TUTTOSCIENZE 29 aprile 92


GEOGRAFIA DELLA DROGA La lunga strada della coca Dagli altari degli Incas al narcotraffico Quattro le specie coltivate dalle Ande all' Amazzonia alle isole dei Caraibi
Autore: GRANDE CARLO

ARGOMENTI: BOTANICA, DROGA, MERCATO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C T I luoghi e le specie coltivate
NOTE: 061

DAGLI altari degli Incas ai bassifondi (e ai salotti) della civiltà industriale. Ne ha fatta di strada, la coca, da quando Amerigo Vespucci vide gli indigeni di Santa Margherita, isola davanti alle coste orientali del Venezuela, con «le gote piene di drento di una erba verde, che di continovo la rigumavano come bestie, che apena potevon parlare». La gente non «ruminava» solo per vincere la fame, la sete, la fatica. Per gli indigeni «Mama coca» era (ed è ) un rito antichissimo, nato forse 20 secoli prima di Cristo (quando la pianta fu addomesticata), spesso riservato a notabilie indovini Gli imperatori Incas sancivano la sottomissione dei popoli vinti permettendo loro di coltivare e usare la «cuca», cioè il «cespuglio» . Le foglie erano anche un «propellente» formidabile per i messaggeri iperiali, che correvano veloci nell' atmosfera rarefatta degli altopiani andini. Dapprima i conquistadores ne proibirono l' uso, considerandola «strumento del demonio»; ma presto la usarono per pagare gli indigeni che lavoravano nelle loro miniere d' argento. Anche la Chiesa non andò tanto per il sottile: padre Blas Valera scrisse che nel ' 500 «la maggior parte degli introiti del clero della Cattedrale di Cuczo veniva dal pagamento delle decime in foglia di coca». Le foglie verde cupo di questo arbusto (è alto 3 5 metri, ha la corteccia bruno rossastra, produce fiori bianchi e bacche rosse), contengono dallo 0, 25 all' 1, 15 di cocaina, secondo le specie. Per arrivare ai micidiali cristalli di idrocloruro di cocaina, cioè alla ben più potente «polvere bianca », occorrono circa 300 chili di foglie secche. Più naturalmente una notevole quantità di sostanze chimiche (cherosene, acetone, alcol, ad esempio) per lavorarle. La «dama blanca» produce così gli effetti delle anfetamine, anche se queste ultime agiscono in modo molto più prolungato nel tempo. L' azione favorevole della cocaina detto «hig» , dura pohissimo: 5 10 minuti. L' abuso, com' è noto conduce all' assuefazione, cui seguono allucinazioni, malattie mentali e cardiocircolatorie. Fra le circa 250 specie del genere Erythroxylon, quelle allucinogene che vengono coltivate sono quattro. L' Erythroxylon coca varietà coca è quella più importante per il narcotraffico: è detta «Boliviana» o «Huanuco», cesce nelle valli tropicali delle Ande, in Ecuador e Boliia, fra i 500 e i 2 mila metri. L' E. coca varietà ipadu, detta «Ipadu», vegeta invece in Amazzonia, mentre l' Erythroxylon novogranatense (detta «Colombiana» ), si trova in Colombia e sulle coste dei Caraibi. L' E. coca var. truxillense, detta «Trujillo», cresce infine lungo gli aridi pendii al nord del Perù e nella valle del fiume Maranon. Viene esportata per usi farmaceutici e per aromatizzare la «Coca cola». In Perù e Bolivia, infatti, non ci sono solo aree di coltivazione abusiva. Tuttavia il grosso della produzione finisce nelle mani dei «narcotraficantes». Il «Bureau of International Narcotics Matters» del Dipartimento di Stato americano pubblica ogni anno un rapporto sulla quantità di coca esportata dai quattro paesi andini che ne producono di più (Perù, Bolivia, Colombia e Ecuador, in ordine di importanza): nel 1986 se ne sono raccolte 186 mila tonnellate, nel 1990 oltre 310 mila. In quei Paesi, la coltivazione della coca impiega da 600 mila a 1 milione e mezzo di persone: due terzi sono agricoltori e braccianti, un terzo «pisadores», persone che nelle artigianali raffinerie nascoste nella foresta mescolanoe pestano le foglie, a piedi nudi, con kerosene e altre sostanze chimiche, per preparare la cocaina di base. L' «indotto» non è facilmente calcolabile, ma assume proporzioni enormi: nell' 87 il ministro degli Interni boliviano ha ammesso che la coltivazione della coca, nel suo Paese, rappresentava dal 53 al 66% del prodotto nazionale lordo. Quell' anno, la Bolivia aveva un tasso di disoccupazione del 40%, un debito estero di oltre 5 mila milioni di dollari e un' inflazione del 1400% all' anno. La coca è una pianta perenne, che produce a pieno ritmo per vent' anni (ma può arrivare anche a 40, anche se con rese inferiori). Le foglie possono essere raccolte anche più di 3 o 4 volte all' anno. In Bolivia una tonnelata di foglie secche può valere un milione e mezzo di lire, in Perù anche più di due milioni, con punte di 4. Per quella povera gente vuol dire non morire di fame. A differenza del cacao, té o caffè, che richiedono sementi di qualità, concimi, antiparassitari e assistenza tecnica, la coca vegeta anche sui pendii più inaccessibili e nascosti degli altipiani, su terreni ingrati, strappati alla foresta. A lei possono ricorrere anche ipiù poveri e sprovveduti dal punto di vista agricolo. Nel ' 700 gli olandesi cercarono (con successo) di sfruttare la straordinaria capacità di adattamento della pianta introducendola a Ceylon, Madras, nella penisola della Malacca e in Indonesia. Verso il 1870 il celebre Royal Botanic Garden di Kew ne distribuì gli esemplari nei Paesi tropicali dell' Impero britannico. Per sradicare le piantagioni, è indispensabile l' aiuto dei Paesi industrializzati. Nell' 89, all' assemblea generale dell' Onu, il presidente boliviano ha messo il dito sulla piaga: «Non posso avere la faccia tosta di dire all' agricoltore che deve cambiare la sua coltura, che gli offre un determinato profitto, per un' altra coltura che rende meno e lo pone nell' incertezza di non sapere dove venderà la produzione, poiché nessun mercato internazionle è disposto ad aprirsi a tale coltura alternativa. Il narcotraffico è inseparabile dalla disoccupazione, dalla crisi economica, dalla povertà ». In Perù, ad esempio, nel 1990 il caffè «arabica» veniva pagato meno di 30 centesimi al chilo. Passando da un intermediario all' altro, veniva infine rivenduto sul mercato di La Paz a un prezzo cinque volte superiore. Ma quando anche tutte queste difficoltà venissero superate, non bisogna dimenticare che i coltivatori spesso sono solo delle vittime, condannate a scegliere fra la propria vita e la coltivazione della coca. Il tutto, cme abbiamo detto, «per un pugno di dollari»: a New York un chilo di coca costa 18 milioni di lire e in Giappone anche 10 volte tanto. In Perù un chilo di coca base non supera il milione e mezzo. E' stato calcolato che se il coltivatore boliviano ricava 1, il cocainomane spende 500. In Colombia, intanto, i re della coca continuano a comprare migliaia di ettari di terreno: il Paese sembra sempre più un loro ostaggio, un' enorme piantagione di caffè riconvertita alla produzione di coca. Carlo Grande


ASSUEFAZIONE Gli esperimenti rivelano una predisposizione genetica alla tossicodipendenza
Autore: STRATA PIERGIORGIO

ARGOMENTI: GENETICA, DROGA, RICERCA SCIENTIFICA, BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 061

DA secoli l' uomo usa ingerire, inalare e iniettarsi vari tipi di sostanze chimiche per alterare il suo stato psichico. Per molti questa abitudine riguarda sostanze dette «leggere» e spesso risulta limitata e reversibile, mentre altri passano purtroppo all' abuso, spesso con conseguenze drammatiche per l' organismo. La biologia della dipendenza riguarda il cervello. Le domande cui siamo chiamati a rispondere sono diverse: se esista una predisposizione genetica alla tossico dipendenza, quale sia l' influenza dell' ambiente e quali strategie si debbano adottare per prevenirla e curarla. Un certo grado di predisposizione genetica è stata dimostrata in diversi esperimenti. Nei ratti si sono potuti selezionare ceppi che risultano avere una predilezione verso l' assunzione di alcol (ratti bevitori). Nell' uomo si è dimostrato che l' abuso di alcol è percentualmente più elevato nei familiari di primo grado di soggetti dediti all' alcolismo. Ciò si verifica anche nei figli di genitori alcolizzati adottati e cresciuti in famiglie normali. Almeno per l' alcolismo, dunque, la dipendenza ha un substrato biologico trasmesso per via genetica. Studi più recenti indicano una simile predisposizione anche per gli stupefacenti. Inoltre si ritiene che la predisposizione all' alcolismo sia presente negli stessi soggetti che tendono ad assumere droghe. E' possibile che esista un substrato biologico comune che predispone alla dipendenza forse non soltanto nei riguardi delle sostanze, ma anche dei comportamenti. Il substrato biologico della dipendenza è stato ben studiato da diversi anni per quanto riguarda i derivati dell' oppio Nel nostro organismo esiste un sistema oppioide, codificato da geni specifici, costituito da peptidi come le encefaline e le endorfine. Questi peptidi agiscono sulla comunicazione fra le cellule nervose legandosi a proteine recettrici specifiche. A questi recettori si legano anche sostanze come la morfina e l' eroina. Più recentemente sono stati identificati altri sistemi per droghe come la fenciclidina (la «polvere degli angeli» ), la cocaina, l' amfetamina, la marijuana, l' hashish e l' alcol: tutte queste sostanze agiscono su strutture ben precise del nostro cervello. E' possibile che l' ereditarietà biologica della farmaco dipendenza possa dipendere dalla diversa struttura di questi sistemi nei vari individui. Tuttavia, è anche possibile che la dipendenza sia correlata ad altri substrati biologici del nostro cervello, che riguardano i sistemi alla base dei processi di motivazione. Esiste una convergenza di opinioni anche sul ruolo del contesto sociale nello sviluppo della tossico dipendenza. L' assunzione di droga può diventare uno stimolo condizionato legato all' ambiente nel quale l' individuo si trova. Si stanno moltiplicando gli sforzi per finanziare progetti per lo studio del funzionamento del sistema nervoso nell' ambito del «Decennio del Cervello» iniziato nel 1990. Anche l' Italia ha aderito a questa iniziativa internazionale. Come prima risposta, il ministro Ruberti ha varato un «Programma nazionale» su «Sistemi neurobiologici» che prevede un impegno di 107, 7 miliardi nei prossimi 3 anni. Una parte predominante di questo programma riguarda proprio lo studio dei recettori delle cellule nervose dal quale dipende una conoscenza essenziale per lo studio e il trattamento delle malattie del sistema nervoso. Piergiorgio Strata Università di Torino


IL 1 MAGGIO VISTO DALLO PSICOLOGO Dimmi perché lavori e ti dirò chi sei Il modo di lavorare, indicatore di salute mentale
Autore: BLANDINO GIORGIO

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, LAVORO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 061

UNA storiella buona per la festa del 1 maggio. A tre spaccapietre fu chiesto cosa facevano. Il primo rispose: spacco le pietre; il secondo disse: mi procaccio il cibo per i miei figli; il terzo affermò: contribuisco alla costruzione di una cattedrale per la maggiore gloria di Dio. La storiella suggerisce bene come, secondo il significato che attribuiamo al lavoro, la motivazione e il modo di lavorare cambino totalmente: quanto più alto è il significato che diamo a ciò che facciamo, tanto maggiore sarà la motivazione a farlo. E' quindi istruttivo prestare attenzione ai significati che diamo al lavoro perché il modo di lavorare dipende non solo da fattori esterni ad esempio la retribuzione ma in larga misura da come lo si vive. Per qualcuno conta solo lo stipendio a fine mese o il famigerato «posto»: costoro vivono il lavoro come mero mezzo di sussistenza. Per altri il lavoro può essere occasione di emancipazione o di riscatto e questo era un po' il significato che anni fa le donne davano al lavoro extradomestico. Per un giovane (e molti dati lo confermano) il lavoro ricercato è quello che non solo dà vantaggi economici ma che soprattutto rappresenta un' occasione per crescere professionalmente e realizzarsi. Per uno che abbia capacità creative il lavoro avrà una dimensione generativa, ovvero sarà una occasione per far nascere qualcosa o trasformarla in modo originale. Alcuni vedono nel lavoro la possibilità di aiutare e fare qualcosa per i propri simili, ossia sono spinti da una motivazione altruistica, ma altri si servono del lavoro per ottenere potere. Il lavoro dunque può essere vissuto come una pena, nel senso biblico della maledizione dell' uomo, e quindi come una espiazione, ma anche come un dovere/valore; come un gioco o un divertimento; come un impegno totalizzante o un semplice strumento. Le aspettative che ci facciamo sul lavoro possono nascere dall' esperienza infantile, cioè dall' immagine che i nostri genitori ce ne hanno dato e dal modo in cui lo vivevano: come un' ossessione, un piacere, un' attività normale o insopportabile. Nella costruzione della nostra immagine del lavoro sono state determinanti anche le esperienze scolastiche in cui per la prima volta nella nostra vita dovevamo «fare» qualcosa, cioè lo studio e i compiti, e per questo dovevamo assumerci le nostre responsabilità e venivamo valutati. Ci sono poi da mettere in conto i rapporti che abbiamo avuto con gruppi quali le comunità giovanili, le associazioni sportive o per il tempo libero, i gruppi religiosi o politici, anche semplici gruppi di amici. Infine, le esperienze lavorative vere e proprie, per esempio il tipo di cultura nel quale si è inseriti, i capi che si hanno o si sono avuti, il clima organizzativo che si respira, le mansioni ricoperte e i sistemi di valutazione. Ma il lavoro non si ferma solo a questi aspetti, coinvolge dimensioni ancora più profonde della nostra mente: le emozioni, le fantasie inconsce, le angosce primarie mobilitate tanto dal lavoro dipendente quanto da quello creativo. L' editore Bollati Boringhieri ha, molto opportunamente, ristampato il libro del grande psicoanalista inglese Jaques «Lavoro, creatività e giustizia sociale», un classico ormai, che illustra le concezioni più avanzate sul lavoro visto nei suoi significati più profondi. Jaques attribuisce al lavoro una serie di fondamentali significati per l' uomo: oltre a soddisfare le necessità vitali di sussistenza, ha una funzione adattativa nei confronti dell' ambiente, e una funzione autovalutativa, cioè attraverso il lavoro noi possiamo misurare le nostre capacità, esercitare il nostro giudizio e quindi se lo vogliamo misurare anche il nostro valore. Il lavoro porta inevitabilmente a confrontarsi con il problema centrale della responsabilità, che naturalmente può anche essere evitata, come mostrano innumerevoli esempi quotidiani, ma che comunque resta uno dei punti nodali per il buon funzionamento delle moderne organizzazioni sociali e per l' evoluzione di un management che non sia solo orientato allo sfruttamento altrui camuffato da «capacità decisoria». Il lavoro inoltre ci obbliga a raggiungere risultati concreti e ci mette duramente a confronto con la realtà, tant' è vero che quando una persona ha dei disturbi mentali non riesce neppure a lavorare in modo adeguato, come ricordava anche Freud quando individuò nella capacità di amare e lavorare i due criteri fondamentali per qualificare la salute mentale. Quindi il lavoro è l' occasione per eccellenza per mettere continuamente alla prova (e correggerla, in una personalità sana) la percezione soggettiva della realtà, con la realtà stessa e soprattutto dà la misura precisa di quanto c' è di sano in noi e quanto di patologico. E come si può vedere, il lavoro non è solo lo strumento per guadagnarsi il pane ma anche un preciso strumento per la conoscenza di sè e quindi possiamo ben a ragione affermare: «Dimmi come lavori e ti dirò chi sei», ben sapendo che un lavoro creativo e soddisfacente è possibile solo là dove si sia raggiunta la maturità emotiva. Purtroppo però nella società contemporanea l' organizzazione del lavoro non è pensata per promuovere l' equilibrio mentale ma, come ricorda Jaques, «anziché rafforzare i processi mentali normali, contribuisce al rafforzamento dei processi psicopatologici e all' esplosione della violenza», mettendo in moto avidità, invidia e spesso gli aspetti più distruttivi della mente. Giorgio Blandino


LA REALTA' VIRTUALE Ti tocco, ti sento, ma non esisti Un guanto con sensori, un casco con due minitelevisori e un computer così nasce un mondo artificiale al confine fra tecnologia e allucinazione
Autore: INFANTE CARLO

ARGOMENTI: OTTICA E FOTOGRAFIA, TECNOLOGIA, ELETTRONICA
NOMI: LANIER JARON, LEARY TIMOTHY, GIBSON WILLIAM
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 062. Realtà artificiali

C' E' chi le annuncia come la più grande innovazione dopo la rivoluzione industriale. Sono le Realtà Virtuali, una tecnologia che permette d' interagire con gli scenari grafici di un computer nell' illusione di «abitarli». Sì, di essere dentro uno spazio che non esiste se non nella memoria di un calcolatore. Esiste un modo per dare un' idea abbastanza precisa dell' esperienza con le Realtà Virtuali. E' l' attraversamento dello «Specchio di Alice», la creatura di Lewis Carroll. Si tratta di un vero e proprio salto di dimensione reso possibile da un' apparecchiatura composta in primo luogo da un «casco stereoscopico» (Head Mounted Display) che attraverso due piccoli schermi a cristalli liquidi posti davanti a ciascun occhio trasmettono una visione tridimensionale, con un forte senso di profondità reso dal fatto che le immagini trasmesse sono due, una per occhio, fattore che determina la «stereoscopia». L' impianto visivo è collegato a un «sensore posizionale» che in base ai movimenti della testa stabilisce i punti di vista: alzando gli occhi si vedrà in alto; se lo scenario grafico ci presenta una stanza ne vedremo quindi il soffitto, e così via. Con un particolare «guanto» (Data Glove) innervato di fibre ottiche collegate al computer si potrà interagire in tempo reale con l' immagine che stiamo vedendo, «toccando» le cose presenti nello spazio virtuale. Con un sistema brevettato dall' inglese W. Industries, il Virtuality, si può avere l' illusione tattile del contatto con gli oggetti afferrati virtualmente. Tramite un sistema di pompettine idrauliche, al momento del contatto della nostra mano ricreata in una forma grafica molto stilizzata, con un' altra immagine scatterà una reazione che ci darà la sensazione di toccare qualcosa, persino di afferrarla. Provare per credere. Noi abbiamo provato e ci abbiamo creduto. Chi vuole può prenotarsi per qualche giro nel «cyberspazio» alla Triennale di Milano, dove la R& C Elgra, distributrice del Virtuality per l' Italia, espone il sistema. Una presentazione di queste Realtà Virtuali è anche nel programma del Salone dell' Auto al Lingotto, a Torino. Chi volesse poi mettere a confronto questo sistema inglese con quello americano dei californiani della Vpl (distribuiti dalla Ars) potrà andare a Padova, dove fino al 3 maggio verranno presentate le diverse tecnologie in un contesto di riflessione teorica curato da Antonio Caronia, uno dei primi in Italia a parlare di Realtà Virtuali. Da noi di Realtà Virtuali si incominciò a parlare in un convegno del novembre 1990 a Venezia: vi parteciparono gli inventori di questa tecnologia, tra cui il californiano Jaron Lanier, e i suoi «ideologi» , come il grande vecchio della «beat generation» Timothy Leary e il profeta della letteratura «cyberpunk» William Gibson. Le Realtà Virtuali sono oggi oggetto di studio universitario, come è stato al convegno promosso al Politecnico di Milano presso la Facoltà di Architettura dove assieme ai vari interventi teorici, tra cui quello di Derrick De Kerckhove, direttore del McLuhan Program dell' Università di Toronto, è stato presentato un nuovo sistema, il Provision. Commercializzata dalla Atma, questa apparecchiatura tende a utilizzare gli altri sistemi già esistenti come il casco della Vpl. L' accelerazione tecnologica ci offrirà sicuramente altre sorprese, sviluppi ulteriori di questa ricerca che in fondo possiede già una sua tradizione: da vent' anni Milton Krueger parla d' interattività tra l' uomo e gli scenari artificiali del computer. Un' occasione di approfondimento è offerta dal suo libro appena pubblicato dalla Addison Wesley, «La Realtà Artificiale», un «atlante» per orientarsi in questi viaggi ai confini della realtà. Carlo Infante


ANNUNCIO IN USA Una colonia di microbi può diventare la memoria del computer del futuro
Autore: SCARUFFI PIERO

ARGOMENTI: INFORMATICA, RICERCA SCIENTIFICA, BIOLOGIA
NOMI: BIRGE ROBERT
ORGANIZZAZIONI: RAM
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 062

CHI atterra all' aeroporto di San Francisco nota lungo il bordo della baia vaste chiazze violacee. Sono sedimenti di Halobacterium halobium, un organismo microscopico che vive nelle paludi salate di quasi tutto il mondo. La proprietà più singolare di questo organismo è che è dotato di due «vite»: può funzionare sia come animale, respirando l' ossigeno dell' aria, sia come vegetale, fotosintetizzando la luce del Sole. A seconda delle circostanze in cui si trova, il batterio sceglie la «vita» che meglio gli assicura la sopravvivenza. Quando un raggio di sole colpisce il batterio, una sua proteina cambia forma ed emette una carica elettrica. Di fatto si comporta come un interruttore che può essere acceso o spento dalla luce. Questo «interruttore ottico» è l' ultimo ritrovato della grande corsa a costruire computer sempre più ridotti in dimensioni e sempre più veloci. I ricercatori della Syracuse University (vicino a New York) hanno usato questo tipo di «materiale» vivente invece del casuale silicio per costruire una Ram. La Ram (memoria ad accesso casuale) è la memoria temporanea che usano i computer per eseguire i loro calcoli ed è quella che determina tanto le loro capacità quanto la loro velocità. La Ram della Syracuse University è tridimensionale, invece che bidimensionale come quelle usate nei computer di oggi, e ciò significa un aumento di capacità di circa diecimila volte] Non è la prma volta che si parla di «interruttori biologici», ma è la prima volta che qualcuno riesce a costruire una Ram. L' Ibm detiene tuttora il brevetto per questo tipo di tecnologia (depositato esattamente dieci anni fa), ma non è riuscito a realizzare nulla che possa essere inserito in un computer. In realtà questa Ram assomiglia a tutto fuorché a un pezzo di computer. Si tratta infatti di una vaschetta di cinque centimetri cubi contenente il fenomenale batterio (circa tremila miliardi di molecole di quella proteina). Robert Birge, l' inventore, la bombarda con due raggi laser; il punto in cui i due raggi laser si incontrano (ovvero dove collidono i due fotoni) è la molecola che cambia stato ed emette la carica elettrica. Quella carica elettrica viene poi convogliata con un normale filo elettrico al computer. Se risolve il problema di come inviare il segnale elettrico al computer, Birge potrà realizzare memorie dalla velocità strepitosa (due/tre volte quelle delle Ram attuali), ma soprattutto supercompatte: quella vaschetta di cinque centimetri cubi è già l' equivalente di 20 miliardi di byte, ma in teoria la biologia consentirebbe di arrivare a una densità equivalente a ben 500 miliardi di byte] Le Ram impiegate dai grandi computer di oggi raramente superano i cento milioni di byte... Non è chiaro invece quale potrebbe essere il prezzo di questi computer, poiché da un lato la materia prima è gratis (gruppi ecologisti permettendo), ma quanto costerà connetterla ai circuiti del computer è ancora un mistero. Un altro problema non trascurabile è che oggi un tale Ram «a batteri» può funzionare soltanto a parecchi gradi sotto zero: non sono molti gli informatici disposti a lavorare dentro una cella frigorifera. Piero Scaruffi


L' ESPERIMENTO DI DAVY DEL 1814 L' uomo che bruciava i diamanti Firenze lo ricorda nel Chemistry Day
AUTORE: MANZELLI PAOLO
ARGOMENTI: CHIMICA, STORIA DELLA SCIENZA, RICERCA SCIENTIFICA
PERSONE: DAVY HUMPRY
NOMI: DAVY HUMPRY
LUOGHI: ITALIA, FIRENZE
NOTE: 062

NELL' aprile del 1814 al Museo di fisica e storia naturale di Firenze il chimico inglese Humpry Davy (1778 1828), venuto in Italia accompagnato dal suo assistente Michael Faraday, dimostrò, mediante la combustione, che il diamante è uno stato di aggregazione del carbonio e quindi che carbone e diamante sono formati da una stessa sostanza chimica. Per provocare la combustione concentrando i raggi del sole furono usate le lenti galileiane del Gabinetto di storia naturale di Firenze. Circa quarant' anni prima Guyton aveva dimostrato che il carbone e le sostanze carbonacee, se bruciate, producono anidride carbonica. Nel 1786 Tennant bruciò un diamante e per la prima volta misurò la quantità di anidride carbonica prodotta nella combustione. Al tempo delle esperienze di Davy si era già molto avanti nel provare la natura comune del diamante e del carbone: esse ne furono la conferma definitiva. Davy aveva stabilito in base a tutta una serie di esperienze precedenti come l' ignizione di una piccola quantità di scaglie di diamante avvenisse in tempi rapidissimi, se realizzata ponendo il diamante entro capsule di platino preriscaldate, che venivano messe nel fuoco di una lente ustoria. Tramite l' esclusiva azione solare sul diamante invece sarebbero state necessarie alcune ore. Dal chimico inglese furono realizzati a Firenze tre esperimenti. Davy li descrive minuziosamente (ricordiamo che il diamante ha il suo punto di fusione a 4000 gradi centigradi): «La luce si mantiene a lungo, è di un rosso così brillante, tanto da essere visibile nella luce solare abbagliante e il calore prodotto è così grande... ». Il calore infatti era così forte da fondere il sottile filo di platino (punto di fusione 1772 C) usato per sostenere le scaglie di diamante nel fuoco della lente. In ognuno dei tre esperimenti furono riutilizzati gli stessi frammenti; dopo aver spento la fiamma, vennero rimessi più volte nel punto focale della lente. Davy notò che a ogni esposizione diminuiva la lucentezza dei minerali e anche lo splendore della combustione. Già dopo la prima combustione era possibile rilevare la diminuzione di peso del diamante. Dove era andata a finire la parte mancante? Era stata esalata come gas, che veniva prontamente prelevato dalla capsula con una pompa e analizzato. Gas che si rivelò anidride carbonica. Inoltre durante la combustione il diamante diveniva gradualmente scuro e Davy in un primo tempo ritenne che questo fenomeno fosse un' importante osservazione sulla base della quale era possibile ipotizzare che i successivi annerimenti fossero conseguenza di variazioni di piccole porzioni di metalli alcalini o di terre rare oppure di idrogeno, incluse nel cristallo. Perciò in un primo tempo Davy tentò di attribuire a tali impurezze la grande differenza delle proprietà fisiche del carbone e del diamante. Ma con il procedere degli esperimenti si rese conto che il nero che opacizzava non era nient' altro che polvere di carbone. Quindi arrivò a concludere che l' unica spiegazione possibile di quella così appariscente differenza delle proprietà fisiche fosse imputabile alla diversa disposizione degli atomi di carbonio e cioè ai diversi sistemi di cristallizzazione. L' episodio di Firenze è importante perché fece giustizia di convinzioni radicate, legate ad una cultura alchemico magica, come quella che il diamante fosse inalterabile e con caratteristiche sovrannaturali. Esso, poi, indica come la divulgazione della scienza appartenga a una tradizione di Firenze. Riscoprendo questa tradizione, il Laboratorio di Ricerca Educativa dell' Università di Firenze ha promosso la manifestazione «Chemistry Day», che si svolgerà all' Università di Firenze durante la settimana della cultura scientifica in Italia. Paolo Manzelli Università di Firenze


RIVOLUZIONE TECNOLOGICA Dall' acciaio liquido al prodotto finito A Terni un sistema che evita la laminazione
Autore: PAPULI GINO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA, TERNI
NOTE: 062

NONOSTANTE la messa a punto di materiali nuovi, l' acciaio resta alla base dell' economia di tutti i Paesi industrializzati e la sua tecnologia registra continui perfezionamenti che riguardano sia composizione e caratteristiche fisiche delle leghe, sia i sistemi di produzione. Su questi ultimi si sta lavorando per passare direttamente dall' acciaio liquido al prodotto finito. Nel ciclo tradizionale, l' acciaio viene colato in lingotti, i quali sono sottoposti a una complicata serie di trasformazioni plastiche a caldo e a freddo sotto i cilindri di grossi «treni di laminazione» sino a ottenere elementi «piani» o «lunghi» (nastri, lamiere, profilati, barre, fili) destinati agli usi più vari: dalle automobili agli elettrodomestici, dai ponti ai grattacieli. Negli Anni 50 fu messo a punto il processo di «colaggio continuo» che consiste nel far discendere senza interruzioni l' acciaio liquido attraverso «lingottiere senza fondo». Nel passaggio il metallo solidifica in barre o in bramme, eliminando le fasi di lingotto e di laminazione primaria. La tendenza attuale, per i prodotti piani, è quella di saltare anche la laminazione secondaria facendo solidificare rapidamente l' acciaio in spessori molto sottili. Tra i programmi di ricerca che, nel mondo, si prefiggono la risoluzione di questo problema, quello condotto dalla Ilva assieme al Csm (Centro sviluppo materiali) ha già ottenuto risultati industriali utilizzando un impianto installato allo stabilimento di Terni, che produce nastri di acciai speciali (in particolare inossidabili e al silicio) con larghezza di 750 millimetri e spessori da 10 a 2. Si tratta, dunque, di «nastri colati» che possono essere impiegati tali e quali o essere sottoposti ad una semplice laminazione a freddo per divenire ancora più sottili. Il processo si realizza facendo scendere l' acciaio liquido tra due cilindri paralleli di grosso diametro (1, 5 metri) raffreddati ad acqua e controrotanti, nella cui linea di massima vicinanza il liquido passa allo stato solido ed esce sotto forma di nastro sottile che viene avvolto in bobine. Tutti i parametri del processo, dal flusso di acciaio che scende dalla siviera alla velocità di rotazione dei cilindri sono controllati da un computer. Con questa tecnica si ottengono molti vantaggi: ridotto costo ed ingombro dell' impianto, poca manodopera modesti tempi di produzione, migliore qualità del prodotto (dovuta principalmente al rapido processo di solidificazione e raffreddamento), limitato consumo di energia. Sono, come è facile arguire, vantaggi molto consistenti sul piano economico poiché rappresentano un risparmio del 50 per cento rispetto al ciclo tradizionale e fanno del «colaggio continuo del nastro» una tecnologia vincente. Gino Papuli


PAVONE Bello, dunque sano L' armoniosa simmetria e l' iridescenza degli occhi nella grande ruota sarebbero un messaggio in codice di fitness per le possibili partner
Autore: D' UDINE BRUNO

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 063

LA ruota del pavone, con la sua varietà di forme e sfumature colorate, è l' esempio classico di una stravagante caratteristica sessuale secondaria maschile. Darwin suggerì che lo sviluppo di questo elaborato piumaggio fosse determinato dalle scelte delle femmine. L' evoluzione della ruota potrebbe avere due spiegazioni che non si escludono a vicenda. La prima è che la ruota possa giocare un ruolo nella competizione tra i maschi; la seconda che le femmine scelgano alcuni aspetti morfologici della ruota come comunicazioni significative sulla condizione del potenziale partner La ruota è formata da tre tipi di piumaggi: le piume più lunghe, che terminano in una struttura finale a forma di coda di pesce; quelle ricurve, che formano la parte bassa della ruota quando questa si apre; le penne, che presentano un occhio o ocello e che con magiche iridescenze attraggono e stupiscono l' occhio dell' osservatore. Il numero degli ocelli varia da 110 a 170. Con l' aprire la ruota e il disporsi frontalmente, il maschio si offre in tutto il suo splendore con gli ocelli bene in vista. Questi vistosi segnali si ritiene siano l' elemento determinante per la scelta della femmina. Uno studio recente ci indica però che un' altra più sottile caratteristica, apparentemente secondaria, collegata agli ocelli, possa essere la vera chiave percettiva determinante. Questo dato ci riporta al problema più generale degli ornamenti maschili, ad esempio le code negli uccelli e le corna nei mammiferi come elaborato prodotto di una selezione naturale. Ipotizzando che in generale le femmine preferiscano i maschi sulla base della imponenza dei loro ornamenti, lo sviluppo di questi si troverà probabilmente al limite fisiologico del mantenimento e della produzione. Ci si deve quindi chiedere quali meccanismi mettano un limite all' ampiezza degli ornamenti di un animale, dato che il possederne di grandi proporzioni è così utile. Se gli ornamenti sono una buona pubblicità alle qualità del maschio, una espressione differenziale di tali tratti risulterà dall' ottimizzazione tra i loro costi per la vitalità del maschio e i benefici del suo successo riproduttivo. Sia i costi che i benefici degli ornamenti sono funzioni positive del livello di pubblicità. Vestirsi di colori e piume sgargianti, o portare vistose corna, è più oneroso per maschi di bassa qualità, essendo anche facilmente controllabile l' eventuale inganno, rispetto a quelli di maggiori risorse forniti di migliori potenzialità genetiche e favoriti da queste nella più agevole interazione con l' ambiente durante lo sviluppo. La qualità e l' armonia simmetrica degli ornamenti possono quindi guidare le femmine non solo a identificare a prima vista il maschio più elegante e, per associazione, più idoneo ma anche probabilmente a leggere, attraverso l' equilibrato o sbilanciato sviluppo degli ornamenti, la storia della buona o cattiva sorte di ogni maschio lungo il percorso del suo sviluppo fino alla maturità sessuale. In termini generali, i biologi ritengono che i caratteri fisici dell' individuo che derivano dal progetto codificato nei suoi geni debbono esprimere, durante lo sviluppo, la qualità ottimale della simmetria. Infatti se un animale si sviluppa in un ambiente perturbato o a tratti a lui ostile può accadere che lo sviluppo di alcuni caratteri morfologici devii da una ideale sottile linea di equilibrio e armonia e che, come conseguenza, alcune parti del corpo divengano più o meno marcatamente asimmetriche. In questi casi ci si trova davanti a una condizione chiamata asimmetria fluttuante che testimonia, nella sua maggiore o minore ampiezza, un fallimento dello sviluppo armonico. Si evidenzia così l' incapacità del soggetto in crescita a sapere o poter tamponare le perturbazioni ambientali a cui va incontro nel suo procedere lungo la traiettoria dello sviluppo. La disarmonia di un tratto, più che semplicemente fallire un canone estetico di equilibrio e armonia, sarebbe pertanto la subdola denuncia di una passata vulnerabilità. Paradossalmente, in natura si può verificare che un animale amplifichi l' asimmetria senza cercare di nasconderla ma volendo così segnalare, alla potenziale partner, la sua capacità di successivo recupero su condizioni inizialmente avverse e proporsi quindi, nella sua condizione attuale, come uno strenuo ed efficiente lottatore per la riproduzione, un competitore di più simmetrici rivali. Questa strategia verrebbe adottata da maschi di qualità inferiore che, investendo maggiormente nella pubblicità di un carattere sessuale secondario, anche se manifestamente disequilibrato, riuscirebbero comunque a superare, con questo stratagemma, la soglia riproduttiva. Nelle rondini maschio, ad esempio, si è visto che si possono sviluppare code vistose con asimmetrie rilevanti e con notevoli costi in termini di fitness, in quanto durante le manovre del volo l' asimmetria può influenzare l' abilità degli individui a evadere la cattura o a procurarsi il cibo. Da queste storie di percorsi di sviluppo evolutivo sembrano dunque emergere, nelle rondini e nei pavoni, sottili regole di armoniosa simmetria non come espressione di un modulo estetico appagante ma come messaggio in codice, per il potenziale partner, di idoneità, segnale ultimo di chiarezza evolutiva nelle ambiguità che circondano i fenomeni della comunicazione. In natura le parate sessuali dei maschi di pavone avvengono spesso tra gruppi di maschi piuttosto numerosi su territori ristretti, con animali quasi allineati di fronte alla femmina. La parata è accompagnata anche, nell' aprirsi ritmico delle penne nella ruota, da un caratteristico fruscio che avrà una intensità variabile ma ben percettibile in ruote di differente simmetria. Per il successo riproduttivo suo e della sua futura prole, la femmina dovrà quindi simultaneamente apprezzare la maestosità delle penne che dispiegano ocelli iridescenti ma anche decifrare compositi e sottili messaggi nei loro armoniosi e simmetrici significati. Bruno D' Udine Università di Parma


FORMA & INTELLIGENZA Virus, enzimi, anticorpi: nel disegno della superficie il segreto della funzione
Autore: QUATTRONE ALESSANDRO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 063

IMMAGINIAMO un cannocchiale che, puntato verso la luna in una notte tersa, riuscisse a inquadrare un lembo di una bandiera americana abbandonata in qualcuna delle missioni Apollo e, senza troppo sforzo, riconoscesse il tessuto di cui è fatta esaminandone la trama. Questo mirabolante cannocchiale già esiste, ma rovesciato: anziché contro l' orizzonte esterno è puntato verso quello interno, e anziché esplorare il profilo dei corpi celesti scandaglia, con occhio ormai acutissimo, le forme non meno stupefacenti celate nell' intima struttura di altri corpi, quelli viventi. Ancora ai tempi di Pasteur tempi non poi remoti il glorioso microscopio ottico consentiva di vedere corpi di un millesimo di millimetro; i microscopi di oggi elettronici, a scansione, a effetto tunnel hanno spostato di mille, diecimila volte la frontiera di allora, e sfiorano le più piccole molecole. Ma «vedere», oggi come allora, significa essenzialmente percepire; cogliere il tratto d' insieme, la fisionomia. Esiste un altro strumento, più potente: si chiama diffratometria a raggi X, è in uso da vari decenni e consente non già di vedere gli oggetti ma di descriverli, scomponendoli in una ragnatela di informazioni semplici, i diffrattogrammi, che la grafica al computer è in grado di ricomporre tornando all' immagine: immagine virtuale, ma più precisa, più definita, più «fisica». E', questo, il cannocchiale mirabolante, che consente d' ispezionare ormai spazi al sotto del milionesimo di millimetro e che ha recentemente caratterizzato la struttura di un piccolo virus, Polioma. Ne sono uscite figure straordinarie per purezza d' informazione e ricchezza di dettaglio, una vera tavola anatomica, attendibile e fedele, della particella virale. Ma perché, in fondo, tutto ciò ? Perché tanti gruppi di ricerca profondono sforzi cospicui per «descrivere» ciò che il più avanzato microscopio vedrebbe appena, producendo ritratti iperrealisti di proteine o di aggregati di proteine quali gli involucri dei virus? Il quesito è tutt' altro che ozioso, e la risposta non si esaurisce nella vaga affermazione del valore intrinseco di ogni dato conoscitivo, quale che esso sia. Nel 1917 uno zoologo scozzese dalla sterminata erudizione scrisse un libro, intitolato «Crescita e forma», rimasto un classico insuperato. In esso D' Arcy Wentworth Thompson chiaramente mostrava come gli organismi realizzino la propria specifica funzione vitale affidandosi alla forma, appunto, e alle dimensioni, in un rapporto fra le parti prima spaziale e poi, per ciò stesso, funzionale. L' indagine biochimica successiva ha precisato ed esteso questo concetto all' ambito molecolare. A differenza dei corpi inanimati, la cui struttura ovviamente non ha alcun significato operativo, gli esseri viventi, nelle molecole che li compongono, esprimono la loro attività modellando all' uopo la struttura. Se l' informazione è immagazzinata nella cellula in modo unidimensionale, nel nastro lunghissimo del Dna, le proteine, che rappresentano l' informazione resa atto e che sono appunto assemblate seguendo le istruzioni impartite dal Dna, sono già costrutti tridimensionali, pure forme, e tutto il loro senso sta nel come sono fatte risiede, direbbe un biologo, nella loro topologia. L' intelligenza degli enzimi, degli anticorpi, dei componenti le matrici strutturali della cellula è nelle concavità, convessità, nei complessi disegni mai uguali della loro superficie e nelle proprietà di discriminazione e riconoscimento che siffatta superficie consente: l' in formazione del vivente è dunque proprio una messa in forma, la generazione di una possibilità spaziale. Ecco allora che il cerchio si chiude e appare chiaro perché ci si ostini a voler disegnare i profili, sempre più netti, delle molecole: si cerca così di giungere al loro compito, alla loro strategia operativa, talora riuscendoci davvero. Il virus Polioma adesso è lì, con il nostro cannocchiale puntato, e pare suggerire che anche per lui la verità si situi nel dettaglio. Lo interroghiamo, osservandone le volute eleganti: dimmi come sei fatto, e ti dirò chi sei. Alessandro Quattrone


SPECIE IN PERICOLO Le rane del Madagascar sopravvivono a stento ai tagli delle foreste fluviali
Autore: ANDREONE FRANCO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ECOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ESTERO, MADAGASCAR
NOTE: 063

IL Madagascar, per la ricchezza di animali e piante che lo popolano e che non si trovano altrove, viene spesso descritto come una terra promessa per i naturalisti. Il rapido tasso di deforestazione rappresenta però un serio problema a cui occorre porre rimedio, se si vuole evitare che animali, piante e interi ambienti scompaiano nel giro di pochi anni. Alcuni gruppi zoologici, come i lemuri e gli uccelli, sono ben studiati e conosciuti, mentre poco si conosce dell' effetto di alterazione ambientale e deforestazione sulla distribuzione e sull' abbondanza di animali meno noti, come gli anfibi. Si tratta peraltro di vertebrati molto ben rappresentati in Madagascar, essendo descritte oltre 130 specie, gran parte delle quali esclusive delle sue foreste pluviali. Per studiare le conseguenze della deforestazione sulle popolazioni di questi animali, spesso ritenuti ottimi indicatori biologici, la Società Zoologica «La Torbiera», di Agrate Conturbia (Novara), in collaborazione con il governo del Madagascar, ha appoggiato una spedizione nella foresta di Ranomafana, un Parco Nazionale di recente costituzione, situato nel Madagascar centro orientale. Le specie presenti sono state innanzitutto censite, poi si è fatto un confronto tra la ricchezza delle aree intatte e quella di aree alterate. Sono state così identificate circa quaranta specie di rane e, come si attendeva, è risultato che proprio nel cuore della foresta può essere osservata la maggior ricchezza biologica. Questi anfibi sono in genere assai specializzati e vulnerabili, in particolare le rane terricole del genere Mantella, di cui è molto nota M. aurantiaca, dalla colorazione totalmente rossa, o come M. madagascariensis, nera lucente con macchie giallo verdi all' attaccatura delle zampe. Spesso le popolazioni di queste specie sono molte piccole e occupano limitati territori. Dove invece la foresta è ormai alterata, compaiono specie più adattabili, che già originariamente ricercano aree aperte: Scaphiophryne marmorata, dalla forma sferoidale e dalla colorazione verde marmorizzata, o Mantidactylus liber, specie arboricola che depone le uova in ammassi spumosi su foglie di piante terrestri e palustri. Più in là, dove la foresta è sostituita da risaie e insediamenti umani, il numero di specie si riduce drasticamente. Restano praticamente solo Ptychadena mascareniensis, simile per forma e colorazione alle nostre comuni rane verdi, o Boophis viridis, una raganella molto adattabile che ancora sopravvive nei pressi della capitale, Antananarivo. Benché questi studi necessitino ancora di ulteriori verifiche, sembra assodato che l' alterazione della foresta pluviale sarà presto accompagnata dalla scomparsa di intere specie di Anfibi della cui biologia e distribuzione si conosce ancora poco. Ma l' unicità della fauna malgascia è tale da meritare un interesse prioritario e un serio progetto di salvaguardia dell' ambiente naturale. Franco Andreone Museo regionale di Scienze Naturali, Torino


TUMORI DELLA PELLE I nei, grani di bellezza a rischio Macchina d' avanguardia per diagnosi precise
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: CASCINELLI NATALE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 063

LA certezza di una diagnosi è già un passo verso la guarigione. A supporto dell' esperienza del dermatologo, all' Istituto dei Tumori di Milano è stato messo a punto un prototipo di computer per riconoscere se un melanoma è maligno o no. «Skinview», così si chiama la macchina, è allo studio dal 1985: ci lavorano l' equipe del professor Natale Cascinelli presidente del centro di coordinamento del Programma melanoma dell' Organizzazione mondiale della sanità l' Olivetti ricerca e Gisettanta. Entrerà in funzione fra un anno e ne verranno prodotti quattro esemplari, da installare in ambulatori della Lega italiana per la lotta contro i tumori. Questa macchina potrà fornire diagnosi esatte al 90 per cento (oggi lo sono al 30 35). In Italia ci sono quattromila nuovi casi all' anno di melanoma soprattutto nella fascia di età tra i 40 e i 60 anni. Il 70 per cento guarisce. L' esame con questa macchina è ripetibile perché non è invasivo, non comporta biopsie nè radiazioni. Oggi non si sa ancora perché le cellule superficiali di taluni nei si trasformino in noduli verticali di alta potenzialità metastatica, cioè in grado di sfuggire dal tumore originario e, attraverso i vasi sanguigni e linfatici, fermarsi in sedi anche distanti dal luogo originario. La diagnosi precoce è l' unica arma per poter intervenire tempestivamente con un trattamento chirurgico ancora limitato, non devastante, eseguibile anche in ambulatorio. In pratica il paziente verrà indirizzato allo screening dei nei dal dermatologo che ha dubbi sulla loro natura. Skinview è un sistema composto da una telecamera a colori ad alta definizione con una lente che ingrandisce il neo, connessa a un personal computer. Le immagini raccolte dalla telecamera vengono analizzate in tempo reale. La macchina è istruita a riconoscere anche le minime strutture frastagliate del neo e le traduce sul video in sette indicatori matematici o numerici. Del neo si analizzano la forma, i bordi, i colori puri e la loro quantità, il diametro, la «tessitura» della superficie della lesione. La macchina in futuro potrà essere utilizzata per analizzare anche le immagini di altre forme tumorali. Pia Bassi


SCAFFALE Hubert Annie, «Il cibo che protegge: mangiare bene difendendosi dai tumori», EDT; Fischler Claude, «L' onnivoro: il piacere di mangiare nella storia e nella scienza», Mondadori
AUTORE: VERNA MARINA
ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 063

IL cibo è ovunque: nelle conversazioni, nelle opinioni, negli insegnamenti. Gastronomia, ma anche dieta: mangiare è diventato un piacere difficile. Finita l' ossessione dell' approvvigionamento, si è fatto largo il timore degli eccessi. Non dobbiamo più fare i conti con la penuria, ma con la profusione e non sono conti più facili. Dobbiamo resistere a stimoli seducenti e convivere con il sospetto che i cibi possano essere tossici e che, se ci ammaliamo, gran parte della colpa è nostra. Ecco allora due libri che riportano le cose in un ambito ragionevole. Il primo «Il cibo che protegge» è una sorta di elogio del buongustaio scritto dalla ricercatrice francese Annie Hubert. Il suo punto di partenza sono tutte le ricerche che stanno dimostrando come ciò che mangiamo nel corso della vita influenzi in modo notevole le probabilità di sviluppare certi tipi di tumore. Certamente non è possibile stabilire regole dietetiche in grado di proteggere tutti da tutte le forme di cancro. E' però possibile passare a un regime alimentare equilibrato e moderato, senza abolire drasticamente le abitudini e i gusti consolidati, ma scegliendo cibi di qualità e riducendo quelle sostanze, come i grassi e le carni, di cui ormai si conoscono gli effetti collaterali. L' altro libro, «L' onnivoro», è di un sociologo gourmet, Claude Fischler, che da quindici anni studia l' evoluzione dei costumi alimentari nelle società sviluppate.


SCAFFALE Bonnes Mirilia, Secchiaroli Gianfranco, «Psicologia ambientale: introduzione alla psicologia sociale dell' ambiente», Nuova Italia Scientifica
AUTORE: VERNA MARINA
ARGOMENTI: PSICOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 063

Cominciarono gli inglesi, osteggiando il narcisismo degli architetti e chiedendo progetti di ospedali che rispettassero i comportamenti dei pazienti. Era la fine degli Anni 50 e la psicologia usciva dal suo ambito tradizionale per allargarsi all' architettura, alla geografia, alle scienze naturali, all' economia e al diritto. Nasceva così quella «psicologia ambientale» di cui in Italia ci si è occupati ancora ben poco, nonostante l' interesse per l' ambiente genericamente inteso che ha acceso la lunga controversia sul ruolo dell' eredità e, appunto, dell' ambiente nello sviluppo degli individui. E' perciò particolarmente nuovo e interessante il libro di due docenti di psicologia, Mirilia Bonnes dell' Università La Sapienza e Gianfranco Secchiaroli dell' Università di Bologna, nato all' insegna del motto di Lewin: una ricerca socialmente utile e teoricamente significativa. Marina Verna


COME FUNZIONA LA BATTERIA L' elettricità in scatola La pila è un dispositivo che trasforma l' energia chimica in una corrente di elettroni in viaggio tra catodo e anodo
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D
NOTE: 064

L' ENERGIA non può essere nè creata nè distrutta, ma soltanto trasformata da una forma all' altra. Il calore del vapore, per esempio, può essere trasformato nella spinta di un pistone, che a sua volta fa muovere un treno. L' energia cinetica di un corpo che cade e urta il suolo si trasforma in calore. L' energia chimica che tiene legati gli atomi può essere trasformata in energia elettrica Su quest' ultimo fenomeno si fonda il funzionamento delle pile, o batterie. La corrente elettrica è un flusso continuo di elettroni cioè di quelle particelle con carica negativa che circondano il nucleo dell' atomo. Per costruire una pila bisogna dunque che da un dato elemento o composto, con un processo chimico costante, vengano rimossi degli elettroni, che andranno a finire in qualche altro elemento. Lungo il percorso, la corrente di elettroni potrà svolgere un lavoro: accendere una lampadina o far girare un motorino, far squillare un campanello e così via. Una pila molto semplice può essere costruita immergendo una lastra di zinco e una lastra di rame in un vaso contenente acido solforico. Si sviluppa così una reazione chimica che strappa agli atomi di zinco due elettroni, i quali verranno assorbiti dal rame. Zinco e rame sono chiamati «elettrodi». L' elettrodo che cede elettroni (zinco) a sua volta è chiamato «catodo», quello che li riceve (rame) è chiamato «anodo». Nel caso descritto, tra catodo e anodo si crea una tensione di circa un Volt: ci troviamo di fronte al prototipo della pila, frutto di una intuizione di Alessandro Volta (1745 1827). Oltre a zinco e rame, gli elementi chimici usati nelle batterie possono essere altri. Nella pila a secco di uso comune al centro troviamo un elettrodo di carbonio (grafite) immerso in un impasto di carbone e ossido di manganese con funzione depolarizzante, mentre l ' involucro esterno è di zinco. L' elettrolita, che svolge il ruolo dell' acido solforico nella pila di Volta, è costituito da cloruro di ammonio. Altri elementi chimici, usati nelle pile per prolungarne la durata, sono il mercurio e il cadmio. Ma poiché questi metalli sono dannosi per l' ambiente le pile più moderne tendono ad eliminarli. Gli accumulatori sono batterie ricaricabili, in quanto le reazioni chimiche che in essi avvengono sono reversibili. La batteria dell' automobile, per esempio, sfrutta una reazione chimica tra piombo e acido solforico. Gli elettrodi negativi di questa batteria sono in piombo (catodo), quelli positivi in ossido di piombo (anodo). Quando la batteria produce elettricità entrambi si convertono in solfato. Sottoponendo la batteria a una corrente elettrica avviene la reazione opposta e la batteria si ricarica.


SCOPERTA IN USA Così nel nostro occhio la luce si trasforma in una reazione chimica
Autore: FOCHI GIANNI

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, CHIMICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 064

E' abbastanza facile rendersi conto che odori e sapori sono sensazioni rispondenti a stimoli chimici: molecole dotate di caratteristiche particolari, giungendo ai ricettori dell' olfatto attraverso l' aria o a quelli del gusto attraverso la saliva, riescono in qualche modo a provocare un segnale nervoso. Più difficile, invece, è immaginare che anche la sensazione visiva incominci con una reazione chimica: com' è possibile, se le radiazioni elettromagnetiche visibili, comunemente chiamate luminose, sono evidentemente fenomeni fisici? Eppure è così. Il cristallino mette a fuoco il fascio di luce sulla retina, nella quale si trovano due tipi di cellule fotoricettrici: per la loro forma esse vengono chiamate coni e bastoncelli. Le prime sono sensibili alla luce forte e distinguono i colori; quando la luce è molto debole, soltanto le seconde sono in grado di funzionare, ma producono immagini in bianco e nero. Ecco perché, come dice il proverbio, al buio tutti i gatti sono bigi. Poiché i coni sono molto meno numerosi, è ben più facile isolare i bastoncelli; ciò spiega perché la maggior parte delle ricerche sia rivolta a questi ultimi. Al loro interno c' è una pila di circa un migliaio di sacchetti schiacciati, detti dischi, sulle cui pareti si trova la rodopsina, una sostanza rossa che, colpita dalla luce visibile, si sbianca. Potremmo quindi paragonare la retina a una pellicola fotografica? Sì e no, perché in realtà la retina, subito dopo essere stata impressionata, è di nuovo «vergine», pronta a ricevere un' immagine nuova. La rodopsina è formata da una proteina, l' opsina, legata a un' aldeide derivata dalla vitamina A l' 11 cis retinale. Nella figura si spiega il significato chimico del prefisso latino cis e del suo contrario trans. Quando arriva la luce, il retinale si libera nella geometria interamente trans. La trasformazione è rapidissima, se considerata secondo il nostro modo ordinario di ragionare; ciò non toglie che in realtà essa possa essere la sequenza di parecchi stadi: più veloci i primi, più lenti i successivi. E' noto da qualche anno che durante uno di quegli stadi, entro pochi millesimi di secondo dall' arrivo della luce sulla retina, si forma un composto, detto metarodopsina II, che innesca una serie di reazioni enzimatiche, le quali danno origine a un segnale elettrico; questo percorre il nervo ottico e raggiunge il cervello. Si conosceva già abbastanza bene tutto quello che succede al retinale «a valle» della metarodopsina II, fino alla rigenerzione della rodopsina, cioè fino al momento in cui questa è pronta a ricevere un nuovo stimolo luminoso; invece, per l' occhio umano, gli stadi precedenti, lunghi soltanto da qualche pico secondo (milionesimo di milionesimo di secondo) a poche centinaia di nanosecondi (miliardesimi di secondo), erano ancora piuttosto misteriosi. La disponibilità molto maggiore di materiale da studiare aveva invece fatto sì che fossero già noti alcuni importanti intermedi nella trasformazione della rodopsina di bue. Recentemente il gruppo di David Kliger, all' università della California, e Frederik van Kuijk, dell' università di Stato del Montana, hanno dimostrato che le trasformazioni sono le stesse anche nell' occhio umano. Le velocità dei singoli stadi sono tuttavia un po' minori, probabilmente a causa delle dodici differenze esistenti nella sequenza di amminoacidi fra l' opsina di bue e quella umana che rendono più compatta quest' ultima: in essa il riarrangiamento del retinale è dunque più lento. Secondo i ricercatori americani questo confronto fra i comportamenti e la possibilità di metterli in relazione con le strutture presenta un interesse medico, perché alcune disfunzioni retiniche sono state attribuite in questi anni a mutazioni che alterano proprio la sequenza di amminoacidi nell' opsina. Gianni Fochi Scuola Normale di Pisa


LA PAROLA AI LETTORI Choc letale se il pesce di fiume finisce in mare
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 064

Perché compaiono le larve in pasta, fagioli e ciliegie? La pasta viene aggredita da microlepidotteri e soprattutto dai punteruoli, coleotteri con un muso allungato in grado di forare confezioni di carta e di plastica, introducendovi poi le uova. I parassiti dei fagioli si chiamano comunemente tonchi: depongono le uova sia sulla pianta che nei legumi secchi. Quanto alle ciliegie, c' è un piccolissimo dittero, chiamato «mosca delle ciliegie» che depone le uova quando il frutto è piccolissimo. Le larve matureranno poi assieme ad esso. (Enrico Stella, Roma) Perché la maggior parte degli animali marini muore se viene immersa nell' acqua dolce? I pesci d' acqua di mare muoiono se immersi in acqua dolce e viceversa a causa di un processo, l' osmosi, per cui una membrana viene attraversata o meno da acqua per mantenere costante il gradiente di concentrazione all' interno e all' esterno dell' ambiente cellulare. Il pesce, quando l' ambiente esterno muta, subisce uno choc osmotico con forte disidratazione o perdita di sali. Fanno eccezione i salmoni, in grado di adattarsi a diverse concentrazioni, immagazzinando o disperdendo sale. (Nadia Birocco, Chivasso, TO) Questa morte è dovuta all' assorbimento dell' acqua nel corpo del pesce perché, secondo la legge di Van' t Hoff, se una soluzione concentrata, chiusa da una membrana semipermeabile che permette il passaggio delle molecole di solvente e trattiene quelle di soluto, è posta a contatto con un solvente adatto, le molecole del solvente tendono a passare nella soluzione concentrata, diluendola. E l' animale marino continuerà ad assorbire acqua dolce in misura eccessiva. (Davide Giudici, Piossasco, To) E' una questione di concentrazione di sali. Gli animali marini, rispetto all' acqua sono isotonici, cioè hanno un' eguale quantità di particelle (in questo caso, sali) disciolte nelle cellule per unità di volume rispetto all' acqua. Ora, l' acqua tende a passare da una zona con minore concentrazione di particelle a una con concentrazione maggiore, secondo un processo detto osmosi. Se due sistemi sono isotonici, tra loro c' è un uguale scambio di acqua. Quando l' animale marino viene immerso nell' acqua dolce, diventa ipertonico, cioè ha una maggiore concentrazione di sali rispetto all' acqua dolce: l' acqua tende quindi a entrare nelle cellule dell' organismo (che non è in grado di eliminarla), provocandone la rottura e quindi la morte. (Tiziana Morra, Torino) Anche un pesce d' acqua dolce, immerso in acqua salata, muore: le sue cellule vengono «schiacciate» dalla densità dell' acqua marina, che è maggiore della densità del citoplasma cellulare del pesce stesso. (IA, Scuola media Brofferio Cafasse, To) Che cosa si rischia a non completare una cura di antibiotici? Che la cura risulti inefficace. Ogni antibiotico, infatti, agisce su una determinata reazione chimica indispensabile per la vita e la crescita dei batteri. Se l' assunzione dell' antibiotico viene sospesa prima che tutti i batteri siano stati annientati, i superstiti ricominciano a riprodursi e proliferare, minacciando un organismo già indebolito dalla cura intrapresa. (Paolo Cento Acqui Terme, Al) I germi patogeni hanno la capacità di sviluppare resistenza agli antibiotici producendo sistemi enzimatici che attaccano le parti farmacologicamente attive delle molecole. Tramite il fattore R (fattore di trasmissione della resistenza), il sistema enzimatico di protezione può essere poi trasferito da un microorganismo all' altro. Una terapia antibiotica ha lo scopo di debellare tutti i germi. Se una parte di questi sopravvive, sfruttando la capacità di assuefazione, svilupperà resistenza all' antibiotico e il fattore R permetterà il suo proliferare nell' organismo. La guarigione si ottiene portando a termine la terapia, senza interromperla appena i sintomi della malattia si attenuano. (Monica de Facis Volpiano, To)


CHI SA RISPONDERE?
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 064

La domanda sul più alto edificio possibile non ha ricevuto risposte soddisfacenti. La riproponiamo accanto alle nuove: & Ipotizzando la disponibilità di tutti i materiali da costruzione naturali e artificiali, quale altezza potrebbe raggiungere il più alto edificio oggi possibile? & Perché si applaude battendo le mani? & Perché la depressione è associata ai colori scuri? & Per costruire muri diritti si usa il filo a piombo. Ciò significa che tutti i muri di una città sono paralleli? _______ Risposte a: «La Stampa, Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino o al fax numero 011 65 68 688.


STRIZZACERVELLO Una classe di sportivi
Autore: PETROZZI ALAN

ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 064

Una classe di sportivi In una classe ci sono 25 studenti e la densità di sportivi è particolarmente elevata; tra loro infatti 17 sono ciclisti, 13 sono bravi nuotatori e 8 sanno sciare molto bene anche se nessuno pratica tutti e tre gli sport. Il profitto di questi ragazzi non risente assolutamente della loro costante attività sportiva, tant' è che tutti quelli compresi nei tre elenchi hanno meritato, ad esempio in matematica, un voto pari all' 8 oppure al 9. Sapendo che nella classe solo 6 studenti hanno in matematica un voto inferiore all' 8, dovete rispondere alle due seguenti domande: a) quanti ragazzi hanno meritato in matematica il voto di 10 b) quanti sono i bravi nuotatori che sanno anche sciare bene. La risposta a domani, accanto alle previsioni del tempo. (A cura di Alan Petrozzi)




La Stampa Sommario Registrazioni Tornén Maldobrìe Lia I3LGP Scrivi Inizio