datato 12 giugno 1895 Registro Generale vol.30, numero 39032; Registro Attes, vol 76 n. 328; ha per titolo "Nuovo sistema di trazione elettrica" e consta della descrizione e dei relativi disegni. Nei primi due punti della descrizione viene chiaramente indicato come il sistema abbia per scopo l'eliminazione degli attriti tra ruote e rotaia grazie all'azione elettromagnetica e che la spinta del treno lungo la direzione di marcia avvenga grazie alla stessa azione elettromagnetica che si esercita tra un sistema di bobine applicate lungo i binari ed altre bobine fissate al treno. Il disegno, tipico della sua epoca in quanto a forma dei vagoni che prescindeva da ogni velleità aerodinamica, è molto interessante perché propone ben quattro soluzioni diverse di piazzamento delle rotaie elettromagnetiche, di cui una con la rotaia sopra al treno stesso. A questo punto va detto che l'Apollonj non era un "bricoleur" o un inventore della domenica, bensì un tecnico preparato che lavora nel settore degli impianti elettrici urbani ed industriali e delle centrali idroelettriche. Ed era ben conosciuto dai suoi colleghi dal momento che nel secondo volume del "Corso di Elettrotecnica" del professor Guido Grassi del Politecnico di Torino (edizione 1923) viene citato sotto il titolo: Trazione tangenziale. "Degno di nota è il sistema che porta questo nome e che riferisce da tutti gli altri fin qui accennati. La prima idea è dovuta al sig. Apollonj ed è una applicazione del campo rotante Ferraris. Se in un motore a induzione polifase si immagina di sostituire ai due anelli (statore e rotore) di dimensioni finite altri due anelli di raggio infinitamente grande, in luogo di due superfici cilindriche si avranno affacciate due superficie piane, di modo che il campo e rotore invece di un moto rotatorio attorno a un asse, assumeranno un movimento traslatorio in una determinata direzione. L'Apollonj immaginò di applicare questo principio alla trazione: tutta la linea viene costituita come un grande statore rettilineo e la vettura, funzionante da rotore, è trascinata dal campo dello statore, campo che progredisce lungo la linea per effetto delle correnti polifasi che lo alimentano". Già in quel libro si faceva cenno ad altri ricercatori e cioè Dulait, Rosenfeld e Zelanay che, a quanto sembra di capire, avevano anche tentato alcuni esperimenti pratici. Il Grassi conosceva da tempo il brevetto avendone avuta notizia diretta ed immediata da parte dell'inventore al momento stesso del deposito, come risulta da una lettera scritta nel 1898. E' passato quasi un secolo dal primo brevetto ed oggi il treno a levitazione magnetica e motore lineare è una realtà sia pure a livello di prototipi; ma sono state necessarie altre invenzioni per rendere la cosa possibile, tra cui i superconduttori ed i semiconduttori grazie ai quali è possibile gestire le grandi intensità di corrente necessarie a creare le condizioni di funzionamento. Rimane la geniale intuizione di un italiano, che per tradizione familiare avrebbe dovuto fare l'avvocato ma preferì la tecnica. Gianni Rogliatti


GLI ANIMALI COMUNICANO? Becca lì dove la zecca mi punge Così certi uccelli liberano le zebre dai parassiti
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 007

NEL Parco Masai Mara del Kenya una sebra attira l'attenzione del biologo americano Randall Breitwisch dell'Università di Dayton, Ohio. Bruca l'erba folta a ritmo sostenuto, compiendo movimenti sempri uguali con le mascelle. Non si ferma un istante. Più che un essere vivente sembra una macchina mangiatrice. Ma all'improvviso la macchina si ferma. La zebra alza la testa e rimane immobile, come ipnotizzata. Cosa è successo? Alcune bufaghe dal becco giallo (Buphagus africanus) si sono posate sul suo dorso e hanno iniziato una metodica e accurata opera di disinfestazione. La zebra sembra godere di questa operazione di pulizia, che evidentemente le dà un senso di benessere, allo stesso modo come ci dà piacere se qualcuno ci gratta in una zona del corpo per noi inaccessibile, nella quale sentiamo un fastidioso senso di prurito. E proprio per consentire alle bufaghe di svolgere al meglio il loro lavoro, rimane immobile per tutto il tempo occorrente all'operazione di pulizia. Man mano gli uccelli si spostano dal dorso ai fianchi, dai fianchi alla pancia, dallla pancia alle zampe. Queste regioni del corpo vengono accuratamente perlustrate. Cammin facendo le bufaghe mangiano tutte le zecche e gli altri parassiti esterni che incontrano e se per caso vi è qualche ferita aperta, asportano i lembi di pelle necrotizzata. Breitwisch si domanda: hanno modo di comunicare tra loro bufaga e zebra? La risposta per lui è affermativa. Non si tratta, naturalmente, di un linguaggio vocale, bensì di un vero e proprio linguaggio del corpo. Il fatto stesso che la zebra smetta di mangiare e rimanga immobile per agevolare il lavoro della bufaga ne è una riprova. Non solo. Ma quando, terminata la pulizia della pelliccia del tronco e delle zampe, rimane da pulire la parte posteriore, e l'uccello saltella sul dorso, dirigendosi verso il fondo schiena, la zebra sembra che lo capisca e immediatamente solleva la coda mantenendola sollevata perché la bufaga possa ripulire a dovere la zona nuda e lucente che circonda l'apertura anale. Non è forse una maniera eloquente per agevolare il suo compito? E ancora. Lo studioso osserva che spesso se la bufaga insiste a disinfestare una certa zona del corpo, la zebra se la scrolla di dosso per mandarla via. L'uccello si posa su un'altra zona e la zebra continua a scrollarsi, come se dicesse: "Non qui, non qui". Fino a che, a furia di tentativi, l'uccelllo non si posa proprio nel punto in cui il mammifero sente le punzecchiature dei parassiti. Allora non si scrolla più, come a dire "finalmente hai indovinato". C'è un singolare rapporto di alleanza - un'autentica simbiosi - tra bufaghe ed erbivori selvatici, che siano zebre o antilopi, giraffe o facoceri, rinoceronti o impala. Il rapporto è particolarmente stretto tra bufaghe e rinoceronti, tanto che nella lingua degli indigeni dell'Africa centro-orientale le bufaghe vengono chiamate "guardiani del rinoceronte". Questo appellativo ci ricorda il "guardiano del coccodrillo" (Pluvianus aegyptius), un uccello che ha instaurato con il rettile un rapporto di alleanza, per quanto non siano state confermate dagli etologi moderni le testimonianze degli antichi secondo cui l'uccello penetrebbe perfino nella spaventosa bocca del coccodrillo per toglierli i residue di cibo rimasti incastrati tra gli interstizi dei denti. Se gli erbivori traggono evidentemente vantaggio dall'opera di pulizia delle bufaghe, di quella a becco giallo e di quella a becco rosso (Bufagus erythrorhyncus), anche le bufaghe hanno il loro tornaconto. La pelliccia di questi mammiferi selvatici è praticamente il loro domicilio per la maggior parte dell'anno. Lì mangiano, dormono, fanno l'amore. Lì il maschio corteggia la femmina e si accoppia con lei. Solo quando si avvicina il momento della deposizione delle uova gli uccelli cercano la cavità di un albero, preferibilmente morto, per fabbricarvi il nido. E quando si tratta di tappezzarne l'interno, volano da uno dei loro clienti, gli strappano una bella manciata di peli e con questi confezionano un morbido materasso per i nascituri. Non è questo l'unico caso in cui animali di specie diversa comunicano tra loro mediante un linguaggio del corpo. C'è l'esempio ancora più clamoroso dei pesci pulitori che offrono il loro servizio a pesci più grossi o anche tartarughe e altri animali marini. Per non generare incresciosi equivoci, non solo hanno sviluppato nel corso dell'evoluzione livree particolarmente caratteristiche, ma eseguono una speciale "danza di pulizia" prima di avvicinarsi a clienti pericolosi come una murena o uno squalo. Quella danza è un messaggio che dice: "Non scambiarmi per una preda appetibile. Sono un pulitore che viene a farti una bella toilette". Ma, tornando al rapporto erbivori-bufaghe, queste due specie comunicano tra loro anche con un linguaggio vocale, quando le bufaghe avvertono zebre, antilopi o rinoceronti di un pericolo, levandosi improvvisamente in volo con alti schiamazzi. E' un grido d'allarme bello e buono che mette in guardia i mammiferi selvatici e li informa della presenza di un eventuale nemico. Fanno altrettanto i bucerotidi del genere Tockus che hanno stabilito un'alleanza a utilità reciproca con le manguste nane. Queste amano trascorrere la notte nei fori di ventilazione dei termitai, ma cambiano alloggio ogni notte. Gli uccelli allora le seguono in volo per individuare il luogo dove dormiranno e si appostano sugli alberi vicini. Al mattino seguente sollecitano le manguste ad uscire con un verso di richiamo. E appena i piccoli mammiferi si mettono in moto per la caccia, gli uccelli li seguono. Calpestando l'erba, le manguste fanno uscire allo scoperto gli insetti che vi si annidano. Ed è mensa imbandita per le manguste e per i loro alleati. Se poi si profila all'orizzonte un minaccioso rapace, i bucerotidi lanciano il grido di allarme e le manguste si mettono in salvo. Il capitolo della comunicazione tra specie diverse è particolarmente affascinante, ma ne conosciamo solo alcuni aspetti. Molti altri sono ancora da scoprire. Isabella Lattes Coifamann


MEMORIZZATO IL SUO DNA Il vaiolo ora è un virus informatico Distrutti anche gli ultimi ceppi di laboratorio
Autore: QUATTRONE ALESSANDRO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 007

L'ULTIMO trionfalistico bollettino di guerra della medicina annuncia la vittoria sul vaiolo, morbo terribile nella storia dell'uomo, che una campagna mondiale di vaccinazioni è riuscita a sradicare completamente. L'epilogo si è avuto con la distruzione degli ultimi ceppi del virus, conservati in condizioni artificiali in due laboratori, ad Atlanta e a Mosca. Inutile dire che questa misura di sicurezza volta a prevenire una futura pur improbabile pandemia, ci pare quanto mai saggia. Altri - forse il leader di un'immaginaria frangia estrema di ecologisti - potrebbe opporre al coro plaudente una voce, affermando che è un'operazione gratuita, che per eliminare un rischio davvero minimo ha invece eliminato dalla Terra, per sempre, una forma di quasi-vita, pur infima e micidiale. Ma, e su questo vogliamo soffermarci, costui sarebbe subito confutato: in qualche modo, in un modo nuovo e assolutamente originale nella storia del mondo, il virus del vaiolo c'è. Un virus è un oggetto strano, che si pone rispetto al fenomeno vita in un luogo di confine, e tutto suo: se la vita è progetto, ed è invarianza, cioè capacità di mantenere inalterato il progetto nel tempo, ed è teleonomia, ovvero capacità di trasmettere tale progetto a una discendenza, allora il virus è vita. Ma è non vita nel mondo in cui le due capacità si realizzano: a spese, ed in totale dipendenza, di altri esseri viventi, di altri più sofisticati progetti. Un virus non è un testo compiuto, è una variante, astuta, al testo, che esiste solo in quanto il testo esiste, e che può essere apprezzata solo in sua funzione; è una vita dentro la vita, quella vera. Il suo progetto è scritto con i caratteri con cui tutti i progetti del vivente sono scritti: il Dna, la molecola supporto dell'informazione genetica. Esso, anche nei casi più complessi come quello del vaiolo, è materialmente poco più di una matassa di Dna - che nella fattispecie è stata letta e del tutto decifrata - ricoperta da un involucro proteico, come un piano costruttivo raccolto in una cartella e completamente noto in tutti i particolari. Dopo che le cellule umane, aggregate in forme intelligenti, gli hanno negato ogni futura ospitalità, la variante era priva del testo, e avrebbe trapassato il limite, dalla parte buia non appena gli fossero state negate anche quelle cellule in coltura da infettare e colonizzare in cui sopravviveva, menando la sua grama esistenza. Ma qualcuno ha voluto inventare una cosa nuova. Ha raccolto la decifrazione del suo progetto, con accuratezza: esso si compone di poche centinaia di chilobasi di Dna: quantità d'informazione che è meno della metà delle pagine del quotidiano che state leggendo, un trentesimo di quanto potrebbe contenere un comune dischetto di computer. Un progetto, seppure molto astuto, veramente ridotto, se si pensa che per quello di un essere umano di dischetti, ce ne vorrebbero migliaia. E proprio in una memoria elettronica di computer il progetto del virus è stato riposto. Qui esso è cristallizzato, idea platonica privata di accidente, variante di testo cui forse mai più potrà ricongiungersi per modificarne il senso col suo disegno, che è disegno di morte. Proviamo a immaginare se ci sia, e cosa sia allora, e dove sia, adesso, il virus del vaiolo. E' stato tolto dal suo limite, quello tra vita e non, per porlo in un altro limite, ancora più incerto, ancora più oscuro. L'umanità ha debellato il vaiolo, ha cancellato il virus suo agente. Ma ci sovviene anche un pensiero: sono i biologi evoluzionisti, Darwin in primis, ad averci spiegato che ogni forma vivente lotta per assicurarsi una discendenza, il che significa, prima di tutto e sopra tutto, per assicurare un futuro al proprio contenuto d'informazione. Ora noi, scientemente, abbiamo sottratto a tale lotta proprio il nostro virus, estraendone l'informazione, riponendola in uno scrigno incorruttibile, assicurandole una tranquilla posterità. Non sarà forse davvero averlo affrancato dalla pugna, dalla materialità della selezione naturale? E' una nostra bizzarra fantasia. Anche i virus potrebbero avere un volto; e ci piace immaginare lui, il virus del vaiolo, che dal limite insondabile in cui lo abbiamo riposto ci guarda divertito, e sorride. Alessandro Quattrone


RADIOTERAPIA Una piccola bomba atomica che esplode dentro le cellule del tumore
Autore: VOLPE PAOLO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 007

UNA delle strade più battute per la cura dei tumori è la radioterapia, che nella sua forma attuale dà spesso risultati soddisfacenti, soprattutto da quando alle classiche applicazioni con sorgenti esterne si è affiancata la somministrazione di radioisotopi che, inseriti in veicoli chimici o biochimici, vengono assorbiti dal tumore. Un altro passo avanti è in fase di sperimentazione: la Boron neutron capture therapy (Bnct). Già molti anni fa l'osservazione che complessi contenenti boro possono essere assorbiti dalle cellule tumorali ha suscitato l'idea di adoperare questo elemento per una radioterapia concettualmente nuova. Il boro, o meglio il suo isotopo di peso atomico 10, presente in natura in misura del 20 per cento sul boro totale, se bombardato con neutroni subisce una reazione nucleare dando come prodotti elio e litio; la reazione può essere considerata una vera propria fissione, analoga a quella dell'uranio, con la differenza che in questo caso non vengono emessi altri neutroni e quindi non c'è la propagazione a catena. Ogni fissione del boro può considerarsi una vera propria esplosione nucleare monoatomica con un raggio di distruzione dell'ordine di grandezza del raggio di una cellula. Se dunque si immette boro nelle cellule tumorali (e solo in quelle) e si irraggia poi il tessuto malato con neutroni, ogni cellula malata verrà distrutta mentre i tessuti sani rimarranno illesi. Il principio sembra semplice, ma la sua realizzazione pratica presenta un certo numero di problemi. Benché il boro-10 abbia fra tutti i nuclidi una delle sezioni d'urto fra le più alte (cioè la sua probabilità di fissione sia relativamente elevata), in termini assoluti questa probabilità è bassissima. Praticamente, avendo solo pochi atomi di boro per cellula, per avere la certezza che questa venga distrutta bisogna irradiare con un flusso di neutroni equivalente a una dose di radiazioni di milioni di rem, il che sarebbe letale per il paziente. Per diminuire la dose a valori accettabili, la certezza dell'evento distruttivo in ogni cellula va ricercata diminuendo drasticamente il flusso di neutroni e aumentando parallelamente il numero di atomi di boro nei tessuti tumorali. J.H. Morris dell'Università di Strathclyde (Glasgow, U.K.) stima in 50 microgrammi di boro per grammo di tessuto tumorale la quantità necessaria per avere la certezza di sfruttare quasi integralmente un flusso di neutroni pari a qualche decina di rem. Sfortunatamente i composti del boro sono già tossici intorno a un milligrammo, quindi non se ne possono far assumere dosi massicce a un individuo per far sì che nel turmore vi sia la quantità voluta; bisogna trovare molecole contenenti boro che abbiano la proprietà di concentrarsi selettivamente nei tessuti malati. I primi successi sono stati ottenuti in Giappone da Hatanaka con i derivati sulfidrilici del dodecaborato: nella cura del gliobastoma del cervello ha ottenuto, a cinque anni di distanza dal trattamento, una sopravvivenza del 29 per cento, quando senza cura tale sopravvivenza è zero. Risultato incoraggiante, ma di gran lunga migliorabile qualora si riesca ad aumentare l'efficienza d'assorbimento di boro da parte delle cellule cancerogene. Per raggiungere lo scopo si stanno studiando anche altre strade che fanno ricorso piuttosto alla biochimica che alla chimica. La manipolazione degli anticorpi è ormai una tecnica acquisita ed è usando questi come veicoli che si tenta di portare il boro nelle cellule tumorali: in esperienze recenti ogni anticorpo opportunamente trattato è riuscito a portare a destinazione fino a 1080 atomi di boro. Anche il colesterolo Ldl viene preso in considerazione per trasportare atomi fissili nelle cellule: si stima che la sua efficienza in questo senso sia circa 100 volte quella dei derivati sulfidrilici usati da Hatanaka. Altro componente chiave di questa tecnica è la sorgente di neutroni. Benché il flusso di neutroni richiesto non sia elevato, essi devono avere caratteristiche di energia e di collimazione ben precise, e poiché i neutroni sono particelle molto difficili da maneggiare, ne va perso un numero enorme, per cui la sorgente deve avere all'origine una intensità di flusso quale solo un reattore nucleare può fornire. In Europa il primo reattore ad alto flusso adattato a eseguire la Bnct è a Petten, in Olanda. Altri sorgeranno in diversi Paesi (tranne, naturalmente, l'Italia). Paolo Volpe Università di Torino


RICERCA IN USA Yogurt contro la candidosi Batteri buoni cacciano i cattivi
Autore: CALABRESE GIORGIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 007

DUE yogurt al giorno tolgono la Candida di torno: potrebbe essere il nuovo detto popolare per la donna che soffre di candidosi vaginale. E' l'ultima scoperta di un gruppo di studiosi americani. Sono moltissime le donne colpite da questa malattia dovuta a un fungo saprofita e ubiquitario, la Candida albicans, che, pur essendo debellabile coi farmaci, torna continuamente a dar fastidio, fino a diventare quasi un incubo per la donna. Un gruppo di ricercatori americani del Long Island Jewish Medical Center di New York, guidati da Eileen Hilton, ha scoperto che l'uso giornaliero di 250 ml (cioè 2 vasetti) di yogurt ad alto contenuto di Lactobacillus Acidophilus previene la candidosi. La candidosi vaginale viene trasmessa, in genere, per via sessuale, ma può diffondersi anche per via intestinale. La sua aumentata incidenza è legata all'indiscriminato uso di antibiotici a largo spettro e all'aumentato uso della pillola contraccettiva estroprogestinica, oltre che all'uso di tutti i sofisticati mezzi diagnostici di cui oggi la medicina dispone per esaminare l'apparato genitale. Nella ricerca americana si partiva da una diagnosi microbiologicamente accertata di candidosi vaginale. Ogni paziente doveva evitare per sei mesi di mangiare yogurt; e per altri sei mesi doveva mangiarne 250 ml al giorno. Lo studio è durato un anno, partendo da 33 pazienti e selezionandone in totale 11 che erano risultate fedeli alle indicazioni degli studiosi. Ogni mese queste ultime venivano sottoposte a un controllo clinico. Si è accertato che nei mesi senza yogurt i casi d'infezione da Candida sono stati 7 volte superiori a quelli dei mesi con lo yogurt. Il numero medio di colonizzazioni da Candida nel semestre di controllo è stato quasi quattro volte superiore a quello del semestre con yogurt. Hilton ha quindi ipotizzato che il Lactobacillus acidophilus diminuisce sia l'incidenza della vaginite candidosica sia la colonizzazione grazie alla sua azione sul tratto gastrointestinale. Questo fermento lattico spiazzerebbe la Candida e si sostituirebbe ad essa, riducendo la possibilitàsi autoinoculazione dal perineo alla vagina. Un'altra ipotesi è che il Lactobacillus acidophilus può colonizzare la vagina dal tratto gastrointestinale e qui inibire la candida per competizione. Giorgio Calabrese




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